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A cura di Marco Bussoli

 

 

Per quanto non ancora sufficientemente studiato, il Castello di Gambatesa presenta una serie di tematiche, non solo figurative, molto complesse ed articolate, che non possono essere trascurate, soprattutto in sede divulgativa. Per questo motivo si procederà alla descrizione e all’analisi dell’apparato pittorico stanza per stanza, prendendo, qualora fosse necessario, dello spazio per riflessioni e spunti di studio.

 

Il Castello di Capua e il suo programma

Per quanto il feudo di Gambatesa fosse importante per la crescita della famiglia di Capua, il centro principale dei duchi era Termoli, in cui però non vivevano, risiedendo nel palazzo di San Martino in Pensilis, un comune limitrofo. Col passare del tempo si fece sempre maggiore l’esigenza di un luogo di rappresentanza, individuato nel Castello di Gambatesa, che viene via via trasformato.

Pur non conoscendo con esattezza la cronologia degli interventi è noto che gli affreschi furono eseguiti nel 1550; la data indicata da Decumbertino nel clipeo è infatti passibile di una serie di interpretazioni, come fa notare S. Monda nel suo saggio.

 

Il ciclo di affreschi, seppur frammentato e non sempre leggibile, sembra voler esaltare la figura del signore; questi temi sono molto comuni nelle pitture dei palazzi signorili. Il programma iconologico non è ricostruibile per intero, ma si possono azzardare una serie di ipotesi: se il grande Salone delle Virtù parla chiaramente all’osservatore delle doti di Vincenzo di Capua, le vedute di città e di paesaggio nelle altre sale sono più enigmatiche, così come lo sono del resto i riferimenti mitologici (tratti da Ovidio) presenti in alcuni affreschi.

La complessa iconologia deve essere stata immaginata da una figura che possedeva gli strumenti necessari a tale scopo. Sembra improbabile, a questo punto, che tale architettura simbolica possa essere stata opera di Vincenzo il quale, pur essendo uomo colto di corte, non aveva una cultura umanistica così ben strutturata. Resta da valutare, dunque, la figura del pittore stesso, Donato Decumbertino, che precisò, nella Sala delle Virtù, che tutto l’apparato fosse a lui dovuto: la frase Donatus om[n]ia elaboravit allude anche ad un aspetto più pratico del suo lavoro.

 

L’ipotesi più plausibile è quella che vede in Vincenzo di Capua il solo committente, che porta con sè l’intentio dell’opera, mentre spetterebbe ad un umanista la parte dell’inventio; quest’ultimo potrebbe essere individuato in Pietro Antonio di Capua, fratello del duca nonché arcivescovo di Otranto, personalità estremamente colta il cui cursus honorum comprende anche la partecipazione al Concilio di Trento. Una simile ipotesi può essere validata dalla vicinanza del duca Vincenzo al fratello; questa vicinanza rientra inoltre tra le ragioni che hanno a lungo spinto gli studiosi a ricercare un legame tra Donato Decumbertino e Gianserio Strafella.

 

Temi ovidiani al Castello di Gambatesa

L’analisi degli affreschi del piano nobile del Castello può essere fatta in vari modi. In questa sede si sceglie, però, di procedere considerando nuclei tematici e funzionali. Partendo dall’atrio e dalle stanze più private, ambienti accomunati dalla presenza di temi ovidiani e, passando per le stanze minori, nelle quali le lodi al duca si fanno meno esplicite, si arriva infine al già menzionato Salone delle Virtù.

Una volta entrati nel castello si approda nell’atrio, un grande spazio quadrato, ripartito in quattro parti delle quali alle tre voltate a crociera viene assommato l’ultimo quadrante che contiene la scala che porta agli ambienti del secondo piano. Da questo spazio, restando al piano terra, si può invece accedere direttamente al Salone delle Virtù, o intraprendere il percorso attraverso le stanze minori del piano.

L’ipotesi più accreditata vuole che le volte fossero, in origine, tutte decorate. Al giorno d’oggi solo quella di sud-ovest conserva gli affreschi in tre delle quattro unghie. Da ciò che rimane delle decorazioni emerge un chiaro legame con gli affreschi della Loggia di Psiche dipinta alla Farnesina da Giovanni da Udine: trionfi di frutta e foglie vengono usati per sottolineare l’elemento architettonico della volta, creando così dei riquadri pronti ad accogliere episodi figurativi. Pur non potendo nemmeno immaginare quali fossero le immagini su tutte le volte, per la porzione superstite il tema appare ben chiaro: gli amori di Zeus.

 

Gli episodi ancora visibili sono: Io posseduta da Zeus nelle sembianze di una nuvola, Zeus rapisce Europa trasformato in un toro bianco e, visibile solo in parte, Danae posseduta da Zeus sotto forma di pioggia d’oro; nel quarto di volta mancante poteva essere inserita la seduzione di Antiope o la trasformazione del dio in cigno per amare Leda. Si può poi sottolineare come tutti questi episodi fossero stati raffigurati da Aracne nella sua tela, creando così un legame con il clipeo della Sala delle Maschere.

Gli amori di Zeus erano un tema molto diffuso nei palazzi nobiliari, come ad esempio nella villa affidata da Agostino Chigi a Baldassarre Peruzzi (la già citata villa Farnesina); non stupisce quindi la loro presenza nel Castello. Forse, come ipotizza Monda, su suggerimento dello stesso Donato Decumbertino, che poteva aver fornito altre interpretazioni del tema in altri cantieri (Roma), pur riservandosi la facoltà di innovare alcuni aspetti delle figure.

In merito a questo M. Carrozza, nel suo saggio, ipotizza come questi amori potessero essere interpretati come una completa subordinazione dell’uomo alla volontà divina ed alla potenza fecondatrice di questa. L’ipotesi, sicuramente suggestiva, non è però dimostrabile.

 

La complessa storia di Io

Quello di Io è uno dei racconti, tratti dalle Metamorfosi di Ovidio, in cui più miti si incastrano in modo scatolare, definendo un intreccio molto complesso. Donato Decumbertino dipinge uno degli episodi iniziali della vicenda, in cui Zeus, invaghitosi della fanciulla, si nasconde in una coltre di nubi per possederla dopo che questa aveva tentato una fuga dal dio. Il legame con la narrazione di Ovidio sta nel particolare della nuvola, non presente in nessun’altra fonte antica; questo dettaglio, però, ha sempre avuto un forte riscontro in epoca rinascimentale, finendo per essere uno degli episodi del mito più raffigurati.

 

Donato Decumbertino si distacca dalle raffigurazioni canoniche di questo episodio, che vedono il dio uscire dalla nuvola con sembianze umane, disegnando Zeus in forma umana ma come se fosse fatto di nuvola, avvicinandosi così alla rappresentazione che ne aveva fatto Correggio, che aveva raffigurato il dio in forma di nuvola mentre si avvicinava ad Io.

 

Il ratto di Europa

Anche l’episodio di Europa rapita da Zeus è molto rappresentato nel Rinascimento, in modi che si attengono più o meno al mito ed alle sue varie versioni in circolazione. Anche dello stesso Ovidio erano due le scritture dell’episodio, quella delle Metamorfosi e quella dei Fasti. La differenza tra le fonti era nella posizione della fanciulla, che, se in un caso si regge con una mano sulla groppa e con l’altra tiene una delle corna del toro bianco, nell’altro si regge al suo collo e tiene la propria veste.

 

La soluzione figurativa presente in Molise si distacca, nuovamente, da quella più canonica, che vedeva la ragazza vestita, come nel Ratto di Europa del Pinturicchio (1508-1508), o con il seno scoperto, come nella versione fornitaci da Baldassarre Peruzzi nella Villa Farnesina (1508), nella quale la fanciulla è rappresentata totalmente nuda, mentre, in groppa al toro, scruta l’orizzonte. In questo caso, non esistendo esempi simili , si può quindi pensare che l’artista stesse consapevolmente modificando l’iconografia di questo mito.

Danae e la pioggia dorata

L’ultimo episodio raffigurato nella volta fa parte del più grande racconto sulla nascita di Perseo, figlio della principessa Danae che, rinchiusa in una torre da suo padre Acriso, re di Argo, viene fecondata da Zeus trasformato in pioggia d’oro. Da questa fecondazione nasce poi Perseo che seguendo la profezia uccide suo nonno Acriso.

 

Il racconto di questa vicenda ebbe una fortuna enorme nell’antichità, venendo ripreso già da Pindaro, Sofocle ed Euripide, e conoscendo poi una grande fortuna anche dal punto di vista figurativo, come dimostrano le numerose tele dipinte da Tiziano, tra le quali vi sono quella del Museo di Capodimonte di Napoli (1545) e quella del Museo del Prado (1553). In questo caso la pittura di Donato Decumbertino si attiene ai modelli precedenti, in particolare al disegno su due lekythoi, vasi slanciati, conservati ad Atene e Corinto. L’unico elemento che si distacca dal mito e dalle figurazioni precedenti è l’ambientazione all’esterno della storia, ma questa scelta si può ricondurre entro questioni compositive più ampie: così facendo, infatti, il pittore riesce ad uniformare tutti i racconti sulla volta anche dal punto di vista cromatico e di atmosfera; un simile espediente era già stato adottato da Peruzzi, per questo stesso episodio, nella Sala del Fregio ancora in villa Farnesina.

 

Lo studiolo e l’episodio di Mercurio ed Erse

L’ultima stanza visitabile seguendo il percorso museale è lo studiolo. Di questo piccolo ambiente non si conosce in realtà la reale funzione, ma la presenza del caminetto e la vicinanza con le vecchie cucine fa suppore la presenza o di uno studio o di una camera da letto. Per quanto molto lacunosa, la decorazione murale è leggibile e si svolge su due registri: su quello superiore corre un fregio decorato a festoni, inserti di vegetazione e mostri, mentre quello inferiore è occupato da un paramento architettonico arricchito da cariatidi.

 

La struttura architettonica rappresentata incornicia delle aree affrescate con scene amorose, tra le quali una, troppo lacunosa, potrebbe trattare dell’episodio di Amore e Psiche o Amore e Venere, mentre l’altra, pur mancante della parte centrale, racconta un episodio della storia di Mercurio ed Erse.

La vicenda è molto complessa, ed è narrata da Ovidio appena prima dell’episodio di Europa. Mercurio si innamora di Erse e decide di far intercedere sua sorella Aglauro al suo posto. Questa però, vittima di Invidia, si oppone e viene trasformata in pietra dal dio.

Castello di Gambatesa, Studiolo/Camera – il mito di Mercurio ed Erse.

 

Un riferimento che contribuisce all’identificazione del soggetto, e che Donato segue alla lettera, è una stampa dal soggetto analogo, realizzata nel 1527 da Gian Giacomo Caraglio su disegno di Perin del Vaga. Questa stretta corrispondenza con la fonte presa a modello andrebbe analizzata con maggiore cura, in quanto si oppone decisamente alla forte carica innovatrice dimostrata nell’atrio.  Per fare ciò, tuttavia, altri studi di approfondimento si rendono necessari.

 

 

 

 

Bibliografia

A. Pinelli, La tela del ragno e l’eloquenza del pappagallo. Le intriganti trame visive di Donato Decumbertino a Gambatesa, in E. Carrara (a cura di), Gli affreschi di Donato Decumbertino nel Castello di Gambatesa, 1550, Roma, Carocci, 2020

S. Monda, Vicende e figure ovidiane nel ciclo di affreschi del Castello di Gambatesa, in E. Carrara (a cura di), Gli affreschi di Donato Decumbertino nel Castello di Gambatesa, 1550, Roma, Carocci, 2020

D. Ferrara (a cura di), Il Castello di Capua a Gambatesa. Mito, Storia, Paesaggio, Campobasso 2011.

 

Sitografia

https://www.musei.molise.beniculturali.it/musei?mid=870&nome=castello-di-capua (25-10-2021)

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