L'OSPEDALE DELLE BAMBOLE.IL MUSEO-BOTTEGA

A cura di Ornella Amato

Un sincero ringraziamento alla Dott.ssa Tiziana Grassi

Primario dell'Ospedale delle Bambole

 ed a tutto il suo Staff per la disponibilità e la collaborazione.

 

Introduzione. Dal Laboratorio al Museo-bottega

L'Ospedale delle Bambole si ingrandisce, si trasforma, cambia sede, trasferendosi all'interno delle Scuderie di Palazzo Marigliano, al numero 39 di Via San Biagio dei Librai. Dalla bottega - laboratorio del Maestro Luigi Grassi, nato quasi per caso nel lontano 1895,122 anni dopo prende vita il Museo-bottega dell'Ospedale delle Bambole, grazie alla volontà della Dottoressa Tiziana Grassi, attuale Primario dell'Ospedale stesso.

Fig.1

È sabato 21 ottobre 2017, e si inaugura non un nuovo laboratorio, piuttosto – e per meglio dire – il Museo dell'Ospedale delle Bambole o ancora meglio, il Museo-bottega, poiché è così che è giusto chiamarlo, all'interno del quale non solo vi è solo il laboratorio di restauro, cuore pulsante del Museo in cui operano le abili mani delle restauratrici, ma sono esposte anche le bambole “riportate alla vita” e tutti i materiali necessari alla loro cura, che avviene all'interno del laboratorio che incessantemente si occupa di ciò. Restauri di bambole, arte sacra, recupero dei peluche sono alcune delle attività quindi che vanno a comporre un vero e proprio museo della memoria, dell'uomo in primis, e della conservazione di tutto quanto è stato "giocato" ed è tornato a vita nuova e che ora, esposto, si presenta agli occhi dei visitatori.

"Museo" ovvero "luogo sacro alle Muse" o meglio ancora “Istituto culturale di particolare interesse storico”. La definizione del termine museo si addice perfettamente a questa struttura: è la conservazione della cultura, del recupero e del restauro, e, di conseguenza un vero e proprio Istituto culturale, tra l'altro posto in una zona di Napoli dove il livello culturale è altissimo, dove non solo ci si collega al passato, ma si guarda al futuro, anche attraverso la cultura della memoria e la cura dell'oggetto e dei sentimenti che prevalgono sul consumismo.

Il Museo-bottega

Il Museo-bottega è stato fortemente voluto ed è tutt'oggi curato dal Primario dell'Ospedale stesso, la Dottoressa Tiziana Grassi, che, con tenacia, porta avanti un antico mestiere e lo tramanda ai posteri anche attraverso attività didattiche e laboratori effettuati all'interno della stessa struttura museale.

 

Il percorso, che si snoda all'interno della struttura, si può definire emozionale, fatto di ricordi, di memoria, di momenti, di attimi di giochi, di un'infanzia lontana eppure vicina, perché i bambini di ieri sono gli adulti di oggi e i bambini di oggi saranno gli adulti di domani, in un Museo collegato al passato, che racconta e si racconta attraverso la cura delle persone, delle bambole, degli oggetti, ma anche attraverso il restauro di arte sacra, affinché nulla vada perduto.

Fig. 4 - Arte Sacra.

In questo spazio espositivo di circa 180 mq si incontrano tutti i passaggi che caratterizzano l'Ospedale delle bambole, ospitato all'interno del Museo stesso: Accettazione, Pronto Soccorso, “Bambolatorio” con le corsie di degenza, strumenti per la diagnostica, bambole in attesa di trapianto, ortopedia, oculistica, ma anche vestizione, trucco e parrucco.

Sequenza dei reparti

E ancora scaffalature in cui sono esposti arti e teste di bambole

Delle esposizioni, tutte particolarmente interessanti, vanno segnalate in particolare quelle del reparto di Oculistica

Fig. 10

con occhi in diversi materiali, destinati sia a bambole sia a peluches, di cui il Museo conserva ed espone svariate tipologie, ed il reparto Voce, in cui sono esposte le apparecchiature per far “parlare” le bambole”.

Fig. 11

Le collezioni 

Anche le sue collezioni sono assolutamente particolari: attualmente ha in affido una collezione di circa 70 cavalli a dondolo, dal Settecento al Novecento, ed inoltre conserva una collezione variegata di Bambole Lenci.

Fig. 12 - Cavallo a dondolo.

Le Bambole Lenci nascono a Torino negli anni 20 e Lenci è l'acronimo di LUDUS EST NOBIS CONSTANTER INDUSTRIA, ovvero il gioco è la nostra opera continua. Da loro nasce il pannolenci, ossia il panno di cui erano fatte le bambole: lavabile, non particolarmente costoso, poiché questi giocattoli erano interamente fatti a mano, rendeva tali giocattoli più resistenti rispetto ad una bambola di porcellana, ed era più facile giocarci anche perché era estremamente basso il rischio di rottura. Anche questo rappresenta oggi un ricco pezzo della storia del made in Italy.

Scaffalatura con al centro Bambole delle Collezione Lenci, in particolare si fa riferimento alla bambola con l'abito in stile giapponese e alle due bambole laterali

 

In questo particolare viaggio che si fa attraverso il tempo e lo spazio, la storia di questa struttura più unica che rara viene raccontata al visitatore, oltre che dalle Dottoresse, anche dalle Bamboline stesse, poiché viene proiettata su di uno schermo, con un fare quasi fiabesco che incanta ed emoziona lo spettatore.

Fig. 15

Allo stesso modo è proiettato sul bancone da lavoro originale di Luigi Grassi, - che nel 1895 fondò l’Ospedale delle Bambole - il lavoro manuale che fanno tutt’oggi le Dottoresse.

Fig. 16 - Il banco di lavoro del maestro Luigi Grassi.

Il viaggio che il visitatore compie all’interno del Museo dell’Ospedale delle Bambole, un Museo - Bottega per eccellenza, riconosciuto tra le 10 cose da vedere a Napoli, inserito all’interno del circuito Artecard, è un viaggio completo: emozionale e culturale al tempo stesso, un tuffo nel ricordo e nella memoria, dove s’incontrano i vissuti del passato, la volontà della conservazione attraverso il recupero e, soprattutto, la trasmissione ai posteri.

Quanto conservato qui quasi “costringe” delicatamente il visitatore a tornare bambino, poiché di certo troverà un pezzo che gli ricorda la sua infanzia: un giocattolo che aveva uguale, una bambola che gli ricorda quella che sua nonna gelosamente conservava… ogni pezzo riporta indietro nel tempo, un tempo lontano, passato, ma che qui sembra essere contemporaneamente fermo e proiettato in avanti, grazie all’ausilio di supporti tecnologici, affinché nulla vada perduto e tutto sia consegnato al futuro delle prossime generazioni.

 

Sitografia

www.ospedaledellebambole.com

Foto

Ornella Amato


L'OSPEDALE DELLE BAMBOLE DI NAPOLI

A cura di Ornella Amato

Alla Dott.ssa Tiziana Grassi, Primario dell’Ospedale delle Bambole,

e a tutte le sue collaboratrici

immensamente GRAZIE per la preziosa collaborazione e disponibilità.

Dalla bottega all'ospedale delle bambole

Una bottega. Anzi no, un ospedale. No, meglio ancora: un Museo. Anzi: un “Museo – Bottega” che nasce da un Ospedale. L'Ospedale delle Bambole.

Un qualcosa che nella logica quasi non dovrebbe esistere eppure c'è, un posto unico al mondo: sicuramente il primo in Italia, nato nel lontano 1895, un luogo dove si incontrano sogno e realtà: museo, bottega e ospedale, che convivono insieme all'interno di un'unica struttura, quella delle Scuderie di Palazzo Marigliano a Napoli, nella centralissima Spaccanapoli, per la precisione in Via San Biagio dei Librai, una delle zone della città di Partenope in cui il livello culturale è altissimo, dove la cultura della tradizione partenopea è più forte che in qualsiasi altro luogo. Qui, in questo luogo che non ne ha eguali, seguendo la logica del recupero, del restauro, della memoria e soprattutto delle persone, si fonde una realtà che, metaforicamente, sembra un coro a più voci e che nel contempo si tripartisce e si riunisce e lo fa sotto un unico nome: il Museo-Ospedale delle Bambole di Napoli.

Il museo è stato inaugurato il 21 ottobre del 2017, ma la storia dell'Ospedale delle Bambole inizia in tempi ben più remoti, a partire dall'anno 1895.

La sua nascita è quasi casuale: in una bottega di 18 mq su Via San Biagio dei Librai il maestro Luigi Grassi, bisnonno dell'attuale Primario dell’Ospedale, la dott.ssa Tiziana Grassi, che racconta lei stessa la storia della nascita di un luogo così particolare, indossato il camice bianco per non sporcarsi, lavorava alle scenografie teatrali, realizzava e riparava i pupi. Un giorno si ritrovò, nel suo laboratorio, un bambola da sistemare, la prima, a cui ne seguirono altre: una donna, guardando dentro la bottega, affermò che sembrava quasi un ospedale, un ospedale delle bambole per l'appunto, e il maestro prese una tavoletta e sopra, rigorosamente in rosso, disegnando tanto di croce, ci scrisse “Ospedale delle bambole ”, sistemando l’insegna proprio davanti l’ingresso della bottega.

L’Ospedale delle Bambole era nato.

Napoli Via San Biagio dei Librai - prima sede dell'Ospedale delle Bambole

Una piccola bottega, ubicata nel cuore della città non solo di un tempo che fu, ma di quella Napoli che ancora oggi vive di mestieri antichi che non solo vanno riscoperti ma che soprattutto resistono al tempo, alla tecnologia e soprattutto al consumismo, poiché frutto non solo delle sapienti mani di abili restauratrici che ridonano luce e vita a quel che il tempo ha inevitabilmente segnato, ma anche il fatto stesso di essere stati semplicemente “giocati”, poiché a quell’uso erano destinati e qui, in questo luogo che può sembrare magico, ma che invece è reale, ritornano e soprattutto ritrovano vita, poiché ad esse e per esse prevale e viene applicata in tutto e per tutto la cultura del recupero e della memoria.

Il laboratorio di restauro

Un vero e proprio laboratorio di restauro centenario, che non solo restaura bambole - oggi affiancato anche da un ambulatorio veterinario per la cura ed il recupero dei peluches - , ma anche arte sacra, Madonne e pastori ai quali viene restituita la loro antica bellezza, non si tratta in questo caso di maestri pastorai, sebbene sia nella strada della Napoli dei presepi e dei pastori, ma di restauri operati da restauratrici di articoli di arte sacra – per i quali oggi esiste un vero e proprio reparto apposito e che comprende per l'appunto anche i pastori – il tutto attualmente nella nuova sede di Palazzo Marigliano, in uno spazio dieci volte maggiore del precedente, all'interno del quale prende vita anche e soprattutto il Museo.

Arti, occhi, teste, e poi abiti, accessori: insomma, tutto quanto c’è intorno ad una bambola che un tempo doveva essere meravigliosa, che un tempo aveva destato, in chi l'aveva ricevuta in dono, sentimenti di gioia, di felicità. Poteva trattarsi della bambola desiderata e ricevuta magari nelle feste natalizie, trovata sotto l'albero di Natale dalla bimba ricca; poteva essere la bambola desiderata e trovata accanto al presepe, contornata di noci e frutti di stagione, dalla bambina meno fortunata, che diventava la compagna di giochi più fidata, l'amica a cui fare la confidenza. Poteva, infine, essere la bambola regalata dal fidanzato alla sua donna, la più bella, quella dal significato più profondo e che, posta sul letto matrimoniale, simboleggiava fertilità; ognuna di queste, rese malconce dai più svariati motivi, oggi come ieri, viene portata in ospedale, restaurata e rimandata a casa - stando alle testimonianze di chi da tutto il mondo invia bambole - anche più bella di come la si aspettava.

’o ssapev ca venev bell, ma non accussì!

(Lo sapevo che veniva bella ma non così bella!)

E questo è il commento che le dottoresse tradizionalmente si sentono dire da chi ritira e riporta a casa la sua bambola.

Organizzazione interna dell'ospedale delle bambole

Pronto Soccorso - Accettazione dell’Ospedale

 L'ospedale delle Bambole è organizzato secondo i canoni di un vero e proprio ospedale. Qui ci sono tutti i reparti, tranne uno, qui non esiste l' obitorio.

In questo ospedale, si rinasce sempre perché la cura ma soprattutto il recupero sono alla base della logica del suo operare.

Corsia degenze - il Bambolatorio - ovvero l’ambulatorio delle Bambole

Le bambole che arrivano devono seguire un percorso ben preciso: si arriva dall’Accettazione e dal Pronto soccorso dove vi sono le dottoresse che, con tanto di visita, diagnosi e relativa impegnativa di ricovero del giocattolo stesso, trasferiscono al reparto di appartenenza, che possa essere oculistica, ortopedia, meccanica od anche trapianti; dopo essere state curate, passano quindi al reparto di trucco e parrucco ed alla fine a quello della vestizione. Il recupero è quindi totale.

I reparti - dettaglio del reparto dei “gessi”

Le bambole dimesse portano un cartellino di“ sana e robusta costituzione”, che un tempo veniva firmato e datato dal restauratore, diventando così un oggetto unico.

Il recupero di un giocattolo, di una bambola, di un oggetto prezioso, come ad esempio di una Madonnina o di un pastore del presepe, è il recupero della memoria, è il mantenere vivo le emozioni, i legami, gli affetti e tutto quello che oggi può sembrare che vada contro corrente in una società come la nostra dove è la logica del consumo che vuole sempre prevalere su quella del recupero, dove anche il paziente lavoro del restauratore che ridà vita a ciò che rischia di andare perduto seppure con fatica riesce a sopravvivere, a tramandare ai posteri non solo gli antichi mestieri ma soprattutto la memoria storica di quello che si è stato e che si può ancora essere.

Le bambine di ieri e che sono le donne di oggi, che ancora oggi portano in questo luogo le bambole delle loro stesse bambine che saranno loro le donne di domani, così come in un tempo lontano le loro madri avevano fatto con loro, contribuendo alla cultura del recupero e della conservazione piuttosto che alimentare quella del consumismo puro, non solo partecipano a mantenere vivo un mestiere che si tramanda ormai da 4 generazioni all'interno della famiglia Grassi, ma partecipano a mantenere vivo un luogo che è annoverato tra le 10 cose più importanti da vedere a Napoli, citato nelle guide e l'interno del circuito Campania artecard, non è solo magico, ma unico al mondo.

 

Sitografia

www.ospedaledellebambole.com


CARAVAGGIO: LE SETTE OPERE DI MISERICORDIA

A cura di Ornella Amato
Fig.1 - Facciata del palazzo. Copyright Wikipedia.

Introduzione al Pio Monte di Misericordia

Il Pio Monte della Misericordia è un’istituzione laica che nasce nel 1602 per volontà di 7 nobili napoletani dediti ad opere caritatevoli realizzate stilando veri e propri programmi settimanali a fini assistenziali.

Nel 1653 la chiesa dell'edificio fu demolita per essere poi ricostruire integralmente e dal 1658 fino al 1678 il complesso fu totalmente riorganizzato in uno stabile di maggiori dimensioni. Il nuovo progetto edilizio, dalla pianta ottagonale, veniva affidato all'architetto Francesco Antonio Picchiatti, mentre nel 1666 terminavano i lavori della grande cupola della chiesa e venivano commissionate ad Andrea Falcone le sculture del porticato esterno, che l’adornava con le tre Allegorie.

Diversi furono nel corso del tempo i rimaneggiamenti, infatti altri lavori si ebbero anche nel corso del Settecento ed in particolare nel 1720 e nel 1763.

Lungo la facciata corre il “motto” della fondazione stessa - tratto da un verso del profeta Isaia -:

Fluent ad eum omnes gentes

ovvero: 

“Tutte le nazioni affluiranno ad esso”.

 

Fig. 2 - Facciata. Copyright napoli-turistica.com.

La Chiesa del Pio Monte della Misericordia

La Chiesa del Pio Monte è inglobata all’interno del palazzo stesso e si rivela essere priva di facciata; infatti l'accesso avviene attraverso un portale dentro il portico in piperno con cinque arcate che caratterizzano la parte inferiore della facciata principale dell'edificio stesso. L'interno della chiesa è maestosamente sobrio ma nel contempo imponente e silenzioso, caratterizzato dai colori bianco e grigio e che donano un’eleganza misurata ed equilibrata.

Fig. 3 - Interno della Chiesa del Pio Monte. Copyright Wikipedia.

Eppure, entrando in Chiesa, lo sguardo del visitatore, che potrebbe essere rapido e fugace, in realtà è rapito e folgorato dalla tela del Merisi sull’altare maggiore raffigurante le Sette opere di Misericordia, realizzate durante il suo periodo napoletano.

Fig. 4 - Altare Maggiore. Copyright Wikipedia.

La presenza di Caravaggio a Napoli fu la conseguenza di un evento estremamente particolare: il Merisi era stato condannato a morte per l’uccisione in un duello di Ranuccio Tommasoni e, a seguito di tale condanna, lasciò la città papale alla volta di Napoli, dove giunse il 6 ottobre del 1606 rimanendovi circa un anno, godendo della protezione della famiglia Carafa - Colonna.

È in questo contesto storico che la pietà evangelica incontra per sempre l’arte del pittore lombardo.

Perchè io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere;

 ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato,

 carcerato e siete venuti a trovarmi”.

                                                                                                                        Mt 25, 35-37

 

E poi vi è l’ultima delle opere di misericordia corporale che non si trova nell'elenco dell’evangelista Matteo, nella quale ci è chiesto di “seppellire i morti nella terra, di inumare o comunque di porre in un sepolcro, in una tomba”, come avvenne per Cristo, ma con la fede nella risurrezione della carne.

Caravaggio: le Sette Opere di Misericordia

Fig.5 - Michelangelo Merisi detto il Caravaggio Nostra Signora della Misericordia. Copyright Wikipedia.
  • Dimensioni cm: 390 x 260
  • Costo pagato dal Pio Monte: 400 ducati
  • Data di consegna: 9 Gennaio 1607
  • Olio su Tela

La tela, nota al grande pubblico come Le Sette Opere di Misericordia, in realtà si chiama Nostra Signora della Misericordia come indica una trascrizione settecentesca della polizza di pagamento a Caravaggio.

Fiumi di parole sono state spese e ancora se ne spenderanno per un’opera di tale portata che non solo destò grande meraviglia tra i committenti tanto da vietare ogni forma di riproduzione, ma che ancora oggi è studiata, letta, interpretata e che a sua volta rappresenta un precetto evangelico in ragione del quale i fedeli, per ottenere il perdono dai peccati, devono compiere azioni caritatevoli verso i bisognosi ed è interpretato da Caravaggio, attraverso personaggi dalle fattezze popolari,  ambientando la scena dei vicoli napoletani.

Pazzia Pura o Rivoluzione?

Caravaggio inserisce tutte le sette opere caritatevoli in un unico dipinto, una sola grande tela, per la quale  si prediligono due chiavi di lettura, sebbene entrambe indichino, come punto di partenza, la Vergine col Bambino sorretta dagli Angeli. La tela può essere divisa in due parti orizzontali: superiore ed inferiore, seguendo la rara ma efficace luce presente nel dipinto, oppure in senso orario, partendo dalla Vergine e procedendo alla destra della tela seguendo le opere rappresentate.

Quest’ultima è proprio il tipo di lettura che daremo in questa sede, partendo dalla Vergine col Bambino.

Una donna affacciata ad una finestra, che guarda la scena che le si presenta, sporgendosi per “vedere meglio” come se fosse ad una finestra o al massino un balconcino di un piccolo appartamento posto nel buio di un vicolo napoletano, come se fosse sopra lenzuola stese ad asciugare, dove il tutto è rappresentato dall’incrocio delle muscolose braccia degli angeli.

Fig. 5a

I volti di madre e figlio sono estremamente delicati, la luce li investe come un faro che colpisce i visi, evidenziandone non solo  le fattezze, ma anche la biondezza del Bambino e la brunezza della Madre, coi capelli leggermente raccolti; tiene il Bambino in maniera tenace, le fanno da “davanzale” le braccia degli Angeli, una sorta di “davanzale celestiale” che, in maniera quasi acrobatica frenano il loro volo, vincendo  la forza di gravità; la mano aperta dell’angelo di sinistra che  - sebbene poggi sul nulla - riesce a frenare il volo  e mostra l'intera muscolatura del braccio teso; le ali sono di un realismo impressionante, la realizzazione del piumaggio è pressoché perfetta e, al centro di esse, si pongono i due personaggi celesti.

Fig. 5b

Il bianco caravaggesco  si impone nella scena sacra, dona  luce e splendore a Colui che per intercessione di Sua Madre, dona grazia e Misericordia.

Lo sguardo del Bambino ci indirizza verso quanto accade sotto di Lui.

Il suo sguardo è dolce, il viso delicato, quasi in contrasto con la cruda realtà delle scene che si stanno svolgendo nel buio di un vicolo napoletano del XVII sec., dove il buio della notte è rotto solo dalla luce delle candele che illuminano le sette opere caritatevoli che si stanno svolgendo.

Seppellire i morti

Fig. 5c

 

E’ raffigurato con il trasporto di un cadavere di cui si vedono solo i piedi, da parte un uomo di chiesa, probabilmente un diacono che regge la fiaccola che illumina leggermente un muro ed un portatore che - nonostante la pochissima luce alla quale partecipa la fiamma della fiaccola stessa - ci mostra, suo malgrado, il suo lato destro.

Visitare i carcerati e Dar da mangiare agli affamati

Fig. 5d

In una sola scena sono rappresentate entrambe le opere di misericordia e sono raffigurate attraverso un vero e proprio “racconto pittorico “della storia di Cimone e Pero che si ritrovano protagonisti di due delle sette opere: Cimone, condannato a morte per fame in carcere e sua figlia Pero, che nutrì il padre dal suo seno, perché non morisse. A seguito di ciò, fu graziato dai magistrati che fecero erigere nello stesso luogo un tempio dedicato alla Dea Pietà.

Vestire gli Ignudi e Curare gli Infermi

Fig,. 5e

La lama della spada che risalta con forza sul buio della scena e che taglia in due il mantello di un giovane cavaliere - identificabile con San Martino di Tours – conduce lo sguardo allo storpio sulla sinistra del santo, probabile riferimento alla vita di san Martino che era solito occuparsi degli infermi. Sotto il mantello si vede la parte superiore di un piede e, accanto, un uomo, a terra, in atto di tirare a sé il mantello con la mano destra, appoggiandosi sulla mano sinistra e mostrando la sua schiena - dalla perfetta anatomia - irradiata dalla luce.

Ospitare i Pellegrini

Fig. 5f

La scena è rappresentata con un uomo in piedi all'estrema sinistra che indica un punto verso l'esterno della tela, rispondendo ad una probabile domanda appena ricevuta e fornendo un’indicazione; la presenza della conchiglia sul cappello (simbolo dei pellegrinaggi a Santiago di Compostela) lo rende  identificabile con un pellegrino.

Dar da Bere agli Assetati

Fig. 5g

Il Merisi rappresenta quest’ultima opera misericordiosa sulla sinistra della tela, attraverso la rappresentazione dell’episodio biblico in cui Dio fa sgorgare l’acqua dalla mascella di un asino per abbeverare Sansone che, nella tela, la stringe col braccio destro e ne beve l’acqua che, miracolosamente, ne zampilla fuori. Il suo volto è rugoso, Sansone è stanco, assetato, lo sguardo è rivolto verso l’alto, la poca illuminazione gli rende brillante la pupilla dell’occhio sinistro (è la parte del profilo che mostra allo spettatore), ma l’eroe biblico - sebbene illuminato in pochi tratti da una luce leggera, quasi di riflesso da quella che illumina i personaggi che popolano la scena davanti - nel buio di questa notte napoletana, è di certo, tra i personaggi di maggiore qualità.

Sansone chiude questo viaggio all’interno della tela, o forse sarebbe meglio dire, lungo i vicoli di un notturno napoletano seicentesco, pur lasciando un sospeso, un sospeso che le mastodontiche dimensioni sembrano quasi non colmare, poiché sospesi si resta davanti a tutte le altre tele del Merisi che, con pazzia e genialità, ha scritto le pagine più controverse e difficili, ma più amate della storia dell'arte in Italia.

 

 

Bibliografia

Pacelli - Caravaggio. Le sette opere di Misericordia - Ediz. Artstudiopaparo - 2014

Torre – Le sette opere di Misericordia – Le pale d’altare di Caravaggio del primo soggiorno a Napoli – Agape Editore

Negri Arnoldi - Storia dell'Arte Vol. III - Fabbri Editori

Casanova - Fluent ad eum omnes gentes. Il monte delle sette opere della misericordia di Napoli nel Seicento. Ed. Clueb - Gennaio 2008

Abbate - Storia dell'arte nell'Italia meridionale vol.4

Il secolo d'oro Ed. Donzelli - luglio 2002

 

Sitografia

http://www.piomontedellamisericordia.it/home/listituzione/

https://artepiu.info/caravaggio-sette-opere-misericordia-napoli/

http://www.arte.it/notizie/napoli/il-sacro-il-teatro-e-la-strada-le-sette-opere-della-misericordia-di-caravaggio-16983

https://www.finestresullarte.info/1089n_caravaggio-nostra-signora-della-misericordia-recensione-libro.php


LA BASILICA DI SAN PAOLO MAGGIORE A NAPOLI

A cura di Ornella Amato
Fig.1 - Piazza san Gaetano.

Introduzione

Per poter apprezzare la profonda bellezza del complesso della Basilica di San Paolo Maggiore occorre fare alcune precisazioni introduttive.

Nel 1995 l’UNESCO ha dichiarato il centro storico di Napoli Patrimonio dell’Umanità. Esso racchiude quasi tre millenni di storia e risulta essere il più vasto d'Italia e uno dei più vasti d'Europa con i suoi 17 km², i suoi  monumenti, che sono testimonianza della successione di culture del Mediterraneo e dell'Europa. Le strade del centro storico di Napoli, sebbene seguano la struttura stradale originaria dell’antica città che fu della Magna Grecia, mantengono tutt’oggi la denominazione di Decumani, che presero nella successiva epoca romana.

In particolare, lungo il Decumano maggiore – uno dei salotti culturali della città – s’incontrano piazze e monumenti che custodiscono fatti ed eventi che hanno segnato la storia del capoluogo campano e dei suoi abitanti.

È proprio qui che, in posizione pressoché centrale, ci si imbatte in Piazza San Gaetano che sorge sull’area in cui esisteva l’antica agorà greca, diventata poi il foro in epoca romana ove– in pompa magna - si accoglievano gli imperatori.

Successivamente, a partire dell’ epoca angioina, qui si svolgevano le funzioni dei Sedili della città, ovvero delle istituzioni amministrative di Napoli i cui rappresentanti, detti gli Eletti, si riunivano nella vicina chiesa di San Lorenzo Maggiore per perseguire il bene comune della città. A cinque dei sei seggi avevano diritto di partecipare i nobili, mentre il resto dei cittadini era aggregato nel sesto seggio, ovvero quello del popolo.

Questa era la piazza per eccellenza dove si discutevano trattati di guerra e di pace, ed era qui che accorreva il popolo napoletano richiamato alle armi dal suono delle campane.

LA BASILICA DI SAN PAOLO MAGGIORE A PIAZZA SAN GAETANO

Il nome della piazza- in un primo momento nota come Largo San Paolo e su cui si erge la basilica di San Paolo Maggiore - deriva dalla presenza della tomba di San Gaetano nella basilica stessa, oltre che dalla presenza della statua dedicata allo stesso Santo, eretta come ex-voto per la liberazione della peste che colpì la città nel 1656 e che seminò morte ovunque. I cadaveri furono oltre 200.000 su un totale di circa 450.000 abitanti, e la capitale fu messa letteralmente in ginocchio.

Il grido di preghiera affinché il morbo cessasse fu affidato non solo alla Chiesa, ma in un certo qual modo anche agli artisti, ai quali furono commissionate diverse opere che non solo la testimoniarono, ma che furono soprattutto ex-voto di ringraziamento per il cessato morbo.

Fig. 2 - Micco Spadaro, Piazza Mercatello durante la peste del 1656, Napoli Museo di San Martino.
Fig. 5 - Napoli, Mattia Preti - Porta San Gennaro Affresco votivo per la scampata pestilenza del 1656 – come da bozzetti conservati al Museo di Capodimonte.

A questo filone di arte devozionale appartiene anche la statua dedicata a San Gaetano Thiene che oggi s’innalza sulla piazza.

Gaetano Thiene, da sempre molto amato in città, qui visse fin dal 1538, anno in cui ricevette in concessione dal Viceré don Pedro da Toledo la Basilica di San Paolo, ove si insediò con i chierici regolari teatini, e vi rimase fino al 1547. Sarà poi beatificato l’8 ottobre 1629 da Papa Urbano VIII.

Il 7 Agosto del 1656 i rappresentanti della città si recarono scalzi e con un cordone al collo sulla tomba del Beato Gaetano Thiene, in San Paolo Maggiore, per chiedere la liberazione dalla pestilenza con la promessa di iscriverlo tra i Santi Patroni della città. Fonti mediche e sanitarie raccontano che da quel giorno non si contarono più vittime e che il morbo cessò improvvisamente. Una delegazione partì quindi alla volta di Roma per incontrare Papa Alessandro VII e chiedergli di iscrivere il nome del Beato Gaetano Thiene nel Registro dei Santi, ma soprattutto tra i compatroni della Città. La canonizzazione però avverrà solo il 12 Aprile del 1671 ad opera di Clemente X.

Ciononostante i teatini della Basilica di San Paolo Maggiore vollero ugualmente la realizzazione di un monumento al Beato Gaetano come ex-voto per la grazia ricevuta, e ne affidarono il progetto e l’esecuzione a Cosimo Fanzago, che avrebbe collaborato con Andrea Falcone.

L’opera, in marmo e piperno, fu realizzata tra il 1657 e il 1664, ma il risultato probabilmente non piacque ai teatini, in quanto non ne soddisfò la volontà di avere una statua sviluppata soprattutto in altezza.

Nel 1670 si decise di rimettere mano all’opera e, a seguito di un precedente ritrovamento nei pressi del Duomo di una colonna che si voleva utilizzare per la Guglia di San Gennaro (realizzato per ex-voto per lo scampato pericolo durante l’eruzione del Vesuvio del 1631 e realizzato entro il 1660), si pensò di utilizzarla per la guglia del Santo, ma la famiglia Pisani, che aveva un palazzo nell’area limitrofa, vi si oppose per timore di un eventuale crollo.

Il monumento, pertanto, rimase nelle sue forme fino al 1737, anno in cui Don Alfonso Carafa, a sue spese e per sua devozione, lo fece completare: la statua seicentesca fu sostituita con l’attuale che fu realizzata probabilmente a Roma in epoca imprecisata da un De Angelis, ma comunque entro il 1747, con le braccia aperte simbolo dell’accoglienza ai fedeli e alla loro protezione. Affacciandosi su Via San Gregorio Armeno, che è la strada dei maestri presepai, San Gaetano è considerato il loro protettore: il Santo si trova, secondo un’interpretazione diffusa, in una posizione di estasi, anche se l’aureola argentea che ne coronava il capo attualmente è stata sostituita con una copia; sul basamento vi sono due iscrizioni che ne raccontano la storia di opera nata per ex-voto, mentre alla base fanno da contorno quattro angeli marmorei; la colonna che regge la statua –oggetto di discussione e che avrebbe dovuto innalzare al cielo la statua del Santo - rimase nei laterali della Basilica per essere poi successivamente portata, anche se spezzata, al Museo Archeologico Nazionale e, solo nel 1914, riuscì ad ottenere una definitiva collocazione nell’attuale e centralissima  Piazza Vittoria ed è stata dedicata ai “Caduti del mare”.

Alle spalle della statua, sulla piazza, si erge maestosa la Basilica di San Paolo Maggiore.

Fig. 8 - Piazza san - Gaetano Basilica di San Paolo Maggiore e Statua votiva a San Gaetano.

La Basilica di San Paolo Maggiore fu costruita sui resti del Tempio dei Dioscuri, ovvero i gemelli Castore e Polluce, figli di Zeus, il cui mito era fortemente sentito non solo in Grecia, ma anche in tutta la Magna Grecia. Tale tempio probabilmente fu realizzato nel V sec. a.C., e attualmente ne restano le colonne, i capitelli corinzi ed i relativi architravi; sarebbe stato poi ristrutturato sotto gli anni di Tiberio dal liberto Pelagonte, più o meno nei primi anni del I sec. d.C. – come dimostra l’iscrizione incisa sull’architrave – quando il culto dei due Argonauti era diventato di tipo dinastico e collegato ai membri della famiglia imperiale.

Fig. 12 - Andrea Palladio - Studio del Capitello Corinzio del Tempio dei Dioscuri di Napoli – quarto chlibro de “I Quattro Libri dell’Architettura”.

La prima chiesa fu edificata tra l’VIII ed il IX sec. d.C. per celebrare la vittoria dei napoletani sui Saraceni, avvenuta nel giorno di San Paolo (da qui la titolazione della Chiesa al Santo di Tarso) ma si hanno notizie certe solo a partire dal 1538, quando Pedro de Toledo la diede in concessione a Gaetano Thiene e ai chierici regolari teatini. Dopo la morte di Thiene, gli stessi teatini si attivarono per una vera e propria opera di rinnovamento.

Parteciparono  i grandi nomi del panorama artistico napoletano, a partire da  Massimo Stanzione  che nel 1642 ne affrescò il soffitto della navata centrale, poi nel 1671 Dionisio Lazzari -  in occasione delle celebrazioni per la canonizzazione di Gaetano Thiene - realizzò una volta in muratura che collegava la facciata della chiesa alle colonne del vecchio tempio pagano; probabilmente, proprio a causa dell'intervento operato da Lazzari, la struttura antica, notevolmente appesantita, finì col crollare durante un violento terremoto, avvenuto nel 1688, provocando anche il crollo di tutte le colonne, tranne le due tutt’oggi visibili. Ciò che rimaneva delle colonne fu utilizzato per decorazioni interne.

Fig.13 - La facciata della Chiesa prima e dopo il crollo dovuto al terremoto del 1688, in un’immagine di Carlo Celano del 1692 in "Notizie del bello, dell'antico e del curioso della città di Napoli".

Nel Settecento i lavori di abbellimento proseguirono soprattutto a opera di Domenico Antonio Vaccaro e Francesco Solimena, che riutilizzarono i marmi antichi crollati con il terremoto, rilavorandoli e mettendoli in opera all'interno per rivestire il pavimento e le paraste della navata centrale.

Per quel che concerne la Basilica, bisogna comunque precisare che è più corretto parlare di “Complesso monumentale”, poiché la Basilica stessa include due edifici religiosi di piccole dimensioni: il Santuario di San Gaetano Thiene e la Chiesa del Santissimo Crocifisso.

Fig. 14 - Chiesa del Santissimo Crocifisso - esterno.

La struttura della Chiesa del Santissimo Crocifisso  è collocata alla base dell'antico tempio dei Dioscuri. Negli anni sessanta del Novecento il fabbricato fu messo in collegamento con il Succorpo della Basilica, causando lo stravolgimento dell'impianto originario. L'interno del complesso è costituito da tre navate, di cui la principale è adibita a luogo di culto, mentre le laterali costituiscono la sacrestia, gli uffici e un cimitero venuto alla luce nel 1962 a seguito di lavori di ristrutturazione.

Il Santuario di San Gaetano Thiene  è  invece un luogo di culto che fu progettato da Francesco Solimena, che realizzò anche gli affreschi presenti nella navata, mentre i bassorilievi raffiguranti le Storie di San Gaetano di Thiene sono invece  di Domenico Antonio Vaccaro. Qui è custodita la tomba del Santo titolare.

Fig.15 - Santuario di San Gaetano Thiene - interno.

Lasciando tali strutture, si ritorna sulla facciata della Basilica, progettata da Arcangelo Guglielminelli ed alla quale si accede attraverso un’elegante scala e  dove, oltre alle già citate colonne, sono da segnalare le lesene scanalate con capitello e le statue raffiguranti i santi Pietro (a sinistra) e Paolo (a destra), entrambe di Andrea Falcone e datate 1671.

All’interno la basilica presenta una pianta  a croce latina e  tre navate con cappelle laterali.

Fig. 18 - Pianta della Basilica e del Complesso.
  1. Chiesa del Santissimo Crocifisso detta la Sciabica
  2. Santuario di San Gaetano Thiene
  3. Resti del Tempio dei Dioscurie ingresso alla basilica di San Paolo
  4. Angelo Custode di Domenico Antonio Vaccaro
  5. Cappella di San Carlo Borromeo
  6. Cappella di San Giuseppe Maria Tomasi
  7. Cappella dei Santi Pietro e Paolo
  8. Cappella Flasconi (o dell'Angelo custode)
  9. Cappella dell'Immacolata (o dei Santi Pietro e Paolo)
  10. Cappella "anonima"
  11. Cappella Firrao
  12. Abside
  13. Cappella di Sant'Andrea d'Avellino
  14. Sacrestia di Solimena
  15. Cappella "anonima"
  16. Cappella del beato Paolo Burali d'Arezzo
  17. Cappella della Purità
  18. Cappella di San Gaetano Thiene
  19. Cappella della Natività
  20. Cappella del beato Giovanni Marinoni
Fig. 19 - Interno della Basilica.

Il soffitto originale con gli affreschi raffiguranti le Storie di Pietro e Paolo e la Vittoria dei Napoletani sui Saraceni dello Stanzione è stato danneggiato gravemente durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. La basilica è notevolmente impreziosita dalla policromia marmorea e dalla statuaria: ne è testimonianza l’Angelo Custode del Vaccaro, esposto sul lato sinistro della navata  centrale e databile al 1724; secondo un manoscritto la statua venne scolpita su volontà dei padri teatini per ricordare un angelo che, nel 1648, con in mano un cartiglio sul quale vi era incisa la frase Hic est fratrum amator, qui multum orat pro populo (questi è l'amico dei suoi fratelli, che prega molto per il popolo), riuscì a fermare i tumulti della folla napoletana che, affamata, tentava disperatamente di saccheggiare il convento.

Fig. 23 - Domenico Vaccaro – L’Angelo Custode.

Altro scrigno d’arte è la Cappella Firrao, ubicata sul lato sinistro dell'abside della chiesa lungo la parete presbiterale, considerata una delle espressioni barocche più riuscite dell’intero complesso religioso. La cappella, i cui  lavori iniziarono nel 1640 e terminarono appena due anni dopo, attualmente si presenta nel suo aspetto originario, con all’interno gli affreschi nella cupola opera  di Aniello Falcone che risalgono al 1641.

L'elemento centrale dell'ambiente è la scultura raffigurante la Madonna delle Grazie (1641), opera di Giulio Mencaglia, il quale ricevette tale commissione proprio da Cesare Firrao che volle quella scultura nella cappella di famiglia e che ne fu committente ufficiale, a testimonianza della devozione dei Firrao verso il culto mariano.

Ai lati della figura sacra vi sono le due principali figure della famiglia, inginocchiate dinanzi alla Madonna: sul lato sinistro è proprio Cesare Firrao, mentre sul lato destro è Antonio Firrao, padre di Cesare.

All’interno dello stesso complesso si trova la Sagrestia, interamente affrescata da Francesco Solimena verso la fine del Seicento con AngeliAllegorieVirtù e la Caduta di San Paolo e di Simon Mago sulle grandi pareti frontali: i lavori in sacrestia furono eseguiti secondo i più tipici canoni del barocco napoletano, con gli affreschi caratterizzati da incorniciature decorate con motivi fitomorfi e floreali, attraverso stucco e dorature di Lorenzo Vaccaro.

Ultimi nel complesso di San Paolo Maggiore sono i due Chiostri: il Chiostro Piccolo, eretto alla fine del ‘500 dai padri teatini, presenta una pianta rettangolare con un pozzo al centro a cui - si racconta – accorresse tutta la popolazione napoletana poiché conteneva l’acqua più fresca della città; contemporaneo alla sua edificazione è anche il Chiostro Grande, che dal 1866 è sede dell’Archivio Notarile della città.

Fig. 26 - Chiostro piccolo.

Nel complesso ha sede il primo Museo Permanente del Presepe napoletano. Qui è possibile ammirare il presepe che il maestro Antonio Cantone realizzò per Papa Francesco nel Natale del 2013 in piazza San Pietro e che fu successivamente restituito alla  città.

Esso ha trovato posto nella navata sinistra della chiesa e occupa una superficie di oltre sessanta metri quadrati. L’opera è composta da sedici figure, vestite con abiti del Settecento napoletano realizzati con tessuti in seta di san Leucio.

 

 

Bibliografia

Leonardo Di Mauro, San Paolo Maggiore, in "Napoli Sacra", Vol. 7, 1994

Nino Leone, La vita quotidiana a Napoli ai tempi di Masaniello, Milano, 1994

AA.VV., Napoli e dintorni, Touring Club Italiano Milano 2007

 

Sitografia

https://www.storienapoli.it/

www.enciclopediatreccani.it

https://www.napoligrafia.it/monumenti/chiese/basiliche/paolo/paolo01.htm

http://incampania.com/location/basilica-san-paolo-maggiore-napoli/

https://www.espressonapoletano.it/a-san-paolo-maggiore-il-museo-permanente-del-presepe-napoletano/

https://www.napoli-turistica.com/basilica-san-paolo-maggiore-napoli/

https://www.storienapoli.it/2016/03/07/san-paolo-maggiore-miti/

https://www.ilmattino.it/napoli/citta/a_piazza_san_gaetano_torna_la_statua_protettore_dei_presepai

https://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/146775-statua-di-san-gaetano-dono-al-santo-che-libero-napoli-dalla-pestilenza/

http://www.corpodinapoli.it

http://www.parthenolimpic.artplannerscuole.it/

https://books.google.it/

http://www.unesco.it/it/PatrimonioMondiale


VIAGGIO NELLA CHIESA DELL'ARTE DELLA SETA

A cura di Ornella Amato

Un doveroso ed immenso ringraziamento all‘Associazione “Respiriamo Arte” per la preziosa collaborazione e a Raimondo Fiorenza per la concessione e l’utilizzo delle immagini

Fig.1 - Interno – ph. Raimondo Fiorenza.

L’Arte della Seta

L’arte della seta è una vera e propria arte che, ancora oggi, a distanza di secoli, è apprezzata e riconosciuta in tutto il mondo; sono le seterie di San Leucio vicino Caserta, infatti, che producono le sete delle bandiere che fieramente sventolano sugli edifici e sui palazzi nei quali quotidianamente si scrive la storia, come la Casa Bianca o Buckingham Palace, quelle seterie leuciane volute nel 1778 da Ferdinando IV di Borbone, anche se in realtà la storia serica, nel Regno di Napoli, ha radici ben più lontane.

Risale al 1477, sotto il regno degli Aragonesi, la fondazione della cosiddetta Corporazione della Seta, o “Consolato dell’Arte della Seta”, formata da tre consoli di cui un mercante ed un tessitore nati nel Regno di Napoli ed un mercante straniero, la quale aveva lo scopo di coordinare la lavorazione e la produzione della seta.

La Corporazione si rivelò sin da subito una delle più prestigiose della città distinguendosi dalle altre; vantava agevolazioni fiscali e commerciali, un proprio governo, un proprio Tribunale con annesse carceri nella Piazza della Sellaria, addirittura un proprio stemma, all'interno del quale erano presenti i tre fili di seta più pregiati.

La Chiesa dell’Arte della Seta

Il primo insediamento di quella che poi diventerà la Chiesa dell'Arte della Seta è databile intorno al 1581/82 in Piazza Mercato dove furono costruiti una Cappella dedicata ai Santi Filippo e Giacomo -protettori della Corporazione – ed un Conservatorio in cui erano ospitate le fanciulle dai 5 ai 14 anni che erano rimaste orfane o che erano disagiate, alle quali veniva garantita assistenza, ma nel 1590, accresciuto notevolmente il numero delle fanciulle, si rese necessaria una nuova collocazione. Fu così prima acquistato il palazzo del Principe di Caserta Acquaviva per la realizzazione di una struttura di dimensioni maggiori e poi il palazzo del Duca Spinelli Castrovillari, erigendo così la Chiesa grande (alla quale furono annesse anche le preesistenti chiese di San Silvestro e di Santa Maria delle Vergini) dedicandola ai Santi Filippo e Giacomo. L’inaugurazione avvenne nel 1641.

La struttura è di impianto seicentesco, ma all'interno vi sono magnifici esempi dello splendore del Settecento napoletano: le forme attuali sono le conseguenze del restauro che la interessò nel 1758 e delle scelte operate da Gennaro Papa ma anche di grandi artisti che vi lavorarono, come Giuseppe Sammartino che realizzò le statue dei Santi presenti sulla facciata.

La facciata è leggermente rientrata rispetto alla strada ed è caratterizzata da due ordini sovrapposti: quello inferiore – di ordine dorico - con le due nicchie contenenti le già citate statue dei Santi protettori della Corporazione e quello superiore – di ordine corinzio - con invece le statue raffiguranti la Religione e la Fede, opere di Giuseppe Picano, allievo del Sammartino, anch'esse inserite in apposite nicchie.

Tutte le statue risaltano col loro marmo bianco sulla facciata giallo – ocra sulla quale sono anche presenti conici e stucchi grigi e bianchi.

L’interno è a navata unica senza transetto e con lo spazio absidale coperto da una cupola.

Fig 6 - Interno – Fonte Wikipedia.

L’interno è maestoso, le otto cappelle laterali, disposta a quattro per ciascun lato, che fanno da contorno alla navata come ali protettrici e accompagnano il visitatore lungo il suo percorso, il pavimento è in cotto maiolicato - opera di Giuseppe Massa – e al centro trionfa lo Stemma della Corporazione.

Oltre al Sammartino ed ai suoi allievi ed ai fratelli Massa, nella chiesa lavorarono i migliori artisti del tempo, realizzando ricche decorazioni in stucchi e marmi policromi, gli affreschi sono opera di Jacopo Cestaro, così come suo è l’affresco del soffitto della navata.

Alla fine della navata e subito dopo la cupola si trova l’altare maggiore, sul quale troneggia una tavola con la Vergine ed i Santi.

Fig. 11 - Altare maggiore – ph. Wikipedia.

Percorrendo la navata per intero fino a giungere all'ultima cappella, alla destra dell’altare maggiore si scopre l’antica cripta, una vera e propria area cimiteriale che accoglieva i corpi senza vita dei membri più poveri della Corporazione, garantendo così una degna sepoltura.

Il rito della sepoltura avveniva in due fasi: una prima fase prevedeva che il corpo del defunto venisse calato dall'alto verso il basso e lasciato scolare di tutti i liquidi fino a sua completa essiccazione, successivamente, si procedeva al seppellimento delle ossa in una delle quattro fosse comuni. Alla cripta si arriva mediante una botola in bronzo finemente lavorata, alla quale si accede da una ripida scalinata.

Sotto la chiesa, oltre la cripta, sono visibili anche resti archeologici dell’antico asse viario della Napoli dei sec. XIV e XV: una pavimentazione a spina di pesce e mattoni, il piano di calpestio del palazzo del Duca di Castrovillari, un tratto di muro in opera reticolata e, probabilmente, resti di una Domus romana.

Fig. 14 - Resti archeologici – ph. Raimondo Fiorenza.

Ma la chiesa conserva ancora un’altra sorpresa: è la Sagrestia, meraviglioso esempio dell’artigianato napoletano, che conserva l’altare ligneo settecentesco.

Un vero e proprio scrigno d’arte al centro della Napoli turistica sconosciuto ai più, poiché è stata a lungo chiuso e dimenticato. Il suo recupero è frutto del lavoro dell’Associazione Respiriamo Arte, che non solo ha dato nuova vita all’intero complesso, ma ne ha permesso il recupero sia storico che artistico, riaprendo le pagine dei libri di storia dell’arte napoletana e della storia dell’arte serica a Napoli, di quanto successo ebbe la Corporazione ma anche il lavoro dei mercanti e dei tintori, i cui colori e le sfumature prodotte erano famosi e richiesti nell’intero Regno ed oltre.

Sitografia

Respiriamoarte.it

Chiesa dell’Arte della Seta

Wikpedia.com

Chiesa dei Santi Filippi e Giacomo (Napoli)

Napolitoday.it

napolitoday.it/cultura/chiesa-santi-filippo-e-giacomo-napoli.html

Cosedinapoli.it

Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo

Napoli-turistica.com

Arte e Cultura

Chiesa dell’arte della seta dei Santi Filippo e Giacomo -

Napoligrafia.it

Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo Storia e Architetture

ildenaro.it

La chiesa dei SS. Filippo e Giacomo: l'arte serica e la storia che non ti aspetti


SANTA LUCIELLA AI LIBRAI

A cura di Ornella Amato

Chiusa nel silenzio per decenni a partire dagli anni ‘80 del XX sec., Santa Luciella ai Librai sarebbe stata forse tristemente destinata all'oblio e alla dimenticanza se non fosse stata salvata dalla forte volontà dell’Associazione “Respiriamo arte” che l’ha trasformata in un sito museale: oggi si presenta splendidamente a chiunque voglia conoscere i suoi segreti e quanto di straordinario essa custodisce.

Sebbene Santa Luciella ai Librai sia tra le chiese storiche di Napoli, non distante dalla Chiesa dell’Arte della Seta (nota anche come “dei Santi Filippo e Giacomo”) ed alle spalle della Chiesa di San Gregorio Armeno, resta sconosciuta al grande pubblico, che tendenzialmente si riversa verso le grandi basiliche del centro storico partenopeo. Si trova nell'omonima via, Vico Santa Luciella, una piccola strada a gomito tra le ben più note Via San Gregorio Armeno e Via San Biagio dei Librai.

Fig. 1 - Targa stradale marmorea.

La sua denominazione merita una riflessione: l’appellativo “Luciella” le fu dato per distinguerla dalla Chiesa di Santa Lucia a mare (attualmente Basilica Pontificia Minore, dedicata alla Santa protettrice degli occhi e della vista che fu martirizzata sotto l’imperatore Diocleziano), che sorgeva sulla spiaggia dell’attuale Borgo Marinari, dalla quale gli artigiani della pietra magmatica non furono accolti. La denominazione “ai Librai” si rifà invece all'esistenza proprio in quell'area della Corporazione dei Maestri Librai.

Santa Luciella ai Librai: l'esterno

L’esterno della chiesa si presenta con un portale in piperno sormontato a sua volta da una lunetta realizzata con lo stesso materiale, e un grande finestrone a disegno gotico; sempre sul portale è visibile lo stemma della corporazione dei maestri pipernieri. Al di sopra dell'ingresso secondario vi è un piccolo campanile.

Fig. 2 - Portale della Chiesa in piperno.

Per quel che concerne la storia dell'edificio, purtroppo non vi sono molte informazioni.

La Chiesa di Santa Luciella ai Librai fu fondata da Bartolomeo Di Capua, consigliere presso la corte angioina, e fu in un primo tempo dedicata al culto mariano; invero l’altare maggiore è consacrato proprio alla Vergine. Stando alle poche fonti disponibili, solo nel corso del XVII sec. fu concessa alla Corporazione dei Pipernieri, Frabbicatori e Tagliamonti, che a Santa Lucia affidavano la protezione della vista, messa a rischio dal proprio mestiere; è infatti attestata come Cappella dell’Arte dei Mulinari, e quindi successivamente affidata proprio alla potente Corporazione dei maestri pipernieri che nella città partenopea godeva di alto prestigio e alla quale erano stati affidati anche grandi lavori.

Fig. 3 - Altare Maggiore policoromo.

Nel 1724 la chiesa fu oggetto di un sostanziale rimaneggiamento che le conferì l’attuale impianto barocco, con l’altare maggiore caratterizzato da decorazioni in marmo policromo, e il pavimento maiolicato che può sembrare quasi intatto.

Nel 1748 Santa Luciella ai Librai diventò sede dell'Arciconfraternita dell'Immacolata Concezione, San Gioacchino e San Carlo Borromeo dei Pipernieri, come una targa ricorda. Probabilmente è proprio allora che divenne quel gioiellino dell’arte barocca, nel quale silenziosamente si entra in punta di piedi e che si può apprezzare nello splendore di una “seconda vita”. La chiesa si mostra oggi al mondo non solo nella bellezza della navata, in cui forte è il richiamo iconografico legato al martirio della Santa siracusana, ma anche nella suggestione dell’ipogeo, a cui si accede attraverso una scala accanto alla Sagrestia, e dove non solo sono presenti i tipici scolatoi, ma soprattutto è conservato l’unico esempio al mondo di “teschio con le orecchie”.

La scienza insegna che in un teschio il naso e le orecchie si riducono a semplici fori nelle ossa, poiché sono composti di cartilagine che, dopo il decesso, tende a deteriorarsi e a scomparire. Il teschio rinvenuto nell’ipogeo della Chiesa di Santa Luciella, invece, si presenta con protuberanze ai lati simili in tutto e per tutto a padiglioni auricolari. Si tratta di un caso rarissimo, probabilmente unico al mondo, in cui le cartilagini delle orecchie si sono mummificate.

"O teschio che ‘recchie" come lo chiamano gli abitanti del centro storico e dal quale si recavano in molti, perché ascoltasse le loro preghiere e le riferisse, essendo considerato, per la sua particolarità, un tramite privilegiato tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Un rapporto strano quello dei napoletani con la morte, legato al “refrisco delle anime del Purgatorio” ovvero ad un alleviamento della pena, una sorta di “benedizione” ad un’anima, una preghiera popolare che non solo ne attenui la pena, ma ne faciliti e velocizzi l’ascesa al Paradiso.

Come se in questa chiesa, loro malgrado, si siano affrontate morte e vita in un duello in cui le armi usate sono state l’abbandono da un lato, la cultura dall'altro; ma la cultura non teme affronti, e il recupero di Santa Luciella ai Librai lo ha dimostrato.

Un immenso e doveroso Ringraziamento

all'Associazione ‘Respiriamo Arte’

Per la Preziosa collaborazione.

Sitografia

Respiriamoarte.it

Artwave.it

Osservatoreitalia.eu

Cosedinapoli.com

Napolitoday.com

Enciclopedia Treccani.it

Bibliografia

Maura Piccialuti Dizionario Biografico degli Italiani Vol 6


IL COMPLESSO DI SAN GREGORIO ARMENO

A cura di Ornella Amato

Solitamente il nome "San Gregorio Armeno" evoca immediatamente atmosfere invernali e natalizie, in quanto tale strada viene spesso descritta come "la strada del Natale permanente”, grazie alle sue botteghe e alla sua tradizione secolare di arti e mestieri dediti alla costruzione di pastori.

Invece il nome deriva dalla chiesa, o complesso monumentale di San Gregorio Armeno, che in essa è situato e che si apre sull'immediata sinistra, preceduto da un cancello in ferro.

La Chiesa barocca di San Gregorio Armeno, assieme al Complesso Monastico, rappresenta uno degli edifici religiosi più antichi della città oltre che tra  i più importanti, ed è popolarmente nota come la “chiesa di Santa Patrizia”.

La data precisa di fondazione della chiesa non è nota ma, superando l’atrio, si notano ai lati della porta le iscrizioni che ne riportano l’anno di consacrazione  nel 1579 e la dedicazione al santo armeno. Quel che è noto era la presenza di tre chiesette intorno ad una piccola chiesa dedicata a San Gregorio e che sarebbero state inglobate nella nuova costruzione in ossequio ai dettami del Concilio di Trento: stessa sorte sarebbe toccata al nuovo chiostro, inizialmente adibito parzialmente ad orto e – stando sempre ai dettami tridentini – esterno al convento; per realizzarlo, fu abbattuta una delle tre chiese preesistenti.

La chiesa venne edificata per accogliere le reliquie di San Liguoro – italianizzato in Gregorio – portate dalle suore basiliane in fuga da Costantinopoli, ma è conosciuta anche come chiesa di Santa Patrizia, compatrona della città insieme a San Gennaro e ad altri 50 santi. L’urna che contiene il corpo della Santa,e l'ampolla che ne contiene il sangue che si scioglie più volte l’anno, è meta di numerosi pellegrinaggi.

La facciata si presenta con quattro lesene toscane e finestroni, inseriti per l’illuminazione del coro delle monache, che danno alla struttura esterna una forma armoniosa, mentre il portale principale risale al Cinquecento ed è un’opera marmorea a due colonne laterali ed un timpano nel quale è inserito il busto marmoreo di San Gregorio Armeno.

L’interno della chiesa si presenta al visitatore con lo splendore che solo il luccichio dell’oro riesce a dare.

È a navata unica, secondo i dettami della Controriforma tridentina, con dieci cappelle laterali, divise a cinque per ogni lato.

Interno chiesa. Fonte immagine e copyright Wikipedia.
  1. Porticato d'ingresso (al piano superiore è il coro delle monache)
  2. Navata
  3. Cappella dell'Immacolata
  4. Cappella del Presepe
  5. Cappella del Crocifisso
  6. Cappella di San Giovanni Battista
  7. Cappella di San Benedetto
  8. Cappella con accesso laterale
  9. Organo di sinistra
  10. Sacrestia
  11. Presbiterio e cupola
  12. Organo di destra
  13. Cappella delle reliquie
  14. Cappella del Rosario
  15. Cappella di San Gregorio Armeno
  16. Cappella di Sant'Antonio da Padova
  17. Cappella dell'Annunciazione
  18. Cappella di San Francesco

Il soffitto cassettonato, opera del fiammingo Dirci Hendricksz, è considerato uno dei capolavori presenti nella chiesa ed è stato realizzato tra il 1580 e il 1584 su commissione della Badessa Beatrice Carafa, sebbene sia stato completato solo agli inizi del secolo successivo.

All'altezza del presbiterio si eleva la cupola decorata da Luca Giordano a cui lavorò dal 1671 e fino al 1681, mentre negli anni immediatamente successivi si dedicò al ciclo di affreschi in tre scomparti della controfacciata.

Il complesso monumentale di San Gregorio Armeno

L’altare maggiore, posto sulla parete di fondo del presbiterio, è sovrastato dalla tavola dell'Ascensione del 1574 di Giovan Bernardo Lama, più in alto vi è la grata che rappresenta l’affaccio della zona dell’abside sulla chiesa.

si compone di due cori: uno dietro l’abside decorato dal Giordano tra il 1679 e il 1681 ed un secondo invece si trova dietro la controfacciata; la chiesa comprende anche ben cinque organi.

La cappella che però è la più amata dal popolo napoletano – e che è valso alla chiesa il contro nome di chiesa di Santa Patrizia - è l’ultima cappella a destra, dove sono custodite le spoglie ed altre reliquie della Santa compatrona, estremamente cara ai napoletani.

Dal 1864, dopo l’unità di Italia, furono traslate nella chiesa le spoglie della Santa, provenienti dalla chiesa dei santi Nicandro e Marciano e, da allora, è qui che ogni martedì e ogni 25 Agosto si ripete il prodigio dello scioglimento del sangue. Come infatti il patrono San Gennaro lascia che il suo sangue, conservato in delle ampolle, si sciolga per  tre volte l’anno (il primo sabato di maggio, il 19 settembre e il 16 dicembre), lo stesso avviene per Santa Patrizia, ma se il sangue del patrono fu raccolto dalla sua nutrice pochi istanti dopo il martirio avvenuto per decollazione, per la Santa le cose andarono diversamente.

Si racconta che un cavaliere, afflitto da grandi sofferenze, pregasse la Santa incessantemente e senza mai muoversi dal luogo ove erano conservate le reliquie: in uno slancio di fervore religioso decise di aprire l'urna contenente il corpo della Santa e di staccarle un dente, e con sua grande meraviglia dalla gengiva fuoriuscì del sangue, come se si fosse trattato di un corpo vivo, sebbene la Santa fosse morta secoli prima. Tale sangue fu raccolto in due ampolle, ed è lo stesso che più volte l'anno si scioglie.

Il complesso monumentale di San Gregorio Armeno è uno dei più grandi della città, infatti oltre la chiesa si compone anche del monastero e del chiostro.

Tra l’altro, è estremamente interessante il campanile eretto tra il '500 e il ‘600 poiché è realizzato sopra un cavalcavia che collegava il convento stesso con quello di San Pantaleone.

È scandito in tre ordini con aperture di finestre su entrambi i lati della strada e termina, al vertice superiore, con una cuspide.

Oggi quel campanile sul cavalcavia è il simbolo di via San Gregorio Armeno, e sotto di esso si incrociano botteghe, pastori, presepi, vicoli: le viscere di Napoli, quelle profonde, lontane dai riflettori che da sempre la zona stessa, con i suoi luoghi caratteristici, richiama. Eppure c’è ancora tanto da scoprire, come il Salotto della Badessa che, collocato ad oriente del Chiostro, è l’unico ambiente superstite dell'appartamento della superiora. Si  presenta con l'arredo originale, decorazioni a trompe-d'oeil alle pareti e gusto rococò sulla volta.

 

Uscendo dalla chiesa, svoltando a sinistra, come a voler percorrere via San Gregorio e a salire verso il campanile, si accede al convento e al chiostro. Entrambe le parti portano la firma del Cavagna e del Della Monaca.

Il complesso monumentale di San Gregorio Armeno: convento e chiostro

L’antico chiostro venne completamente ristrutturato e furono creati ben cinque belvedere per rendere la clausura meno dura. Infatti due sono vicino la cupola, offrendo un panorama verso il mare e verso la cupola di San Lorenzo Maggiore, ed ancora ve ne sono uno vicino al campanile, uno vicino al muro di clausura ed infine una terrazza con circa cinque arcate per lato.

Attualmente ne sono rimasti solo tre, poiché due furono eliminati nel corso del tempo. L’ingresso si trova da un portale, al quale si accede da uno scalone monumentale caratterizzato da gradini in piperno e pareti laterali affrescate. Sulla destra si trovano gli ex parlatori, e sulla cima si trova un grande portale in legno incorniciato da un arco marmoreo con intorno affreschi raffiguranti la Gloria di San Benedetto.

Pianta Monastero e Chiostro. Fonte immagine e copyright Wikipedia.
  1. Ingresso al monastero
  2. Portale d'ingresso dopo lo scalone monumentale
  3. Chiostro monumentale
  4. Fontana monumentale
  5. Sala della badessa
  6. Coro delle monache (primo piano dell'atrio)
  7. Coro d'inverno (secondo piano dell'atrio)
  8. Chiesa
  9. Coro dell'abside (o cappellone)
  10. Corridoio delle monache
  11. Vestibolo e cappella del Presepe
  12. Cappella delle reliquie
  13. Chiostrino
  14. Farmacia
  15. Refettorio delle fanciulle
  16. Cisterna
  17. Cappella anonima
  18. Cappella della Madonna dell'Idra
  19. Refettorio delle monache
  20. Cucine
  21. Campanile

Varcato l’ingresso, si mostra al mondo, in tutta la sua fierezza e riservatezza, il magnifico chiostro.

Si presenta imponente, fiero e maestoso, ciononostante mantiene la riservatezza della clausura, poiché è su di esso che si affacciano gli alloggi a terrazzo delle monache, tutte al primo piano e terrazzati con una balaustra in piperno.

Al centro si erige la fontana marmorea seicentesca del Lamberti, al centro di quattro aiuole con alberi di arance e affiancata dalle due statue settecentesche del Cristo e la Samaritana del Bottiglieri.

Misteri del chiostro napoletano

Non è un caso la rappresentazione di questo incontro così particolare, narrato all'interno del Vangelo di Giovanni: la Samaritana è “la donna dai sei mariti” di cui racconta l’Evangelista, e la sua collocazione all'interno di un chiostro di un convento di clausura è molto particolare. Stando a diverse interpretazioni delle pagine del Vangelo di Giovanni, la donna faceva ampio uso della sua libertà, eppure diventava sempre più vuota; allora è lecito pensare che, in quella donna, si sia voluto rappresentare il ricordo del tormento vissuto da molte suore, le loro storie personali e, perché no, i loro drammi esistenziali, celati tra le mura della clausura, per molte suore che erano lì e per quelle che in futuro vi sarebbero giunte, come vi giunse nel 1814 la nobildonna Enrichetta Caracciolo, monaca ribelle, che, in un libro scandalo, che pubblicherà nel 1864, rivelò al mondo la durezza della vita monastica.

Enrichetta sognava una vita normale, un matrimonio, dei figli, ma la famiglia la costrinse a farsi suora nel convento di San Gregorio di cui poteva vantare di essere la nipote della Badessa.

Ma quel luogo la sconvolse: non trovò donne dedite a Dio e alla preghiera, ma piuttosto donne divorate da isterismi e invidie. Enrichetta racconta che nel convento si nascondevano e si tacevano torture fisiche e psicologiche ai danni di ragazze fattesi suore non per loro volontà, e spesso suicidatesi pur di sfuggire a quella vita. Lei stessa, decisa ad abbandonare la vita monastica, dopo diverse peripezie ed un tentativo di suicidio, riuscì ad abbandonare la vita monastica.

La pubblicazione di quanto da lei raccontato “Misteri del Chiostro napoletano” , le costò la scomunica.

Al di là di quanto potesse essere veritiero o meno il suo racconto, il convento era celebre per altro, ossia la famosa pastiera, dolce tipico della Pasqua partenopea, che la leggenda vuole sia nata dalle mani della stessa sirena Partenope e che, nel corso del Settecento, le suore presenti in San Gregorio preparavano per donare alle famiglie aristocratiche per la tavola della Pasqua.

Si racconta che le suore di San Gregorio fossero delle vere e proprie maestre nella sua preparazione e che a loro pare si debba la ricetta che ancora oggi utilizziamo: uova, simbolo di vita e fecondità e, in questo caso, di Resurrezione, ricotta, che pare derivi dall'abbondanza dei pascoli e, infine il grano, simbolo sacro per eccellenza, ma soprattutto l’inconfondibile profumo di fiori d’arancio, probabilmente all'epoca proprio estratto dei fiori d’arancio del giardino del convento.

Sta di fatto che, al di là dei mestieri e dei misteri, ma anche dei segreti che le celle e le mura possono aver custodito e, perché no, tutt'oggi custodire, il complesso monumentale di San Gregorio Armeno resta un punto fermo della “Napoli turistica”.

 

Sitografia

Wikipedia – enciclopedia Libera

Napoli-turistica.com

incampania.com

cosedinapoli.com

suorecrocifisseadoratrici.org

lavocedinapoli.it

ilmattino.it

Taccuinigastrosofici.it

 

Immagini : Fonte e copyright

Wikipedia - enciclopedia libera


LA CAPPELLA SANSEVERO DI NAPOLI

A cura di Ornella Amato

BAROCCO, ESOTERISMO, ALCHIMIA, ESALTAZIONE DINASTICA

La cappella è glaciale.

Pavimento di marmo, marmo alle pareti,

tombe di marmo, statue di marmo”.

E ancora:

 “Non ornamenti di oro, non candelabri, non lampade votive, non fiori,

 tutto vi è gelido, tranquillo, sepolcrale“ - Matilde Serao

Napoli - Decumano Inferiore -  Via Francesco de Sanctis 19/21:una segnalazione stradale turistica indica che si è giunti alla “Cappella Sansevero di Raimondo di Sangro”.

Il committente e l'origine della cappella Sansevero

Raimondo di Sangro, ottavo duca di Torremaggiore, settimo principe dei Sansevero, committente, mecenate generoso ma estremamente esigente, intellettuale, alchimista, esoterico, Gran Maestro massone, uomo carismatico per eccellenza, inventore, progettista,  gentiluomo di camera al servizio di Sua Maestà il Re Carlo di Borbone, Cavaliere dell’Ordine di San Gennaro.

La Cappella oggi è un museo privato tra i più noti e visitati della città di Napoli  (nel 2019 le presenze sono state ben 750.000), ma soprattutto è un tempio carico di simbologia. Eppure l’origine stessa della Cappella ha la dolcezza della chiesetta gentilizia che fu edificata  per voto e  successivamente per accogliere le tombe di famiglia. I lavori edili per la costruzione della chiesa  iniziarono nel 1593: si narra  che un uomo innocente, incatenato e trascinato lungo San Domenico Maggiore, vide crollare una parte del muro di cinta del giardino dei Di Sangro e lì vi vide apparire un’immagine della Madonna, alla quale fece voto di donarle una lampada d’argento e un’iscrizione qualora fosse stato scarcerato e dimostrata la sua innocenza e così fu: l’uomo tenne fede al voto fatto.

Molte altre grazie furono elargite dall'immagine sacra e ne fu testimone anche il Duca di Torremaggiore Giovan Francesco di Sangro che, gravemente ammalato, fu miracolato dalla Madonna, dalla quale ottenne la totale guarigione: per gratitudine fece innalzare  la cappella  proprio dove era apparsa la Vergine e fu denominata “Santa Maria della Pietà” o “Pietatella”, ma successivamente, suo figlio Alessandro di Sansevero, Patriarca di Alessandria e Arcivescovo di Benevento, decise di ampliare la preesistente e piccola costruzione, per renderla degna di accogliere le spoglie di tutti componenti della famiglia di Sangro, come testimoniato dalla lapide marmorea datata 1613 posta sopra l'ingresso principale dell'edificio:

“ALEXANDER DE SANGRO PATRIARCHA ALEXANDIAE TEMPLVM HOC A FUNDAMENTIS EXTRVCTVM BEATAE VIRGINI SIBI AC SVIS SEPOLCRUM ANNO DOMINI MDCXIII “

Ovvero:

“ALESSANDRO DI SANGRO PATRIARCA DI ALESSANDRIA DESTINO’ QUESTO TEMPIO, INNALZATO DALLE FONDAMENTA ALLA BEATA VERGINE, A SEPOLCRO PER SE E PER I SUOI NELL'ANNO DEL SIGNORE 1613”.

Della fase Seicentesca della Cappella non resta quasi nulla, poiché il suo assetto attuale e le opere presenti sono il frutto dei lavori che volle realizzare Raimondo di Sangro.

Raimondo di Sangro nacque il 30 Gennaio 1710 a Torremaggiore in Puglia da Cecilia Gaetani dell’Aquila di Aragona e da Antonio di Sangro, duca di Torremaggiore. A causa della prematura scomparsa della madre e degli impegni del padre, fu ben presto trasferito dalla Puglia a Napoli nel palazzo di famiglia in largo San Domenico Maggiore, dove poi si stabilirà definitivamente nel 1737 a seguito della morte del padre.

La cappella Sansevero: descrizione interna

Il principe diede ben presto prova del suo intelletto e delle sue invenzioni, per le quali suscitò anche l’ammirazione degli ingegneri dello Zar di Russia Pietro il Grande, fu insignito delle cariche più elevate del regno di Napoli guidato da Carlo di Borbone, ma soprattutto, ampliò e arricchì la “Cappella di famiglia” che, a grandi linee, mantenne la struttura seicentesca con un’unica navata a pianta longitudinale e quattro archi a tutto sesto, al di sopra dei quali corre un cornicione, costruito con un mastice di invenzione del Principe, ed una volta a botte interrotta da sei finestre che illuminano l’intera Cappella ed una finta cupoletta all'altezza dell’abside, opera di Francesco Maria Russo di cui è certa la paternità anche della volta.

Francesco M. Russo - dettaglio dell’affresco dell’abside - copyright museosansevero.it.

La volta della Cappella è stata infatti firmata da Francesco Maria Russo e datata dallo stesso al 1749 ed è un affresco noto come la “Gloria del Paradiso” o “Paradiso dei di Sangro” . E’ caratterizzato da squarci di angeli e figura varie che tendono a convergere verso il centro dove esplode la luce della colomba dello Spirito Santo.

Francesco M. Russo, 1749 - Affresco della Volta - Gloria del Paradiso - copyright museosansevero.it.

Lungo il perimetro si trovano le finestre che rischiarano l’affresco e sono intervallate dai medaglioni nei quali sono raffigurati i Santi del Casato.

La pavimentazione settecentesca della cappella è estremamente complessa: anch'essa inventata dal Principe, presentava un motivo labirintico (da qui la denominazione corrente di “pavimento labirintico”) che è andato quasi completamente perduto nella notte tra il 22 ed il 23 settembre 1889, quando un’infiltrazione d’acqua provocò il crollo del ponte che collegava la Cappella al Palazzo stesso dei Sansevero.

I restauratori chiamati al ripristino della pavimentazione originale non riuscirono a risolvere e, nel 1901, si videro costretti a sostituire il preesistente pavimento con uno in cotto napoletano, realizzando al centro lo Stemma dei di Sangro in smalto giallo ed oro, riprendendo i colori della casata.

Del pavimento labirintico originale è possibile vederne i resti  nel passetto antistante la tomba di Raimondo. Il pavimento labirintico, probabilmente, doveva rappresentare le  difficoltà che s’incontrano sul cammino della conoscenza e di certo era parte integrante del “percorso” che all'interno della Cappella si snoda attraverso le statue presenti, che seguono un progetto iconografico voluto proprio da Raimondo di Sangro, di cui elementi fondamentali sono le 10 Virtù, di cui 9 di esse sono dedicate alle mogli degli esponenti della famiglia di Sangro e addossate a 9 pilastri, mentre la decima, il Disinganno, è dedicata al padre.

I monumenti funebri del casato, alla cui accoglienza la Cappella era da sempre destinata,  si trovano invece all'interno delle cappelle laterali e tra le statue delle Virtù, nelle quali è anche possibile notare una serie di significati allegorici riferiti al mondo della massoneria, a cui il principe apparteneva in qualità di Gran Maestro.

Di tutte le sculture presenti, di certo  la “triade d’eccellenza “ è rappresentata dal “Cristo Velato” che troneggia al centro della navata della Cappella,  dalla “Pudicizia” alla sua  sinistra e il “Disinganno” alla sua destra, tutte e tre che precedono l’Altare maggiore con l'altorilievo marmoreo della “Deposizione” di Francesco Celebrano.

L'opera raffigura l'episodio della Deposizione di Cristo dalla croce e, tra le figure, spiccano Maria e la Maddalena che assistono alla scena mentre sotto di loro si trovano due putti che sorreggono il sudario sul quale risalta un'immagine metallica del volto di Cristo.

Al di sotto del piano dell'altare altri due putti scoperchiano una bara, ormai vuota. La composizione dell'altare è completata lateralmente da due angeli in stile barocco realizzati da Paolo Persico, autore anche della cornice di angeli in stucco che circonda il dipinto della Pietà.

La datazione e l'autore del dipinto sono ignoti: probabilmente fu realizzata da un manierista napoletano prima del 1590 poiché a quella data risale infatti la prima testimonianza della sua esistenza, con il miracolo della sua apparizione all'uomo erroneamente arrestato ed alla cui storia è legata poi l’origine della cappella, sicché si tratta di un quadro a cui si è legati soprattutto per il significato intrinseco che esso stesso ha, piuttosto che per la qualità artistica.

Il Cristo velato: il capolavoro centrale della cappella Sansevero

Il Cristo Velato di Giuseppe Sammartino, datato 1753, è tra le opere più studiate, più controverse della storia dell’arte.

Il corpo esanime del Cristo è disteso su di un materasso marmoreo che diventa il giaciglio non  solo  del corpo senza vita del Redentore ma anche delle sofferenze patite nelle ore della Passione, e soprattutto di tutte le sofferenze dell’umanità intera, che  Cristo ha salvato, nel momento in cui ha esalato l’ultimo respiro; il peso del corpo morto è delicatamente ricoperto dal velo.

Il velo, appunto, discusso e controverso. La diceria più famosa afferma che il velo fosse in origine in vero tessuto  che sia stato trasformato il marmo attraverso un misterioso processo alchemico, con speciali prodotti, la cui formula sarebbe tutt'oggi segreta, un velo che conferisce leggerezza, una leggerezza che, in concreto, non ha.

E’ poggiato su un basamento su cui poggia un primo velo marmoreo su sui risalta il merletto lungo tutto il perimetro e sul quale, ai piedi del Cristo, sono poggiati la corona di spine e le tenaglie con le quali erano stati tolti i chiodi. Il capolavoro del Sammartino ha alimentato anche diverse dicerie, non solo legate al modo di realizzazione, ma si racconta che il Principe, dopo la realizzazione dell’opera, accecò il Sammartino per evitare che potesse realizzare opere di valore pari o addirittura superiori.

La sua imponente maestosità è tutta nelle parole di Antonio Canova quando, dopo averla vista, dichiarò che “…avrebbe rinunciato a ben 10 anni di vita, per averla tutta per sé…”.

In un primo momento pare che la statua fosse destinata ad essere collocata nella cavea sotterranea  e sarebbe dovuto essere illuminato da una lampada di luce perpetua, ma l’imponente peso ne rese impossibile lo spostamento, sta di fatto che non sempre è stata al centro della navata, poiché, come dimostra uno scatto ottocentesco del fotografo tedesco Giorgio Sommer, era posta ai piedi della statua della Pudicizia.

G. Sommer – interno della Cappella Sansevero - copyright Wikipedia.

Le statue laterali

Alla sinistra del Cristo Velato, maestosa, s’innalza la statua della Pudicizia, dedicata alla madre del Principe Raimondo di Sangro, una delle dieci Virtù rappresentate.

La Pudicizia – copyright Wikipedia.

E’ considerata il capolavoro di Antonio Corradini e raffigura un nudo di donna ricoperto da un velo trasparente, il cui straordinario virtuosismo tecnico inaugura il genere delle “statue velate”; è datata 1752. La scultura raffigura una donna completamente coperta da un velo semitrasparente, cinta in vita da una ghirlanda di rose che le scende lungo il fianco destro, sfiorato dalla mano e, nella parte alta, il velo avvolge il capo lasciando intravedere le forme e i tratti del viso.

La Pudicizia – dettaglio – copyright museosansevero on Twitter.

La composizione è carica di significati: la lapide spezzata sulla quale la figura appoggia il braccio sinistro, come  - stando a diverse letture fatte da più critici – se fosse avvenuta una scossa di terremoto, magistralmente realizzata dallo scultore, lo sguardo come perso nel vuoto e l'albero della vita che nasce dal marmo ai piedi della statua simboleggiano la morte prematura della principessa Cecilia.

Di fronte ad essa, invece, si eleva la statua del Disinganno, realizzata da Francesco Queirolo.

Il Disinganno – copyright Wikipedia.

E’ un corpo di uomo avvolto in una rete. Ma è semplicemente così? O forse è molto di più?

Il Disinganno – dettaglio - copyright museosansevero on Twitter.

La scultura è opera del Queirolo è dedicata ad Antonio di Sangro, padre del principe Raimondo e raffigura sì un uomo che si libera da una rete, ma nella lettura più accettata vuole simboleggiare il peccato da cui era oppresso: in seguito alla morte della giovane moglie, il duca iniziò a condurre una vita disordinata e dedita ai vizi e ai viaggi, mentre il giovane Raimondo era stato affidato al nonno.

Ormai anziano, Antonio di Sangro tornò però a Napoli e, pentito dei peccati commessi, abbracciò la fede e si dedicò a una vita sacerdotale.

L’opera è di una straordinarietà disarmante. I nodi della corda con cui è fatta la rete, gli stessi nodi che la reggono, le dita delle mani infilate all'interno dei vuoti tra un nodo e l’altro rendono il tutto di un realismo stupefacente. Si dice che nessun aiutante dello scultore avesse il coraggio di dare le ultime rifiniture ai nodi della rete per paura di romperli.

La cappella Sansevero, però, è soprattutto il luogo in cui  si trovano le tombe degli esponenti del casato e, ovviamente, tra di esse, si trova  anche la tomba di Raimondo di Sangro, eretta quando lo stesso committente era ancora in vita e realizzata da Francesco Maria Russo nel 1759.

Tomba di Raimondo di Sangro – copyright museosansevero.it.

L’aspetto è semplice e sobrio, è composta da una  grande lapide in marmo rosa sulla quale è scritto l’elogio funebre del Principe: le lettere bianche che lo compongono non sono incise, ma sarebbero state realizzate con un composto di solventi chimici di invenzione del Principe che, probabilmente, dovevano risaltare sul fondo rosa.

Sovrasta l’elogio un ritratto in età avanzata dello stesso di Sangro, raffigurato con indosso una corazza e all'interno di una cornice di marmo, mentre il tutto è sormontato da un grande arco decorato con armi, libri, strumenti scientifici, emblemi commemorativi e militari che celebrano le glorie del Principe.

Interessante è poi la presenza dell’Altare di Santa Rosalia, che sebbene la tradizione la voglia patrona della città di Palermo per aver  salvato la città dalla peste, è “presente” nella Cappella di famiglia, in quanto apparteneva proprio alla nobile famiglia dei di Sangro, poiché figlia di Sinibaldo, conte dei Marsi e di Sangro.

Sotto la cappella Sansevero si trova la Cavea sotterranea dove sono conservati, all'interno di due teche, la cosiddette “Macchine Anatomiche”, ovvero gli scheletri di un uomo e di una donna in posizione eretta con il sistema arteo-venoso perfettamente integro.

Macchine anatomiche - cavea sotterranea copyright Wikipedia.

Per quel che concerne tali strutture, molto si è detto e ancora si dirà e si scriverà, poiché leggende, studi ed oscurità ruotano intorno a questi due scheletri.

La storia ufficiale racconta che sono state realizzate dal medico palermitano Giuseppe Salerno e sarebbero state acquistate nel 1756 dal Principe a seguito di una esibizione pubblica dello scheletro maschile che l’anatomopatologo palermitano tenne e Napoli e, a seguito di questo acquisto, gli fu commissionato la realizzazione di quello femminile e lo scopo era legato a studi di anatomia e per questo era stato riprodotto un sistema arto venoso con diversi materiali, in particolare la cera d’api colorata.

Sta di fatto che leggende popolari giunte fino a noi raccontano – e lo stesso Benedetto Croce riferisce di tali credenze popolari – che non si tratti di “macchine anatomiche ” ma di veri e propri corpi di essere umani, in particolari di due servi del Principe che il di Sangro “fece uccidere e imbalsamarne stranamente i corpi in modo che mostrassero nel loro interno tutti i visceri, le arterie, le vene”; si racconta addirittura che i due poveri sventurati, ancora in vita abbiano subito un’iniezione contenente particolari antidoti che avrebbero indurito i vasi capillari, il ché avrebbe anche consentito lo studio anatomico su scheletri veri. A conferma di tale teoria, sarebbe il segno profondo di una corda su uno dei due scheletri, quasi a voler bloccare un uomo in fuga da morte certa.

La storia delle “macchine anatomiche” non fa altro che aggiungere altro mistero ad un luogo già di per sé particolare, che attira sempre più turisti e visitatori, tanto da raggiungerne la quota dei 750.000 , divenendo il museo più visitato di Napoli.

L’ultima parte della cappella Sansevero, posta alla fine dell’intero percorso espositivo, è la Sagrestia, oggi bookshop del museo.

Ad essa si accede attraverso un passaggio, posto accanto alla nicchia all'interno della quale è collocata la tomba dello stesso Raimondo.

Completamente  rinnovato nel 2017, con arredi ultramoderni e dal layout funzionale, ma ispirati all'originale pavimento labirintico di cui in essa sono conservate grandi lastre di marmo.

Sagrestia – copyright museosansevero.it.

Ospita non solo due monumenti funebri anch'essi dedicati a membri della famiglia, ma espone nelle vetrine strumenti di laboratorio probabilmente appartenuti allo stesso principe, oltre che conservare grandi lastre di marmo dell’originario pavimento labirintico.

Dal 2005 conserva la “Madonna col Bambino “ che fu commissionata dal di Sangro per farne dono a Re Carlo di Borbone.

Madonna col Bambino – copyright Wikipedia.

Nella Sagrestia è in fase di collocazione il Ritratto di Raimondo di Sangro principe di Sansevero del pittore napoletano Francesco De Mura, che recentemente è entrato a far parte della collezione permanente delle opere esposte nel museo e che è stato presentato al pubblico ed alla stampa il 28 Gennaio 2020, in concomitanza del compleanno del principe che ricorre il 30 Gennaio.

F. De Mura “Ritratto di Raimondo di Sansevero”
Copyright museosansevero on Instagram.

L'opera, acquisita nel settembre 2019 dall'istituzione museale, proviene dal mercato antiquario madrileno, è databile intorno all'anno 1750, è stato acquistato dal museo Sansevero dalla Galleria Porcini di Napoli.

La nostra “visita” alla Cappella Sansevero, che era nata ed era stata concepita anzitutto come “cappella di famiglia”, e che oggi è un polo museale noto all'intero mondo dell’arte per essere divenuta  lo scrigno di inestimabili capolavori, finisce qui.

Uscendo fuori dalla Cappella, volgendo lo sguardo al cielo – direbbe Dante – “per riveder le stelle” ci si sente arricchiti dentro, ma delle domande restano :

“Chi era realmente Raimondo di Sangro?”

“La mano dell’uomo, dell’artista che magistralmente muove e guida lo scalpellino, come ha potuto realizzare tutto ciò?”

“La mano dell’artista e quella dello scultore sono realmente guidate da Dio?”

Ai posteri l’ardua sentenza.

 

Sitografia:

museosansevero.it

ilmattino.it

repubblica.it

repubblica.napoli.it

napolimagazine.com

napolike.it

wikipedia.it

10cose.it

Vesuviolive.it

 

Social Network di riferimento:

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museosansevero on Instagram

 

Bibliografia:

F. Negri Arnoldi “Storia dell’Arte Vol. III” Fabbri Editori – Milano 1997


IL SACRO MONTE DI PIETÀ A NAPOLI

…nel luogo dove nacque la lotta all’usura

 e la pietà prevalse…

“GRATUITAE PIETATIS AERARIUM IN ASILUM EGESTATIS PRAEFECTIS CURANTIBUS »

« Ai prefetti

che si adoperano

con disinteressata pietà

 dell’erario e dell’ospizio ai poveri »

Percorrendo in lungo ed in largo i decumani, ed in particolare il Decumano inferiore, in una passeggiata alla scoperta di tesori d’arte tra vicoli nascosti e palazzi appartenenti ai secoli più diversi, attraverso Via San Biagio dei Librai, al civico 114, ci si imbatte nel cortile del palazzo di Girolamo Carafa dei Duchi d’Andria, antica sede del Sacro Monte di Pietà, meglio conosciuto come “Banco dei Pegni”, sebbene oggi il palazzo sia prevalentemente utilizzato per uffici ed agenzia del Banco di Napoli.

L’accesso al palazzo è segnato da un imponente portale, da qui, attraverso un atrio porticato scandito da piloni, coperto da volte a vela, ci si immette in un cortile  con due scaloni monumentali che conducono ai piani superiori. Sul lato opposto al portone, al piano terra, c’è la Cappella del Sacro Monte di Pietà.

Il Sacro Monte di Pietà fu fondato nel 1539 su iniziativa dei frati dell’ordine francescano e dei nobili napoletani Leonardo de Palma e Aurelio Paparo dopo un decreto di Carlo V , per combattere l’usura dei banchi ebraici che si erano sviluppati tra il Duecento e il Trecento e col fine di contrastare lo strozzinaggio che danneggiava gravemente il popolo che, in più occasioni, si trovava costretto a ricorrere a prestiti per arginare il più possibile i propri problemi economici. L’erogazione finanziaria avveniva in cambio di un pegno: i clienti, a garanzia del prestito, dovevano presentare un pegno che valesse almeno un terzo in più della somma che si voleva fosse concessa in prestito. La durata del prestito, di solito, era di circa un anno; trascorso questo periodo, se la somma non era restituita, il pegno veniva venduto all’asta.

In realtà, i documenti dell'archivio storico del Banco di Napoli segnalano che le attività del Monte di Pietà andrebbe retrodatata al 1538 e che il rapporto con la cacciata della comunità ebraica da Napoli, avvenuta nel 1539, sarebbe solo apparente.

Il palazzo del Banco del Monte di Pietà si eleva su un basamento in piperno con fascia decorata ed è diviso in tre settori: quello centrale, più largo, dove, imponente,  si apre l'ingresso principale, e i due laterali, che, rispetto all’altro, si presentano più stretti.

Il portale, con elementi a bugne, è di ordine dorico.

L'atrio, a sei campate sostenute da pilastri rivestiti di piperno, consente l'ingresso al cortile.

Il cortile è caratterizzato dalla  controfacciata del palazzo che si presenta come un arco di trionfo a tre fornici e dalla facciata della Cappella.

La prima pietra della cappella venne posata il 20 settembre 1598.

La facciata s'ispira alla facciata della chiesa di Sant'Andrea sulla Flaminia a Roma di Jacopo Barozzi da Vignola; ai lati del portale d'ingresso, tra due coppie di lesene ioniche si aprono due nicchie con le statue di Pietro Bernini che rappresentano la Carità e la Sicurezza datate tra il 1600 e il 1601 . Nel timpano la Pietà di Michelangelo Naccherino con due angeli di Tommaso Montani

La cappella, completamente affrescata e decorata con stucchi dorati, è uno splendido esempio di eleganza manieristica: presenta interni decorato a stucco dorato. La volta fu affrescata dal pittore  Belisario Corenzio e qui sono collocate: a destra una tela di Ippolito Borghese, a sinistra una tela iniziata da Girolamo Imparato e compiuta da Fabrizio Santafede, nonché al centro, dietro all'altare maggiore, la Deposizione del Santafede.

L’interno della cappella, si presenta a navata unica e negli ambienti laterali, presenta una Sagrestia e la Sala Cantoniere.

La Cappella presenta anche un’interessante antisagrestia, dove si trova il sepolcro del Cardinale Acquaviva, opera di Cosimo Fanzago, datato 1617, ma il suo gioiello resta certamente la Sagrestia, decorata nella prima metà del XVIII secolo con allegorie su decorazioni in oro e l’ affresco di Giuseppe Bonito sulla volta.

Sulla destra si accede alla Sala Cantoniere, un altro esempio di arte settecentesca, con pavimento maiolicato e affreschi; qui sono da notare i ritratti di Carlo III di Borbone e di Maria Amalia. Inoltre nella sala è conservata anche una Pietà lignea di ignoto maestro napoletano del tardo Seicento.

Il palazzo e la stessa cappella appartengono al Gruppo Bancario Intesa – Banco di Napoli, partecipa pertanto alla Collezione d’Arte dello Storico Istituto Bancario partenopeo.

 

Sitografia:

inaples.it

Repubblica.it

Wikipedia.it

Napolike.it

Napoli-turistica.com

Bibliografia

VV. Dizionario biografico degli italiani

Anna Coliva, a cura di - La collezione d’arte del San Paolo – Banco di Napoli -  San Paolo Editore 2004

Copyright photo:

Wikipedia.it


CREDI RELIGIOSI E PAGANI NEL CUORE DI NAPOLI

Credi religiosi e pagani di Napoli: da Piazzetta Nilo al "Corpo di Napoli"

Passeggiando lungo il Corso Umberto I, meglio noto come “Rettifilo”, salendo via Mezzocannone, sede storica di diverse facoltà dell’Università di Napoli, ci si imbatte in una cappella storica, le cui forme architettoniche fanno da angolo di strada tra via Mezzocannone e Piazzetta Nilo. Più che di chiesa, sarebbe però corretto parlare di Cappella; la Chiesa di Sant’Angelo a Nilo, infatti è la Cappella Brancacci, tempio di origine medievale, ampiamente rimaneggiato agli inizi del Settecento, fino ad assumere le forme tardobarocche come lo vediamo oggi. Un tempio che fa cominciare questo viaggio fra i credi religiosi e pagani di Napoli.

Fig. 1 - copyright : wikipedia

La facciata della Chiesa si presenta su Via Mezzocannone, mentre sulla citata piazzetta, si apre un varco laterale.

L’ingresso principale è dotato di un architrave con figure in mezzorilievo di angeli e santi con l’affresco nella lunetta soprastante che raffigura la Vergine e i Santi Michele e Baculo che presentano il cardinale Brancaccio, databile al secolo XV che per via delle scarse condizioni di conservazione in cui ha versato, fu per un periodo staccato e conservato in sacrestia, per poi esser ripristinato nella sua ubicazione originale. Alla stessa datazione risale inoltre il portone ligneo con sei figure intagliate in altrettanti riquadri (tre per lato) di San PietroSan LorenzoSant'Antonio da PadovaSan PaoloSan Giovanni Evangelista e San Domenico; mentre il portale laterale presentava invece nella lunetta una raffigurazione scultorea di San Michele, poi trasferita all'interno della chiesa.

La chiesa è a navata unica, di forma rettangolare, senza transetto e con due sole cappelle e una sacrestia, tutte sul lato destro.

L'interno presenta un arredo marmoreo databile tra il  Seicento ed il Settecento, non presenta panche al centro della navata, ma semplici sedie di legno.

Immediatamente sul lato destro della navata, invece, si apre la cappella di Santa Candida iuniore delimitata da una bella cancellata settecentesca di ottone e ferro battuto, dove sono conservate le reliquie della matrona Candida "la Giovane", risalenti al VI secolo, che è stata erroneamente venerata come santa sino agli ultimi decenni del Novecento.

Fig. 2 - copyright : wikipedia

Alla destra dell'altare vi è la cappella che custodisce nella parete frontale il sepolcro del cardinale Rinaldo Brancacci,  una delle più importanti opere scultoree presenti nella città di Napoli.

Fig. 3 - copyright : wikipedia

Il Monumento Brancacci è opera di Michelozzo  e di Donatello. E’ in marmo di Carrara, alto 11 m, fu scolpita a Pisa tra l 1426 ed il 1428 e giunse in città via mare. Donatello di certo  scolpì una Assunzione della Vergine sul rilievo del sarcofano, mentre il resto dell’opera scultorea è di Michelozzo; sue sono anche le Virtù che reggono il sarcofago stesso, rappresentate da tre figure femminili, che fanno da cariatidi, è inoltre decorata con gli stemmi del cardinale.

L’impianto è di ordine rinascimentale con un grande arco su colonne che urtano  con le pendenti cortine, tipiche dei sepolcri gotici e che pende dall’alto,  che interrompono il giro dell’arcata; La struttura è completata da un alto frontone mistilineo a cuspide, al centro del quale osserviamo la raffigurazione del Padreterno affiancato da due conchiglie, e ai cui lati troviamo due angeli che suonano la tromba.

Nella restante ornamentazione plastica, ben si manifesta lo stile di Michelozzo, caratterizzato dalla fermezza e dalla solidità dell’impianto strutturale delle figure e dal largo modellato plastico, in cui si esplica la semplificazione e quasi la geometrizzazione degli elementi.

l’Assunzione non sarebbe, però, l’unica opera di Donatello presente a Napoli, infatti esiste una testa di cavallo destinata, con ogni probabilità, a un (incompiuto) monumento ad Alfonso V d’Aragona e che attualmente si trova al Museo Archeologico Nazionale della città.

Quello che è certo, è che il monumento è il primo dell’età rinascimentale realizzato in città.

Fig. 4 - copyright : wikipedia

Altra opera degna di nota, è sicuramente la tela raffigurante “San Michele Arcangelo “ di Marco Pino.

Uscendo dalla chiesa, volgendo lo sguardo verso l’alto, come se si volesse dare un’ultima fugace veduta ad un piccolo scrigno, sulla controfacciata, lo sguardo, inevitabilmente cade sull’organo…racchiuso entro una cassa lignea riccamente intagliata e decorata, è a canne barocco, costruito nel XVIII secolo da un organaro ignoto.

Lasciata la chiesa, un piccolo scrigno di arte e di silenzio, il visitatore si ritrova immerso, suo malgrado, non solo nel  pullulare di vita colorata e bancarelle della Napoli dei giorni nostri, facendo un (quasi violento!) salto nel tempo e nello spazio, ma a pochissimi metri dall’Egitto…Si passa, così, dai credi religiosi ai credi pagani di Napoli.

Esatto! Proprio in Egitto…eppure è a Napoli…nel “largo Corpo di Napoli”, all'ingresso di Spaccanapoli, nel cuore della città, dove, fiera, troneggia la Statua marmorea del Dio Nilo….

Fig. 5 - copyright : wikipedia

Ai tempi della Napoli greco – romana, infatti, qui si stabilirono numerosi egiziani provenienti da Alessandria d’Egitto,i quali decisero di erigere una statua che ricordasse  il fiume Nilo, elevato ai ranghi di divinità portatrice di prosperità e ricchezza.

La statua è in marmo e risale al II / III sec. d.C., ma nei secoli successivi, visse momenti e secoli  di abbandono, tanto da cadere in un vero e proprio oblio, fu quindi ritrovata acefala verso la metà del XII secolo.

La scultura raffigura il Dio Nilo come un vecchio barbuto e seminudo disteso sulle onde del fiume, con i piedi posti vicino alla testa (non più visibile) di un coccodrillo, simbolo dell'Egitto, e che si appoggia col braccio sinistro su una sfinge, mantenendo con la mano destra una cornucopia.

Al petto cerca di arrampicarsi invece l'unico putto superstite dell'originaria composizione, probabilmente raffigurante un affluente del fiume.

Il putto che si arrampica ha portato a diverse interpretazioni, come ad una mamma che allatta il suo bambino e da qui la denominazione di “corpo di Napoli” o meglio “cuorp ‘e Napul”, denominazione che tutt’oggi mantiene  e che è stata data anche allo slargo che ospita il gruppo scultoreo.

La statua poggia su un basamento in piperno realizzato nel 1657. Su lato principale del basamento è posta una targa in marmo fatta per i lavori di restauro del 1734. Sulla targa è incisa in latino la storia e le peripezie della plurimillenaria scultura, che fedelmente, riporto per intero:

Vetustissimam Nili Statuam Ab Alexandrinis Olim Ut Fama Est In Proximo Habitantibus Velut Patrio Numini Positam Deinde Temporum Injuria Corruptam Capiteque Truncatam Aediles Quidem Anni MDCLXVII Ne Quae Huic Regioni Celebre Nomen Fecit Sine Honore Jaceret Restituendam Conlocandamque Aediles Vero Anni MDCCXXXIV Fulciendam Novoque Pigrammate Ornandum Curavere Placido Princ. Dentice Praef. Ferdinandus Sanfelicius Marcellus Caracciolus Petrus Princeps De Cardanas Princ. Cassan. Dux Carinar. Augustinus Viventius Antonius Gratiosus. Agnell. Vassallus Sec.»

Ovvero:

Gli edili dell'anno 1667 provvidero a restaurare e ad installare l'antichissima statua del Nilo, già eretta (secondo la tradizione) dagli Alessandrini residenti nel circondario come ad onorare una divinità patria, poi successivamente rovinata dalle ingiurie del tempo e decapitata, affinché non restasse nell'abbandono una statua che ha dato la fama a questo quartiere. Gli edili dell'anno 1734 provvidero invece a consolidarla e a corredarla di una nuova epigrafe, sotto il patronato del principe Placido Dentice».

La statua del Dio Nilo è una scultura che ha attraversato per intero la storia della città, anche nel momento in cui è caduta nell'oblio e poi è stata successivamente recuperata; sembra quasi portare su di se tutte le vicende della città di Partenope…dalle origini gloriose, alle cadute, ma soprattutto al suo rialzarsi…

Dai credi religiosi ai credi pagani di Napoli...che salto!

Il “Corpo di Napoli” è proprio il corpo della città che, vive, batte e pulsa…perché..

Napul’è…mill culur…(P.Daniele).

 

Sitografia

Wikipedia.it

Italianways.com

Napolibandb.it

Bibliografia

F.NegriArnoldi “Storia dell’arte” Vol II – Fabbri ed.

Gennaro Ruggiero, Le piazze di Napoli, Roma, Tascabili Economici Newton, 1998