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A cura di Valentina Cimini

 

 

Il primo maggio di ogni anno, quando gli alberi germogliano tra il Gran Sasso e la Majella, si tiene a Cocullo (Fig.1), borgo di pochissimi abitanti in provincia dell’Aquila, l’antichissimo rito della “Festa dei Serpari” dedicata a San Domenico Abate, monaco benedettino che fra il X e XI secolo attraversò le valli abruzzesi e laziali fondando eremi e monasteri.

 

Tradizione vuole che il monaco si fermò per sette anni a Cocullo, ove con molteplici miracoli liberò i cocullesi dalle tristi conseguenze dei morsi di vipere e serpenti velenosi, fondando il suo culto e soppiantando quello pagano e più antico della Dea Angizia, divinità italica adorata dagli antichi abitanti del Fucino, i Marsi e i Peligni, associata al culto dei serpenti. Il rito, dunque, ha origini antichissime e vede una commistione tra fede cristiana e origini pagane, dando vita ad una festa tra il sacro e il profano (Fig.2).

 

Nei mesi precedenti la manifestazione i serpari, figure centrali del rito, si recano in montagna in cerca di serpenti, mettendo in atto un’occupazione complessa e probabilmente connessa all’arcaica popolazione dei Marsi, le cui capacità di quietare e manipolare i serpenti venivano menzionate anche nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. Bisogna ricordare tuttavia che antropologi contemporanei, come Alfonso Maria Di Nola e di recente Lia Giancristofaro, rigettano il collegamento con il rito marso, accertata l’anteriorità di tale fede rispetto al culto cristiano di San Domenico. La connessione, dunque, dato l’intervallo temporale troppo esteso, costituirebbe piuttosto un tentativo di nobilitare e storicizzare tale usanza.

La figura del serparo trova spazio anche nella letteratura, di fatti il poeta dai natali abruzzesi Gabriele D’Annunzio nella sua tragedia La fiaccola sotto il moggio, ambientata nella vicina Anversa degli Abruzzi, la rievoca in questo modo: “Non fa sosta alle soglie. Passa. È frate del vento. Poco parla. Sa il fiato suo tenere. Piomba. Ha branca di nibbio, vista lunga. Piccol segno gli basta. Perché triemi il filo d’erba capisce.[1]

Egli descrive così tutta la fascinazione suscitata da questo personaggio mitico che deriva la sua arte, ereditariamente, da un’antica stirpe originata dal figlio di Circe. Con queste parole viene quindi narrata la complessità dell’andare per serpi, attività che necessita di occhio vigile e nervi tesi. I vari esemplari di serpenti, una volta catturati, verranno poi custoditi e nutriti per 15-20 giorni fino al giorno della festa.

Il mattino del primo maggio ha inizio la cerimonia e, a seguito della messa dedicata al santo, i serpari ricoprono la sua statua con i rettili che ne andranno ad avvolgere il corpo, dando avvio alla processione per le strade del paese tra lo stupore degli astanti (Fig.3).

 

In base alla posizione che le serpi assumeranno attorno alla statua, i cocullesi trarranno buoni o cattivi auspici per il futuro. Durante la cerimonia è possibile, sotto la guida esperta degli stessi serpari, toccare i serpenti, non velenosi, e vedere le donne del paese indossare i loro vestiti tradizionali. Al termine della festa la statua del santo è riportata nella chiesa a lui dedicata, mentre i serpenti vengono liberati nel loro habitat naturale.

Nel contesto del “nuovo capitalismo”, mentre le città globali diventano luoghi di aggregazione finanziaria, normativa e mediatica, i paesi delle zone rurali e montane faticano a riposizionarsi, rappresentando l’opposizione e la complementarità alla centralità urbana. Per far fronte all’oblio, del quale sono stati vittima molti piccoli borghi della nostra penisola, questi paesi hanno messo in atto una strategia di resilienza, aggrappandosi alla qualità della loro diversità culturale, divenendo perciò luogo di attrazione artistica e culturale.

La storia di Cocullo diviene esempio di quanto affermato poiché, avendo vissuto un periodo di crisi nel 2008, caratterizzato da un drastico abbassamento degli abitanti migrati per motivazioni lavorative ed economiche, tornò in auge grazie all’espressività della sua più emblematica festività religiosa. Scelta coraggiosa poiché a quel tempo la Chiesa ufficiale ne prendeva le distanze considerandola, così come facevano gli etnologi ottocenteschi, come una “sopravvivenza culturale” che univa al suo interno cattolicesimo e residui di paganesimo.

Oggi tale rito ofidico attira ancora una media di 20.000 turisti, con una punta di 50.000 nell’anno 2008, costituendo un evento di importanza religiosa e antropologica tale da essere oggetto di articoli sul New York Times e di servizi sulla BBC, colpendo la curiosità non solo dei fedeli ma anche di studiosi e giornalisti provenienti da tutto il mondo.

 

La “coscienza sociale” di questa tradizione ha come data chiave il 1976, quando l’antropologo Alfonso Di Nola analizzò la festa popolare di Cocullo e pubblicò una vasta etnografia sulla cultura popolare abruzzese[2], espandendo in questo modo gli orizzonti del rituale evitando di cristallizzarlo in una sterile memoria per liberarlo dagli stereotipi e restituirgli maggiore senso umano.

Il rito popolare diviene così momento di stabilità, ricostruendo immagini e valori che, nonostante siano lontani dal presente, si riempiono di nuove motivazioni che consentono la loro prosecuzione, ponendosi sempre in controtendenza con la cultura egemone che si imponeva alla vita locale.

Quando il sisma del 2009 peggiorò ulteriormente le condizioni di vita locali, il rituale di Cocullo, che negli anni Settanta veniva bollato come residuo del passato, si dimostrò simbolo e progetto di un futuro sviluppo sociale e turistico per le zone terremotate e per le piccole comunità che la modernizzazione aveva condotto ad una sofferenza socio-economica.

Il rito di Cocullo, con la sua rappresentatività, costituisce un importante caso italiano di candidatura a Patrimonio immateriale dell’umanità, inserito nella “Lista di salvaguardia urgente” dell’Unesco. Questo riconoscimento significherebbe non solo salvaguardare e tramandare una manifestazione culturale frutto di saperi e conoscenze antiche trasmesse di generazione in generazione, ma anche dare una risposta alle difficoltà dei piccoli borghi limitrofi, che potrebbero rinascere grazie a visibilità e politiche adeguate. Attorno alla candidatura, di fatti, è stata costruita una rete di solidarietà che vede unite associazioni laiche e religiose di tredici comuni differenti di Abruzzo, Lazio e Molise.

Alla morte di Alfonso Di Nola, nel 1997, il lavoro di riflessione sul rituale continuò grazie all’istituzione del Centro Studi sulle Tradizioni Popolari “Alfonso Di Nola” che, nato come punto di riferimento per le ricerche sulla festa di Cocullo, finì col diventare appoggio più in generale per gli studi demo-etno-antropologici. Nel 2004, inoltre, venne inaugurata la Mostra-museo del rito di San Domenico, con un allestimento multimediale e multisensoriale che ne consentisse l’osservazione tutto l’anno. L’obiettivo del museo, infatti, non è solo di conservare e comunicare tale rituale antichissimo, ma è anche quello di essere socialmente vivo grazie ad un approccio plurale[3] che rende possibile l’eliminazione di un aspetto prettamente nostalgico e conservativo.

Si può notare dunque come grazie a questo rito arcaico e ad una sua più consapevole “coscienza sociale”, una piccola comunità, gravata dalle problematiche portate dalla modernizzazione, è stata in grado di reinventarsi e orientare le politiche per il turismo verso il folklore regionale; facendo prendere tuttora vita e colore ad un incantevole borgo antico.

 

 

 

Note

[1] Gabriele D’Annunzio, La fiaccola sotto il moggio, Il Vittoriale degli italiani, Verona, 2009; pp. 115.

[2] Alfonso di Nola, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana.

[3] Ultimamente, ad esempio, è stata aggiunta una mostra zoologica.

 

 

Bibliografia

Lia Giancristofaro, Cocullo: un percorso italiano di salvaguardia urgente, Pàtron Editore, Bologna, 2018.

Lia Giancristofaro, Antropologia e piccoli paesi. La modernizzazione della tradizione come risorsa per la salvaguardia ambientale, Dialoghi Mediterranei, marzo 2019. Online: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/antropologia-e-piccoli-paesi-la-modernizzazione-della-tradizione-come-risorsa-per-la-salvaguardia-ambientale/

Gabriele D’Annunzio, La fiaccola sotto il moggio, edizione critica a cura di Maria Teresa Imbriani, Edizione Nazionale delle Opere di Gabriele d’Annunzio diretta da Pietro Gibellini, Il Vittoriale degli Italiani, Verona, 2009.

 

Sitografia

Benvenuto nel sito dell’Associazione Pro Loco di Cocullo (AQ)

https://abruzzoturismo.it/it/i-serpari-di-cocullo

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