SAN DOMENICO MAGGIORE A NAPOLI

…NEL CUORE DEL CENTRO DI NAPOLI:

Un caffè a Piazza San Domenico Maggiore a Napoli

Nel cuore del centro storico di Napoli, ai margini tra i decumani e la città greca, maestosamente si apre Piazza San Domenico Maggiore.

Su di essa si affacciano la Basilica di San Domenico Maggiore, da cui prende il nome, e la guglia di San Domenico,   e le fanno  da contorno  imponenti palazzi nobiliari.

Area pedonale, crocevia di studenti e turisti, poco distante dagli altri luoghi simbolo della città, inglobata nel tessuto urbano senza mai perdere la propria identità che affonda le sue radici storiche, artistiche e culturali nel periodo aragonese vissuto dalla città a partire dal 26 febbraio 1443, giorno in cui Alfonso I il Magnanimo, fa il suo ingresso in città.

La piazza fu voluta dagli aragonesi che, da semplice slargo, ne resero il luogo favorito della nobiltà tanto che i più vi edificarono i loro palazzi non solo nell’età aragonese ma anche nei secoli successivi. Infatti l’occhio del visitatore è rapito dalla convivenza dei diversi stili architettonici che sono in essa presenti senza contrapporsi ma in maniera armoniosa, nonostante la diversità di stili ed epoche di appartenenza, poiché la piazza divenne una sorta di “salotto mondano” anche nei secoli successivi la dominazione aragonese.

Nel corso dei secoli successivi, e con i sovrani che succedettero agli Aragonesi, la cura ed il mantenimento decoroso della piazza restano infatti una priorità, tanto da indurre il re Ferdinando IV a  murare nel 1764 nelle pareti della chiesa una lapide in cui si vietava espressamente di “giocare a carte, palle o schiassare” e anche di “farvi vendita di frutti, melloni, deporvi sfrattature o immondezze, mettervi posti d’affittare sedie o banchi di cambiavalute”.

fonte wikipedia
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Al centro di essa, a forma piramidale, si innalza l’obelisco di San Domenico.

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L’obelisco di San Domenico, secondo dei tre obelischi della città (gli altri sono quello di San Gennaro e quello dell’Immacolata) viene eretto per espresso desiderio del popolo napoletano, pagato con somme di denaro stanziate dallo stesso e alle quali contribuirono anche i padri domenicani nel 1656; è un’opera scultorea di età barocca realizzata per ex – voto a San Domenico a seguito della pestilenza che colpì la città in quell’anno. I domenicani ne commissionarono l’opera a Cosimo Fanzago che era già impegnato nella realizzazione di un’opera simile, la guglia di San Gennaro iniziata nel 1636, tenendone il progetto fino al 1658 quando passò a Francesco Antonio Picchiatti che ne mantenne il cantiere fino al 1666.

Sin da subito, i lavori procedettero a rilento tanto da riprendere poi solo nel 1737 da Antonio Vaccaro, che seguì la sua realizzazione fino al completamento della stessa avvenuta in quello stesso anno sebbene ancora priva della statua del Santo, di cui il Vaccaro ne fece il bozzetto.

L’opera è di forma piramidali  e si innalza al cielo per circa 26 metri. Il primo ordine è in piperno e su di esso si alternano  due iscrizioni a  due busti raffiguranti la sirena Partenope. Il second’ordine è invece caratterizzato dalla presenza di stemmi, in particolare ritroviamo quello di Napoli – ovviamente contemporanea alla realizzazione dell’opera – dell’ordine dei domenicani, dei Re di Spagna e dei Viceré d’Aragona.

Al terzo ordine sono di risalto i medaglioni coi Santi domenicani che sono opere del Vaccaro; su suo modello è stata eseguita la statua bronzea di San Domenico, che però risulta essere di un ignoto autore settecentesco…è posta lì proprio ad esaltare l’ordine domenicano, fu collocata al vertice dove tutt’ora si trova, nel 1747, due anni dopo la morte del Vaccaro stesso.

Alle spalle della guglia, si alza maestoso il Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore di Napoli, noto anche come “Museo Doma”.

La  fondazione della Basilica  risale al 1283, quando Carlo I d’Angiò ne finanziò l’edificazione e affidò l’edificio, che fu completato nel 1324, ai frati domenicani.

In realtà sulla piazza si affaccia l’abside che, per le sue aperture, sembra avere “gli occhi, il naso, la bocca”  e quindi non la facciata principale che invece si trova nel giardino del convento; ciononostante, dalla piazza, è possibile accedere alla Chiesa attraverso una scala che fu voluta da Alfonso I d’Aragona per la chiesetta romanica di San Michele Arcangelo a Morfisa, chiesa probabilmente eretta intorno al X sec. e successivamente inglobata nella struttura basilicale di cui oggi è al transetto destro.

fonte wikipedia

Nel 1255 Papa Alessandro IV dedicò la chiesa a San Domenico sotto il cui patronato aveva posto anche il convento; successivamente, Carlo II – nel 1283 – volle ingrandire la chiesa, senza però distruggere la precedente, incorporandola così nella nuova.

La Basilica è a croce latina, e fu eretta secondo i canoni del gotico, con tre navate e cappelle laterali con ampio transetto ed abside poligonale, per questo si trova rivolto con verso la piazza, mentre all’ingresso principale si accede attraverso un ampio cortile, raggiungibile da Vico San Domenico, stradina adiacente la piazza. Inizialmente prevedeva tre ingressi: uno per ciascuna navata, ma le due laterali furono chiuse nel corso del XVI sec. per far spazio alle cappelle che, in totale, sono ben 36. Accanto al portone d’ingresso è posto il campanile settecentesco.

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L’interno, sebbene sia estremamente vasto, conserva circa 800 anni di storia e storia dell’arte e presenta una prospettiva architettonica pressoché perfetta, dimostrando che i numerosi interventi cui è stata soggetta non ne hanno alterato l’armonia.

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Nella controfacciata della chiesa, vi è il tondo raffigurante San Domenico. Il soffitto  non è quello originale, poiché fu sostituito nel 1670 da quello attuale a cassettoni con stucchi e dorature e con al centro lo stemma domenicano e, ai lati, quelli vicereali.

Lungo le navate laterali si  trovano 14 delle 36 cappelle, 7 per ciascun lato: si ricordano quella dei Brancaccio con gli affreschi di Pietro Cavalini, oppure la cappella dedicata a San Carlo dove si conservano due tele di Mattia Preti, quella dei De Franchis, detta di “Zì Andrea”   che prende il nome dell’opera lignea “Madonna di Zì Andrea” posta sull’altare, che ha sostituito la “ Flagellazione” del Caravaggio, oggi conservata al Museo di Capodimonte, commissionata proprio dalla famiglia de Franchis al Merisi, per adornare la Cappella.

Altre cappelle sono ospitate anche nei transetti laterali, sia di destra che di sinistra.

La zona absidale vede, alle spalle dell’altare maggiore, la cassa barocca dell’organo, che si trova in uno spazio inizialmente occupato dalle prime sepolture aragonesi, qualcuna andata distrutta nell’incendio del 1506.

L’altare maggiore e la balaustra marmorea sono opera del Fanzago, ma hanno comunque subito diversi lavori a causa di incendi e terremoti. Oltre la chiesa, elevata al rango di Basilica minore nel 1921 da Papa Benedetto XV, scrigno d’arte e capolavoro del barocco napoletano, è sicuramente la Sagrestia.

Sagrestia   copyright : sandomenicomaggiore.it

La Sagrestia della Basilica di San Domenico Maggiore è a pianta rettangolare decorata in stile barocco con stalli lignei alle pareti e, sulla volta, presenta il capolavoro assoluto di Francesco Solimena, l’affresco raffigurante “Il Trionfo della Fede sull’eresia ad opera dei Domenicani” eseguito tra il 1701 ed il 1707.

L’opera è un turbinio di personaggi sacri che si sviluppano centralmente, sebbene la scena sembri essere quasi caotica: nella parte superiore è Dio, il Crocifisso, la Colomba dello Spirito Santo,la Vergine e San Tommaso col sole in petto, e, nella parte più centrale, si riconoscono San Pietro Martire, Santa Caterina da Siena e Santa Caterina de’ Ricci e Santa Rosa da Lima, e sulla sinistra, San Domenico circondato dalle Virtù; infine nella parte inferiore, sono raffigurati i corpi caduti nell’eresia.

Arche Aragonesi copyright : museosandomenicomaggiore.it

F. Solimena“Il Trionfo della Fede sull’eresia ad opera dei Domenicani”  – Sagrestia della Basilica di San Domenico Maggiore – fonte wikipedia

Volgendo lo sguardo verso il basso, tra la volta e gli stalli si trova un ballatoio ligneo sul quale sono collocate le cosiddette “Arche Aragonesi”, ovvero 42 arche reali del casato d’Aragona, sarcofagi ricoperti di preziosi tessuti colorati che, fino al 1594, si trovavano all’interno dell’abside della chiesa.  Tra i corpi vi era anche quello di Alfonso I il Magnanimo, deceduto nel 1448, ma le cui spoglie furono traslate in Spagna nel 1668, la cassa pertanto è vuota ma è comunque sormontata da un ritratto del re.

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Annessa alla Basilica, è il Convento dei Padri Domenicani, il cui ingresso è da Vico San Domenico, accanto all’ingresso principale della basilica stessa. Restaurato del 2012, sebbene abbia mantenuto le forme di un primo intervento architettonico del XVII sec. , la struttura conventuale si sviluppa su tre livelli: al piano terra il chiostro, anche se in principio erano tre, la sala degli insegnamenti di San Tommaso d’Aquino che qui soggiornò; al primo piano invece sono ancora presenti la biblioteca, il refettorio, la sala del Capitolato ed alcune celle dei domenicani, compresa quella di San Tommaso, con ancora il dipinto originale della Crocefissione, noto per aver parlato al Santo; infine all’ultimo livello, gli alloggi privati dei domenicani tutt’ora presenti nel Convento.

A percorso ultimato, tornando sulla piazza, magari per un babà alla multi secolare pasticceria Scaturchio, che ha qui ha  la sua sede storica, nell’ora del tramonto non è difficile immaginare il corteo reale della Napoli Aragonese dei tempi che furono: complice anche la vicinanza della cappella e del laboratorio dei Sansevero, si materializzano davanti ai nostri occhi, il Re Alfonso I che cammina con la sua Favorita, oppure il fantasma di Maria d’Avalos e del suo amante, il duca d’Andria Fabrizio Carafa, assassinati dal marito della donna, il principe Carlo Gesualdo da Venosa. Un delitto passionale datato 18 ottobre 1590, ovvero quando Carafa, insospettito dalle dicerie su sua moglie, ritornò senza preavviso a Palazzo Sansevero ed in anticipo da una battuta di caccia compiendo l’atroce delitto.

Da allora, e per secoli, chi abitava nei pressi del Palazzo diceva di sentire ancora le urla della donna.

Una piazza intrisa di storie e di leggende di ieri e di oggi, un pullulare di anime e di corpi che hanno attraversato e che tutt’oggi attraversano la piazza, ne accarezzano con la loro anima i palazzi nobiliari da cui è circondata, volgono lo sguardo alla statua di San Domenico posta al vertice della guglia, o lanciano uno sguardo all’abside della Basilica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia:

  1. Ruggiero “Le piazze di Napoli” – collana ‘Napoli Tascabile’ – Tascabili economici Newton
  2. Salerno “Il Convento di San Domenico Maggiore in Napoli” – Napoli 1997

F.N. Arnoldi “Storia dell’arte “ Vol. III fabbri Editori.

 

Sitografia:

museosandomenicomaggiore.it

wikipedia.it

vesuviolive.it

10cose.it

napoligrafia.it.

 


LA CHIESA DEL GESÙ NUOVO A NAPOLI

La città dalle cinquecento cupole

Così è stata definita Napoli, perché il numero delle chiese presenti in città si avvicina proprio a 500. Sono quasi ovunque: nei vicoli, nelle piazze, lungo le strade; in un percorso che, nel raggio di meno di 2 chilometri, consente a chiunque lo voglia di visitare luoghi sacri che fanno da prezioso scrigno a indefinite quantità di opere d’arte, che non solo incantano turisti e napoletani, ma soprattutto raccontano la storia della città in tutti i suoi aspetti. In meno di 10 minuti, infatti, il visitatore che si trova in Piazza del Gesù  - che dopo Piazza del Plebiscito è tra le maggiori piazze partenopee visitate – raggiunge Piazza san Gaetano, che è ubicata in maniera diametralmente opposta ad essa, incontrando almeno una quindicina tra chiese, palazzi, luoghi di interesse storico – artistico e culturale.

Siamo nelle viscere della città di Napoli, nel centro storico, che dal 1995, è Patrimonio Unesco. A ricordarcelo è una targa posta proprio in Piazza del Gesù, in particolare sulla facciata della chiesa del Gesù Nuovo, da cui la piazza prende il nome, su cui è riportata la motivazione:

Si tratta di una delle più antiche città d’Europa, il cui tessuto urbano contemporaneo conserva gli elementi della sua storia ricca di avvenimenti. I tracciati delle sue strade, la ricchezza dei suoi edifici storici caratterizzanti epoche diverse conferiscono al sito un valore universale senza uguali, che ha esercitato una profonda influenza su gran parte dell’Europa e al di là dei confini di questa”.

Piazza del Gesù Nuovo è situata lungo il Decumano Inferiore, sulla via chiamata “Spaccanapoli” (poiché, guardandola dall'alto, divide la città perfettamente in due parti, come se “spaccasse Napoli” ) in un’area completamente pedonale e su di essa si affacciano maestosamente la Chiesa del Gesù Nuovo, palazzi nobiliari, l’obelisco dell’Immacolata.

La piazza nasce per volere di Carlo II d’Angiò in un’area che inizialmente era solo uno spiazzale ricavato dall'eliminazione di qualche orto ed iniziò a prendere una conformazione urbanistica solo dopo il 1470, anno in cui venne costruito palazzo Sanseverino. Successivamente furono eretti altri due palazzi nobiliari, tutt’oggi presenti : il palazzo Pignatelli di Monteleone eretto nel XVI secolo e Palazzo Pandola, eretto in epoca tardo barocca, edificato da un’ala del vicino Palazzo Pignatelli.

E’ sicuramente una della piazze più importanti della città, punto focale della Napoli greco  - romana per la sua collocazione all'inizio del Decumano inferiore, ed è tutt'oggi luogo privilegiato per l’ incontro dei giovani, che la vivono sia di giorno che di notte, soprattutto studenti e universitari, complice non solo la presenza in piazza di importanti istituti di studi superiori ma anche la presenza nell'intera area e dintorni delle più importanti facoltà universitarie e della sede centrale dell’Università di Napoli stessa.

Al centro della Piazza si erge uno dei tre grandi obelischi della città: l’obelisco dell’Immacolata (gli altri due sono quello di San Domenico  e quello di San Gennaro).

L’Obelisco dell’Immacolata si alza maestoso al centro della piazza. E’ alto circa 30 metri ed è,dei tre precedentemente citati, in ordine cronologico l’ultimo ad essere stato realizzato. Fu eretto nel 1750 per ordine dei Gesuiti a seguito di una raccolta pubblica, organizzata dal Padre gesuita Francesco Pepe nonostante le opposizioni del Principe di Pignatelli, che avendo il suo palazzo in piazza, temeva che un eventuale crollo della struttura dovuta a qualsivoglia motivo avrebbe potuto lesionare il suo palazzo. L’obelisco fu innalzato al centro di quella che era considerata l’isola gesuitica della città; ciononostante essa appartiene alla città e non al clero, come indicato dallo stemma apposto sulla cancellata che circonda l’opera. Tale decisione è frutto di un accordo avvenuto nel 1818 tra Papa Pio VII e Ferdinando di Borbone.

L’opera si presenta come una sorta di macchina da festa barocca, innalzata verso il cielo. Si presenta in quattro ordini i cui  elementi scultorei sono di Matteo Bottiglieri e Francesco Pagano: i laterali del primo ordine sono adornati da fiori come vortici, mentre al second’ordine sono presenti sui laterali coppie angeliche. Al terzo ordine, ai quattro angoli della balaustra che l’adorna, sono presenti le statue marmoree di Sant'Ignazio, San Francesco Borgia, San Francesco Saverio e San Francesco in Regis. Alle statue si alternano altorilievi raffiguranti quattro momenti della vita della Vergine : l’Annunciazione, la Natività, la Purificazione e l’Incoronazione, e, al quart’ordine,prima della sommità,sono presenti sui due lati medaglioni raffiguranti San Luigi Gonzaga da un lato e San Stanislao Kostka dall'altro.

Sulla sommità dell’obelisco, coronata di stelle, è posta la statua di rame dell’Immacolata, un rame ossidatosi col tempo tanto da perdere il suo colore originario e diventare azzurro – verde. All'obelisco dell’Immacolata l’amministrazione cittadina è da sempre particolarmente legata. Infatti è ormai diventata una tradizione – da diversi decenni  – che nel giorno dell’8 dicembre il Sindaco della città, dopo la Messa delle 12 nell'antistante Chiesa del Gesù Nuovo, renda omaggio alla Vergine con un mazzo di rose che i Vigili del Fuoco, con la scala telescopica, le depongono tra le mani.

La Napoli dei misteri

Si racconta che all'alba, o comunque prima che si svegli completamente quanto vi è intorno alla Piazza, un uomo solitario passi e gridi, in dialetto napoletano “Chest è ‘a voce ra Maronn” ( "Questa è la voce della Madonna"); in talune ore del giorno invece, in particolare all'alba e al tramonto, volgendo lo sguardo al retro della Statua della Madonna, si ha l’impressione di vedere un’immagine gobba e con uno scettro in mano: raffigurerebbe la Morte che, quasi minacciosamente, osserva i passanti.

La chiesa del Gesù Nuovo

Alle spalle della guglia, si erge l’imponente facciata della chiesa del Gesù Nuovo. La chiesa è in realtà nata dalla struttura architettonica di un precedente palazzo nobiliare: palazzo Sanseverino, del quale conserva la facciata.

Il palazzo fu edificato nel 1470 ad opera di Novello da San Lucano per espresso volere del principe di Salerno, Roberto Sanseverino, come riporta una targa posta sulla facciata stessa.

L’edificio rimase ai Sanseverino fino al 1552, anno in cui Pedro di Toledo tentò di instaurare in città l’inquisizione spagnola e Ferrante Sanseverino, messosi a capo di un’insurrezione popolare, sebbene riuscisse ad evitare il volere dei monachi, non poté evitare le conseguenze della loro ira: beni della famiglia furono confiscati e messi in vendita, mentre  lui fu condannato all'esilio.

Nel 1584, i Gesuiti acquistarono il palazzo (ma alcune fonti sostengono che in realtà il palazzo non sia stato venduto, bensì donato alla Compagnia di Gesù) e, tra il 1584 stesso ed il 1601, lo riadattarono a chiesa.

I responsabili del progetto furono gli architetti gesuiti Giuseppe Valeriano e Pietro Provedi, che sventrarono completamente la struttura originaria del palazzo, lasciando in piedi solo la facciata ed il portale di marmo.

I lavori furono finanziata dalla principessa Isabella Della Rovere, moglie dell’ultimo esponente di un ramo dei Sanseverino, principi di Bisignano ed il suo nome, insieme a quello di Roberto I di Sanseverino (che aveva fato erigere il palazzo) è ricordato nell'iscrizione racchiusa in un cartiglio marmoreo posto sull'architrave del portone principale. Sullo stello è posta la data del 1570, anno in cui la chiesa fu aperta al pubblico, anche se fu consacrata al culto solo nel 1601 ed è dedicata alla Madonna Immacolata (ma intitolata dai francescani nel 1767 alla Trinità Maggiore, fino a quando tornò ai Gesuiti nel 1804 e, ad essi in via definitiva solo nel 1900); ciononostante prese subito la denominazione popolare – che tutt’oggi mantiene – di Chiesa del Gesù Nuovo, quasi immediatamente a distinguerla dalla prima chiesa gesuita presente in città – tra l’altro a poche centinaia di metri da essa – dalla Basilica dell’Immacolata di Don Placido, che divenne da subito la chiesa del “Gesù Vecchio”.

La facciata della chiesa è di certo una delle più affascinanti facciate presenti sull'intero territorio cittadino, tanto che un dettaglio della stessa è stato riportato sul retro della banconota da 10.000 Lire emessa dal 1977 al 1984 (la cosiddetta “Machiavelli).

La facciata si presenta in bugnato rustico a punta di diamante con tre grandi portali,ognuno relativo alle tre navate interne.

Sta di fatto che tale bugnato è avvolto in un alone di mistero: infatti su di esso,  sono incisi una serie di caratteri che potevano nascondere simboli esoterici e dell’occulto, probabilmente un linguaggio segreto tra i maestri tagliapietre, o addirittura un linguaggio col potere di attirare energie positive all'interno dello stesso; sta di fatto che l’alone di mistero che ruota intorno alla facciata si esplica ulteriormente in un’altra leggenda, in ragione della quale i maestri pipernai, esperti di segreti esoterici, incaricati da Roberto Sanseverino, avrebbero erroneamente piazzato le pietre segnate in maniera opposta a quella corretta, sicché, anziché far confluire all'interno dell’edificio forze benevole, le avrebbero tirate fuori, attirando forze malevoli che sarebbero poi state all'origine di tutte le sventure abbattutesi sulla chiesa, compresi incendi, crolli, fino al miracoloso ritrovamento di una bomba inesplosa, durante il Secondo Conflitto Mondiale, conservata nelle Sale Moscati, nei locali adiacenti la chiesa.

In realtà, tali caratteri sono stati decifrati dallo storico dell’arte Vincenzo de Pasquale, che ha scoperto che in realtà si tratta dei 7 simboli dell’alfabeto aramaico, usati per rappresentare le 7 note musicali; le lettere, lette da destra verso sinistra e guardando la facciata dal basso verso l’alto, se musicate, danno vita ad una melodia della durata di circa quarantacinque minuti: la facciata della chiesa del Gesù Nuovo, pertanto, si è rivelata essere, suo malgrado, una sorta di pentagramma.

Al centro della facciata si erige maestoso il portale dell’ingresso principale. Quello centrale è in marmo ed è quello dei Sanseverino, sebbene presenti alcune modifiche; infatti i gesuiti apportarono alcune cambiamenti come l’inserimento del frontone spezzato e sormontato dallo stemma della Compagnia di Gesù con il loro emblema e la scritta IHS al centro e, al di sotto di essa, la riproduzione marmorea dei chiodi della Crocifissione, l’inserimento degli angeli, ma anche un ricordo ai Sanseverino e ai Della Rovere con i loro stemmi che, in dimensioni maggiori, sono riprodotti sulla sommità dei margini estremi dei due lati.

Anche le due porte laterali sono marmoree e risalenti al XVI  sec.e sono anch’esse inserimenti voluti dai gesuiti, così come la scritta sotto il grande finistrone centrale sulla facciata “NON EST IN ALIO ALIQUO SALUS” ovvero “NON C’E’ SALVEZZA IN NESSUN ALTRO”. La chiesa all'interno è un vero e è proprio scrigno dell’arte barocca napoletana, una sorta di vero e proprio museo che conserva opere realizzate da Cosimo Fanzago e Francesco Solimena, quest’ultimo autore del grande affresco sulla contro-facciata raffigurante l’episodio biblico della “Cacciata di Eliodoro dal Tempio”.

La pianta è a croce greca, con  braccio longitudinale leggermente allungato e la cupola in corrispondenza del centro del transetto,le cappelle laterali sono dieci di cui cinque per ciascun lato e due di esse, collocate ai lati dell’abside. La cupola che oggi vediamo non è quella originale, poiché è stata più volte ricostruita a seguito di diversi incendi e terremoti cui la basilica è stata soggetta.

In origine presentava affreschi di Giovanni Lanfranco, dei quali restano solo i Quattro Evangelisti sui pennacchi laterali. Attualmente si presenta con decorazioni in stucco che riprendono i motivi del cassettonato, consolidati da un intervento in calcestruzzo armato nel 1975.

L'altare maggiore fu ultimato solo nel 1857 e presenta numerose sculture e decorazioni che, sebbene seguano il tema dell’Eucarestia, mettono al centro la Vergine Immacolata, in marmo bianchissimo, opera di Antonio Busciolano; è posta in una nicchia caratterizzata dalla presenza di marmi policromi e sei colonne corinzie in alabastro.

La statua poggia su un globo blu in lapislazzuli, attraversato in diagonale da una fascia dorata e contornata da cherubini anch'essi di marmo. Il ciclo di affreschi sulle pareti absidali sono di Massimo Stanzione e raffigurano scene di vita della Vergine realizzati in circa un anno, tra il 1639 e il 1640.

Una particolarità che caratterizza la zona antistante l’abside, ma soprattutto la chiesa stessa, è la presenza ai laterali, in sopraelevata, di due organi, di cui quello di destra è ancora funzionante. La loro presenza in chiesa è legata ad una richiesta esplicita fatta dalla principessa Della Rovere, poiché la Compagnia di Gesù non prevedeva musica liturgica nelle loro chiese.

Oltre la navata centrale, la chiesa presenta altre due navate laterali: da sinistra, procedendo verso l’interno della chiesa, la prima cappella è quella dei Santi Martiri con  decorazioni in stucco risalenti al XVII sec. ed una Pala d’altare con la Madonna con Bambino e i Santi Martiri ed infine affreschi di Belisario Corenzio.

La seconda cappella è invece dedicata alla Natività, ma è nota anche come Cappella Fornari, dal nome di Ferrante Fornari, che ne fu il committente. Anche qui sono presenti decorazioni pittoriche realizzate della mano del Corenzio, ma il fulcro centrale è sicuramente il gruppo di undici statue tra le quali si ricorda in particolare il San Matteo e l’Angelo di Pietro Bernini.

Al centro della parete principale della navata di sinistra si erige la Cappella dedicata a Sant'Ignazio da Loyola, fondatore dell’Ordine.

Qui troviamo un vero e proprio trionfo di quanto meglio offriva l’ambiente artistico del ‘600 napoletano: le due tele sull'altare sono della mano di Jusepe de Ribera, gli affreschi sul finestrone sono del Corenzio.  Dalla  porta posta al lato destro dell’altare della cappella, inoltre si accede alla Sagrestia, che conserva mobili seicenteschi ed un affresco raffigurante “San Michele che scaccia gli angeli ribelli” di Aniello Falcone.

La penultima cappella della navata di sinistra è la cappella del Crocifisso e di San Ciro, dove, proprio sotto l’altare si trova l’antichissima tomba di San Ciro e dove si segnala il gruppo scultoreo ligneo della Crocifissione di Francesco Mollica.

La quinta, ed ultima cappella, è dedicata a San Francesco de Geronimo, ed è anche nota come Cappella Ravaschieri, dal nome della famiglia committente. Essa presenta, oltre a marmi di pregevole fattura, resti di affreschi di Francesco Solimena. Sulle pareti laterali, si trovano due grandi lipsanoteche lignee.

La navata di destra, presenta, come precedentemente segnalato, lo stesso numero di cappelle.

La prima, dedicata a San Carlo Borromeo, va segnalata in particolare per la pala d’altare raffigurante il santo, ad opera di Giovanni Azzolino. La seconda cappella, detta “della Visitazione” , presenta sull'altare un dipinto raffigurante proprio la Visitazione ad opera di Massimo Stanzione e resti di affreschi del Giordano. Tale cappella oggi è nota soprattutto per la sua dedicazione a San Giuseppe Moscati, medico napoletano, canonizzato da Giovanni Paolo II nel 1987. La presenza del Santo medico  - figura particolarmente cara al popolo napoletano – è fortemente sentita nella chiesa: qui non solo è presente una sua statua bronzea all’interno della cappella stessa, quasi a grandezza naturale, ma è vivo il suo culto,

infatti dal Cappellone di San Francesco Saverio, che affianca la cappella della Visitazione, una porta lascia accedere alle cosiddette “Sale Moscati” che sono la ricostruzione fedelissima della sala in cui il medico esercitava la sua professione e della sua stessa camera da letto  e nelle quali sono mostrati e conservati i suoi scritti. Tale ricostruzione – con la mobilia originale – è stata possibile grazie alla donazione che ne fece la sorella Nina ai Gesuiti ed in particolare alla chiesa stessa, chiesa alla quale lo stesso Moscati era molto legato, tanto da recarsi a pregare tutte le mattine. Non mancano all'interno delle sale Moscati pareti piene di ex-voto, che testimoniano la devozione verso la figura del “Santo medico”, di cui si conservano, nella chiesa, anche le spoglie.

Il cappellone di San Francesco Saverio, però, non immette solo nel mondo di San Giuseppe Moscati. E’ anch'esso uno scrigno d’arte e presenta tele di Luca Giordano, del Corenzio e di De Matteis .

L’ultima cappella è invece dedicata al Sacro Cuore. Essa conserva affreschi di Belisario Corenzio sulla volta e sulle pareti, risalenti ai primissimi anni del XVII sec.

In entrambe le navate l’ordine delle cappelle non solo è uguale, ma le ultime due di ogni lato partecipano alla struttura architettonica della chiesa, poiché – su entrambi i lati – la penultima funge da parte terminale del transetto e l’ultima da “abside laterale” all'abside stessa della chiesa. E’ un tutt'uno. Trionfo di architettura e di quanto di meglio la piazza artistica napoletana del momento poteva offrire.

 

Sitografia:

Wikipedia.it

Napolitoday.it

Napolituristica.com

Guidanapoli.com

Treccani.it

Dizionariobiograficodegliitaliani.it

 

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IL REAL TEATRO DI SAN CARLO

Storia di un simbolo: il Real Teatro di San Carlo a Napoli

Un tempio lirico nato 41 anni prima della Scala di Milano e 55 anni prima della Fenice di Venezia, ossia il Real Teatro di San Carlo.

Ogni città ha il suo simbolo che la rappresenta nel mondo… un monumento, una piazza, un pezzo di storia che la rende unica come, ad esempio, l’Arena di Verona nella città scaligera, il Colosseo a Roma, Ponte Vecchio a Firenze o il ponte di Rialto a Venezia. Napoli, generalmente, è immortalata come in una fotografia nella quale troneggiano il golfo, il lungomare di Mergellina e soprattutto il Vesuvio.

Sta di fatto che, da diversi anni a questa parte, e grazie ad una serie di interventi per la riqualificazione urbanistica da parte delle amministrazioni comunali che si sono susseguite, anche la città della sirena Partenope ha la sua “piazza simbolo”: Piazza del Plebiscito. Accanto a Piazza del Plebiscito sorge il Real Teatro, voluto da Carlo III di Borbone nel 1737 come un teatro che non solo desse lustro alla città, ma che rappresentasse il potere Regio.

Sono questi gli anni del Neoclassicismo, anni durante i quali in città ferve l’attività urbanistica ed architettonica e si operano imponenti lavori, intervenendo nella sistemazione di piazze e strade come Via Toledo (l’attuale e centralissima Via Roma) la Riviera di Chiaia, Posillipo etc. In questo contesto nasce il Real Teatro di San Carlo, il cui progetto è affidato all'architetto Giovanni Medrano, colonnello spagnolo di stanza a Napoli ed a Angelo Carasale, architetto e impresario teatrale italiano, che completa la Real Fabbrica del teatro in circa 8 mesi, con una spesa di circa 75.000 ducati.

Il Real Teatro

Il teatro prende il nome dallo stesso sovrano Carlo di Borbone. La prima opera in scena fu l’ “Achille in Sciro” di Pietro Metastasio che debuttò  il 4 novembre del 1737, nel giorno di San Carlo, onomastico del Re; la struttura architettonica, attaccata al Palazzo Reale, consentiva al Sovrano di raggiungere il palco reale direttamente attraverso una porta ed un corridoio senza dover scendere in strada.

Nel 1799, e durante i mesi della Repubblica napoletana, il San Carlo assunse il nome di Teatro Nazionale di San Carlo, denominazione che durò fino alla caduta della Repubblica stessa, tornando alla denominazione originale.

Nel 1808 ascese al trono di Napoli Gioacchino Murat per nomina di Napoleone Bonaparte, e nel 1812 nacque la Scuola di Danza più antica d’Italia: in quel momento il teatro divenne anche Teatro del Popolo, e si avviò un’importante ristrutturazione affidata, nel 1810, ad Antonio Niccolini. I lavori, avviati già nel dicembre 1809, si conclusero due anni dopo.

Il teatro: descrizione

Il portico carrozzabile è sostenuto da pilastri e si ispira al modello della Scala di Milano, ma modificato dall'inserimento, al secondo registro della facciata, della loggia ionica, che conferisce al teatro le connotazione di un Tempio. Sulla sua sommità, al centro del frontone della facciata principale, si erge tutt'oggi il gruppo scultoreo “La Triade di Partenope”, che secondo il mito era la sirena che incoronava musicisti e poeti; il 27 marzo 1969 l’opera si sgretolò a seguito delle infiltrazioni di acqua piovana e, inoltre, perché colpita da un fulmine. E' stata totalmente restaurata e ricollocata dove era in origine.

Passati gli anni della Repubblica partenopea e quelli del dominio francese, a seguito della Restaurazione operata dal Congresso di Vienna, torna sul trono di Napoli, la Casa Reale di Borbone con Ferdinando che, salito al trono, dopo soli 6 anni è costretto ad un ulteriore rifacimento del teatro, poiché nella notte tra il 12 e il 13 febbraio del 1816 un incendio lo distrusse completamente.

I lavori furono eseguiti nuovamente dall'architetto toscano Antonio Niccolini, che diede al teatro l’aspetto che attualmente detiene poiché rivide gli interni, creò ambienti di ristoro e rifece la facciata in pieno stile neoclassico, come il gusto del tempo imponeva.

…Appena parlate di Ferdinando vi dicono:  “ha ricostruito il San Carlo!”

 Stendhal,1817.

I lavori di ristrutturazione

Il rifacimento si concretizza in soli nove mesi. Il Niccolini mantiene l’impianto a ferro di cavallo e la configurazione del boccascena, che viene ornato dal bassorilievo “Il Tempo e le Ore” tutt'oggi esistente; l’acustica è perfetta, non si altera in base alla posizione degli spettatori siano essi in platea, sui pachi o nel loggioni; al centro del soffitto troneggia la tela di circa 500 metri quadrati raffiguranti “Apollo che presenta a Minerva i più grandi poeti del mondo” dipinto da Antonio, Giovanni e Giuseppe Cammarano.

Quest’ultimo si occupò anche della ridipintura del sipario, sostituito poi dall'attuale nel 1854.

La nuova inaugurazione avvenne il 12 gennaio 1817 con la rappresentazione de “Il sogno di Partenope” di Giovanni Simone Mayr, che fu un trionfo. Con l’avvento del Regno d’Italia,ed in seguito all'Unità d'Italia, lo stemma borbonico fu sostituito con quello sabaudo, ma nel 1980 fu ripristinato lo stemma del Regno delle Due Sicilie, sostituendo quello sabaudo che era stato semplicemente sovrapposto allo stemma originale, dal quale si era staccato a seguito di alcune operazioni di pulitura.

Il XX secolo è sicuramente un secolo molto importante per l’attività del teatro, sebbene segnato e danneggiato dagli eventi bellici che hanno segnato il ‘900. Nel 1937 fu creato un foyer, noto anche come “Sala degli Specchi”, sul lato che da sui giardini del Palazzo Reale; si trattava di un locale adiacente alle sale del teatro, dove gli spettatori potevano intrattenersi durante le pause dello spettacolo. Fu rifatto dopo la Seconda Guerra Mondiale, poiché fu distrutto dai bombardamenti. Il San Carlo fu il primo teatro a riaprire in Italia.

Dai primi anni del XXI sec. un nuovo foyer  ospita “l’Opera Café” , elegante salotto cittadino, divenuto uno dei simboli della città, ideale per una pausa o per un aperitivo, con accesso da Piazza Trieste e Trento, adiacente la più nota Piazza del Plebiscito.

Nel 2007 la “Triade di Partenope” è stata ulteriormente ristrutturata e restituita alla sommità dell’edificio dalla quale, fieramente, troneggia; anche la sala principale del teatro è stata ristrutturata, migliorando la visuale e l’acustica, sebbene quest’ultima sia sempre stata considerata perfetta; le poltrone della platea sono state sostituite ed è stato aggiunto un impianto di climatizzazione.

Il 1 Ottobre 2011, inoltre, è stato inaugurato il MEMUS, ovvero il Museo e Archivio Storico del San Carlo, ospitato nei locali di Palazzo Reale, che non è e non è stato pensato come un museo nell'accezione più tradizionale del termine, ma è un vero e proprio centro polifunzionale altamente tecnologico, contenente aree espositive, sale eventi, una galleria virtuale in 3D, un bookshop, ed un centro di documentazione sulla storia del San Carlo.

L’amore che lega il teatro alla città e la città al teatro è indissolubile, non c’è napoletano che non lo senta ‘suo’ e non lo ami con lo stesso amore con cui si ama un figlio o una parte della propria storia. Il San Carlo, nelle sue vicissitudini, è sempre stato accanto al suo popolo, d'altronde l’immagine stessa di Partenope sulla  sommità sembra un atto dovuto da parte della città alla Sirena che diede il nome alla città e della quale molti napoletani, ancora oggi, si sentono figli, tanto da definirsi “partenopei” piuttosto che “napoletani”.

 

“non c’è niente in Europa, non direi di simile, ma che possa anche lontanamente dare un’idea di ciò. Vedo nei palchi delle dame alle quali posso essere presentato; preferisco la mia sensazione…e resto in platea…”

Stendhal 13 Gennaio 1817.

 

SITOGRAFIA:      guidanapoli.com;

Wikipedia – enciclopedia libera;

Teatrosancarlo.it;

BIBLIOGRAFIA:   F. Negri Arnoldi – Storia dell’arte Vol. III – Fabbri Editori;

Monumenti e Miti della Campania Felix –

Volume 20 “Il San Carlo e i teatri della Campania”

in Allegato a “il Mattino” Pierro Editore.[/vc_column_text][/vc_column]

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RECENSIONE MOSTRA "DAVID E CARAVAGGIO: LA CRUDELTA' DELLA NATURA, IL PROFUMO DELL'IDEALE"

Palazzo Zevallos Stigliano

Gallerie d’Italia

Napoli –  Via Toledo

5 dicembre 2019  –  19 aprile 2020

 

 

Palazzo Zevallos Stigliano in via Toledo (nota anche come Via Roma) a Napoli, è stata per anni sede storica della Banca Commerciale Italiana, oggi è la sede napoletana delle Gallerie d’Italia e la sede museale del Gruppo Intesa San Paolo  e, fino al 19 aprile 2020, ospita la mostra “David e Caravaggio – La crudeltà della natura, il profumo dell’ideale”.

La mostra, che prende il titolo da un commento di Baudelaire che, riferendosi alla tela “La Morte di Marat”  di David, la definì per l’appunto:” crudele come la natura, questo dipinto ha il profumo tutto dell’ideale”, si esplica su tre livelli, dal pian terreno al secondo piano dell’edificio, passando per il piano nobile.

All’occhio del visitatore, si presenta come una sorta di confronto tra l’opera pittorica di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio e uno dei maggiori esponenti del neo classicismo francese, quale fu  Jacques-Louis David, ma pare che la realizzazione della mostra, realizzata in collaborazione con l’Institut Français di Napoli ed il Museo di Capodimonte, ma anche il Petit Palais di Parigi e il Fine Arts Museum di San Francisco, curata da Fernando Mazzocca, abbia preso spunto dalla presenza nella Basilica Pontificia di San Francesco di Paola in Piazza del Plebiscito a Napoli dalla fedelissima copia a firma Tommaso De Vivo della Deposizione di Caravaggio, di cui l’originale è inamovibile ed attualmente presente presso i  Musei  Vaticani, infatti proprio al pian terreno, alla prima sala allestita per la mostra, il visitatore si imbatte in una delle quattro copie esistenti della Morte di Marat  del David, proveniente dal Musée des Beaux – Arts de Reims, poiché l’originale della stessa, è considerata anch’essa tra le opere inamovibili ed è conservata al Museo Reale delle Belle Arti del Belgio di Bruxelles, eseguite magistralmente dai suoi allievi e sotto la sua direzione.

L’illuminazione pressoché perfetta delle opere presenti in sala, con luci che mettono in risalto i punti salienti delle opere, sebbene si tratti di un confronto tra copie, monopolizzano l’attenzione del visitatore poiché le stesse, poste l’una accanto all’altra, quasi costringono l’occhio dell’osservatore ad una veduta  “di coppia”, come a voler rievocare quel momento storico durante il quale esponenti della pittura del neoclassicismo d’oltralpe soggiornavano a Roma per formarsi e studiare le opere presenti, soprattutto quelle del Caravaggio.

Il percorso è arricchito non solo dalle oltre 120 opere presenti stabilmente nella Galleria e facenti parte delle collezioni permanenti, ma anche dalla fedele ricostruzione della stanza in cui avviene l’omicidio di Marat e dalla presenza di opere di Luca Giordano ed esponenti della sua “scuola”.

Il percorso espositivo, si esplica anche al piano nobile ed al secondo piano, dove, stabilmente è esposta la tela del Merisi  raffigurante “Il Martirio di Sant’Orsola” nella Sala degli Stucchi.

La sua collocazione è fissa, ma, se inserita all’interno del percorso della mostra, sembra quasi rappresentare un punto d’arrivo: un’opera suprema che, grazie anche al gioco di luci che illuminano le mani della Santa Martire ripiegate verso il petto nel momento in cui è trafitto dalla freccia del martirio, fa lasciare tutto alle spalle, come se si fosse giunti alla fine di un percorso che, lungo la sua strada, ha preparato il visitatore alla visione di un’opera magna…

Il palazzo con la sua sala, lo scalone monumentale, gli stucchi delle sale del piano nobile ed in particolare del secondo piano, le tele, l’illuminazione ma soprattutto l’ambiente in cui il tutto è  esposto, senza particolari forzature o modifiche, dal  mio punto di vista rendono il tutto particolarmente suggestivo… per qualche strano motivo che non saprei spiegare, per almeno un’ora, nell’osservare le tele e tutti i quadri esposti, mi sono sentita proiettata in una dimensione diversa, superiore, di quelle che ti avvolgono, quasi ti rapiscono e ti fanno sentire  parte di quel mondo che fu di  Caravaggio e i suoi seguaci, dell’atelier di David e di quanti vi lavorarono…ma soprattutto dei committenti e tutta quella nobiltà che, in un modo  od in un altro,  hanno contribuito a quanto oggi possediamo, ammiriamo e soprattutto studiamo.

Già le vetrine della sede del palazzo che  precedono l’ingresso, fanno assaporare quanto troveremo all’interno: infatti nelle prime due vi sono gigantografie di opere di Artemisia Gentileschi e Luca Giordano, ma ovviamente non manca la gigantografia dell’opera di Caravaggio, la “ Sant’Orsola” che vi “dimora” stabilmente.

La sala degli stucchi che la ospita, col suo grande camino, specie poi in questo freddo inverno, ti fa sentire quasi in un ambiente delicato…non ho potuto fare a meno di guardarmi intorno, gli stucchi bianchi sullo sfondo azzurro sono delicatissimi, ma voltandomi verso Caravaggio, la sua tela, il “martirio di Sant’Orsola” , l’illuminazione delle mani, la freccia scagliata dal carnefice, le espressioni dei loro volti, hanno monopolizzato il mio sguado e la mia mente, riportandomi non solo a ricordi di studi e anni universitari, ma soprattutto quanto dolore mi fu insegnato a leggere su quella tela….

Sì…tra le opere presenti, molte sono copie. Ma che importa? Non per forza un’opera deve essere un originale per trasmettere e dar voce e vita ad un’emozione…

A me… durante la visita alla mostra è successo…

A me… la mostra è piaciuta e la consiglio….

 

 

Il costo del biglietto è di €5, e €3 per il ridotto.

Il costo del Catalogo è pari a €28.n

Fino al 19 aprile 2020, è visitabile :

dal Martedì al Venerdì dalle 10 alle 19

E il Sabato e la Domenica dalle 10 alle 19.

(ultimo ingresso mezz’ora prima).


PASTORI E PRESEPI A SAN GREGORIO ARMENO

“… te piace ‘o presepio?” 

  1. De Filippo – Natale in casa Cupiello, 1931.

Percorsi di fede, cultura e arte

Via San Gregorio Armeno è probabilmente una delle vie più famose del mondo: è la strada dei presepi e dei pastori artigianali di Napoli e per raggiungerla, si passa attraverso un percorso che è un museo a cielo aperto. Da Piazza del Gesù, che deve il suo nome alla Chiesa del Gesù Nuovo e che s’impone sulla piazza con la sua maestosa facciata di bugnato rustico a punta di diamante, con davanti l’obelisco dell’Immacolata, s’imbocca Via Benedetto Croce, strada in cui lo sguardo inevitabilmente cade sulla facciata e sul campanile della Basilica del Complesso Monumentale di Santa Chiara, ove c’è l’imbocco di  “SpaccaNapoli”, un vero e proprio viaggio attraverso il sacro ed il profano.

Un pullulare di bancarelle con i più svariati articoli accompagna fino a Piazza San Domenico Maggiore, dove troneggiano l’obelisco di San Domenico con la sua Basilica che fieramente conserva le Arche Aragonesi, di lì a poco si giunge ad un’altra chiesa, quella di Sant’Angelo a Nilo con le opere di Donatello e,nella Piazzetta adiacente, alla statua di epoca romana rappresentante il Dio Nilo che immette a San Biagio dei Librai, dove ci si imbatte tra le prime botteghe dell’arte presepiale napoletana, fino ad incrociarsi proprio con Via San Gregorio Armeno,la strada dei pastori, che congiunge perpendicolarmente il Decumano inferiore a quello superiore fino a Piazza San Gaetano, dove alle spalle della statua del Santo s’impone la Basilica di San Paolo Maggiore e alla sua sinistra, quella di San Lorenzo  che immette nella Napoli Sotterranea.

Nella “strada dei pastori” s’ incontrano botteghe d’arte presepiale centenarie, nelle quali quest’arte  si è mantenuta inalterata per secoli, divenendo parte delle tradizioni natalizie più consolidate e seguite della città, nonostante l’avvento della tecnologia, mantenendo ancora vivo il ricordo di una lavorazione artigianale, immutata nel tempo.

La tradizione dei pastori di San Gregorio Armeno: la lavorazione

Dalle operose mani dei maestri artigiani nascono presepi in sughero, quadri di paesaggi tridimensionali, dove gli elementi fondamentali sono la grotta della Natività, che è il centro della scena, elementi paesaggistici come fiume e ponte, i mercati e le botteghe, poiché non è solo la rappresentazione della Natività, ma è tutto un mondo in cui rivivono scene e momenti della quotidianità napoletana del ‘700.

ll secolo d’oro del presepe napoletano è il Settecento, quando regnò Carlo III di Borbone: per merito della fioritura artistica e culturale, in quel periodo anche i pastori cambiarono le loro sembianze. I committenti non erano più solo gli ordini religiosi, ma anche i ricchi e i nobili che gareggiavano per allestire impianti scenografici e statuine sempre più ricercati, c’era già la figura del “figurinaio” cioè l’artista specializzato nella creazione delle statuine.

Ma era un diletto anche per i nobili:lo stesso Carlo III s’impegnava personalmente nella realizzazione del presepe, preparando mattoncini e scene diverse, la Regina si occupava tutto l’anno nel preparare, con le Dame di Corte, gli abiti per i pastori.

La preparazione dei pastori richiede diverse fasi, molte di esse sono sempre le stesse e segue una lavorazione che è immutata nel tempo: si tratta di un corpo preparato creando una struttura in filo di ferro morbido e riempito con della stoppa così da formare un corpo appena abbozzato.

Le parti da modellare, saranno le uniche visibili: sono la testa, le mani complete di avambraccio e la parte finale delle gambe, che alla fine andranno assemblate sul corpo;con l’argilla fresca si modella la testa dandole un certo movimento sottolineando i muscoli del collo e i tratti somatici dell’espressione E’ necessario, inoltre forare la pettiglia avanti e dietro per poterla innestare e fissare sul manichino in fase di assemblaggio. Lo stesso procedimento vale per gli arti inferiori e superiori.

I pezzi finiti ed essiccati, dovranno essere quindi cotti nel forno. Dopo la cottura entro i 980° l’argilla naturale diventa terracotta. Sulla testa, dopo la cottura andranno inseriti gli occhi di vetro nelle orbite.

A questo punto il passo successivo era e resta quello della pitturazione , in cui non solo è fondamentale realizzare il colore esatto per gli incarnati, ma anche esaltare le gote, le palpebre, i muscoli del collo, il dorso delle mani e le dita per dare maggiore realismo alle figure.

Dopo essere stati dipinti, sono pronti per l’innesto sul manichino. La rifinitura del corpo non è importante, poiché verrà vestito con abiti e accessori.

figura del presepe napoletano e suo abito – Museo Nazionale Bavarese –Monaco di Baviera – Wikipedia

 

La vestizione è la fase conclusiva che dovrebbe essere affidata ad una persona specifica in quanto, per quest’operazione, si richiedono requisiti affini a quella di un sarto: importante è la scelta delle stoffe, la conoscenza degli abiti d’epoca, un tempo contemporanei; le stoffe usate saranno adeguate al personaggio, così che per i pastori si creeranno costumi con tessuti poveri e grezzi, mentre per i Re Magi si useranno stoffe di maggior pregio e bellezza; utile è anche il ricordo di eventi come i costumi orientali dei re e del loro seguito come accadde per gli inviati del Sultano e del re di Tripoli, o a quelli degli ambasciatori della Porta Ottomana in visita a Napoli, che nel 1778 sfilarono in pompa magna per via Toledo.

Per il Corteo dei Magi si prediligono abiti lunghi e grandi mantelli, ori, perle e preziosi che arricchiscono i già preziosi tessuti damascati e i velluti, colori forti e tra essi quasi contrastanti, abbinamenti cromatici forti che rendono la scena ricca ed imponente al tempo stesso, corone realizzate cercando di rimanere il più fedele ai Paesi di provenienza.

ph. Ornella Amato – Magi – Napoli, coll. priv.

ph. Ornella Amato – Magi – Napoli, coll. priv.

ph. Ornella Amato – Magi – Napoli, coll. priv. Dettagli del tessuto dell’abito.

Essi s’impongono nella scena della Natività, dove i costumi con i quali sono vestiti i personaggi della Sacra Famiglia cercano di mantenere l’iconografia originale, poiché il manto di Maria è azzurro, la veste rosa chiaro, mentre Giuseppe è rappresentato in viola e marrone. Ciononostante i tessuti restano pregiati, le greche ed i bordi dorati arricchiscono i mantelli che generalmente sono realizzati in  seta od organza rigida e cinture dorate. Scende sulla grotta lo sciame angelico, anche’esso vestito secondo l’iconografia sacra tradizionale: tuniche larghe dai colori pastello, cinti in vita da  una cintura dorata.

Ma è sui personaggi che animano tutto il resto della scena che si scatena la fantasia, ieri contemporanea dell’epoca che li creò, oggi riproposizione di un passato glorioso: nobildonne con corsetti ed adornate di gioielli, chiuse in abiti dai tessuti importanti come velluti e damascati;gli uomini in giacche lunghe e ricchi bottoni dorati, finemente decorati, i servi con le loro tipiche vesti, camicie bianche e pantaloni al ginocchio, le donne, con  il tradizionale grembiule bianco che spesso poggia su gonnelloni di colore scuro, i cui tessuti non sono quasi mai pregiati, così come il loro stesso status sociale imponeva, ma soprattutto tutti i personaggi che animano il mercato che è un vero e proprio mercato napoletano: il fruttivendolo con la sua frutta in cassette di legno, il pescivendolo col pescato del giorno ed il pescatore che pesca lungo il fiume, accanto al ponte, i bottegai, l’oste con i suoi tavoli  e soprattutto il pizzaiolo, con la sua pizza, il suo camice bianco.

Interessanti poi le minuterie del presepe napoletano ovvero tutti gli oggetti miniaturizzati, appositamente creati da artigiani specializzati, con l’utilizzo di vari materiali, come cuoio, rame, legno, vimini, ceramica, argento e oro, ferro, cordame, cera colorata. Questi accessori  completano e caratterizzano le figure e le scene, in genere riproducono oggetti realmente in uso nel Settecento; così come gli ambienti sono quelli dei vicoli napoletani, delle finestre coi panni stesi, delle case coi tetti dei mattoni rossi a spioventi, eppure non mancano “angoli verdi” con la presenza di alberi sempreverdi e alberi completamente spogli dovuti alla stagione invernale.

La narrazione evangelica della Natività è rivisitata dalla fantasia napoletana che, mettendola al centro e con, attorno ad essa, i pastori adoranti e i re Magi, si allarga alla figure di contorno, come gli zampognari subito fuori la grotta e i bottegai dei mercati e delle piazze della città, esprimendo lo spirito festoso e vivo del popolo  partenopeo del XVIII secolo e che continua fino ai giorni nostri.

 

pastori del presepe napoletano  – Wikipedia

pastori del presepe della Reggia di Caserta – Wikipedia

ph. Ornella Amato – Napoli, Via San Gregorio Armeno

ph. Ornella Amato – Napoli, Via San Gregorio Armeno- presepi in mostra

Bibliografia:

Collana Monumenti e Miti della Campania Felix – Supplem. A “Il Mattino”Vol. XIV – Le tradizioni di Natale e il Presepe – Ed. Pierro Gruppo Editori Campani Dic. 1996

 

Sitografia:

Treccani.it

Sapere.it

Wikipedia.it