“LA FESTA DEI SERPARI” A COCULLO

A cura di Valentina Cimini

 

 

Il primo maggio di ogni anno, quando gli alberi germogliano tra il Gran Sasso e la Majella, si tiene a Cocullo (Fig.1), borgo di pochissimi abitanti in provincia dell’Aquila, l’antichissimo rito della “Festa dei Serpari” dedicata a San Domenico Abate, monaco benedettino che fra il X e XI secolo attraversò le valli abruzzesi e laziali fondando eremi e monasteri.

 

Tradizione vuole che il monaco si fermò per sette anni a Cocullo, ove con molteplici miracoli liberò i cocullesi dalle tristi conseguenze dei morsi di vipere e serpenti velenosi, fondando il suo culto e soppiantando quello pagano e più antico della Dea Angizia, divinità italica adorata dagli antichi abitanti del Fucino, i Marsi e i Peligni, associata al culto dei serpenti. Il rito, dunque, ha origini antichissime e vede una commistione tra fede cristiana e origini pagane, dando vita ad una festa tra il sacro e il profano (Fig.2).

 

Nei mesi precedenti la manifestazione i serpari, figure centrali del rito, si recano in montagna in cerca di serpenti, mettendo in atto un’occupazione complessa e probabilmente connessa all’arcaica popolazione dei Marsi, le cui capacità di quietare e manipolare i serpenti venivano menzionate anche nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. Bisogna ricordare tuttavia che antropologi contemporanei, come Alfonso Maria Di Nola e di recente Lia Giancristofaro, rigettano il collegamento con il rito marso, accertata l’anteriorità di tale fede rispetto al culto cristiano di San Domenico. La connessione, dunque, dato l’intervallo temporale troppo esteso, costituirebbe piuttosto un tentativo di nobilitare e storicizzare tale usanza.

La figura del serparo trova spazio anche nella letteratura, di fatti il poeta dai natali abruzzesi Gabriele D’Annunzio nella sua tragedia La fiaccola sotto il moggio, ambientata nella vicina Anversa degli Abruzzi, la rievoca in questo modo: “Non fa sosta alle soglie. Passa. È frate del vento. Poco parla. Sa il fiato suo tenere. Piomba. Ha branca di nibbio, vista lunga. Piccol segno gli basta. Perché triemi il filo d’erba capisce.[1]

Egli descrive così tutta la fascinazione suscitata da questo personaggio mitico che deriva la sua arte, ereditariamente, da un’antica stirpe originata dal figlio di Circe. Con queste parole viene quindi narrata la complessità dell’andare per serpi, attività che necessita di occhio vigile e nervi tesi. I vari esemplari di serpenti, una volta catturati, verranno poi custoditi e nutriti per 15-20 giorni fino al giorno della festa.

Il mattino del primo maggio ha inizio la cerimonia e, a seguito della messa dedicata al santo, i serpari ricoprono la sua statua con i rettili che ne andranno ad avvolgere il corpo, dando avvio alla processione per le strade del paese tra lo stupore degli astanti (Fig.3).

 

In base alla posizione che le serpi assumeranno attorno alla statua, i cocullesi trarranno buoni o cattivi auspici per il futuro. Durante la cerimonia è possibile, sotto la guida esperta degli stessi serpari, toccare i serpenti, non velenosi, e vedere le donne del paese indossare i loro vestiti tradizionali. Al termine della festa la statua del santo è riportata nella chiesa a lui dedicata, mentre i serpenti vengono liberati nel loro habitat naturale.

Nel contesto del “nuovo capitalismo”, mentre le città globali diventano luoghi di aggregazione finanziaria, normativa e mediatica, i paesi delle zone rurali e montane faticano a riposizionarsi, rappresentando l’opposizione e la complementarità alla centralità urbana. Per far fronte all’oblio, del quale sono stati vittima molti piccoli borghi della nostra penisola, questi paesi hanno messo in atto una strategia di resilienza, aggrappandosi alla qualità della loro diversità culturale, divenendo perciò luogo di attrazione artistica e culturale.

La storia di Cocullo diviene esempio di quanto affermato poiché, avendo vissuto un periodo di crisi nel 2008, caratterizzato da un drastico abbassamento degli abitanti migrati per motivazioni lavorative ed economiche, tornò in auge grazie all’espressività della sua più emblematica festività religiosa. Scelta coraggiosa poiché a quel tempo la Chiesa ufficiale ne prendeva le distanze considerandola, così come facevano gli etnologi ottocenteschi, come una “sopravvivenza culturale” che univa al suo interno cattolicesimo e residui di paganesimo.

Oggi tale rito ofidico attira ancora una media di 20.000 turisti, con una punta di 50.000 nell’anno 2008, costituendo un evento di importanza religiosa e antropologica tale da essere oggetto di articoli sul New York Times e di servizi sulla BBC, colpendo la curiosità non solo dei fedeli ma anche di studiosi e giornalisti provenienti da tutto il mondo.

 

La “coscienza sociale” di questa tradizione ha come data chiave il 1976, quando l’antropologo Alfonso Di Nola analizzò la festa popolare di Cocullo e pubblicò una vasta etnografia sulla cultura popolare abruzzese[2], espandendo in questo modo gli orizzonti del rituale evitando di cristallizzarlo in una sterile memoria per liberarlo dagli stereotipi e restituirgli maggiore senso umano.

Il rito popolare diviene così momento di stabilità, ricostruendo immagini e valori che, nonostante siano lontani dal presente, si riempiono di nuove motivazioni che consentono la loro prosecuzione, ponendosi sempre in controtendenza con la cultura egemone che si imponeva alla vita locale.

Quando il sisma del 2009 peggiorò ulteriormente le condizioni di vita locali, il rituale di Cocullo, che negli anni Settanta veniva bollato come residuo del passato, si dimostrò simbolo e progetto di un futuro sviluppo sociale e turistico per le zone terremotate e per le piccole comunità che la modernizzazione aveva condotto ad una sofferenza socio-economica.

Il rito di Cocullo, con la sua rappresentatività, costituisce un importante caso italiano di candidatura a Patrimonio immateriale dell’umanità, inserito nella “Lista di salvaguardia urgente” dell’Unesco. Questo riconoscimento significherebbe non solo salvaguardare e tramandare una manifestazione culturale frutto di saperi e conoscenze antiche trasmesse di generazione in generazione, ma anche dare una risposta alle difficoltà dei piccoli borghi limitrofi, che potrebbero rinascere grazie a visibilità e politiche adeguate. Attorno alla candidatura, di fatti, è stata costruita una rete di solidarietà che vede unite associazioni laiche e religiose di tredici comuni differenti di Abruzzo, Lazio e Molise.

Alla morte di Alfonso Di Nola, nel 1997, il lavoro di riflessione sul rituale continuò grazie all’istituzione del Centro Studi sulle Tradizioni Popolari “Alfonso Di Nola” che, nato come punto di riferimento per le ricerche sulla festa di Cocullo, finì col diventare appoggio più in generale per gli studi demo-etno-antropologici. Nel 2004, inoltre, venne inaugurata la Mostra-museo del rito di San Domenico, con un allestimento multimediale e multisensoriale che ne consentisse l’osservazione tutto l’anno. L’obiettivo del museo, infatti, non è solo di conservare e comunicare tale rituale antichissimo, ma è anche quello di essere socialmente vivo grazie ad un approccio plurale[3] che rende possibile l’eliminazione di un aspetto prettamente nostalgico e conservativo.

Si può notare dunque come grazie a questo rito arcaico e ad una sua più consapevole “coscienza sociale”, una piccola comunità, gravata dalle problematiche portate dalla modernizzazione, è stata in grado di reinventarsi e orientare le politiche per il turismo verso il folklore regionale; facendo prendere tuttora vita e colore ad un incantevole borgo antico.

 

 

 

Note

[1] Gabriele D’Annunzio, La fiaccola sotto il moggio, Il Vittoriale degli italiani, Verona, 2009; pp. 115.

[2] Alfonso di Nola, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana.

[3] Ultimamente, ad esempio, è stata aggiunta una mostra zoologica.

 

 

Bibliografia

Lia Giancristofaro, Cocullo: un percorso italiano di salvaguardia urgente, Pàtron Editore, Bologna, 2018.

Lia Giancristofaro, Antropologia e piccoli paesi. La modernizzazione della tradizione come risorsa per la salvaguardia ambientale, Dialoghi Mediterranei, marzo 2019. Online: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/antropologia-e-piccoli-paesi-la-modernizzazione-della-tradizione-come-risorsa-per-la-salvaguardia-ambientale/

Gabriele D’Annunzio, La fiaccola sotto il moggio, edizione critica a cura di Maria Teresa Imbriani, Edizione Nazionale delle Opere di Gabriele d’Annunzio diretta da Pietro Gibellini, Il Vittoriale degli Italiani, Verona, 2009.

 

Sitografia

https://coculloproloco.it/

https://abruzzoturismo.it/it/i-serpari-di-cocullo


BORGO UNIVERSO E LA STREET ART

A cura di Valentina Cimini

 

Il borgo medievale di Aielli

Se il filosofo statunitense Henry David Thoreau scriveva: “Il mondo non è altro che una tela per la nostra immaginazione”, ad Aielli questa affermazione è divenuta realtà. Questo borgo medievale situato in provincia de L’Aquila, oggi trova nuova vita nel festival Borgo Universo che, quest’anno alla quinta edizione, ha fatto delle sue case e delle sue vie un’immensa tela da affrescare per street artists da tutto il mondo, un crogiolo di culture che lo rendono una porta sull’universo.

 

Aielli, situato all’interno della meravigliosa cornice naturale del Parco Regionale del Sirente-Velino, ai piedi del Monte Etra, è con i suoi 1.030 mt di altitudine uno dei comuni più elevati dell’altopiano del Fucino nella Marsica, guadagnandosi così il soprannome di “balcone della Marsica”. Grazie alla sua strategica posizione, arroccata su di uno sperone roccioso calcareo, questo borgo è stato fin dall’epoca romana e poi medievale, un luogo adatto al controllo e alla difesa. Difatti, dalla sua torre, fin dal 1300 poteva essere osservata l’intera piana fucense contornata dai rilievi appenninici.

La storia di Aielli è molto antica e ci porta a ritroso fino all’età del bronzo con l’insediamento nella località “Reniccia”, sotto il Monte Secine. Anche se, per le prime attestazioni documentarie del sito, dovremo aspettare il IX secolo. In effetti, all’interno della raccolta documentaria realizzata dal cronista Gregorio da Catino, nota come Regestum Farfense, trova collocazione una significativa carta, risalente al 814, che parla per la prima volta del “Casale di Agello” come possedimento del monastero di Santa Maria di Acuziano, conosciuto anche come abbazia di Farfa. Agello poi tornerà nuovamente ad essere registrato, nel 971, come possedimento del monastero sabino che lo concede in frazioni coltivabili a suoi vassalli.

Nel 1280 è il Catalogus baronum che segna un ulteriore passaggio della storia di Aielli, riportando il suddetto borgo fra le proprietà di Rainaldo conte di Celano. Ma sarà nel secolo successivo, sotto il potere di Ruggero II conte dei Marsi, che il centro abitato conoscerà un’importante sviluppo, arricchendo il suo tessuto urbano di due importanti strutture visibili ancora oggi: la torre medievale, anche detta “torre delle stelle”, situata nella parte più alta dell’antico borgo di Aielli, e la Chiesa della Santissima Trinità fondata nel 1362 e ricostruita negli anni venti a causa dei gravi danni riscontrati all’indomani del rovinoso sisma del 1915 che interessò il territorio della Marsica. In questo medesimo secolo, inoltre, occorre ricordare anche la formazione di un nucleo fortificato dall’unione dei casali di Bovezzo, Musciano, Monte, Ozzanello, Alafrano, Subezzano, Ponderone, Pentòma e Foce, la cui denominazione “Agellum” (dal quale deriverà successivamente la grafia “Ajelli” e da qui Aielli) inizierà ad essere sempre più attestata nell’ambito delle documentazioni ufficiali.

 

La street art di Aielli

Oggi, in questo contesto medievale, viene ospitato un meraviglioso museo a cielo aperto che conta ventisei interventi di street art ad opera di famosi artisti provenienti da tutto il mondo come Okuda, Millo, Zamoc, Alleg, Matlakas e molti altri, dislocati all’interno dell’intero paese tra le sue stradine, viottoli e abitazioni. Questa iniziativa, però, è solamente una parte di un progetto più ampio chiamato Borgo Universo: un vero e proprio festival delle arti che nei mesi di luglio e agosto, attraverso la street art, la musica, le performance artistiche e l’astronomia, mette in atto un processo di rigenerazione urbana per un comune che stava andando incontro allo spopolamento e all’oblio di cui sono sempre più vittima i piccoli borghi della nostra penisola. Ed è così che un piccolo borgo medievale ha trovato una rinnovata voce in grado di comunicare nuovamente col mondo che lo circonda. Si opera, dunque, con la street art una stratificazione del senso continua poiché attraverso i murales cambia la percezione rispetto al luogo che, reinterpretato, diviene mezzo di comunicazione di moderni valori pur rimanendo fedele alle sue origini medievali, che ne risultano valorizzate. In questo modo, dunque, vengono puntati ancora una volta i riflettori sulle stradine e sulla storia del borgo medievale di Aielli attraverso il linguaggio dell’arte, che non solo opera una messa in valore del sito, ma attiva un importante nuovo afflusso turistico che torna ad animare queste zone. Per gli stessi aiellesi abitare la street art significa rinascere, nonché svegliarsi al mattino e trovare turisti che si fermano ad osservare le mura della propria casa che raccontano la loro storia. È il caso, ad esempio, del murales di Matlakas che, con il suo stile variopinto e festoso, non solo racconta la storia del territorio, ma anche quello dei suoi abitanti. Infatti ritroviamo al suo interno dei dettagli come le campane, che derivano dal soprannome della famiglia la cui casa ospita l’opera murale o la conca che utilizzava la nonna per poter prendere l’acqua in piazza; attraverso ogni simbolo dunque, quest’opera diviene una memoria vissuta e condivisa che continua a narrare ogni giorno la storia della famiglia “Sotto le Campane”. La street art pertanto non è solo un valore estetico, è valorizzazione e riqualificazione attraverso una narrazione continua che dagli aiellesi si estende a tutti noi, turisti di ogni dove, senza mai esaurirsi.

 

L’astronomia è un altro fiore all’occhiello di questo borgo che ospita all’interno della già citata “torre delle stelle”, situata sul punto più elevato dell’abitato di Aielli su un’altura denominata “Castello”, il più alto osservatorio astronomico dell’Italia centrale ed il museo del cielo. L’osservatorio dispone, tra le sue attrezzature di ultima generazione, di un planetario in grado di proiettare quasi tremila stelle su una cupola di sei metri di diametro. All’interno di Borgo Universo, il cui nome dunque non risulta frutto di una scelta casuale, sarà davvero possibile uscire “a riveder le stelle”, come scriveva il sommo poeta, oggi protagonista di una nuova installazione che, per l’anniversario dei 700 anni dalla scomparsa di Dante Alighieri, riporta la Divina Commedia scritta per intero su una parete di 52 metri, la quale si snoda proprio nel percorso che nel borgo porta alla torre medievale.

 

Borgo Universo, il cui intento programmatico di apertura alla bellezza, ai popoli e alle culture ci risulta chiaro già dal nome, nasce nel 2017 come rassegna culturale, ma è nel 2019 sotto la direzione artistica di Antonio Paloma, fondatore e direttore di PalomArt[1], che assume i connotati di un vero festival aperto a tutto il mondo, capace di offrire una proposta variegata in cui la street art incontra l’astronomia, la pittura, la scultura, la musica e l’intrattenimento trasformando l’antico borgo medievale in uno spazio al di là del tempo dove protagoniste sono la comunicazione e la condivisione.

Nelle prime due edizioni del festival tra i vicoli di Aielli sono stati realizzati da artisti provenienti da tutti i continenti ben quindici dei murales che ornano le mura delle case del borgo, tra di essi possiamo ricordare Luca Zamoc, Gio Pistone ed Ericailcane, che riprendono secondo il proprio stile il tema del cosmo, fulcro del festival stesso. Sempre nel 2018 Alleg con il supporto di artisti, curiosi e visitatori, ha dato vita all’immenso murales che trascrive integralmente il romanzo “Fontamara” di Ignazio Silone sul muro ai piedi della torre delle stelle, su una superficie di 80 metri quadrati, con 53.839 parole, trecentomila caratteri e oltre tre chilometri di lunghezza delle righe. Un’impresa titanica che porta l’opera dell’artista abruzzese a vivere nuovamente e a parlarci così come solo i classici sanno fare, perché come scrive Silone in Fontamara: “Sono comuni a ognuno i fatti veramente importanti della vita: il nascere, l’amare, il soffrire, il morire; ma non per questo gli uomini si stancano di raccontarseli”[2].

 

Il 2019 segna un importante traguardo per Aielli e Borgo Universo, poiché durante la terza edizione si registra nel comune la presenza di circa 8.000 persone nei quattro giorni di arte, musica, performance e astronomia offerti dal festival. Tra gli artisti che hanno realizzato opere sui muri, donando una prospettiva nuova sul rapporto tra la terra, il cielo e l’universo, spicca questa volta il nome di Okuda San Miguel che con le sue figure geometriche dai colori brillanti ha completamente trasformato le mura delle abitazioni di Aielli, dando vita ad un’opera murale che è stata inserita da Widewalls nella classifica dei 50 murales più belli al mondo realizzati nel 2019. L’Illuminary Palace, dunque, concretizza l’intento dell’artista di creare luoghi vivaci e pieni di positività nella speranza di cambiare la vita delle persone, sottolineando l’importanza di quest’arte che, senza ledere, valorizza la bellezza urbana del luogo che la ospita.

 

Anche quest’anno, dal 12 luglio all’8 agosto, diversi artisti si sono incontrati ad Aielli per portare nuovamente street art, innovazione e cultura tra le strade del piccolo borgo medievale con l’obiettivo di proseguire il processo di rivalutazione e rilancio del paese attraverso l’arte e le stelle. Possiamo ricordare, a questo punto, Millo che già dall’edizione del 2020 contribuì con un murales, Your Sky, che ora trasforma un’intera casa in un’opera d’arte ammirabile a 360 gradi. Una bambina con uno scalpello solleva il velo della città e ci restituisce un pezzo di universo, invitandoci ad andare oltre l’apparenza di superficie, scavando nel profondo. Esattamente ciò che mette in atto Borgo Universo: parte dai confini della città e li supera, aprendo le sue porte ai popoli, alle culture diverse, al mondo e all’intero universo.

 

Il rilancio turistico di Aielli, dunque, passa attraverso le sue case che prendono vita e si illuminano grazie ai colori di numerosi artisti internazionali e l’iniziativa dei suoi abitanti che non si sono arresi davanti alle sfide portate dalla società moderna, bensì hanno sfruttato i propri linguaggi e la propria arte urbana per rinascere e divenire, grazie al suo festival, “l’ombelico del mondo”.

 

Le figure 2 e 5 sono state realizzate dalla redattrice.

 

 

Note

[1] Un network internazionale di arte indipendente che vanta una grande esperienza nell’organizzazione di eventi culturali e un team di figure professionali specializzate nei vari settori dell’arte e dell’intrattenimento.

[2] Fontamara, Ignazio Silone, Mondadori Editore, p. 3.

 

 

Bibliografia

Ignazio Silone, Fontamara, Mondadori, 2011.

 

Sitografia

https://www.terremarsicane.it/storia-del-comune-di-aielli-premessa/

https://borgouniverso.com/


LA CATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA DI ATRI

A cura di Valentina Cimini

 

 

Atri e la sua storia

Atri, comune di 10 119 abitanti in provincia di Teramo, costituisce un’importante città artistica del medio Adriatico, collocandosi tra le più antiche città d’Abruzzo. Situata su tre colli e affacciata sul mare Adriatico, grazie alla sua favorevole posizione ebbe sin dall’epoca romana un’accesa attività di scambio e commercio con gli Etruschi, i cui monili rinvenuti negli scavi qui compiuti sono ora conservati al British Museum di Londra (Fig.1).

 

La sua storia in epoca imperiale non si arresta, seppur risultando minore a causa della perdita dell’autonomia nel 289 a.C. divenendo colonia romana. Ciò nonostante ebbe l’onore di avere sul trono romano un suo cittadino, l’imperatore Elio Adriano. Egli di fatti si considerava tale poiché proprio in questo luogo esercitò la carica censuaria di quinquennale, motivo per cui ancora oggi il corso principale della città è a lui intitolato. I reperti dell’antica città romana “Hatria-Picena” sono numerosissimi e provengono dagli scavi di Piazza Duomo e delle Necropoli Colle della Giustizia e Pretara del VI-V sec. a.C.

Dopo un periodo di crisi durante le invasioni barbariche, Atri si costituì in libero comune nel 1251 per opera di Innocenzo IV e da quel momento in poi la città cominciò ad acquisire quel senso estetico che tuttora in parte conserva. Della seconda metà del Duecento, di fatti, è la Basilica Cattedrale, chiesa maggiore della città e al contempo importante testimonianza del Medioevo e del Rinascimento abruzzese coi magnifici affreschi di Andrea De Litio.

 

La storia della Cattedrale di Santa Maria Assunta di Atri

La Cattedrale di Santa Maria Assunta si erge su una delle zone più importanti del nucleo storico di Atri, piazza Duomo, lungo l’asse viario principale del paese, dove un tempo sorgevano le terme di Hatria Picena (Fig.2). La chiesa originaria, di fatti, fu eretta sui resti di una conserva d’acqua d’età romana adibita a cripta nel Medioevo, facendo sì che le possenti mura della piscina limaria servissero da fondazione per l’edificazione della nuova struttura sacra.

 

Una prima testimonianza effettiva della presenza ad Atri di una chiesa dedicata all’Assunzione della Vergine, a cui è tuttora intitolata la Cattedrale, risale al XII secolo e si tratta del contenuto di una bolla pontificia in cui Innocenzo II menziona proprio una “ecclesia Sancte Marie de Atria”.

L’odierna struttura è opera di Raimondo di Poggio e Rainaldo d’Atri che la iniziarono intorno al 1260, dando atto ad un progetto ambizioso che trasformò quasi del tutto la precedente chiesa romanica a cinque navate, eretta nella seconda metà del XII secolo, per adeguarsi alla dignità episcopale acquisita nel 1251. I lavori si protrassero fino agli inizi del Trecento con la decorazione del fianco destro e della facciata, mentre l’ottagono superiore del campanile, la cui edificazione iniziò nel 1268, venne apposto da Antonio da Lodi nel 1502.

La storia della Cattedrale, inoltre, è supportata e confermata dalle epigrafi che datano e firmano l’esecuzione dei portali, sul lato meridionale e della facciata, da parte di due artisti abruzzesi. Le iscrizioni, scolpite in caratteri gotici, attribuiscono la prima parte dell’edificio, dal coro fino al campanile, a Raimondo de Podio (1288), mentre la seconda, dal campanile alla facciata, a Rainaldo d’Atri (1305).

L’esecuzione della Cattedrale si concludeva, almeno nella sua parte esterna, nel primo decennio del Trecento con l’inserimento del portale sulla facciata antistante Piazza Duomo, mentre negli anni seguenti furono compiute opere di ornamento che sono testimoniate da due diverse Bolle pontificie risalenti al 1292 e 1294. Successivamente nella prima metà del XIV secolo proseguirono i lavori del chiostro annesso alla chiesa ed ebbe inizio la vasta decorazione pittorica dell’interno, che culminò con gli affreschi del coro realizzati da Andrea De Litio a partire dal 1450. Ai primi del Cinquecento risalgono invece il battistero e l’altare votivo realizzati dal maestro comacino Paolo de Garvis, testimonianza della penetrazione in Abruzzo dello stile rinascimentale lombardo, e il tamburo ottagonale cuspidato posto a coronamento del campanile medievale a pianta quadrata, che si apre in bifore e finestre circolari ornate di maioliche, opera di Antonio da Lodi secondo un modello che avrà particolare seguito nell’area teramana (Fig.3).

 

L’edificio successivamente non subì notevoli cambiamenti nel corso dei secoli e venne dichiarato monumento nazionale nel 1899, ma a seguito di gravi lesioni subite nel terremoto del 1915 fu oggetto di numerosi interventi di restauro da parte della Soprintendenza, causandone la chiusura al culto per lunghi periodi. La Cattedrale, infine, venne elevata a Basilica Minore nel 1964 da papa Paolo VI e riaperta definitivamente alle funzioni religiose.

 

La facciata

La Cattedrale di Atri rappresenta una delle espressioni più rilevanti dell’architettura abruzzese dei secoli XIII e XIV con la sua maestosa facciata, dal volume chiaro ed unitario, a terminazione rettilinea in conci di pietra d’Istria. Di fatti, questa singolare tipologia di facciata, a coronamento orizzontale, ebbe una larga diffusione in Abruzzo nei suddetti secoli, tanto da qualificare la produzione architettonica della regione con numerosi esempi a L’Aquila, Lanciano, Sulmona fino a Celano. Tale scuola, così consolidata, permane nel corso del XV secolo giungendo, in forme rinnovate, fino al Rinascimento ed oltre.

Nella struttura presa in esame, la facciata presenta una terminazione rettilinea con cornice ad archetti pensili trilobati e risulta tripartita da lesene, mentre nella parte centrale il portale, sormontato da sottili incorniciature cuspidate, e il rosone a ruota risultano inseriti in un'unica incorniciatura a timpano tagliata orizzontalmente da una fascia a foglie geminate. La tradizione che vorrebbe la terminazione originaria di Santa Maria Assunta cuspidata, di netto stile gotico, costituirebbe, in realtà, solamente un malinteso derivante da un’interpretazione soggettiva del Necrologio della Cattedrale. Di fatti quel documento, risalente al terremoto che vi fu nel 1563, riferisce[1] che il violento sisma lesionò gravemente la facciata provocando la caduta di alcune pietre collocate sulla sommità, senza però citare in alcun modo quale fosse il tipo della terminazione dell’edificio. Per questo motivo non sussiste la possibilità che il restauro cinquecentesco abbia modificato il disegno originario del prospetto. In questa struttura semplice e lineare, caratterizzata da una forte prevalenza dei pieni sui vuoti, si vanno ad inserire gli elementi scultorei del portale maggiore e del rosone, sopra al quale troviamo un’edicola trilobata che ospita la statua della Vergine con il bambino in braccio, seduta su un trono finemente lavorato.

 

I portali

I portali della Cattedrale, importanti esempi del Gotico in Abruzzo, costituiscono un ulteriore elemento caratterizzante non solo per la loro testimonianza dell’evoluzione costruttiva dell’edificio con le loro epigrafi riportanti date e nomi dei loro artefici, ma anche per la loro significativa funzione decorativa (Fig.4).

 

Partendo dal prospetto meridionale il portale più antico, posto in posizione mediana, è quello attribuito a Raimondo de Podio e datato 1288. Collocato tra due lesene che ne diventano parte integrante, presenta una decorazione molto sobria con un elemento nastriforme che ne delimita la parte superiore costituita da un frontone a timpano. Al di sotto invece, l’arco, ornato al suo interno da figure floreali a punta di diamante, è disegnato da una cornice sottile. In posizione centrale, sopra l’arco, è posto l’agnello crucifero contornato agli angoli da quattro cigli di Francia, simbolo della famiglia d’Angiò al tempo regnate.

Il secondo portale, sulla destra rispetto al precedente, è attribuito per sua stessa epigrafe al medesimo artista che, seppur seguendo un disegno analogo, mostra qui la sua piena maturità artistica[2] che si concretizza in un linguaggio molto originale caratterizzato da ricchi ornamenti negli archivolti. Vi è infatti un ampio uso della foglia di palma che viene lavorata radialmente attorno alla curvatura dell’archivolto, in modo tanto singolare da essere definita “palmetta atriana”. Ogni spazio, quindi, presenta una ricca decorazione dimostrando non solo l’attitudine creativa del suo autore, ma anche l’eccellente maestria marmoraria acquisita.

Sempre sul fianco, il terzo ed ultimo portale anche per cronologia, essendo la sua costruzione datata nel 1305, è stato realizzato da Rainaldo d’Atri, il quale viene considerato dall’iscrizione sulla lapide collocata sulla lesena di sinistra anche come il progettista dell’intera opera del Duomo. Lo schema è nuovamente a timpano ottenuto con decorazione a fiori a punta di diamante, mentre negli ornamenti concentrici dell’archivolto domina la palmetta atriana.

Infine il portale maggiore (Fig.5), contemporaneo all’ultimo del fianco, pur presentando i medesimi stilemi dei precedenti, li rielabora in dimensioni grandiose. È qui presente il repertorio scultoreo dei portali minori, ulteriormente arricchito, in un succedersi di motivi mai interrotti: le colonnine con diversi motivi a spirale, sormontate da sei capitelli, fungono da base ad altrettanti archi concentrici a tutto sesto che degradano fino all’affresco centrale dell’Assunzione della Vergine.

 

L’interno

Proseguendo verso l’interno della Cattedrale, ci troviamo di fronte ad una pianta a tre navate che presenta un discreto slancio verticale ed un ritmo regolare grazie alla divisione dello spazio operata da archi diaframma su pilastri quadrilobati, che creano una commistione tra la severa semplicità dell’architettura precedente e il contenuto slancio gotico degli archi a sesto acuto impostati su semplici capitelli in pietra (Fig.6). L’ampio spazio viene poi interrotto da una serie di pilastri polistili, alcuni dei quali risultano fasciati da un rivestimento ottagonale di rinforzo per esigenze statiche già nel Trecento.

 

Inoltre, è proprio al suo interno che la Cattedrale di Atri racchiude un’altra delle sue meraviglie: il ciclo pittorico che corre lungo le superfici dello spazio interno, dalle pareti ai rinforzi ottagoni delle colonne. Gli affreschi furono iniziati alla fine del Duecento e conclusi circa due secoli dopo con la decorazione del coro. Ma oggi delle pitture più antiche rimane solo una parte, dato che la maggior parte di esse fu irreparabilmente danneggiata dagli intonaci sovrapposti nel XVII secolo, nonostante ciò gli interventi di restauro del 1895 riuscirono a restituirne un numero discreto.

Uno dei dipinti più antichi, risalente al 1270 circa, è situato sulla navata sinistra ed è denominato Incontro dei vivi e dei morti (Fig.7), esso ritrae tre scheletri apparsi inaspettatamente a tre nobili signori vestiti con ricchi abiti e accompagnati da cavalli. Questo affresco, che presenta una struttura molto semplice con un modellato privo di profondità che lo fa collocare proprio tra le prime sperimentazioni del periodo gotico, risulta ancor più interessante per il tema della raffigurazione; il quale ci riporta direttamente alla tradizione dei poemi francesi del XII secolo in cui ricorre tale singolare incontro che vede tre giovani cavalieri al cospetto di altri e tanti cadaveri che li ammoniscono con un memento mori. Infatti, anche nell’opera presa in esame è ancora visibile la prima parte dell’ammonizione, situata al di sopra dei cavalieri e scritta in caratteri gotici: “Nox quae liquescit gloria sublimis mundi […]”[3] che potrebbe costituire un riferimento alla vittoria della morte sulla vita.

 

Un carattere notevolmente diverso si ritrova invece nelle immagini del coro, la cui raffinatezza mette in luce un’importante attenzione per la spazialità e la prospettiva che sottolineano fin da subito una collocazione temporale successiva della mano di Andrea De Litio, artista nato nell’aquilano e formatosi a Firenze nel XV secolo (Fig.8).

 

Tali affreschi, che costituiscono una delle opere più importanti del Quattrocento in Abruzzo, si sviluppano sulle tre pareti dell’ultima campata, nella parte centrale dell’abside, e nella volta, dove in alto, sulle quattro vele della crociera costolonata, troviamo su uno sfondo azzurro disseminato di stelle le ampie figure degli Evangelisti e Dottori della Chiesa (Fig.9), disposti nella stessa modalità di Giotto ad Assisi nella chiesa di San Francesco. Nelle pareti del coro, invece, si possono ammirare le scene tratte dal Nuovo Testamento composte in riquadri e delimitate da archi e colonne finemente decorati. Queste vicende, seppur divise architettonicamente, sono tra loro comunicanti e narrano le storie dell’infanzia della Vergine, le leggende e momenti della vita di Cristo e la vita della Vergine dopo la morte di Gesù Cristo, per un totale di 101 pannelli, che lo rendono uno dei cicli di affreschi più grandi d’Abruzzo.

 

È da notare, inoltre, l’importante elemento di collegamento con la cultura e la tradizione regionale che si stabilisce all’interno delle raffigurazioni del maestro De Litio, evidenti in particolar modo nelle scene della Vita di Maria e di Gioacchino, dove non mancano riferimenti alla società e cultura atriana del tempo, ad esempio con la raffigurazione di donne e fanciulle nelle loro acconciature e costumi tipici, e paesaggi che riportano sia a quelli della Marsica che a quelli atriani con i tipici calanchi.

Quanto detto non può che farci guardare alla città di Atri e al suo duomo (Fig.10) come un prestigioso scrigno della storia e della cultura abruzzese, che non può non essere scoperto e visitato.

 

 

 

Note

[1] “[…] frontispitium huius Ecclesiae sub portam magnam vi diruptum est, et lapides cacuminis dicti parietis ceciderunt…”.

[2] Ci troviamo qui nel 1302.

[3] “E la notte svanisce: la gloria del mondo…”.

 

 

 

Bibliografia

Trubiani Bruno, Atri: città d’arte, Edizioni Menabo, Ortona, 1996.

Palestini Caterina, Cattedrale di Santa Maria Assunta: Atri, BetaGamma, Viterbo, 1996.


L’ABRUZZO DEGLI EREMI: L’EREMO DI S. SPIRITO A MAJELLA E S. BARTOLOMEO IN LEGIO

A cura di Valentina Cimini

 

Gli eremi in Abruzzo

Vi sono dei luoghi in Abruzzo capaci di coniugare la rigogliosa vegetazione della regione e le tradizioni ataviche dei loro abitanti in un insieme di natura, storia e tradizioni. È il caso degli eremi, dimore scavate nella roccia, che rappresentano non solo un insediamento umano, ma anche un serbatoio culturale e antropico. Questi di fatti, se indagati, ci portano alla scoperta degli esiti del tutto singolari che la presenza umana ha avuto in questi luoghi impervi, resi poi luoghi dello spirito. Ancora oggi possiamo avvicinarci a questi siti arroccati assaporandone la pace eremitica ricercata in passato dai religiosi che vi trovavano dimora, in un momento senza tempo che ci rende capaci di comprendere, almeno in parte, le sensazioni di chi quei luoghi li ha abitati.

Coloro che intraprendevano questa scelta di solitudine e contemplazione facevano della povertà e della privazione il loro stile di vita. La loro presenza si manifestò, in particolare, già dai primi secoli dell’era cristiana e possiamo ricordare a tal proposito S. Antonio Abate che, pur non essendo il primo eremita, tutt’ora figura come l’asceta per eccellenza. Nel periodo Medievale questa pratica è approdata anche all’interno del contesto del cristianesimo d’occidente grazie alla figura di San Girolamo, facendo sì che alcuni ordini religiosi, come ad esempio i certosini, organizzassero i loro monasteri come gruppi di eremi in cui essi potessero mettere in atto la loro “fuga dal mondo”.

In Abruzzo, ove la regione grazie alla sua predisposizione geografica rendeva ciò possibile, si diffusero sin da subito degli insediamenti monastici tra i monti, in cui i religiosi potevano realizzare la loro scelta ascetica, difficile da attuarsi a Roma sebbene questa costituisse il centro nevralgico della cristianità. Ciò ebbe come conseguenza l’affermarsi di un discreto movimento migratorio di singoli eremiti che cercavano nella Majella il loro luogo di ascesi, di qui ne deriva la sua fama di “montagna santa”. Sarà poi nel XIII secolo che si registrerà con i Celestini un movimento di origine locale, fondato da Celestino V (colui che appare con la sua ombra tra gli ignavi nel canto III della Divina Commedia come “colui che fece per viltade il gran rifiuto”).

Si tratta di Pietro Angelerio, detto anche Pier da Morrone proprio in relazione alla sua vita eremitica condotta sul monte Morrone situato al confine del Lazio con l’Abruzzo e il Molise. Egli, difatti, ebbe i natali intorno al 1210 presso la Contea di Molise, luogo dal quale prese le mosse il suo viaggio verso Roma con l’intento di farsi consacrare sacerdote dal papa. Dal 1231, dunque, realizzò la sua scelta ascetica sposando la povertà e la ricerca della fede in luoghi isolati che potessero fare da cassa di risonanza allo spirito. Fu nel luglio del 1294 che venne eletto Papa, grazie alla sua fama di sant’uomo, e scelse il nome di Celestino V. L’esperienza del papato però si concluse già pochi mesi dopo, il 13 dicembre 1294, poiché egli non trovò compatibilità con le incombenze tutt’altro che religiose legate alla sua nuova vita come vescovo di Roma. A seguito dell’abdicazione tornò ad indossare la tonaca grigia che contraddistinse la sua Congregazione e tornò sul Morrone, da cui tutto era iniziato.

Non ci sorprende, a questo punto, se in Abruzzo siano numerosi gli eremi collegati alla sua persona, tra i quali possiamo ricordare l’eremo di S. Spirito a Majella e quello di S. Bartolomeo in Legio, situato non molto distante dal primo nel borgo di Roccamorice in provincia di Pescara. Entrambi si collocano al confine con il Parco della Majella e del Morrone, incastonati in maestose pareti rocciose e circondati da una fitta vegetazione.

 

L’eremo di S. Spirito a Majella

L’eremo celestiniano di S. Spirito a Majella (Fig.1), dal nome della valle in cui sorge, fu oggetto di pellegrinaggio sin da tempi remoti e ancora oggi può essere raggiunto tramite un ripido sentiero proveniente da Roccamorice. Dopo aver superato uno stretto passaggio, si apre davanti a noi un ampio piazzale con fontane ai suoi lati che ci conduce alla pittoresca visione del complesso addossato alla roccia.

Fig. 1 - Facciata della Chiesa dell’eremo di Santo Spririto. Credits: By Collalti86 - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=94155337.

Attualmente per coloro che si recano all’eremo è possibile osservare ancora conservata la parte bassa della struttura che è divisibile in tre settori distinti: la chiesa, la sagrestia e un’ala abitativa articolata su due piani, composta dalla foresteria e dalle cellette. Appena giunti a destinazione ci troviamo subito di fronte alla chiesa, un tempo dotata di un portico probabilmente a due archi di ordine toscano semplice, ma non più pervenuto già nell’Ottocento, ai tempi della visita fatta dallo scrittore e storico Vincenzo Zecca che ne descrisse lo stato di abbandono. Oggi la facciata, rifatta dall’Abate Pietro Santucci verso la fine del Cinquecento, mostra un maestoso portale in pietra della Majella a lunetta ribassata, al cui interno possono essere ancora rintracciati dei resti di affresco e un portone in legno decorato con arabeschi, tornato al suo posto con il restauro del 2005 dopo essere stato trafugato.

L’interno della chiesa presenta un’unica navata (Fig.2) con l’altare maggiore collocato all’interno della zona presbiteriale, che conserva ancora le tracce dell’antico impianto duecentesco nella copertura con volte a crociera costolonate che la sovrasta. Da questo spazio sacro due portelle, con incisioni che richiamano l’ordine dei celestini e la loro derivazione benedettina, immettono nella sagrestia.

Fig. 2 - Interno della chiesa di Santo Spirito. Credits: By Zitumassin - Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=28112749.

É al di sotto della chiesa, però, che si sviluppa quello che con tutta probabilità è il nucleo eremitico originale, completamente ricavato dalla roccia. Esso presenta due ingressi. Il primo conduce ad un piccolo vano con un altare e tracce di affreschi ed è detto la “stanza del Crocefisso”, dove la tradizione narra che vi pregasse Pietro da Morrone e termina, proseguendo sulla destra, con un ulteriore spazio angusto, probabilmente il giaciglio dello stesso eremita. Mentre il secondo ingresso, adiacente al primo, fa capo al sepolcro gentilizio del casato del Principe Caracciolo di San Buono.

Alla fine del nostro percorso, dal grande fabbricato della foresteria, si arriva alla Scala Santa. Una ripida scalinata scavata nel fronte roccioso recante ai lati le incisioni relative alle stazioni della via Crucis, che porta fin all’edicola che ospita la statua in alto rilievo di S. Antonio Abate (Fig.3).

Fig. 3 - Scala Santa e statua di S. Antonio Abate. Credits: By Fabio Poggi, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=59046278.

Un’ultima piccola rampa di scale poi ci conduce all’oratorio della Maddalena. Ed è proprio in quest’ultimo ambiente che troviamo un altare sormontato da uno splendido affresco raffigurante la deposizione dalla croce, opera di Domenico Gizzonio e datato “A.D. 1737”.

Fig. 4 - Altare con affresco della Deposizione, opera di Domenico Gizzonio. Credits: By Verdenex84 - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=94588730.

Santo Spirito a Majella presenta dunque una struttura molto articolata e dalle discrete dimensioni che sembrerebbe lontana dall’ordinaria immaginazione dell’eremo, ma tale era in origine e, nonostante le numerose trasformazioni avvicendatesi nei secoli, rimane fedele a quella vocazione antica di isolamento e preghiera grazie alla sua stupenda posizione nell’omonima valle che continua a renderlo un luogo “fuori dal mondo”. Come per molti altri eremi della Majella non esiste un’indicazione cronologica ufficiale della sua fondazione, ma si può supporre che essa sia avvenuta prima dell’anno Mille. In effetti la prima presenza famosa che la tradizione riporta è quella di Desiderio, futuro Papa Vittore III, che nel 1053 vi dimorò con alcuni eremiti costruendovi una chiesetta. Il secolo successivo invece vide la presenza in questo luogo di Pietro da Morrone che, trovandolo in stato di abbandono, vi fece i primi lavori costruendo un oratorio ed alcune cellette secondo uno schema di cui egli si servirà anche per altri grandi monasteri. L’eremo però vide nuovamente dei secoli bui, ai quali mise fine il monaco Pietro Santucci da Manfredonia, che dal 1586 nel giro di pochi anni riuscì a rimettere in sesto l’intero complesso, dando il via ad una rinascita della vita monacale nella valle che porterà S. Spirito ad ottenere il titolo di Badia, della quale il Santucci fu nel 1616 il primo abate. Purtroppo, con la soppressione delle comunità monastiche nell’Ottocento, la badia conobbe nuovamente l’abbandono, che si concluse questa volta non molto tempo dopo, alla fine del secolo, grazie all’intervento di alcuni fedeli di Roccamorice che la restaurarono e riaprirono al culto.

 

L’eremo di San Bartolomeo in Legio

Una storia analoga è quella che caratterizza il vicino eremo di San Bartolomeo in Legio che sorge a circa 600 metri di quota tra una vegetazione più arida, nella parte alta della medesima vallata di S. Spirito (Fig.5).

Fig. 5 - Eremo di San Bartolomeo in Legio. Credits: By Fabio Poggi, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=59040777.

Ancora una volta la data della sua origine non è certa, ma sappiamo che l’eremo venne ricostruito da Pietro da Morrone poco dopo il 1250, essendo stato il primo rifugio da lui frequentato dopo S. Spirito. La sua permanenza in questo luogo però fu breve a causa delle frequenti visite dei pellegrini e preferì, negli anni successivi, trasferirsi in San Giovanni dell’Orfento.

San Bartolomeo in Legio è un luogo spoglio, privo di ornamenti, di cui resta solo l’essenziale. Un perfetto corrispettivo della scelta ascetica e di povertà professata da Celestino V, poiché ancora oggi è capace di raccontarci quella fuga tra le montagne messa in atto dagli eremiti con l’intenzione di curare il proprio spirito. L’eremo difatti si sviluppa sotto un grande tetto di roccia lungo circa 50 metri, bucato nella parte iniziale proprio per concedere l’accesso nella terrazza sottostante (Fig.6).

Fig. 6 - Ingresso alla balconata tramite la scalinata a Nord. Credits: By Calancot - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=94398959.

Possiamo parlare in questo caso di una grande balconata coperta alla quale si può accedere da quattro scalinate differenti (due alle estremità e due al centro), di cui solamente quella situata a Nord, formata da trenta scalini scavati nella roccia, proviene dalla parte superiore del vallone. Una menzione particolare va fatta anche alla scala a forma di “I” che troviamo al centro della balconata, inserita tra roccia e muro. Al termine del primo tratto di questa, in corrispondenza di un pianerottolo, troviamo i segni di un antico cancello, ora non più presente, che ne chiudeva l’accesso trattandosi della “Scala Santa”. Essa in quanto tale, poteva essere percorsa solamente in salita, generalmente in ginocchio ed in preghiera. Proseguendo la camminata, la balconata viene interrotta per tutta la sua larghezza dalla facciata della chiesa caratterizzata da un’estrema semplicità, presentando una porta disadorna ad architrave orizzontale, sormontata dai resti di alcuni affreschi raffiguranti un Cristo ed una Madonna con Bambino (Fig.7 e 8).

Entrando nello spazio sacro ci troviamo di fronte ad un ambiente non molto grande (7,7 m di lunghezza e 3/4 m di larghezza) che prende luce da una porta-finestra. Sulla parete di fondo è situato l’altare, nella cui nicchia semicircolare è collocata la statua lignea di San Bartolomeo. C’è inoltre una singolare tradizione popolare che si lega a questo luogo e, in particolar modo, alla piccola insorgenza d’acqua che si trova al di sotto un masso squadrato e internamente cavo, situato a metà della parete di sinistra. Quest’acqua attraverso un foro laterale, si riversa in una piccola vaschetta scavata nel pavimento, dalla quale poi scorrerà fuori dalla chiesa perdendosi tra e rocce. Si tratta de “l’acqua di San Bartolomeo”, la cui usanza vuole che venga raccolta dal pellegrino tramite un cucchiaio e poi miscelata con l’acqua della sorgente sottostante l’Eremo conferendogli così proprietà taumaturgiche. Nel medesimo ambiente, in corrispondenza con la porta-finestra, troviamo il campanile composto da due piccoli pilastri che sfiorano la volta rocciosa superiore, la cui campana viene liberamente suonata dai pellegrini al loro arrivo all’Eremo. La semplicità e l’umiltà di questo luogo assieme al suo silenzio, rotto solamente dallo scroscio del corso d’acqua che scorre al di sotto della balconata rocciosa, ci riporta direttamente col pensiero alla scelta ascetica di Celestino e non ci è difficile immaginare il perché egli, facendo “il gran rifiuto”, volle tornare in questi luoghi immersi nella natura, pieni di fascino e meraviglia (Fig.9).

Fig. 9 - Eremo di San Bartolomeo in Legio.

 

 

Bibliografia

Edoardo Micati, Eremi d’Abruzzo. Guida ai luoghi di culto rupestri, Carsa Edizioni, 1990.

 

Sitografia

https://abruzzoturismo.it/it/eremo-celestiniano-di-santo-spirito-majella-roccamorice-pe

http://www.comune.rope.it/c068034/zf/index.php/servizi-aggiuntivi/index/index/idtesto/14


MAXXI L’AQUILA

A cura di Valentina Cimini

 

Il MAXXI L’Aquila: la storia e la sede espositiva

Dallo scorso 3 giugno ha aperto le sue porte al pubblico il MAXXI L’Aquila, ospitato nelle sale del barocco Palazzo Ardinghelli (Fig.1), nel cuore del centro storico del capoluogo abruzzese. Un nuovo concreto passo in avanti per le istituzioni e la comunità del territorio devastato dal sisma del 2009, con la speranza, come scrive la Presidente della Fondazione MAXXI Giovanna Melandri, “che le collezioni di arti visive, architettura e fotografia possano offrire un contributo alla ricomposizione civile e sociale attesa a lungo[1].

Fig. 1 - Facciata Palazzo Ardinghelli. Credits: By Lasacrasillaba - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=93855085.

Il MAXXI L’Aquila, frutto di un programma voluto dal Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, si pone all’interno di un progetto che mira alla realizzazione di un nuovo centro vitale e dinamico dell’arte contemporanea nazionale e internazionale all’Aquila; con un filo ideale che lo connette direttamente al MAXXI di Roma, situato nello splendido edificio disegnato da Zaha Hadid, del quale però non costituisce solamente una sede distaccata. A L’Aquila si instaura un dialogo con Roma caratterizzato da ricerche comuni attraverso le collezioni d’arte del XXI secolo, ma che assume però tratti caratteristici propri grazie alle opere, alcune delle quali nate e calate nella realtà abruzzese. Ma anche grazie alla particolare e suggestiva atmosfera di contrasti e comunicazione creata dalle installazioni collocate negli incantevoli ambienti barocchi del Palazzo Ardinghelli, che ci permette, ad esempio, di ammirare l’opera di Alberto Garutti, “Accedere al presente”, in dialogo con un mirabile camino settecentesco situato nel piano nobile (Fig.2-3).

 

Lo stesso restauro dell’edifico costituisce un elemento portante di questo progetto di rinascita diventandone strumento e manifesto. Da un lato restituisce alla comunità aquilana e al territorio abruzzese un edificio storico del XVIII secolo, che versava in condizioni di abbandono già nei tempi precedenti al sisma del 2009, prestando attenzione anche al contesto urbanistico della città che si arricchisce di un nuovo percorso pedonale, un camminamento che, attraverso il magnifico cortile a esedra ospitante due delle opere site specific commissionate per MAXXI L’Aquila, congiunge via Giuseppe Garibaldi e piazza Santa Maria Paganica (Fig.4). Dall’altro si fa memoria collettiva e simbolo di ripresa mantenendo al suo interno le tracce della propria storia e al contempo della stessa città, mostrando fieramente le sue “cicatrici” per mezzo di un restauro che ha recuperato, consolidato e talvolta scelto di preservare la memoria del sisma rendendone ancora visibili i segni lasciati sulla struttura. Ciò si può notare ad esempio in un angolo dello scalone monumentale in cui, tra i dipinti murali di Vincenzo Damini, notiamo alcune crepe (Fig.5) il cui memento risalta agli occhi del visitatore facendo risuonare la metafora della resilienza che in loro si concretizza.

Il progetto di restauro dunque, interpretato come “rete di memorie”, volto a restituire la storia degli eventi che hanno trasformato il luogo e non solo a ricostruire un monumento danneggiato, si è posto in una condizione di mediazione tra restauro filologico e funzionalità. Ciò consente di mettere in atto una perfetta sintesi tra storia e nuova destinazione d’uso dell’edificio che, in questa calibrata commistione, va a costituire un contesto intimo e caratterizzato in cui le opere contemporanee, inserite in un edificio di matrice classica, riescono ad instaurare con il visitatore un modo di comunicare e riflettere singolare; elemento che distingue il MAXXI L’Aquila dagli ambienti ampi e dinamici della sede romana. Una particolare menzione a questo proposito va fatta alla scelta messa in opera per il restauro del salone maggiore del piano nobile, detto la “voliera”, in cui si può notare il modus operandi di tale restauro dove di fronte al crollo completo della volta incannucciata, non potendo ripristinare con materiali e tecniche tradizionali il sistema voltato come accade in altre sale, si è scelto di riproporre la simulazione dell’originale centinatura di supporto, affidando alla tinteggiatura bianca del legno lamellare la denuncia della modernità della struttura. Si ha in tal modo quella già menzionata perfetta summa di storia e funzionalità, che qui viene esemplificata attraverso il moderno rifacimento dell’intelaiatura che ripropone però la “memoria” del sistema costruttivo settecentesco originale (Fig.6).

Fig. 6 - Dettaglio volta del salone maggiore detto la “Voliera”. Foto dell’autrice.

La storia pertanto ha un ruolo fondante e lo stesso Palazzo Ardinghelli è doppiamente legato alle vicende dell’Aquila, essendo testimone dell’evoluzione della città, della sua struttura sociale ed economica; ma anche del susseguirsi di crolli e riconfigurazioni di cui è stata protagonista, e ne diventa oggi il simbolo di rinascita, offrendo a L’Aquila l’occasione di divenire centro propulsore di cultura e turismo, a livello nazionale e internazionale, grazie alla bellezza e alla qualità del suo patrimonio artistico.

L’edificio, di fatti, è frutto della fusione e ridefinizione di parti di origine medievale e interventi successivi realizzati nel Cinquecento e nel Settecento, di cui ora sono ancora visibili e valorizzati i tratti connotativi negli elementi architettonici e decorativi. Nella facciata che si apre sulla piazza, in effetti, è possibile notare tra i resti delle murature di almeno tre epoche diverse, il portale gotico, visibile nella sua interezza, completo di cardini in pietra, riconducibile alle abitazioni che al tempo caratterizzavano l’abitato dell’isolato. Successivamente, tra il Quattrocento e il Seicento, il palazzo è oggetto di una ridefinizione di impronta rinascimentale riferibile alle famiglie nobili che progressivamente si insediano all’Aquila, ma sarà con la ricostruzione successiva al terremoto del 1703 che diventerà protagonista della nuova stagione di rinascita della città che, inaugurando una nuova stagione creativa, riveste il proprio tessuto urbano di rinnovate forme e colori ispirati alla cultura barocca dell’area romana.

Il progetto del palazzo voluto da Filippo Ardinghelli, si può far risalire agli inizi del XVIII secolo, sebbene poi la sua realizzazione si protrarrà, a causa delle numerose difficoltà incontrate, tra il 1732 e il 1743. L’ideatore fu il romano Francesco Fontana, figlio del più famoso Carlo, il cui influsso si nota espressamente nel suggestivo cortile a esedra interno che richiama il celebre precedente della Curia Innocenziana a Montecitorio e che va a costituire, allo stesso tempo, un unicum nel panorama architettonico gentilizio aquilano (Fig.7).

Figura 7- Cortile ad esedra interno. Foto dell’autrice.

Sulla sinistra della corte troviamo un altro elemento caratterizzante della struttura: lo scalone monumentale di derivazione borrominiana, affrescato nel 1749 da Vincenzo Damini, che dà accesso al piano nobile con i saloni di rappresentanza, impreziositi dai monumentali camini che possiamo tuttora ammirare all’interno delle sale. Dopo la scomparsa prematura di Filippo, la Famiglia Ardinghelli lasciò il palazzo incompiuto, quest’ultimo passò poi nelle mani del barone Franchi e di lì ai marchesi Cappelli che ne completarono la facciata lineare e sobria con la balconata, ispirata all’originario progetto e realizzata tra il 1955 e il 1956. Le vicende dei decenni successivi portarono il palazzo ad uno stato di progressivo declino durato fino a dicembre 2007, quando il Ministero per i beni culturali decise di acquistarlo per porvi la sede dei propri uffici regionali.

Il terremoto del 6 aprile 2009 purtroppo sorprese l’edificio in uno stato già particolarmente vulnerabile e ciò causò effetti devastanti sulle strutture che videro il crollo della maggior parte delle coperture, delle superfici voltate del piano nobile e di estese porzioni delle murature portanti oltre che ad un diffuso e gravissimo quadro fessurativo generale. Nell’ottica di porvi una sede per i propri uffici, il Ministero diede avvio ai lavori di restauro sul corpo principale nel 2012 e l’anno successivo su quello laterale, per poi giungere nel 2015, a lavori avanzati, alla formalizzazione della decisione di insediare all’interno di Palazzo Ardinghelli un museo di Arte Contemporanea di cui L’Aquila era sprovvista. Oggi non solo possiamo vedere concretizzata quella scommessa che fece il Ministero, ammirando la corte interna che ci porta sullo scalone che darà l’avvio alla nostra visita nelle stanze del museo (Fig.8), ma possiamo anche ritenerla vinta poiché il coraggio, la passione e il duro lavoro di tutti coloro che hanno partecipato al progetto traspaiono in ogni luogo dello spazio museale, il quale conferma come la rinascita dell’Aquila passi anche attraverso la cultura.

Fig. 8 - Scalone monumentale e volta con affreschi di Vincenzo Damini. Foto dell’autrice.

 

La mostra “PUNTO DI EQUILIBRIO: Pensiero spazio luce da Toyo Ito a Ettore Spalletti”

In questo luogo, che si configura come ambiente intriso di storia e volto all’interazione e al confronto, viene ospitata la mostra a cura di Bartolomeo Pietromarchi e Margherita Guccione intitolata PUNTO DI EQUILIBRIO: Pensiero spazio luce da Toyo Ito a Ettore Spalletti, dove accanto a 8 progetti site specific realizzati da tanti artisti contemporanei (Elisabetta Benassi, Stefano Cerio, Daniela De Lorenzo, Alberto Garutti, Nunzio, Paolo Pellegrin, Anastasia Potemkina, ed Ettore Spalletti), troviamo opere della collezione permanente del MAXXI di arte, architettura e fotografia che ci portano a riflettere proprio sull’idea di spazio e di equilibrio, sfruttando e sondando il potenziale del nuovo museo nel dialogo che si intesse tra contesto e opere.

Lo spazio, come scrive Bartolomeo Pietromarchi, viene inteso non solamente nella sua dimensione fisica e architettonica bensì anche nella sua dimensione relazionale e creativa, valutando la sua importanza quale “laboratorio per riflettere sulla storia e immaginare il futuro”; leitmotiv che legherà tutte le opere selezionate corredato dall’elemento dell’equilibrio, altro punto cardine dell’esposizione che invita a soffermarsi sul significato etico ed estetico di tale principio fondante dell’architettura, che descrive l’annullarsi delle forze contrapposte in una pausa colma di tensione. Una pausa dalle tensioni contrapposte che ci troviamo a vivere in questo momento storico carico di sconvolgimenti, una possibilità di stabilità esistenziale, un momento riflessivo che si muove dall’arte, attraverso lo spazio e le opere, è ciò che viene offerto al visitatore. E se Kandinsky scriveva “il colore è un mezzo di esercitare sull’anima un’influenza diretta. Il colore è un tasto, l’occhio il martelletto che lo colpisce, l’anima lo strumento dalle mille corde”[2], al MAXXI le opere, connesse al palazzo, ci portano a far vibrare la nostra anima, relazionandoci in modo nuovo al presente, al passato e futuro, immaginando altri equilibri che governano il mondo.

L’esposizione è dedicata ad Ettore Spalletti, artista abruzzese venuto a mancare nel 2019, presente nella mostra con un’opera che non ha purtroppo potuto vedere allestita. Egli durante il sopralluogo si innamorò dello spazio della piccola cappella settecentesca situata nel piano nobile, fu proprio lì che decise di collocare la sua opera che, all’interno del percorso museale, ne diventa esemplificazione e simbolo. L’artista ha inserito una colonna al centro dello spazio in concomitanza con la lanterna della cupola sovrastante, contenente l‘affresco della colomba della luce. La colonna che si erge quasi sospesa nello spazio verso la luce, richiama nell’osservatore quella sensazione di tempo sospeso, di connessione tra spazio e luce che si snoda lungo tutto il percorso della mostra (Fig.9).

Fig. 9 - Ettore Spalletti, Colonna nel vuoto, L’Aquila. Foto dell’autrice.

L’Aquila torna poi ad essere direttamente protagonista anche nelle fotografie commissionate per l’occasione a Paolo Pellegrin che presenta al MAXXI il progetto “L’Aquila” (Fig.10), composto da due serie differenti ma complementari: il grande polittico composto da 140 immagini in bianco e nero, in cui attraverso i chiaroscuri catturati dall’obiettivo dell’artista è possibile osservare il centro cittadino, ancora oggetto delle fratture del sisma; e la seconda serie invece che ritrae ampie vedute notturne di borghi e montagne. Ciò sottolinea nuovamente come il MAXXI L’Aquila sia parte di un programma che si sviluppa da e per il territorio, che accende nuovamente i riflettori sul capoluogo abruzzese e lo ricolloca in un posto di primo piano all’interno del dibattito artistico e culturale nazionale e internazionale, mostrando come la cultura rivesta un ruolo fondamentale per la rinascita.

Fig. 10 - Paolo Pellegrin, L’Aquila. Foto dell’autrice.

 

 

Note

[1] Brochure MAXXI L’Aquila, 2020.

[2] Lo spirituale nell’arte, Wassily Kandinsky, SE, 2005, pag. 46.

 

Bibliografia

MAXXI L’Aquila. La guida, Edizioni MAXXI, 2020.

Brochure MAXXI L’Aquila, 2020.

Lo spirituale nell’arte, Wassily Kandinsky, SE, 2005.