LE BOTTEGHE NAPOLETANE SULLA SCENA DI BETLEMME

A cura di Ornella Amato e Camilla Giuliano

 

Introduzione

Breve storia del presepe da Betlemme a Napoli

L'origine storica del presepe va ricercata nei Vangeli di Matteo e Luca dove, in circa 180 versi, sono riportati l’arrivo di Maria e Giuseppe a Betlemme e la nascita del Cristo.

Nel 1223 San Francesco d'Assisi, a Greccio, decise di mettere in scena quanto scritto nel testo sacro, affinché tutti potessero conoscere il vero significato del Natale.

Dopo di lui furono molte le iniziative cristiane che diedero vita alla celebrazione dell’evento; dalle scene teatrali si passò alla rappresentazione con statuette prodotte artigianalmente. Il primo presepe della storia venne realizzato da Arnolfo di Cambio nel 1283 ed è oggi conservato nella basilica Santa Maria Maggiore a Roma.

 

Le origini dell’arte presepiale napoletana

Il presepe è stato ben presto apprezzato nelle corti napoletane dove, in particolare con l'arrivo dei Borboni nella seconda metà del XVIII sec., raggiunse un livello altissimo.

La storia racconta che il re Carlo di Borbone, insieme alla regina Maria Amalia e all’intera corte, era solito trascorrere parte delle giornate estive a preparare mattoncini, casette e abiti per i personaggi che avrebbero animato il presepe della Cappella del palazzo reale della capitale, prendendo spunto e idee da coloro che animavano quotidianamente i vicoli e le strade.

Nasceva così il presepe napoletano quale trasposizione plastica del centro della città, con personaggi popolari abbigliati seguendo i costumi del tempo, coi suoi colori, le sue botteghe, le grida delle madri che dai balconi chiamavano i figli che si attardavano a rincasare.

La Napoli del XVIII sec. diventava, così, una nuova Betlemme.

 

Questa nuova arte divenne un simbolo della napoletanità nel mondo tanto da essere celebrata tutt’oggi nei principali musei cittadini, come dimostrano i presepi presenti nella Cappella del Palazzo Reale nel cuore della città e alla Reggia di Caserta o anche il più famoso presepe Cuciniello all’interno del Museo Nazionale di San Martino.

 

Il 28 dicembre 1879, Michele Cuciniello, presentava al pubblico un presepe di sughero, stucco e cartapesta in cui si ricreava la città coi suoi borghi e le sue case, nel quale si muovevano personaggi del popolo napoletano che s’intrecciavano con i protagonisti della Natività.

 

Si può affermare con certezza che il diletto estivo dei Borbone ed il presepe Cuciniello rappresentino il punto di partenza dei maestri presepiali di San Gregorio Armeno[1] che hanno portato fuori dalla città un’opera artigianale tutta napoletana.

 

L’arte presepiale napoletana dei giorni nostri

I maestri presepiali di Via San Gregorio Armeno tutt’oggi mantengono viva la tradizione inaugurata dai Borbone e realizzano presepi in sughero, legno e cartapesta guardando come modello al presepe Cuciniello, abbigliando i pastori con costumi tipicamente settecenteschi, evitando di discostarsi dalla tradizione, sforzandosi di mantenerla viva.

 

Nella realizzazione del presepe, l’iconografia perseguita è sempre uguale: il centro della scena è quello della Natività, le cui statuine vengono inserite nella grotta secondo un criterio ben preciso: al centro è il Bambino alla cui sinistra è inginocchiata la Vergine, rappresentata secondo la tradizione mariana, con una tunica bianca e con indosso un manto azzurro il cui bordo è talvolta dorato; a destra, in piedi, c’è San Giuseppe con indosso una tunica ed un mantello, in genere  viola e marrone e che tiene nella mano destra una piccola lanterna, mentre, con la sinistra regge e si poggia ad un bastone.

 

Dietro la Sacra Famiglia, trovano posto il bue a destra e, a sinistra, l’asino, mentre schiere angeliche scendono sulla grotta.

Davanti o anche dentro la grotta, s’incontrano i primi due personaggi tipicamente campani: gli zampognari che, con zampogna e ciaramella, suonano la ninna nanna al Bambino Gesù.

 

Secondo una leggenda, gli zampognari suonerebbero Tu scendi dalle Stelle, canto natalizio composto da Sant’Alfonso Maria dei Liguori nel dicembre del 1754.

La tradizione vuole anche che la loro origine sia dell’area beneventana.

In Campania, gli zampognari sono considerati il vero simbolo del Natale umile e semplice, il suono della zampogna e della ciaramella si sente lungo le strade in due momenti ben precisi del mese di dicembre: nove giorni prima della Solennità dell’Immacolata Concezione, con la novena all’Immacolata, e nove giorni prima di Natale con la novena di Natale.

La loro iconografia è abbastanza semplice: oltre agli strumenti, sono sempre abbigliati con vesti che ricordano i pastori, presenti sulla scena generalmente nella parte alta, insieme al loro gregge, a ricordare l’Annuncio di Gloria dato proprio ad essi, dagli angeli.

Il centro abitato, con le sue case, le sue botteghe, i suoi abitanti, invece si sviluppa generalmente ai lati.

Le case rimarcano quelle del centro storico partenopeo e dei suoi vicoli: bucati stesi ai balconi di ferro, finestre con inferriate curve, gabbiette per gli uccellini esposte fuori ai piccoli balconi, personaggi della Napoli del ‘700 che si mostrano nel loro quotidiano, lungo le strade della città.

 

La parte di maggior interesse è di certo data dalle rappresentazioni dei mestieri: si tratta di botteghe e attività le cui mercanzie sono esposte all’esterno dei locali e che facilmente si ritrovavano non solo nel centro città, ma anche nei quartieri più popolari ai quali ci si ispirava.

Non manca mai il pescivendolo, sul cui banco non devono mancare le vasche coi capitoni e il baccalà, poiché sono parte integrante del cenone della tradizione napoletana, e il fruttivendolo con le sue primizie, che chiudono il cenone ed il pranzo di Natale, la tradizionale osteria, nella quale non è protagonista solo l’oste, ma in genere i suoi clienti che sono riuniti intorno al tavolo.

 

Tra le botteghe, un ruolo particolare è quello della pizzeria.

Quella della pizza è una tradizione antichissima, che trae origine dalla focaccia lievitata dell’epoca dei romani che a loro volta s’ispirarono, all’uso di acqua, farina e lievito di alcune popolazioni risalenti al 3000 a.C.

In realtà il termine pizza venne introdotto solo tra il 1500 e il 1600, quando veniva venduta per strada dai fornai su delle bancarelle. Inizialmente era una pietanza per il popolo povero, ma a partire dall’ 800 ebbe grande diffusione in tutta Italia divenendo simbolo della cultura napoletana.

L’arte della pizza divenne così un mestiere, il pizzaiolo più famoso della storia fu Raffaele Esposito, che nell’11 giugno del 1889 chiamò la pizza con pomodoro, mozzarella e basilico, Margherita, in onore della regina di casa Savoia e del re Umberto I.

Il mestiere del pizzaiolo divenne un’icona della tradizione partenopea, e come tale si ritrova fra le statuette dei presepi a Napoli.

 

È tradizione mettere dietro al presepe, una scenografia che ricordi paesaggi orientali o più semplicemente un cielo stellato su cui poggiare la cometa. Nel presepe napoletano, questa tradizione è mantenuta, ma è spesso affiancata da vedute della città, come il golfo col Vesuvio o scorci di strade con cupole in lontananza.

 

La presenza delle cupole delle chiese, paradossalmente, non deve sorprendere: si tratta di chiese presenti in città al momento della realizzazione dei presepi, poiché sono solo i momenti della Natività e dell’annuncio ai pastori che vengono traslati da Betlemme a Napoli.

 

Conclusioni

Il presepe napoletano, nato nella seconda metà del Settecento da un diletto estivo della corte borbonica, oggi è una forma d’arte riconosciuta in tutto il mondo, conservata nei musei cittadini, che vuole rappresentare una nuova Betlemme: una Betlemme ricostruita, guardando ai vicoli, alle strade, alle case della Napoli del XVIII sec. e di coloro che la vivevano.

I loro abiti e le loro abitudini, trasposti sul presepio, non stonano con la rappresentazione della Natività, che segue sempre l’iconografia tradizionale e che deriva dal presepe di Greggio del 1223, realizzato da San Francesco d’Assisi, ma la inglobano armonicamente, come se fosse parte naturale di esso, senza temere sbavature.

 

 

 

 

 

Note

[1] Via San Gregorio Armeno è una delle strade del centro storico di Napoli lungo la quale si trovano esclusivamente botteghe di maestri presepiali e nelle quali si realizzano pastori che ricordano quelli del ‘700 napoletano; è nota anche come la via dei presepi e del Mercatini di Natale permanenti.

 

 

 

 

Sitografia

www.artigianatopresepiale.com

www.brundarte.it

www.presepi.com

www.porcellaneartistichenapoli.com

https://www.visitnaples.eu/napoletanita/sapori-di-napoli/la-storia-del-presepe-e-dell-arte-presepiale-da-betlemme-al-presepe-cuciniello , consultato il 01/11/2022;

https://www.campania.info/napoli/cosa-vedere-napoli/san-gregorio-armeno/ , consultato il 01/11/2022;

https://storienapoli.it/2020/12/17/via-san-gregorio-armeno-storia/#:~:text=Anzi%2C%20la%20santa%2C%20in%20modo,durante%20la%20fuga%20dall'Oriente. consultato il 01/11/2022;

http://www.gessetticolorati.it/wordpress/wp-content/uploads/2016/10/scheda_presepe.pdf , consultato il 01/11/2022;

https://artepresepe.it/storia-presepe/ , consultato il 04/11/2022;

http://www.enzococcia.com/mestiere-pizzaiuolo/ , consultato il 05/11/2022;

https://italpizza.it/blog/quali-sono-le-origini-della-pizza , consultato il 05/11/2022;


ALLA SCOPERTA DI SAN BIAGIO MAGGIORE E SAN GENNARO ALL’OLMO

A cura di Ornella Amato

 

 

 

Questo diceva Maximilien Misson di Napoli: «Ce qui nous a paru le plus extraordinaire à Naples, c'est le nombre et la magnificence de ses églises ; je puis vous dire sans exagérer que cela surpasse l'immagination»[1].

Le chiese napoletano sono infatti oltre 500 e la magnificenza di ciascuna di queste è realmente straordinaria, così come sono le storie che possono raccontarci.

Specie se poi si percorre la strada del decumano inferiore, popolarmente detta “Spaccanapoli”. Qui, nel punto in cui “Spaccanapoli” diventa Via San Biagio dei Librai, incontriamo sul nostro cammino, la Chiesa di San Biagio Maggiore, popolarmente nota come San Biagio dei Librai che da il nome alla strada in cui essa si trova. Piccola e scarna, la chiesa un tempo doveva probabilmente essere stata un gioiellino dell’arte barocca.

Chiusa a seguito del terremoto del 1980, che epicentro ebbe in Irpinia ma grande strage fece in tutta la Campania, la chiesetta ha visto la riapertura solo nel 2007, come sede napoletana della Fondazione Gian Battista Vico, il filosofo napoletano nato al civico 31 di questa strada il 23 maggio 1658 e che qui fu battezzato. Su quest’ultim informazione non tutte le fonti concordano, poiché talune segnalano in suo battesimo nell’attigua chiesa di San Gennaro all’Olmo, con cui la chiesa forma un unico complesso.

La Chiesa di San Biagio Maggiore (fig. 1) si trova proprio accanto a quella di San Gennaro all’Olmo, quest’ultima così chiamata perché non lontano da essa vi era un olmo a cui venivano appesi i premi per i partecipanti ai palii cittadini o gli ex – voto eseguiti in ringraziamento a San Gennaro.

 

La sua realizzazione è stato possibile soprattutto grazie all’intervento dell’arcivescovo Francesco III Boncompagni nel 1631, dopo che, nel 1626,  Papa Urbano VIII lo trasferì  alla sede arcivescovile di Napoli dove rimase fino al 1641.

La Chiesa - anche se, per completezza, non manca chi preferisce parlare di “cappella di San Biagio” - sorge su un’area che ospitava le riunioni dei Nobili del Seggio di Nilo, sotto l’antico portico di San Gennariello. Fu costruita per ospitare le reliquie di San Biagio portate dalle suore armene arrivate a Napoli nel VII sec.   accanto a quella di San Gennaro, unendo l’antica cappella di San Biagio e la sagrestia di San Gennaro. Ad occuparsene fu per lungo tempo la Confraternita dei Librai alla quale apparteneva anche Antonio Vico,  padre del filosofo Gian Battista.

Sebbene dedicata al culto di un santo venerato in tutto il mondo, la chiesa è piccolissima. La facciata esterna è molto semplice: intonaco bianco con una finestra ed una targa che ne ricorda brevemete la storia, un portale seicentesco con porta in piperno, chiusa da un cancello che sembra quasi volerla proteggere. L’interno si presenta stretto e lungo, estremamente semplice, e un tempo custodiva l’antica statua del santo, successivamente trasferita nella vicina chiesa dei SS Filippo e Giacomo, nota come la Chiesa dell’Arte della Seta.

Sull'altare maggiore, policromo e di autore ignoto (fig. 2), si trova un quadro tardo cinquecentesco che raffigura La Vergine in gloria ed i Santi Biagio e Nicola, ad opera di un artista tardomanierista.

 

Nella stessa in via, all’incrocio con via San Gregorio Armeno, laddove lo sguardo è rapito dalla napoletanità più verace tra bancarelle di ogni specie, antichi palazzi e tesori nascosti da scoprire, ecco che ci s’imbatte in Largo degli Olmi dove si trova la già citata chiesa di San Gennaro, che appartiene allo stesso complesso monumentale con l’attigua San Biagio.

La Chiesa di San Gennaro all’Olmo (figg. 3-5), è annoverata tra le più antiche della città.

 

La prima fondazione della chiesa risale al VII secolo, ma secondo la tradizione fu una delle sei chiese di rito greco edificate al tempo dell’imperatore Costantino. Diverse fonti fanno risalire la sua edificazione al volere di Sant’Agnello, tredicesimo vescovo della città, proprio intorno alla fine del VII secolo. Venne realizzata come ex – voto in onore di San Gennaro per ringraziarlo di aver salvato la città da una violenta eruzione del Vesuvio, l’imponente vulcano campano che domina la città ed il suo golfo.

L’ingresso principale si trova all’incrocio tra via San Gregorio Armeno e via San Biagio dei Librai, dove si apre un piccolo slargo (Largo degli Olmi). Originariamente, la chiesa era denominata “San Gennaro ad Diaconiam” poiché era qui che i vescovi sceglievano i diaconi e, come Diaconia – ovvero i luoghi i cui gli stessi diaconi dispensavano le elemosine per i poveri del quartiere -  divenne la più importante della città.

Il nome rimase fino al tempo di Federico II di Svevia e vi si mantenne il rito greco fino al XIV secolo. La chiesa venne elevata a parrocchia agli inizi del XVII secolo e nuovamente restaurata dopo il terremoto del 1688 con la creazione di un pregevole apparato in stucco. Altri restauri barocchi vennero eseguiti nel XVIII secolo, quando vennero eseguiti gli altari laterali e il maggiore con la balaustra in marmi intarsiati e policromi.

Nei primi anni dell’Ottocento venne effettuato un intervento di restauro voluto dal parroco Adinolfi, con la ripavimentazione in maiolica, mentre le strutture murarie furono dipinte in azzurro e bianco (l'originale era in finto marmo). Un altro restauro fu eseguito, secondo la testimonianza di Roberto Pane, nei primi del Novecento quando l'avanzamento della facciata inglobò la vecchia scalinata.

Successivamente al terremoto del 1980 la chiesa è rimasta chiusa ed è stata recentemente recuperata, così come è accaduto per l’attigua San Biagio Maggiore, dalla Fondazione Giambattista Vico, che ne ha curato la prima sessione di restauro e la ricostruzione delle decorazioni della navata. Una seconda sessione ha avuto come obiettivo la ricostruzione presbiteriale con il cupolino (fig. 6) e il recupero delle cappelle.

 

Al di sotto dell'edificio c’è un'altra chiesa e una piccola cripta dove hanno trovato sepoltura diverse persone del popolo. La chiesa conserva anche reperti del periodo antico, come ad esempio alcune colonne paleocristiane. Gli ultimi studi e ritrovamenti indicano il sito come ossario dei santi Biagio e Gregorio. Si è scoperto, inoltre, che al suo interno è sepolto il padre di Giambattista Vico.

Oggi la chiesa – contestualmente a quella si San Biagio Maggiore -  è una delle sedi della fondazione che ha provveduto a restaurarla.

Le vicende di queste due piccole chiese, oggi riunite in un unico complesso monumentale, ci fa riflettere su come questi luoghi, un tempo dimenticati, all’improvviso si ritrovino a rivivere una sorta di  “seconda vita” che consente loro di presentarsi a chi non li conosceva e di ricordarci che, all’ombra delle grandi basiliche e dei grandi complessi, esistono anche tante piccole realtà che hanno partecipato, con inestimabili contributi, alla storia della città alla quale appartengono.

 

 

 

 

 

Note

[1]  M. Misson, Voyage d’Italie, éd. 1743, II, p. 90. Traduzione: «La cosa che ci è sembrata più straordinaria, a Napoli, è il numero e la magnificenza delle sue chiese: posso dirvi, senza esagerare, che ciò oltrepassa l'immaginabile».

 

 

 

 

 

Sitografia

Napolituristica.com

Corpodinapoli.it

Dettinapoletani.it

Napolipiù.com

Napoligrafia.it

Napolitoday.it


IL COMPLESSO MONUMENTALE DEI GIROLAMINI

A cura di Ornella Amato

 

 

Introduzione

Il Complesso Monumentale dei Girolamini o di San Filippo Neri è situato nel cuore del decumano maggiore della città di Napoli tra via Duomo e via dei Tribunali, ed è uno dei siti più grandi della città, formato dalla Chiesa con due chiostri ed annessa biblioteca, in via dei Tribunali e la Quadreria in Via Duomo.

La particolarità del suo nome è legata ad una “storpiatura” che ha dato il dialetto napoletano nel ricordare il primo luogo in cui si riunirono i seguaci di San Filippo Neri: la chiesa di San Girolamo della Carità a Roma, soprannominando “Girolamini” coloro che provenivano da tale chiesa e, di conseguenza, gli oratoriani di San Filippo Neri.

 

Pianta del complesso religioso dei Girolamini a Napoli

 

 

Legenda del complesso:

  1. Chiesa dei Girolamini
  2. Cappella di San Giorgio e San Pantaleone;
  3. Cappella di Santa Maria della Neve e Sant'Anna;
  4. Cappella di San Carlo Borromeo;
  5. Cappella di Sant'Agnese;
  6. Cappella di San Francesco d'Assisi;
  7. Cappella di San Francesco di Sales;
  8. Transetto sinistro - cappellone della Natività;
  9. Cappella di San Filippo Neri;
  10. Presbiterio;
  11. Cappella dell'Immacolata;
  12. Transetto destro - cappellone dei Santi Martiri;
  13. Crociera;
  14. Cappella di Santa Maria Maddalena dei Pazzi;
  15. Passaggetto;
  16. Cappella dell'Epifania;
  17. Cappella di San Girolamo;
  18. Cappella di San Giuseppe;
  19. Cappella di Sant'Alessio;
  20. Sacrestia;
  21. Oratorio dell'Assunta;
  22. Scalone d'ingresso al convento (da via Duomo);
  23. Chiostro piccolo;
  24. Chiostro degli aranci;
  25. Scale per i piani superiori;
    -Quadreria dei Girolamini;
    -Biblioteca dei Girolamini;
  26. Facciata di palazzo Seripando (su via Duomo)

 

L’area di Via Duomo: Chiesa, Chiostro e Biblioteca 

L'intera pianta della struttura si rivela complessa ed articolata date le enormi dimensioni per le quali tende ad estendersi da una strada all'altra della città.

La vastità del complesso ne ha consentito l’utilizzo per gli usi più diversi: infatti, durante i mesi immediatamente successivi il rovinoso terremoto che colpì la Campania il 23 novembre del 1980, a seguito del quale molte famiglie dovettero lasciare le loro abitazioni, l’edificio fu utilizzato come rifugio.

 

La Chiesa

Il cantiere della chiesa inizia nel 1590 su progetto di Giovanni Dosio, ma la facciata viene rifatta circa 150 anni dopo su disegno dell’architetto Ferdinando Fuga, che era stato chiamato a Napoli da Carlo di Borbone.

La Chiesa – oggi sconsacrata - e le sue strutture annesse, sono espressione del tardo manierismo e del barocco napoletano.

L'interno è un trionfo di marmi policromi, ori ed affreschi realizzati dai migliori esponenti della scuola napoletana, in particolare Luca Giordano, Bernardo Azzolino e Belisario Corenzio.

 

La Chiesa è a croce latina, divisa in tre navate con cappelle laterali, la pavimentazione è completamente in marmo policromo, con motivi esagonali che esaltano il bianco del marmo di Carrara; volgendo gli occhi al cielo, lo sguardo è folgorato dalle stuccature dorate del soffitto cassettonato, di cui ne risaltano la magnificenza.

Questo motivo si ripete anche nelle volte e nelle cupole che ricoprono le cappelle laterali che

sono arricchite da tele e opere scultoree, realizzate delle maestranze del ‘600 napoletano.

Al centro c’è il visitatore che si trova, pertanto, nel mezzo di una struttura che lo circonda e lo avvolge poiché nel suo silenzio assordante, tipico del barocco napoletano qui a “parlare a gran voce” è tutta l’arte in essa racchiusa, raccontando il ‘ 500, il ‘600 e il ‘700 napoletano.

 

La Sagrestia

Alle spalle dell'abside si trova la sacrestia con la volta affrescata e al centro l’affresco di San Filippo in gloria che, stando alla guida del Celano, è attribuita a Luca Giordano mentre le quadrature con gli angeli a Nicola Rossi; l'altare è di epoca settecentesca e, inizialmente, era stato concepito per accogliere alle sue spalle la tela dell'incontro tra Cristo e San Giovanni Battista di Guido Reni. Attualmente l'opera originale è conservata nella quadreria mentre sull'altare è stata sostituita da una copia.

La pavimentazione riprende i motivi del pavimento interno alla chiesa, mentre di notevole interesse è la porta dorata settecentesca, decorata con i simboli della Congregazione di San Filippo Neri: il giglio e la stella a otto punte.

 

I Chiostri

All'interno del complesso convivono due chiostri monumentali: il Chiostro Piccolo ed il Chiostro Grande.

Il Chiostro Piccolo è detto “della Porteria” ed è anche ricordato come chiostro piccolo maiolicato per la tipologia della pavimentazione; si trova all'interno della parte più antica del complesso e, probabilmente, era stato edificato nel giardino del palazzo nobiliare rinascimentale su cui poi successivamente è stata ricostruita l’intera struttura.

Il Chiostro Grande, invece, è detto così soprattutto per le grandi dimensioni rispetto al precedente, è di epoca più tarda (risalirebbe al XVI sec.) ed è caratterizzato dalla tradizionale architettura quadrangolare, circondata dalle finestre delle celle dei monaci; è detto anche “degli Aranci” per gli alberi di agrumi che vi si coltivano.

 

La Biblioteca

La Biblioteca Statale Oratoriana del Monumento Nazionale dei Girolamini, aperta al pubblico sin dal 1586, è la seconda biblioteca italiana per numero di libri, infatti conta una raccolta di circa 160.000 titoli, di cui oltre 100 sono incunaboli, oltre 5000 edizioni del ‘500, periodici e testi musicali.

È soprattutto legata a materie umanistiche, teologiche, filosofiche e musicali ed è la più antica delle biblioteche napoletane aperte al pubblico.

La biblioteca, in passato, purtroppo ha subito numerosi furti per diverse centinaia di volumi.

Attualmente non è visitabile poiché oggetto di un articolato restauro.

 

L’area di Via Duomo

La Quadreria

La Quadreria dei Girolamini è la pinacoteca del complesso.

Situata nella zona del Duomo, si è andata costruendo grazie alle committenze fatte dalla chiesa e alle donazioni ricevute da privati nel corso del tempo; si trova all'interno del complesso ed è accessibile sia dal chiostro grande che da via Duomo.

Il catalogo della quadreria è ricchissimo di nomi di pittori attivi negli anni del barocco napoletano: in origine la sua sede era la sacrestia dietro l'abside della chiesa, attualmente è allestita al primo piano del convento.

 

Battistello Caracciolo, Luca Giordano e la sua bottega, Guido Reni, Ribera, Santafede, Francesco Solimena, Massimo Stanzione, Andrea Vaccaro, sono solo alcuni dei nomi presenti nel catalogo della pinacoteca che, nella sua ricchezza, correda e soprattutto completa un complesso dalle mastodontiche dimensioni, inserito del tessuto urbano di cui è diventato parte integrante.

 

 

 

Sitografia

sites.google.com/monumentonazionaledeigirolamini

napolike.com

bibliotecadeigirolamini.beniculturali.it

beniculturali.it/luogo/complesso-dei-girolamini

https://www.artribune.com/arti-performative/cinema/2020/12/sky-arte-furto-biblioteca-girolamini-napoli/


PIAZZA TRENTO E TRIESTE

A cura di Ornella Amato

 

Il “Sipario” sul Palcoscenico di piazza del Plebiscito

Introduzione

Chiunque abbia visitato almeno una volta la città di Napoli, sa bene che il cuore pulsante della città stessa è piazza del Plebiscito che rappresenta la piazza della rinascita della Napoli che trionfa, che vive, che si mostra all'Italia, all'Europa e al mondo intero. Per accedervi bisogna passare per una vera e propria “porta di accesso”: piazza Trieste e Trento.

Piazza Trieste e Trento: le origini 

Piazza Trieste e Trento è una delle piazze più note della città non tanto per la sua storia quanto per il punto in cui si trova: in principio era un semplice slargo adiacente il palazzo del viceré, oggi è il luogo in cui s’incrociano le vie dello shopping e dei palazzi nobiliari della città: via Roma, via Chiaia e via San Carlo.

Per la sua collocazione, la piazza è considerata una sorta di “salotto all’aperto e di accesso al Plebiscito”, nel quale è piacevole prendere un caffè presso lo storico Gran Caffè Gambrinus che, soprattutto tra ‘800 e ‘900, nelle sue sale in stile Liberty, coi suoi stucchi tutt’oggi esistenti, ha visto accomodarsi ai suoi tavolini personaggi di caratura internazionale come Oscar Wilde e l'imperatrice d'Austria Elisabetta di Baviera, ma anche grandi nomi napoletani come Matilde Serao, Totò, i De Filippo.

 

Grazie alla sua struttura circolare, ma estremamente irregolare e che si apre a ridosso delle tre vie più note della città, consente uno sguardo a tutto tondo dell’area limitrofe: dalle facciate del palazzo della Prefettura a quelle della chiesa di San Francesco di Paola e di palazzo Salerno (distaccamento del Ministero della Difesa) e l’imponente facciata di palazzo Reale, strutture che delimitano l’area di piazza del plebiscito, la cui panoramica, da piazza Trieste e Trento, è pressoché completa.

 

Nel momento in cui lo sguardo coglie il limite esterno di piazza del Plebiscito attraverso l’ultimo angolo visibile della facciata del palazzo reale, l’occhio si concentra sulla fontana detta “del carciofo” o, come in maniera dispregiativa la chiamano i napoletani “il carciofo di Achille Lauro”, fontana che l'ex sindaco della città volle donare ai suoi concittadini. 

 

Sono presenti, in senso antiorario: una parte dei giardini di palazzo reale con l’accesso alla biblioteca nazionale ad esso adiacente, l' accesso laterale al Real Teatro di San Carlo,  via San Carlo che separa il teatro dalla “dirimpettaia” Galleria Umberto, la chiesa di San Ferdinando, nota come la “Chiesa degli Artisti”, che tutt'oggi  accoglie esponenti dell’antica nobiltà partenopea, ed infine via Roma, meglio nota come via Toledo, dal nome della cittadina spagnola poiché da essa si raggiungono i  quartieri spagnoli, che erano i vicoli abitati da esponenti delle milizie spagnole di stanza a Napoli al servizio del viceré. 

 

In quel periodo la piazza, denominato largo Santo Spirito, divenne luogo di stazionamento per le carrozze. La sua capienza era sufficiente da tenere diverse carrozze contemporaneamente e, sebbene oggi si presenti in maniera completamente diversa da come in principio doveva essere, non è difficile immaginare folle di cocchieri attendere che i nobili presso i quali sono a servizio escano dal palazzo reale.

 

Da piazza San Ferdinando a piazza Trieste e Trento: il perché del nuovo nome

Successivamente la piazza ottenne il nome di piazza San Ferdinando, volendo omaggiare la chiesa barocca dedicata a San Ferdinando che si affaccia su di essa; ancora oggi sono moltissimi i napoletani che continuano a chiamarla così, quasi “rifiutando d’istinto” la denominazione di piazza Trieste e Trento.

 

La nuova denominazione risale al 1919 e fu voluta dai Savoia e attuata a mezzo Regio Decreto, a celebrazione dell’annessione delle due città all’Italia dopo la Prima guerra mondiale. E’ considerata anche “la piazza dei palazzi del potere” poiché su di essa si affaccia, al civico 48, palazzo Zapata, che ospitò il cardinale spagnolo Zapata, che nel 1620 era stato viceré della città, nonché alto esponente del Tribunale dell’Inquisizione, ma ben presto fu rimosso dal suo incarico direttamente dai sovrani di Spagna, che temevano una rivolta popolare per il pessimo rapporto che instaurò con la città.

 

Oggi il palazzo ospita la Fondazione Circolo Artistico e Politecnico ed il Museo “Giuseppe Caravita, Principe di Sirignano”, con in mostra le opere di artisti napoletani dei secoli XIX e XX. Al civico 14, invece, così come ricorda anche una lapide, vi abitò Gaetano Donizetti e qui ebbe sede la redazione de Il giornale, periodico a cui collaborò anche Benedetto Croce.

La fama della piazza, sebbene possa sembrare il contrario, in realtà non è stata messa in ombra dall’adiacente e più nota piazza del Plebiscito, piuttosto “Trieste e Trento”, come la chiamano i napoletani, è riuscita ad accentrare in sé non solo la multietnicità culturale partenopea, ma grazie alla “posizione strategica” nella quale si trova è divenuta crocevia e luogo di incontro della Napoli dello shopping, della cultura, dell’architettura storico – artistica e della storia della città.

Non c’è e non ci può essere confronto con piazza del Plebiscito che – complici anche le maggiori dimensioni – è divenuta palcoscenico di un vero e proprio teatro all’aperto, un palco su cui sono saliti - e di certo continueranno a salire - grandi nomi. Ma per salire su questo palco, o anche più semplicemente per attraversare la piazza simbolo di Napoli, l’urbanistica ha voluto che si passasse attraverso “Trieste e Trento” che, come un ricco sipario, si apre e lascia accedere su di essa.

Piazza Trieste e Trento è una di quelle piazze della città dalla quale passano tutti: il napoletano ed il turista, lo storico e lo studente, il giovane per lo shopping all'ultima moda, l'anziano che per abitudine si reca al Gran Caffè Gambrinus e legge il quotidiano accomodato ai tavolini mentre sorseggia un buon caffè e, ogni tanto, alza lo sguardo e si lascia rapire da tutto quanto di incommensurabile è intorno a lui e intorno alla piazza.

Sitografia

grancaffegambrinus.com

cosedinapoli.it


16 LUGLIO LA ‘BRUNA’ E IL CARMINE DI NAPOLI

A cura di Ornella Amato

 

Introduzione

Piazza Mercato si trova di fronte al porto commerciale della città di Napoli, in un’area urbana fuori dai circuiti turistici tradizionali, sebbene si tratti di una piazza nella quale si sono svolti molti dei momenti più significativi della storia partenopea.

 

Cenni Storici 

L’area era inizialmente un semplice slargo, chiamato Campo del Morcino e si trovava fuori dalle mura cittadine.

La situazione cambiò con l’arrivo degli angioini: Carlo d’Angiò ne ordinò che, in quello slargo, venisse eseguita la condanna a morte di Corradino di Svevia.[1]

Successivamente fu inglobata nell’area urbanistica e divenne una zona commerciale prendendo il nome di Foro Magno spostandovi, al suo interno, tutto il commercio che prima si svolgeva nell’area in cui si trovava l’agorà di età classica.[2]

Intorno al nuovo foro, fu costruito il primo borgo degli orefici,[3] nelle cui botteghe lavoravano gli orafi francesi giunti in città per volontà degli stessi regnanti.

 Nei secoli successivi, pur continuando ad essere il centro della vita commerciale della città, fu utilizzata per ospitare soprattutto i patiboli delle esecuzioni delle condanne a morte di diversi esponenti della storia partenopea: nel 1647 quella di Masaniello[4] e, negli anni della Rivoluzione napoletana del 1799, qui trovarono la morte per impiccagione i giovani repubblicani, tra loro Luisa Sanfelice ed Eleonora Pimentel Fonseca.

Oggi, Piazza Mercato continua ad ospitare una ricca area commerciale ed è nota anche come Piazza del Carmine poiché su di essa si innalza la Basilica dedicata alla Madonna del Carmine o del Carmelo, detta la Bruna, icona estremamente venerata dai napoletani.

 

La Basilica dedicata alla Madonna del Carmine, detta la Bruna

 

La chiesa si presenta a croce latina, navata unica e dodici cappelle laterali, sei per ciascun lato.

Conta, inoltre, due pregiatissimi organi, di cui uno posto sulla controfacciata.

 

Il soffitto è cassettonato e caratterizzato al centro dalla presenza di una statua lignea della Vergine.

È una basilica barocca, sebbene abbia origini gotiche ed è considerata la chiesa degli Artisti, poiché ha visto la celebrazione di esequie di molte personalità artistiche napoletane come Antonio de Curtis, in arte Totò.

Una datazione precisa sull’edificazione della Chiesa non esiste, è certo che fu iniziata dopo il 1283 ed i lavori proseguirono per diversi decenni del XIV sec., fino ad arrivare poi all’età barocca, durante la quale è stata rivestita dei marmi policromi tutt’oggi esistenti.

La Sagrestia è espressione dell’arte settecentesca napoletana sia negli arredi che negli affreschi, è stata voluta dai Borbone ed è dedicata ai Santi Carlo e Amalia.

 

Il barocco trionfante lo si riscontra i in particolare sull’altare, alle cui spalle è collocato il quadro con l’icona della Madonna del Carmine, detta la Bruna o del Carmelo.

Il quadro della ‘Mamma r’o’ Carmene’[5] ovvero: La Vergine del Carmine, detta La Bruna 

 

Il quadro ligneo rettangolare raffigurante la Vergine del Carmine o del Carmelo, è posto alle spalle dell’altare maggiore dell’omonima basilica e rappresenta una Madonna con Bambino. 

La Vergine è rappresentata su uno sfondo dorato che ricorda i mosaici bizantini ed   indossa un manto blu acquamarina il cui colore vuol simboleggiarne la sua Maternità Divina, su di esso è dipinta una stella pendula che ne rappresenta la Verginità perpetua, ha bordi dorati e, sulla fronte, si vede il bordo rosso della tunica che indossa sotto il manto e, della quale si vedono anche i polsini, il cui colore è il simbolo dell’amore eterno.

Il Bambino in braccio alla madre è retto da entrambe le mani, ma la sinistra si presenta più grande dell’altra, è quasi aggrappato al bordo del manto materno e, con la mano destra le tiene teneramente il volto.

La Vergine, invece, si presenta dai tratti somatici allungati e con la pelle dal colorito bruno, da cui deriva l’appellativo di Madonna Bruna.

Il Suo viso di madre, si accosta e tocca teneramente quello del Bambino, poggiando su di Lui il suo sguardo amorevole.

Il Bambino, invece, non ha un viso fanciullesco, anzi, ha un’espressione quasi austera, con lo sguardo rivolto verso l’esterno della tavola pur rimanendo, coi gesti, legato alla madre.

L’origine della tavola è stata per lungo tempo legato ad una leggenda nella quale si raccontava fosse stata realizzata dell’Evangelista Luca.

Studi diversi, hanno smentito la leggenda e l’hanno attribuita ad un anonimo toscano duecentesco.

Diversi sono stati i restauri di cui è stata oggetto, il più importante è stato ad opera del pittore napoletano Francesco Solimena.

Dalla Palestina a Napoli: dalla fede al folcklore popolare

La storia racconta che l’effige giunse a Napoli portata dai Carmelitani direttamente dal Monte Carmelo in Palestina che, dopo la prima crociata, scapparono per il timore di essere catturati dai musulmani e dopo che fu eretta la nuova chiesa carmelitana in città, il culto si diffuse velocemente tra la popolazione.

Alla sacra effige della Bruna furono attribuiti diversi miracoli, in particolare si faceva riferimento a storie di conversione, ma non mancarono calamità e terremoti per la cui cessazione si chiedeva la Sua intercessione, catastrofi che – la storia di Napoli racconta - cessavano miracolosamente, a seguito delle preghiere o dell’esposizione della tavola.

 

L’incendio al Campanile del 15 Luglio

 

Il campanile risale al 1631, è alto 75m ed è considerato il più alto tra quelli presenti in città.

Alla Vergine del Carmelo è anche dedicato l’incendio al Campanile, uno spettacolo pirotecnico che si tiene ogni anno la sera del 15 luglio, vigilia della Solennità a Lei dedicata.

La storia racconta che durante gli anni di Masaniello si era soliti costruire un carro a cui dare fuoco per ricordare la vittoria dei cristiani durante la battaglia di Goletta contro gli infedeli.

Masaniello era uno dei capi addetti all’accensione del fuoco al fortino che innestava lo scoppio; secondo alcuni storici, era per lui l’occasione per dar vita alle sue rivolte.

Col passar degli anni, ed in particolare con l’avvento dei Barbone, il carro fu sostituito dal campanile: lungo i suoi 75m d’altezza, vengono ancora oggi posizionati fuochi pirotecnici che si accendono attraverso uno stoppino che accende il primo razzo che, a sua volta, innesca la miccia di tutti gli altri dando vita all’incendio ed illuminando a giorno la piazza. 

Alla fine dello spettacolo è tradizione che si aprano le porte della Basilica affinché i fedeli presenti possano entrare e ringraziare la Vergine.

 

Le celebrazioni del 16 Luglio

 Il 16 luglio – nel Giorno Solenne a Lei dedicato – stendardi e gonfaloni mariani vengono esposti e portati in processione lungo le vie cittadine, soprattutto quelle dei quartieri popolari.

Il culto mariano della Vergine del Carmine si intreccia col culto di Maria Santissima dell’Arco,[6] collegandosi quotidianamente con quello del popolo napoletano che invoca la Madre di Dio chiamandola semplicemente Mamm r’ ‘o Carmene. [7]

Mamm r’ ‘o Carmene è infatti una delle espressioni più utilizzate nel linguaggio partenopeo quando c’è un momento di timore, di difficoltà, quando Le si vuole chiedere aiuto; rivolgersi alla ‘Mamma del Carmine’ è come rivolgersi alla propria madre; è un vero e proprio intercalare del popolo napoletano.

Conclusioni

La devozione alla Madonna del Carmine, a Napoli, è fortemente sentita.

Le celebrazioni in Suo onore, sono seconde solo a quelle del Santo Patrono Gennaro del 19 settembre.

Carmine, Carmela, Bruno Carmine od anche Carmine Bruno, sono i nomi che – dopo Gennaro – più si riscontrano tra i napoletani.

Sono espressione di una devozione popolare che ha origini lontane, che trova nel passato remoto le sue radici, nel presente i motivi per portarle avanti, nel futuro la speranza per continuarle.

 

 

 

 

Note

[1] La storia racconta che la madre, Elisabetta di Wittelsbach tentò invano di salvare il figlio, attraverso il pagamento di un riscatto, ma fu inutile poiché al suo arrivo la condanna a morte era stata già eseguita. Era il 28 ottobre 1268. Per dargli degna sepoltura, la regina chiese ed ottenne che fosse sepolto nella Chiesa dei Carmelitani antistante la piazza. Tutt’oggi la Chiesa ne custodisce i resti. 

[2] Area in cui sorge la Basilica di San Lorenzo Maggiore voluta proprio dal casato angioino.

[3] Tutt’oggi esistente nella sua collocazione originaria.

[4] Secondo le cronache del tempo, il capo popolo Tommaso Aniello detto Masaniello, viveva alle spalle della Piazza; oggi – in quel luogo – c’è una targa in sua memoria.

[5] Mamma del Carmelo.

[6] Entrambi i culti – sebbene riferiti alla Vergine Maria e riconosciuti dalla Chiesa di Roma, sono tradizionalmente associati a culti popolari.

[7] ‘Mamma del Carmine ‘ovvero rivolgersi alla Vergine del Carmine per chiederLe aiuto come lo si chiede ad una mamma.

 

 

 

Sitografia

www.comune.napoli.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/18972 consultato in data 29/05/2022

www.santuariocarminemaggiore.it/icona-madonna-bruna-2/ consultato in data 29/05/2022

www.touringclub.it/evento/napoli-da-piazza-mercato-alla-chiesa-del-carmine-0 consultato in data 01/06/2022


IL COMPLESSO MONASTICO DI SAN PIETRO MARTIRE

A cura di Ornella Amato

 

 

*Un sentito ringraziamento all’associazione Respiriamo Arte per la preziosa collaborazione

 

Introduzione

In piazza Ruggero Bonghi, a ridosso del corso Umberto I di Napoli, strada nota come “rettifilo”, incastrato tra i palazzi cittadini e poco distante dall’Università degli Studi di Napoli, si trova il Complesso Monumentale di San Pietro Martire.

La struttura conta la chiesa ed il chiostro, dove all’interno è ubicata la facoltà di Lettere e Filosofia. In tempi recenti il complesso è stato oggetto di un imponente restauro che ne ha permesso la completa restituzione alla città. IL progetto di restauro è stato realizzato nell’ambito del “Grande Progetto” UNESCO per la riqualificazione del centro storico di Napoli[1]. La chiesa appartiene al FEC (Fondo Edifici Culto) del Ministero dei Beni culturali ed è affidata all’associazione Respiriamo Arte per le visite guidate e alla Comunità di Sant’Egidio per le attività espositive e di accoglienza.

 

Brevi cenni storici: il passaggio dalla dinastia sveva agli angioini.

Nel 1220 papa Onorio III incoronava imperatore Federico II di Svevia. Il 5 giugno 1224 l’imperatore svevo emanava l’editto istitutivo dell’Università degli Studi di Napoli, un’università laica che aveva come scopo la formazione di una classe dirigente che partecipasse al governo del regno. Nel 1250 Federico II moriva e gli succedeva il figlio Manfredi, che si proponeva come continuatore della politica del padre.

Intanto ad Onorio III era succeduto Innocenzo IV che, preoccupato dagli eventi che si stavano svolgendo nel meridione della penisola, decideva di chiedere aiuto a Carlo d’Angiò, promettendogli il regno di Sicilia se lo avesse liberato dagli svevi.

Lo scontro tra gli svevi e gli angioini avvenne a Benevento dove, nel 1266, Manfredi veniva sconfitto e ucciso. Il Papa – come promesso – incoronava Carlo I d’Angiò re di Napoli e della Sicilia.

Nel 1268, Corradino di Svevia, figlio di Manfredi ed ultimo discendente di Federico II, con un piccolo esercito tentava un ultimo assalto al regno: a Tagliacozzo, in provincia de L’Aquila, veniva catturato, portato a Napoli e, in città, decapitato pubblicamente. Carlo d’Angiò aveva conquistato definitivamente il regno svevo nell’Italia meridionale, inaugurando l’età angioina.

 

Il complesso di San Pietro Martire

La dedicazione

La chiesa non è dedicata a San Pietro l’apostolo del Cristo, per il quale diverse fonti ne attestano il suo passaggio in città, ma a San Pietro da Verona, martire domenicano, morto assassinato nel 1254 per mano di due sicari che lo avrebbero ucciso con un colpo di accetta alla testa ed una pugnalata al cuore. Da qui ne deriva anche l’iconografia stessa del santo, rappresentato con l’accetta incastrata in testa e il pugnale nel petto.

 

 

La Chiesa

Il 29 aprile 1294 per volere del re di Napoli Carlo I d’Angiò furono avviati i lavori della chiesa di San Pietro Martire e, per indicazione dello stesso sovrano, il complesso intero venne destinato ai domenicani, ordine non solo particolarmente caro alla dinastia francese, ma che si era distinto negli scontri tra Stato e Chiesa, ai tempi della dinastia sveva, favorendo il papato.

La sede della nuova chiesa fu realizzata su un'area non molto distante dal mare, direttamente sotto la regia giurisdizione angioina. La struttura ecclesiastica fu ultimata circa cinquant’anni dopo, nel 1347, ma ben presto furono necessari interventi di restauro a causa di incendi e terremoti che la colpirono. Ne derivò un complesso restaurato più volte, secondo i tempi e le correnti artistiche del momento.

Nel corso del primo decennio del XVII sec., un nuovo restauro interessò la chiesa e fu realizzato dall’architetto (e frate domenicano) Giuseppe Nuvolo che realizzò anche la cupola e il chiostro.

La struttura subì ingenti danni anche durante la Seconda guerra mondiale, in particolare il 1° marzo del 1943 fu coinvolta in un bombardamento aereo: le conseguenze dell’attacco si riscontrarono soprattutto all’interno e lungo la navata centrale.

 

Struttura interna attuale dello spazio celebrativo

Della struttura trecentesca della chiesa resta ben poco. L’interno è a croce latina, navata unica e quattordici cappelle, sette per ogni lato. A seguito dell’ultimo restauro è stato ripristinato il bianco, suo colore originale.

 

L’altare maggiore è realizzato con marmi policromi ed è databile all’età barocca, mentre nel retro risalta il coro ligneo settecentesco.

 

Nei transetti laterali ci sono le tele dedicate ai domenicani: a destra il Martirio di San Pietro da Verona di Girolamo Imparato e una parte marmorea del sepolcro di Antonio De Gennaro[2]; a sinistra San Domenico che dispensa i rosari di Bernardo Azzolino.

 

La testimonianza di tutti gli interventi che si sono avuti nel corso dei secoli si riscontra in quasi tutte le cappelle, dove risaltano non solo i blocchi di piperno originali, ma anche le opere che sono state realizzate nel corso del tempo, come il bassorilievo trecentesco e la tela della Morte e Assunzione della Vergine nella prima cappella a destra.

 

Molte cappelle conservano al loro interno opere e sepolcri di personaggi legati alla casa d’Aragona, che aveva conquistato il regno di Napoli e di Sicilia nel 1442 e che aveva particolarmente a cuore l’ordine domenicano.

La settima cappella a destra, infatti, ospita i sepolcri di Pietro d’Aragona e di Isabella da Chiaromonte[3], regina di Napoli e moglie di Ferrante I.

Molti sepolcri, anche a seguito dei bombardamenti del ‘43, sono stati smembrati e le opere scultoree che li componevano sono state esposte in più cappelle, come nel caso del monumento funebre ad Antonio De Gennaro [fig.da 9 a 14], del quale risalta in particolare il dettaglio con Partenope, rappresentata qui nella più antica iconografia della sirena quale donna-uccello [fig.13].

 

A sinistra della navata centrale, risalta la cappella dedicata a San Vincenzo Ferreri, nella quale si conserva una stampa del polittico[4] dedicato al santo realizzato dal Colantonio.

 

Del polittico, oltre al santo, risalta nella predella il riquadro raffigurante Isabella da Chiaromonte in preghiera nella cappella Palatina di Castelnuovo. Nei laterali sono inoltre presenti tre lapidi marmoree dedicate alla nobile famiglia napoletana dei Pagano

 

A sinistra, invece, la quinta cappella ospita La Visitazione e L’Annunciazione di Francesco Solimena.

Dalla sagrestia, che conserva la parte superiore del monumento funebre del De Gennaro, si accede al chiostro piccolo, dal quale si può ammirare la cupola maiolicata.

 

La facciata esterna

La facciata esterna, anch’essa più volte oggetto di rimaneggiamenti e restauri, si presenta in due ordini: quello inferiore col portale marmoreo seicentesco, inscritto tra due lesene composite, e quello dell’ordine superiore, nel quale risalta il finestrone centrale.

 

Il Monastero ed il Chiostro grande: la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università

Il monastero ed il chiostro del complesso monumentale di San Pietro Martire, sebbene parte del complesso, hanno avuto una vita estremamente separata da quella della chiesa, come se si trattasse di strutture separate, sebbene inglobate in un'unica fabbrica.

 

Si trovano nell’area destra a ridosso della chiesa, in via Porta di Massa, e ad oggi ospitano la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Napoli.

I lavori per la realizzazione risalgono alla seconda metà del XVI sec. e la struttura si presenta oggi con una forma quadrangolare, in piperno, con sette archi per ciascun lato.

 

All’inizio era un luogo nel quale convergevano accademici, nobili e filosofi. Fu soppresso nel 1808 per volere di Giuseppe Bonaparte ed in seguito divenne una fabbrica di manifatture tabacchi che restò operativa fino al 1943. I bombardamenti della Seconda guerra mondiale lo danneggiarono gravemente, tanto da rischiare la demolizione. Dall’interno del chiostro risalta la cupola maiolicata che completa la chiesa.

 

Per iniziativa del Rettore dell’Università, Giuseppe Tesauro, il 13 luglio 1961 l’ormai ex- convento entrava a far parte del patrimonio architettonico dell’Università e diventava la sede della Facoltà di Lettere e Filosofia. Migliaia di studenti ancora oggi attraversano quei corridoi, sfogliano libri e testi all’interno del chiostro “di Porta di Massa”- come molti ancora convenzionalmente lo chiamano - e frequentano una facoltà all’interno di un complesso, quello di San Pietro Martire, che racconta secoli della storia partenopea.

 

 

 

Dove non espressamente indicato in didascalia, le immagini fotografiche sono state realizzate dall’autrice, previa autorizzazione dell’Associazione Respiriamo Arte.

 

 

 

 

Note

[1] L’intero Centro Storico di Napoli è patrimonio Unesco.

[2] Personalità di spicco, vicino alla casa d’Aragona

[3] Le arche contenenti i resti mortali del casato d’Aragona si trovano all’interno della Sagrestia della Chiesa di San Domenico Maggiore, considerato il ‘Pantheon’ del casato spagnolo.

[4] Il polittico è conservato al Museo di Capodimonte

 

 

 

Bibliografia

Chitarrini, V. Porta A., Tancredi S., I nodi del Tempo – versione plus –, Vol. I, pp. 285-292, Ed. Lattes 2015

 

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/papa-innocenzo-iv_%28Dizionario-Biografico%29/  consultato il 13 maggio 2022

https://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-i-d-angio-re-di-sicilia_%28Dizionario-Biografico%29/ consultato il 13 maggio 2022

www.respiriamoarte.it consultato il 14 maggio 2022

https://www.respiriamoarte.it/luoghi/san-pietro-martire/

www.unina.it consultato il 14 maggio 2022

www.unina.it/chi-siamo/convento-sanpietro-martire consultato il 16 maggio 2022

http://www.unina.it/chi-siamo/cenni-storici consultato il 16 maggio 2022

https://sabap.na.it/terminato-il-restauro-della-facciata-della-chiesa-di-san-pietro-martire/ consultato il 16 maggio 2022

https://www.interno.gov.it/it/notizie/restaurata-napoli-chiesa-fec-san-pietro-martire  consultato il 17 maggio 2022


LUCA GIORDANO

A cura di Ornella Amato

Luca Giordano: il passaggio dal caravaggismo al barocco nella città di Napoli attraverso la sua formazione e le sue opere

 

Introduzione

Luca Giordano, figlio di Antonio e Isabella Imparato, nacque a Napoli il 18 ottobre 1634. Il padre aveva una piccola bottega di arte pittorica e, oltre ad essere un pittore, era anche un mercante di opere d’arte. Fu probabilmente con lui che Luca imparò fin da giovane l’arte pittorica. Infatti, Bernardo De Dominici racconta che il padre Antonio lasciò incompleti due putti per gli affreschi che gli erano stati commissionati nella Chiesa di Santa Maria La Nova e che il piccolo Luca, a soli 8 anni, li completò in maniera egregia.

Luca Giordano[1] si formò inizialmente all’ombra del Vesuvio, in una città che aveva visto l’opera rivoluzionaria del Caravaggio, ma che stava vivendo un momento storico estremamente particolare. La città stava infatti attraversando gli anni del vicereame Spagnolo e della rivoluzione di Masaniello e nel panorama artistico era giunto – già nell’estate del 1616 - il pittore Jusepe de Ribera, noto poi alla critica come Lo Spagnoletto, uno dei massimi esponenti della pittura napoletana e del caravaggismo stesso. La pittura del Ribera e gli eventi che coinvolgeranno Napoli saranno la base per la formazione artistica del Giordano stesso.

 

Gli eventi storici

La rivolta napoletana antispagnola nel biennio 1647-48 e la drammatica epidemia di peste che colpì la città nel 1656 divennero materiale per gli artisti che nelle opere a loro commissionate - soprattutto ex voto per la città liberata dal morbo – intrapresero una “ripulitura” della loro tavolozza dai toni cupi tipici del crudo naturalismo del Caravaggio per sostituirli coi cromatismi della corrente barocca.

Ne consegue che la peste del 1656 finì col diventare un momento di divisione tra le due correnti artistiche: da un lato il caravaggismo, che inizia quasi ad essere accantonato, e dall’altro il barocco, che inizia ad affermarsi sempre di più.

 

Le prime opere documentate

Le prime opere documentate del Giordano risalgono all’anno 1653 e riprendono lo stile di Caravaggio prima e del Ribera poi, come ad esempio La morte di Seneca o La flagellazione. Per quest’ultima, i richiami allo stesso soggetto caravaggesco sono estremamente evidenti: il Cristo alla colonna, i flagellanti in abiti contemporanei e il fascio di rami usato per flagello sono tutti dettagli che rimandano proprio alla Flagellazione commissionata al Merisi dalla famiglia De Franchis.

 

Negli anni immediatamente successivi lavorò alla decorazione delle lunette della cappella del Tesoro di San Gennaro all’interno del Duomo.

 

Una delle opera che probabilmente influenzò lo stile del Giordano fu la Porta San Gennaro, una delle porte della città di Napoli, affrescata tra il 1657 ed il 1659 da Mattia Preti e rappresentante il santo patrono che intercede presso la Vergine per la fine del morbo del 1656. In realtà non sappiamo quanto il modo di lavorare del Preti dovette colpirlo, ma di certo la “velocità di esecuzione” del Preti diventerà la sua caratteristica tanto da guadagnarsi il nomignolo di “Luca fa presto”.

 

La formazione oltre Napoli

Fuori da Napoli, il giovane Giordano si spostò prima a Roma e poi a Venezia, ma successivamente lavorò anche a Firenze e in Spagna, dove tutt'oggi si trovano alcune delle sue opere.

Le esperienze romane si riveleranno fondamentali per completare la sua formazione: l’incontro con Pietro da Cortona lo portò infatti ad adottarne le morbidezze cromatiche e formali. A Roma ebbe anche modo di studiare da vicino gli affreschi di Raffaello in Vaticano e le opere di Annibale Carracci e di consolidare la sua fama di copista e disegnatore.

Il soggiorno nella Serenissima durò circa sei mesi, interrotto solamente da un momentaneo ritorno a Napoli negli anni ’70. Lo studio dell’arte veneta, probabilmente in concomitanza con la sua naturale predisposizione al disegno e la conoscenza delle opere di Tiziano, contribuì poi alla creazione di quello che sarà poi il suo stile definitivo.

 

Le commissioni pubbliche e le opere della maturità

Grazie alla sua abilità pittorica, alle cromie utilizzate, alla fama crescente e alla velocità di esecuzione, dagli anni ‘60 agli ’80 del XVII secolo le commissioni si moltiplicano: rare sono le chiese napoletane e della provincia all’interno delle quali non sia presente un suo affresco o una sua tela.

Durante la sua carriera Giordano predilesse il tema sacro, che interpreta con disinvoltura ed è proprio in queste tematiche che risalta la sua evoluzione pittorica: ne sono dimostrazione i Santi protettori di Napoli adorano il crocifisso e soprattutto  San Gennaro intercede presso la Vergine, Cristo e il Padre Eterno per la peste (1660-61) al Museo di Capodimonte, dove è conservata anche  la coeva Sacra Famiglia che ha la visione dei simboli della Passione (1660).

 

Nella tela di Capodimonte è da notare l’influenza del Preti, in particolare nei corpi dei morti di peste rappresentati nella parte inferiore della composizione, dove è rappresentata una donna col seno scoperto sulla quale un bambino cerca di avvicinarsi, probabilmente per succhiare il latte dal seno materno. Una scena estremamente simile si riscontra nel bozzetto del già citato affresco pretiano.

 

Le committenze private

Le committenze giordanesche non annoverano solo opere pubbliche degli ordini religiosi del ‘600 napoletano, ma anche di privati.

La volontà di ascesa sociale porta le famiglie di magistrati e dell’alta borghesia - come già era successo con i De Franchis e il Merisi ai tempi della realizzazione della Flagellazione – a rivolgersi ai pittori “più in voga del momento”.

Una serie di tele – tutt’oggi in collezioni private – dai soggetti non solo sacri, ma anche profani, concorsero ad elevare ulteriormente la fama del Giordano; tra queste si ricordano: il Trionfo di Bacco, il Convito degli Dei, Diana e Atteone[2].

Il decennio 1670-1680 lo vede impegnato in Toscana: ospitato a Firenze da Andrea del Rosso, realizzò gli affreschi della cupola della Cappella Corsini e di Palazzo Medici Riccardi. Dopo queste commissioni crebbe la fama internazionale del pittore, che soggiornò per un decennio in Spagna, con incarichi sia a Madrid che a Toledo.

 

Nel 1702, al suo rientro definitivo a Napoli, non mancarono lavori a tema profano, ma le commesse furono soprattutto di carattere religioso: tra le tante si ricorda il ciclo di affreschi con Le storie di Giuditta realizzato nel 1704 per la cappella del Tesoro della Certosa di San Martino.

 

L'artista morì a Napoli il 12 Gennaio 1705 e venne sepolto nella chiesa di Santa Brigida, di cui nel 1678 ne aveva affrescato la cupola.

 

Conclusioni

Il lavoro “veloce e perfetto” del Giordano fu molto apprezzato dai suoi contemporanei. La sua personalità pacata, antitesi di quella del Caravaggio, e la fama di una “persona per bene”, fecero di lui l’artista a cui rivolgersi senza remore.

La sua briosa tavolozza, ripulita del buio del naturalismo crudo del Caravaggio, lo rende il pittore per eccellenza dell’età barocca a Napoli. I toni splendenti del barocco, infatti, si sposano perfettamente con le forme che l’artista dona con grazia ai suoi personaggi, a qualunque tematica essi appartengano.

Dall’8 ottobre 2020 al 10 gennaio 2021, Napoli gli ha dedicato la mostra “Luca Giordano – dalla Natura alla Pittura”, presentando un percorso espositivo nel quale i capolavori dell’esponente della pittura barocca napoletana sono stati riproposti alla città che gli ha dato i natali, sebbene non si possa parlare di una completezza: la capacità di disegno e la velocità di esecuzione hanno di certo contribuito  alla smisurata quantità di commissioni ricevute, da cui deriva l’impossibilità della realizzazione di un catalogo che sia unico e definitivo.

 

 

 

Note

[1] La prima biografia di Luca Giordano è stata scritta da Bernardo de Dominici, nel testo Vite de’ pittori, scultori e architetti napoletani stampato per la prima volta tra il 1742 e il 1745.

[2] Cit.: V. Pacelli La Pittura napoletana da Caravaggio a Luca Giordano, Cap.III pag. 149. Ed. Scientifiche Italiane

 

 

Bibliografia

Pacelli, La pittura napoletana da Caravaggio a Luca Giordano, cap. 3, Il passaggio dal naturalismo al Barocco: protagonisti ed eventi. Luca Giordano: l’affermazione barocca a Napoli, pp. 141-149, Ed. Scientifiche italiane 1996

 

 

Sitografia

https://www.academia.edu/38081931/Luca_Giordano_a_scartamento_ridotto_Laffresco_e_i_rami_per_la_Sagrestia_Nuova_1668_in_San_Gennaro_patrono_delle_arti_Conversazioni_in_cappella_2018_Dedicato_a_Giuseppe_Galasso_a_cura_di_Stefano_Causa_Napoli_2018?email_work_card=view-paper

https://www.ecodellesirenetour.it/luca-giordano-pittore-uomo-e-leggenda/

https://www.museionline.info/pittori/luca-giordano


SANT'ANNA DEI LOMBARDI PT III

A cura di Ornella Amato

 

La sagrestia del Vasari

 

* Doveroso un ringraziamento speciale all’intero staff operante all’interno del Complesso, anzitutto per la gentilezza e la disponibilità, per aver inoltre fornito materiale storico e per l’autorizzazione alla realizzazione delle immagini fotografiche contenute in questo elaborato.

 

Note biografiche sulla presenza di Giorgio Vasari a Napoli

 

Giorgio Vasari è stato pittore e architetto, autore de Le vite dei pittori scultori e architettori, pubblicato in due edizioni, la prima del 1550 e la seconda del 1568, tutt'oggi considerato una pietra miliare per lo studio degli artisti e della storia della critica dell'arte.

La sua opera si ricorda soprattutto tra Firenze e Roma, ma operò anche a Napoli nel biennio 1544-1545 per affrescare il refettorio della chiesa degli olivetani, Santa Maria di Monteoliveto, cioè l'attuale Sant'Anna dei Lombardi. È lo stesso Vasari, nelle sue Vite, quando parla della sua di vita, a raccontare della commissione dell'affresco del refettorio, una commissione che in un primo momento rifiutò poiché temeva che non ne avrebbe tratto vantaggio in termini di fama.

 

 

L’accettazione dell’incarico

Grazie a Miniato Pitti, estimatore del Vasari, ed alla fitta corrispondenza tra i due intercorsa, l’aretino accettò la commissione e l’opera da lui realizzata è oggi un unicum nell’area centro-meridionale della penisola.

Il primo problema che il Vasari dovette risolvere fu l’eliminazione delle arcate gotiche. Le volte ogivali furono abbassate, furono smussati gli angoli e gli spigoli. Con gli affreschi il Vasari ha creato effetti ottici estremamente particolari in ragione dei quali guardandoli lateralmente se ne riconosce la forma angolare, mentre guardandoli in maniera frontale la parte laterale diventa impercettibile.

 

Altro problema che il Vasari dovette risolvere era quello della luce: il refettorio, infatti, non godeva di una buona illuminazione naturale. Tutt’oggi entrando sono presenti alla parete di sinistra solo tre grandi finestre e Vasari scelse di realizzarne altrettante tre sulla parete di fronte per creare maggiore simmetria, ma si tratta di affreschi e non punti luce reali ed inoltre scelse uno sfondo di stucco bianco non solo per dare maggiore risalto all’opera, ma per dare ad essa una luce su cui splendere.

 

Per accedere all’ex-refettorio, cioè la sagrestia dipinta dal Vasari, è necessario attraversare l’intera navata e superare la quarta cappella sulla destra e infine percorrere un piccolo corridoio, dove si trova anche la campana del campanile che fu totalmente distrutto coi bombardamenti del marzo del ‘44.

Inizialmente, l’ingresso della sagrestia era dal lato opposto a quello attuale, dove oggi c’è l’altare su cui è esposta l’opera Reliquia di Jago e la tela con San Carlo Borromeo.

 

Per affrescare la volta, il Vasari la suddivise in tre quadranti con affreschi allegorici dedicati all’eternità, alla fede e alla religione, una scelta che gli consentì di esplicare negli affreschi tematiche di estrema importanza nel mondo del monachesimo e legate a coloro che scelgono la vita monacale. Ne derivò una sorta di vero e proprio richiamo ai monaci e a non dimenticare i sacrifici imposti dalla vita monastica, alla regola di San Benedetto – a cui gli olivetani appartenevano – alla meditazione, al silenzio durante il pasto.

 

Considerando che l’ingresso attuale è al lato diametralmente opposto a quello originale, nella prima campata, dedicata alla religione, sono rappresentati temi legati alle costellazioni del Nord dell’Orsa Maggiore e dell’Orsa Minore, ovviamente secondo i canoni tolemaici conosciuti all’epoca. Per la campata centrale il pittore propose le costellazioni dello Zodiaco; infine nella terza campata, che riparte dal tema dello Zodiaco iniziando dal segno dei Pesci, rappresentò le costellazioni del Sud.

 

Alzando lo sguardo per ammirare gli affreschi, si notano anche segni del lavoro svolto dall’aretino per la preparazione degli stessi, con le stuccature bianche di sfondo che, ad uno sguardo attento, mostrano le striature presenti sulla base successivamente affrescata.

 

Oltre Vasari: gli intarsi lignei di Frà Giovanni da Verona

Le pareti laterali della Sagrestia sono rivestite da pannelli di intarsi lignei che rappresentano falsi armadi contenenti all’interno oggetti di vario genere, architetture urbane e paesaggistiche, realizzati in maniera tridimensionale per la sagrestia vecchia della chiesa (l’ex – refettorio è noto come Sagrestia Nuova, oltre che convenzionalmente come Sagrestia del Vasari) e trasferite nel 1558 al refettorio. Attualmente i pannelli sono trenta: dodici da un lato, diciotto dall’altro, ma è ignoto il numero originario.

 

Conclusioni

La presenza del Vasari a Napoli permette al Rinascimento di superare i confini di Firenze e quelli romani, penetra e stravolge il tardogotico ancora persistente in città.

La sua maniera a Napoli irrompe e lascia sconvolti.

Sosteneva che “non ne avrebbe tratto alcun giovamento” nell’affrescare la volta, ma si sbagliava.

Il suo capolavoro, grazie ad un sistema di illuminazione artificiale, oggi avvolge e sorprende il visitatore:

entrando in una sala buia, dove grandi tendaggi coprono le uniche tre finestre, ad ogni passo, luci artificiali automatiche illuminano lentamente la Sagrestia. Le luci calde lentamente si schiariscono, lasciando spazio a led bianchi di luce fredda; ad ogni passo un gruppo di luci si accende, fino ad illuminare completamente il tutto, dal basso verso l’alto, dal retro degli intarsi lignei fino alla volta, facendola risplendere e accompagnando lo sguardo del visitatore tra le 48 figure allegoriche che la compongono e a sentirsi quasi inglobato in essa, parte di un capolavoro unico nel meridione d’Italia.

 

Dove non espressamente riportato in didascalia, le immagini fotografiche sono state realizzate dall’autrice del testo su autorizzazione del personale del Complesso Museale di Sant’Anna dei Lombardi di Napoli.

 

 

 

 

Sitografia

https://www.santannadeilombardi.com

https://www.treccani.it/enciclopedia/giorgio-vasari/

http://www.arte.it/notizie/napoli/alla-scoperta-del-rinascimento-toscano-a-napoli-a-sant-anna-dei-lombardi-17605

https://it.storiadellacriticadarte.org/wiki/Le_vite de_eccellenti_pittori,_scultori_e_architettori

https://www.roadtvitalia.it/vasari-napoli-gli-affreschi-santanna-dei-lombardi

https://www.latestatamagazine.it/2021/05/giorgio-vasari-e-il-gusto-manierista-a-santanna-dei-lombardi/

https://corrieredinapoli.com/2021/03/18/la-sagrestia-vasari-una-piccola-perla-rinascimentale/

https://criticaclassica.wordpress.com/tag/sagrestia-del-vasari/

https://www.ilmattino.it/blog/l_arcinapoletano/sacrestia_vasari_rinascimento_ignorato_di_napoli-1372206.html


SANT’ANNA DEI LOMBARDI PARTE II

A cura di Ornella Amato

 

I segreti nascosti nelle cappelle

 

*Doveroso un ringraziamento speciale all’intero staff operante all’interno del Complesso, anzitutto per la gentilezza e la disponibilità, per aver inoltre fornito materiale storico e per l’autorizzazione alla realizzazione delle immagini fotografiche contenute in questo elaborato.

  

Nelle cappelle

dove

grandi nomi provenienti da Firenze,

hanno lasciato la loro opera.

Introduzione

Il viaggio che virtualmente si compie tra la Napoli aragonese e la Firenze rinascimentale si esplica soprattutto attraverso le opere realizzate all’interno di quello che fu il grande cantiere di Santa Maria di Monteoliveto e che trova la sua realizzazione in diverse cappelle, all’interno delle quali lavorarono importanti nomi fiorentini.

La Cappella Piccolomini

Entrando a sinistra, la prima cappella che il visitatore incontra è la Cappella Piccolomini voluta da Antonio Piccolomini, Duca di Amalfi, per la moglie Maria d’Aragona, morta nel 1470 a soli 18 anni ed il cui monumento funebre è collocato sulla parete sinistra della cappella stessa.

Lo stemma della casata, realizzato a seguito dell’unione della casata aragonese coi Piccolomini, è incastrato nel pavimento della cappella e contiene i simboli di entrambe le famiglie: i simboli del casato d’Aragona affiancano la mezza luna per la famiglia del duca.

 

Alla cappella e al monumento funebre, datati intorno agli anni immediatamente successivi alla morte della duchessa, lavorarono prima Antonio Rossellino fino al 1479, anno della sua morte, e successivamente Benedetto da Maiano, che la completò intorno al 1492.

All’interno della cappella Rossellino ripropone lo schema e gli arredi da lui utilizzati per San Miniato al Monte e per questo stesso motivo è probabile che in origine la cappella fosse stata ornata anche da tondi realizzati con la tecnica della terracotta invetriata, tipica dei Della Robbia, già utilizzata in San Miniato e che si ritrova anche nella cappella Tolosa, all’interno dello stesso complesso monumentale.

Allo scalpellino del Rossellino - e a quello di Matteo del Pollaiolo - è assegnato anche l’Altare della Natività, collocato sulla parete sinistra e lateralmente al monumento funebre. Al centro si trova la splendida scena della Natività e ai lati si segnala la presenza dei Santi Andrea e Giacomo, esplicito richiamo alla famiglia committente poiché erano i santi eponimi dei fratelli del duca.

 

La scena della Natività non sembra seguire l’iconografia tradizionale perché tripartita in tre momenti. A destra, sullo sfondo, si riconosce l’annuncio ai pastori. Avanzando nella scena, sopra la capanna vi è un tripudio di angeli festanti che danzano a lode e gloria della nascita del Salvatore.

 

Nella capanna si trovano la Vergine col Bambino e davanti a loro San Giuseppe che riposa, realizzato in una posizione che sembra fare riferimento ad uno dei momenti immediatamente successivi alla natività: il riposo del padre putativo di Gesù che precede la fuga in Egitto. Sovrastano l’intera scena quattro putti reggi festone.

 

Lateralmente all’altare è collocato il monumento funebre di Maria d’Aragona.

 

Il volto della giovane duchessa è quello di una fanciulla morta in giovane età e la sua bellezza è tale che, più che morta, sembra che dorma.

 

La mano di Benedetto da Maiano è stata identificata nel rilievo raffigurante la Resurrezione, tra i due angeli inginocchiati posizionati ai lati del monumento, e nel gruppo in alto in cui è rappresentata una Madonna con Bambino all’interno di una ghirlanda, sorretta anch’essa da due angeli in volo.

 

La cappella ospita anche un’opera d’arte contemporanea, del 2017: Muscolo Minerale. L’opera è di Jago ed è posizionata al centro della cappella, di cui sembra quasi una sorta di “cuore pulsante”. Non monopolizza l’attenzione del visitare, bensì si integra coi capolavori della cappella, quasi fosse stata concepita con essa e per essa.

 

L’illuminazione naturale della cappella fa risaltare le opere che custodisce, evidenziandone la tridimensionalità ed incantando chi le osserva.

 

La Cappella Correale

La prima cappella a destra della porta d’ingresso è la Cappella Correale, voluta dal maggiordomo di Alfonso II, Marino Correale, conte di Terranova, di cui la stessa accoglie anche il sarcofago.

 

La struttura segue l’impianto tipicamente utilizzato nella tradizione rinascimentale fiorentina con vano cubico, cupoletta e lunette.

Lo sguardo del visitatore è catturato dalla pala d’altare di Benedetto da Maiano raffigurante l’Annunciazione. L’arcangelo Gabriele originariamente aveva nella mano sinistra un giglio, andato perduto, del quale restano sulla pala i fori.

 

La Vergine è rappresentata in una posa non convenzionale: con la mano sinistra – di grandi dimensioni – sorregge parte della tunica che indossa ed un libro, mentre la mano destra è posta sotto il seno, quasi ad abbracciarsi. Questa posizione è quella tradizionalmente assunta dalle donne gravide nell’atto di proteggere il bambino che portano in grembo. Le braccia e le mani sembrano quasi dare forma ad un cerchio che circoscrive il ventre, non ancora rigonfio dalla gravidanza, nel quale verrà custodito il Salvatore, come annuncia l’arcangelo stesso.

Ai lati della scena centrale sono rappresentati i santi Giovanni Battista ed Evangelista, mentre nella predella sottostante sono rappresentate le scene della vita di Cristo. In quest’ultima, è da notare che sono invertite due scene della vita di Cristo: la scena raffigurante la Resurrezione, infatti, precede quella della Deposizione. L’intero riquadro è chiuso da una cornice decorata con un fregio sovrastato da spiritelli che reggono un festone.

Lo spiritello reggi festone di destra oggi è al centro dell’attenzione della critica d’arte: studi diversi lo attribuiscono ad un giovanissimo Michelangelo Buonarroti che, secondo la studiosa tedesca Margrit Lisner, intorno ai quattordici anni si sarebbe trovato a bottega proprio presso Benedetto da Maiano, permettendo di conseguenza di datare l’opera intorno al 1489. Tuttavia, si tratterrebbe di un’attribuzione di stile e non documentata[1]. Il volto e l’atteggiamento della scultura sembrano troppo innovativi rispetto allo stile tradizionalmente rinascimentale di Benedetto, inoltre la postura dello spiritello, che presenta il braccio destro alzato, è una postura che lo stesso Buonarroti riprenderà anche in una fase più matura della sua attività, come per esempio nel Cristo giudicante della Cappella Sistina o nello Schiavo barbuto della Galleria dell’Accademia di Firenze.

  

Il Cappellone del Santo Sepolcro: Cappella Fiodo e Cappella del Compianto

Il Cappellone del Santo Sepolcro è un grande vano bipartito e il primo ambiente in cui si accede è la Cappella Fiodo.

La cappella ospita la tomba di Antonio Fiodo, dalla particolare forma di sedile marmoreo, ma ospita anche sulla parte opposta le tombe di Antonio d’Alessandro e della moglie.

Il secondo vano è la Cappella Lannoy, appartenente alla famiglia Lannoy – Colonna, di cui lo stemma è inserito nel pavimento della cappella. All’interno di essa trova collocazione uno dei capolavori della chiesa: il Compianto sul Cristo morto del modenese Guido Mazzoni, commissionatogli direttamente da Alfonso II e realizzato in terracotta policroma.

 

La vena realistica che caratterizza l’intero gruppo scultoreo è impressionante.

 

Gli otto personaggi sono tutti a grandezza naturale. Il corpo del Cristo è adagiato su un basamento e intorno a lui si riconoscono: Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo, la Maddalena, Maria di Salomè, che sembra quasi sorreggere la Vergine, San Giovanni Evangelista e Maria di Cleofa.

 

Il forte realismo che caratterizza la scena finisce col rendere il visitatore incluso nella scena stessa, come se si trovasse sul Golgota, appena dopo la deposizione del Cristo.

Nessun dettaglio è stato trascurato e la cura del particolare è probabilmente la sua maggiore caratteristica: sguardi addolorati e volti distrutti dal dolore della perdita; occhi piangenti e visi contratti con rughe d’espressione fortemente in evidenza; bocche aperte come se stessero gridando. Tutti i dettagli sono inseriti, anche quelli che potevano essere nascosti poiché lontani dallo sguardo dell’osservatore.

I tratti fisiognomici dei soggetti rimandano alla famiglia d’Aragona, in particolare Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo sembrano ricordare rispettivamente Alfonso e Giovanni Pontano, umanista di corte. Inoltre, non sono mancati critici che nei tratti di Nicodemo hanno voluto vedere il volto di Ferrante d’Aragona.

 

È da notare che gli abiti indossati dalla Maddalena, da Nicodemo e da Giuseppe D’Arimatea rimarcano l’abbigliamento quattrocentesco. Questo dimostrerebbe come gli artisti “forestieri” chiamati a Napoli, pur proponendo tematiche già realizzate nelle loro città, fossero riusciti a soddisfare le esigenze e le richieste della committenza napoletana.

Per quel che concerne l’opera nel suo complesso, è da segnalare che l’attuale collocazione non è quella originale poiché inizialmente era stata concepita e collocata a sinistra del presbiterio. Non è inoltre da escludere che anche la collocazione attuale delle statue non sia originale: infatti volti e sguardi – ad esempio quello di Ferrante e quello di Nicodemo – sembrano quasi perdersi nel vuoto piuttosto che voltarsi verso il Cristo morto, come logica vorrebbe. Una testimonianza di questa teoria sono i gruppi scultorei, dello stesso Mazzoni, del Compianto (1450) della Chiesa del Gesù di Ferrara e di quello di Modena, nella chiesa di San Giovanni Battista, datato tra il 1477 e il 1479: i personaggi sono posti intorno al corpo del Cristo in un semicerchio che trova il suo congiungimento nel corpo del Salvatore disteso, come a dare senso al cerchio della vita.

 

L’opera dei fiorentini in Sant’Anna dei Lombardi a Napoli è notevole: la testimonianza della loro presenza aggiunge un altro tassello alla storia del periodo del Rinascimento, uno tra i periodi più ricchi e fecondi: storia, letteratura ed arte si muovono lungo la penisola, sotto la protezione di Lorenzo il Magnifico, lasciando capolavori d’arte inestimabile.

 

 

 

Le immagini fotografiche inserite in questo elaborato – laddove non indicato espressamente - sono state realizzate dall’autrice, previa autorizzazione alla realizzazione ed alla pubblicazione delle stesse, da parte del personale addetto del Complesso monumentale di Sant’Anna dei Lombardi.

 

Note

[1] Tratto da ‘La Testata magazine.it – Anna Illiano – Michelangelo Buonarroti - Il tesoro di Sant’Anna dei Lombardi si amplia ‘ 2 Gennaio 2022


SANT’ANNA DEI LOMBARDI PT I

A cura di Ornella Amato

 

Il complesso monumentale di Sant'Anna dei Lombardi

 

Doveroso un Ringraziamento Speciale all’intero staff operante all’interno del Complesso, anzitutto per la gentilezza e la disponibilità, per aver inoltre fornito materiale storico e per l’autorizzazione alla realizzazione delle immagini fotografiche contenute in questo elaborato.

 

Raccontare la Chiesa ed il Complesso Monumentale di Sant’Anna dei Lombardi, vuol dire fare un viaggio nella storia di due città, Napoli e Firenze, nei rapporti economici e culturali che le hanno legate e nelle conseguenze artistiche che ne sono derivate.

 La chiesa di Sant’Anna dei Lombardi fu fondata nel 1411 da Gurello Origlia, già protonotario di Ladislao di Durazzo, e inizialmente consegnata agli olivetani, ramo dei benedettini, e per questo dedicata a Santa Maria di Monte Oliveto. L’ampliamento del complesso fu realizzato per volere di Alfonso II d’Aragona, ma il pantheon privato della famiglia era la chiesa di San Domenico Maggiore, che tutt’oggi ne conserva le arche.

Nota ai napoletani semplicemente come “la Chiesa di Monte Oliveto”, da cui deriva anche il nome della piazza su cui si affaccia, il complesso monumentale di Sant’Anna dei Lombardi è uno scrigno d’arte e storia, testimonianza del rapporto tra la Napoli aragonese e la Firenze rinascimentale.

Gli artisti che vi lavorarono, quali Antonio Rossellino, Giorgio Vasari, Michelangelo, Benedetto da Maiano, vi giunsero proprio a seguito dei floridi rapporti di natura politica ed economica che si crearono tra le due città. Ne è testimonianza storica anche la scelta del banchiere fiorentino Filippo Strozzi di avere a Napoli alcune delle filiali della sua banca. A tal proposito, è interessante ricordare che proprio a Palazzo Strozzi nel 1901 è stata rinvenuta una tavola raffigurante la Napoli del ‘400 e denominata Tavola Strozzi - attualmente conservata a Napoli al Museo di San Martino – realizzata come dono del banchiere al re Ferrante d’Aragona.

Tornado al complesso di Sant’Anna, la particolarità della doppia denominazione è legata ad un evento estremamente significativo. Nel 1582 la chiesa venne edificata su un terreno adiacente di proprietà degli stessi olivetani ma, gravemente danneggiata nel 1789 a seguito di un crollo, la chiesa passò allo Stato borbonico dopo la soppressione nel 1799 dell’ordine degli olivetani. Nel 1801 Ferdinando IV di Borbone la concedeva ai lombardi, riprendendo quindi la denominazione precedente della chiesa di Sant’Anna dei Lombardi, la cui primitiva costruzione fu completamente demolita dopo il terremoto del 1805.

 

L’esterno

 

Già sulla facciata esterna della chiesa si riscontrano elementi di rimando al rinascimento fiorentino e al tardogotico napoletano, ma è da segnalare che gran parte di essa è stata ricostruita ex-novo a seguito dei danni subiti durante i bombardamenti del marzo 1944.

Lo spazio su cui fu innalzata la struttura apparteneva ai monaci benedettini – ordine a cui gli olivetani appartengono – e si trattava di uno spazio estremamente vasto, tanto da comprendere ben quattro chiostri. Attualmente si trova al centro della città, ma in principio era distante dall’area centrale e attorno alla struttura oggi sorgono il Palazzo delle Poste e la Caserma dei Carabinieri ‘Pastrengo’.

 

L’interno della chiesa di Sant'Anna dei Lombardi

L’interno è enorme se si considera l’intera struttura del complesso, ma l’area esclusivamente dedicata alle celebrazioni non è particolarmente grande, sebbene già in primis racconti tutta la complessità della storia della struttura stessa.

Entrando in chiesa, infatti, basta voltarsi verso la controfacciata per scoprire l’organo contornato con gli affreschi raffiguranti Angeli realizzati da Battistello Caracciolo, di stampo seicentesco. Ai lati del portone d’ingresso, in maniera simmetrica e speculare, sono collocati due altari marmorei rinascimentale: uno ad opera di Giovanni da Nola, per la Famiglia Ligorio, l’altro di Girolamo Santacroce per la Famiglia Del Pezzo.

 

Il loro schema compositivo è estremamente semplice: basamento e struttura superiore con pala d’altare tripartita. Sono realizzati completamente in marmo e nella parte superiore presentano la Vergine con il Bambino e nicchie laterali coi santi.

 

Voltandosi verso l’altare, lo sguardo del visitatore corre verso la navata unica, su cui si affacciano le cappelle, e sulla pavimentazione che custodisce diverse lapidi terragne[1] .

Alzando lo sguardo in maniera lenta ma a velocità costante, come se con una macchina da presa il migliore dei registi volesse dare profondità e stupore allo spettatore creando una scena con un taglio unico e volto a sorprendere chi osserva, lo sguardo resta sorpreso dal soffitto cassettonato. Questo tuttavia non è l’originale, ma una ricostruzione a seguito della distruzione del primo durante i bombardamenti subiti dalla struttura nella Seconda guerra mondiale. L’attuale soffitto è realizzato con uno stile considerato più contemporaneo, presentando degli ottagoni e ricordando solo lontanamente il soffitto a cassettoni lignei originale; cattura e monopolizza lo sguardo del visitatore, sebbene sembri contrastare con la struttura che presenta diversi stili – dal gotico al barocco – a testimonianza della storia e dei rimaneggiamenti subiti.

 

Purtroppo, a seguito dei bombardamenti patiti tra il 13 ed il 14 marzo del 1944, molto è andato perduto o modificato: il bombardamento interessò la facciata, il campanile (completamente perduto, ma del quale resta la campana) ed il vestibolo. Stessa sorte subirono i monumenti funebri laterali alla porta: quello di Domenico Fontana è stato ricomposto e ricollocato; dell’altro, eseguito da Giuseppe Trivulzio, si sono perse completamente le tracce anche se si avevano notizie di suoi frammenti fino al dopoguerra.

L’altare attuale è tardo seicentesco, voluto dall’abate Chiocca che è stato colui che ha operato maggiormente nell’ambito di una vera e propria ristrutturazione all’interno della chiesa e che volle sostituire quello precedente. In particolare, è a lui che si devono i rimaneggiamenti barocchi nell’opera realizzata dai fratelli Ghetti, su disegno di Gian Domenico Vinaccia. Nella parte frontale presenta inserti di marmo policromo, tipici del barocco; interessante è il rilievo marmoreo raffigurante la Lavanda dei piedi, probabilmente recuperato dalla struttura d’altare precedente, come sostiene una parte della critica attribuendola a Giovanni da Nola.

 

La parte posteriore, invece, è organizzata in tre ordini verticali separati da lesene sormontate da un fregio e teste di cherubini.

 

La pala che lo adorna raffigura L’educazione della Vergine ed è stata eseguita da Angelo Mozzillo nel XIX secolo. Ai suoi lati due lastre di marmo tramandano i nomi dei fondatori della chiesa: Gorello Origlia e Alfonso d’Aragona.

 

Nella zona presbiterale, alle spalle dell’altare, è presente anche un coro ligneo in due ordini di stalli e databile entro il 1525.

 

Le cappelle e la Sagrestia di Sant'Anna dei Lombardi

La chiesa è caratterizzata dalla presenza di dieci cappelle laterali, cinque per lato, a pianta centrale e che si affacciano sulla navata.

 

Tra le cappelle più interessanti ricordiamo il Cappellone del Santo Sepolcro e la Cappella Lannoy con il Compianto sul Cristo Morto, il cui realismo delle statue è davvero impressionante: i volti disperati e piegati dal dolore, le bocche aperte a mostrare la dentatura, quasi come se stessero gridando il loro dolore, fanno da contorno al Cristo morto.

 

Anche la Cappella Piccolomini, voluta dal Duca di Amalfi Antonio Piccolomini e realizzata da Antonio Rossellino, in cui riprende temi già utilizzati a San Miniato al Monte a Firenze ma adattandoli ai gusti dei committenti e della corte d’Aragona.

 

Infine si ricorda la Cappella Correale a cui lavora Benedetto da Maiano, uno degli scultori maggiormente apprezzati a Firenze, che qui si dedica in particolare alla realizzazione dell’altare marmoreo dell’Annunciazione. Sulla cima si trovano due Spiritelli reggi festone e quello di destra è stato attribuito alla mano del quattordicenne Michelangelo Buonarroti.

 

Nelle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori, architettori italiani da Cimabue a’ tempi nostri scritte da Giorgio Vasari, pubblicate per la prima volta nel 1550, Michelangelo Buonarroti è descritto come il primo artista in assoluto e Vasari lo racconta utilizzando parole estremamente lusinghiere, probabilmente dettate dall’ammirazione che l’autore nutriva per il grande artista. Proprio per la medesima chiesa dove probabilmente da ragazzino Michelangelo realizzava lo spiritello della cappella Correale, il Vasari stesso si ritrovò a lavorare nella Sagrestia, come dimostrano gli affreschi dell’ex Refettorio noto oggi come la sagrestia vasariana.

 

Un aneddoto racconta che il Vasari, giunto a Napoli, dopo aver visto la sala da affrescare si sarebbe rifiutato data la scarsità dell’illuminazione e per la presenza di una struttura gotica – che lo stesso Vasari rifiutava - ma avrebbe accettato realizzando quindi gli affreschi, poiché convito dal suo protettore Miniato Pitti.

 

La Cripta

La Cripta detta “degli abati” è uno degli ambienti “nascosti” dell’intero complesso. Un luogo di sepoltura all’interno del quale si segnalano scolatoi senza seggiolino[2] e teschi inseriti in piccole teche. Di essa si segnalano gli affreschi con la scena della Crocefissione perfettamente conservati.

 

Arte e scultura contemporanea: Jago

Il complesso ospita spesso mostre e soprattutto artisti contemporanei, in particolare qui sono esposte due opere marmoree di Jago (Jacopo Cardillo), noto per la Pietà esposta alla Chiesa degli Artisti a Roma, per il bambino di Look Down in piazza del Plebiscito a Napoli. In Sant’Anna dei Lombardi troviamo il Muscolo Minerale, esposto al centro della Cappella Piccolomini su di un espositore che ne consente la visione completa, e Reliquia, posta invece sull’altare della sagrestia del Vasari.

 

Monteoliveto, come semplicemente la chiamano i napoletani, è un percorso storico, artistico e culturale, presente nel circuito di “campaniartecard”. È testimonianza d’eccellenza delle conseguenze dei rapporti che si instaurarono tra coloro che scrissero la storia a partire dai secoli del Rinascimento, fino ai giorni nostri, ma guardando al futuro, aprendosi ad esso non solo attraverso le mostre di arte contemporanea che ospita, ma soprattutto tramite le sculture di Jago che creano un connubio unico, un legame che diventa inscindibile.

 

 

 

Crediti e riferimenti fotografici

Le immagini inserite in questo elaborato sono state realizzate dall’autrice su autorizzazione dello Staff del Complesso Monumentale di Sant’Anna dei Lombardi di Napoli; per quelle di cui si riportano i crediti nelle rispettive didascalie, sono tratte da wikimedia commons.

 

 

Note

[1] sepolture avvenute tra il ‘400 ed il’500 di tipo araldico – epigrafico, appartenenti a personaggi che si distinguono dalla popolazione comune, ma non appartengono a ranghi particolarmente elevati.

[2] La scolatura era una pratica utilizzata spesso a Napoli nel Seicento.

 

  

Sitografia

santannadeilombardi.it