PINACOTECA RAMBALDI

A cura di Daniele Mennella

 

Introduzione

Sul crinale della collina che guarda verso il litorale ligure, tra Sanremo e Coldirodi, aggrappata al declivio, svetta la Villa Luca. Ubicata nel comune di Coldirodi, l’edificio custodisce gelosamente la collezione pittorica e libraria che Padre Stefano Rambaldi destinò al borgo natio.

 

 

Paolo Stefano Rambaldi

L’impetuosa ricerca della bellezza

 

Paolo Stefano Rambaldi, nato a Coldirodi nel Natale del 1803, appena adolescente, si trasferì nella vivace Firenze, capitale dell’arte e della cultura italiana durante i primi anni dell’800. Fervente attivista risorgimentale, per mezzo delle sue epistole entrò in contatto con le personalità politiche e culturali ottocentesche più influenti come Alessandro Manzoni, Vincenzo Gioberti e Silvio Pellico. Da sempre sensibile e attento agli sviluppi dell’arte figurativa ottocentesca, anche durante la sua prima giovinezza, raccolse un considerevole numero di dipinti. Fu però la carica di rettore del Seminario Maggiore di Piazza di Castello, che ricoprì dal 1841 al 1849 e il contatto con rilevanti circoli culturali come l’Accademia Valdarnese e la Società Promotrice di Belle arti, che gli permise di arricchire in modo considerevole la sua collezione. La fama da dissidente e i rapporti di amicizia stretti con Pellico e Gioberti, costarono tuttavia, al nostro, la rimozione dalla carica di rettore per mano degli Austriaci, che occuparono Firenze nel 1849. Visse da allora in una grave condizione di indigenza, non rinunciando ad acquistare e raccogliere morbosamente opere d’arte e pregiati manoscritti, come riportato nell’articolo pubblicato alla sua morte da ‘La Nazione’ di Firenze il 9 aprile del 1865:

«a forza di privarsi del necessario, spendendo in essi quanto a cittadino dovizioso parrebbe troppo».

La sua ferma volontà di donare i suoi beni artistici e librari al comune di Colla, oggi Coldirodi, è ben chiara nel suo testamento, dove dichiara inoltre che le tele e i manoscritti non potranno in futuro superare i confini della città natale. Il 18 giungo del 1865, la giunta comunale, riunitasi in assemblea straordinaria e sollecitata dal sindaco, decise di acquistare la raccolta del Rambaldi ed estinguere i debiti che infelicemente accompagnavano i beni.

 

La collezione pittorica

Le cento tele

 

Grazie all’inventario compilato dal pittore Alessandro Petrini, alla morte del Padre Rambaldi, riusciamo a risalire sommariamente al numero di tele possedute dal sacerdote durante l’acquisto da parte del comune di Coldirodi. Dopo la prima collocazione all’interno del palazzo del municipio e il furto delle tele sventato nel 1953, la collezione pittorica conta ad oggi cento opere. Dal 2006 la raccolta è custodita all’interno della suggestiva villa Luca. Appoggiata sul crinale della collina, la villa ospita nelle sue sette sale le opere pittoriche comprese tra il XV e il XIX secolo. Le ariose

sale, affrescate a grottesca dal pittore ligure Giovanni Morscio, guardando verso la baia di Ospedaletti, creano la possibilità di una affascinante commistione. Sembra, infatti, che il contesto storico artistico fiorentino che le opere rievocano si unisca con il panorama ligure di ponente, dove il Rambaldi ha vissuto gli anni della sua prima adolescenza. 

 

Grazie ad una importante campagna di valorizzazione e restauro, compiuta da Martino Oberto, intorno agli anni Sessanta del Novecento è possibile ad oggi apprezzare le tele in un ottimo stato conservativo. Tra le opere di argomento religioso, alle quali padre Rambaldi per sua vocazione era istintivamente legato, degne di nota

sono: San Sebastiano soccorso dalle Pie donne di Michele Rocca, la Sacra Famiglia di Fra Bartolomeo della Porta e la Santa Famiglia in faccende domestiche di Jacopo Vignali. Da considerare è anche l’attenzione di Stefano Rambaldi verso opere di stampo laico e borghese, raffiguranti principalmente nature morte e paesaggi, tra cui si annoverano alcune tele di Giuseppe Recco e di Carlo Markò

 

Madonna con Bambino Lorenzo di Credi  

Le gloriose maestranze fiorentine a Coldirodi

 

Esposta nella prima sala, che accoglie prevalentemente artisti toscani del Cinquecento, La Madonna con Bambino attribuita a Lorenzo di Credi, è considerata l’opera più antica della collezione Rambaldi. Realizzata probabilmente tra il 1475 e il 1480, restituisce la tecnica, le influenze e il prestigio che caratterizzavano l’affollata bottega di Andrea Del Verrocchio durante gli ultimi anni del Quattrocento. La Vergine è raffigurata all’interno di una stanza, intenta a reggere sulle ginocchia Gesù, al quale porge una ciliegia. Dal colore rosso vivo, il frutto potrebbe simboleggiare un rimando alla futura passione di Cristo. Sullo sfondo, oltre la finestra, si scorge un paesaggio collinare, dove campeggia, tra i folti alberi, un fiume. La monumentalità e la rigidità delle figure è chiara eredità del maestro fiorentino, Andrea del Verrocchio, ma è nella finezza dei volti, la luminosità dei colori e l’abilità nel panneggio che si nota la personalità artistica di Lorenzo di Credi.

L’influenza di Leonardo da Vinci, assiduo frequentatore della bottega, è riscontrabile nel paesaggio sfumato, eco della prospettiva aerea e nell’idea di legare dinamicamente le figure tramite la vezzosa contesa delle mani, acme e centro del dipinto.

 

Tentazioni di Sant’Antonio Salvator Rosa

La meravigliosa rappresentazione dell’orrore

 

L’indocile e ostinato pittore napoletano, Salvator Rosa, nelle tentazioni di Sant’Antonio, dipinge con estrema chiarezza e acuto ingegno l’orrore del maligno. La prima versione, dipinta dal Rosa per i granduchi di Firenze, conservata a Palazzo Pitti è databile intorno al 1646. Quella posseduta dal Rambaldi, realizzazione originale più tarda, presenta dimensioni ridotte e una resa più cupa e drammatica. In un luogo deserto e roccioso, Sant’ Antonio, intento a meditare, viene sopraffatto da un’orda di creature demoniache. Il santo, per contrastare l’orda di bestie, si torce vigorosamente sopra la stuoia, impugnando con forza una croce di legno. La resa della luce guida la composizione pittorica: in primo piano il teschio e un libro aperto, simbolo dell’attività meditativa appena interrotta e alle spalle di Sant’Antonio, risalta per le sue dimensioni, la creatura mostruosa ermafrodita. Il suo terrificante corpo è frutto dell’unione di vari animali: lo scheletro sembra ricordare un rapace in posizione eretta, il cranio ricorda quello di un cavallo con lunghe zanne di cinghiale, mentre, la sinuosa coda sembra quella tipica dei ratti. La distanza dalla tradizione figurativa, che ha come oggetto, le tentazioni di Sant’Antonio, raffigurate nel corso dei secoli da svariati artisti, rende la tela un unicum nel panorama artistico seicentesco.

 

 

 

Le immagini presenti sono state realizzata dall’autore dell'articolo

 

 

 

Bibliografia

Catalogo Pinacoteca Rambaldi di Coldirodi – Schede 1-70 ( numeri inventario : 56408-56477).

«Rivista Ingauna e Intemelia» 1958, I-II.

Perelli, M., Bragaglia, E., Grossi, T. (2006). Salvator Rosa: l'uomo, l'artista, l'antesignano. Italia: Antiga.

 

Sitografia

http://pinacotecarambaldi.it consultato il 25/07/2022

https://www.beniculturali.it/luogo/pinacoteca-rambaldi-villa-luca consultato il 26/07/2022

https://www.info-sanremo.com/pinacoteca-rambaldi.html consultato il 30/07/2022


IL MUSEO NAZIONALE DI CAPODIMONTE E LE OPERE TIZIANESCHE

A cura di Alessandra Apicella

 

Tra la seconda metà del ’500 e la prima metà del ’600 il tramonto delle signorie italiane comportò anche lo smembramento delle sue imponenti e centenarie collezioni artistiche. Un caso emblematico è quello che lega il sovrano inglese Carlo I Stuart e la collezione mantovana: l’intenso desiderio da parte di Carlo I di avere una collezione principesca e gli enormi debiti del duca di Mantova, Vincenzo II, implicò, dal 1627, un imponente trasferimento di capolavori, causando l’indignazione dei cittadini che si offrirono di riacquistare la collezione. Alla fine, le opere si allontanarono dal suolo italiano ma giunsero in Inghilterra tutte annerite, forse a causa del mercurio che si trovava nella stiva della nave. Molti furono i casi di disgregazione di intere collezioni per motivi economici, ma molti furono anche i trasferimenti da un luogo all’altro per motivi dinastici. È questo il caso della collezione Farnese.

Il nucleo costitutivo delle raccolte del Museo di Capodimonte risale al collezionismo raffinato dei Farnese, quando nel 1734, in seguito al trasferimento sul trono napoletano di Carlo III di Borbone, con lui venne trasferita anche tutta la ricca collezione ereditata dalla madre, Elisabetta Farnese, che pose inevitabilmente la necessità di una sede che fosse degna di una simile raccolta. La costruzione della reggia di Capodimonte sulla collina, a partire dal settembre del 1738, coniugò questa necessità con la passione venatoria del sovrano, svolgendo, allo stesso tempo, anche una funzione abitativa. Dopo vari momenti di declino e ripensamenti relativi alla funzione di questo luogo, fu soltanto nel 1957 che si augurò l’ambizioso progetto di una sede museale adeguata ai dipinti e agli oggetti medievali e moderni, trasferiti dalle sale del Museo nazionale, che venne limitato al contesto archeologico. La collezione di Capodimonte è costituita essenzialmente da pitture del Rinascimento emiliano e romano e da opere fiamminghe raccolte essenzialmente a Roma, poi spostate nella metà del Seicento quasi tutte a Parma, dapprima nel palazzo del Giardino e poi in quello della Pilotta, per poi essere definitivamente trasferite a Napoli agli inizi del Settecento. Nella reggia si conserva dunque quello che è il nucleo più corposo e rilevante della collezione pittorica Farnese. Vi sono anche custoditi reperti come porcellane, ceramiche, piatti, utensili da cucina, armature, argenti, arazzi e oreficerie.

 

All’interno della variegata collezione Farnese non si può non ricordare la straordinaria produzione tizianesca, a cui, all’interno del museo, è dedicata la Sala 2. Si tratta soprattutto di ritratti. Tiziano, in breve tempo, divenne infatti uno degli artisti più richiesti e rinomati a livello europeo, nell’ambito di questo genere di commissioni. I suoi personaggi emergono solitamente maestosi, a busto quasi sempre intero, da uno sfondo volutamente scuro ed indistinto. In tal modo i volti risaltano per contrasto e con alcuni particolari, conferendo alle figure un senso di realistica fisicità. In linea con il suo straordinario successo, il Vecellio divenne nel 1533 “el pintor primero” (il pittore ufficiale) dell’imperatore Carlo V, per il quale realizzò numerosi ritratti di straordinaria profondità psicologica.

Nelle sale e nei corridoi della reggia si possono osservare: il ritratto di Pier Luigi Farnese (1546), il ritratto di Filippo II (1551-1554), il ritratto di Carlo V (1533-1535), il ritratto di Paolo III (1543), il ritratto di Paolo III con il camauro (1545-1546), il ritratto del cardinale Alessandro Farnese (1545-1546), il ritratto di giovinetta (1544-1545), la Maddalena penitente (1533), l’Annunciazione (1557), ed infine la Danae (1545) ed il ritratto di Paolo III con i nipoti Alessandro e Ottavio Farnese (1546), sicuramente le più famose.

 

La tela della Danae fu dipinta ad olio da Tiziano nel 1545 per il cardinale Alessandro Farnese. Nel quadro è rappresentato un soggetto di mitologico ed erotico allo stesso tempo: la figlia del re Argo, Danae, viene posseduta da Giove sotto forma di pioggia dorata, come narrato dall’episodio delle Metamorfosi di Ovidio. La figura femminile, dalla struttura corpulenta, quasi statuaria, sembra ricalcare una perduta opera di Michelangelo, la Leda (tempera su tavola, 1530, perduto), o ancora l’allegoria della Notte, scolpita ancora dal Buonarroti per la Sagrestia Nuova dei Medici a Firenze. Quello che colpisce in modo immediato è la resa del colore, vibrante e luminoso, della donna in primo piano in contrasto con lo sfondo scuro, il cui unico spiraglio di colore è l’apertura sul cielo sulla destra, che risulta essere l’unica variazione di colore del quadro rispetto alla netta predominanza dell’oro e del marrone. Lo stesso Michelangelo commentò l’opera, come riporta Giorgio Vasari nelle sue Vite, rimproverando, però, al pittore veneto una mancanza di attenzione al dettaglio e al contorno. Scrive Vasari: ‹‹molto gli piaceva il colorito suo e la maniera, ma che era un peccato che a Vinezia non s’imparasse da principio a disegnare bene e che non avessono que’ pittori miglior modo nello studio.››[1]

 

Sempre legato alla figura del cardinale Alessandro Farnese, questa volta come personaggio del quadro e non come committente, è il ritratto di Paolo III con i nipoti Alessandro e Ottavio Farnese (olio su tela, 1546). La tipologia è la stessa del ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi, dipinto da Raffaello nel 1518. Nella tela tizianesca il verismo risulta essere estremo e le diverse gradazioni di rosso, danno un senso di profondità all’opera, tanto dal punto di vista formale quanto da quello psicologico, creando un’atmosfera quasi cupa. Commissionata dallo stesso papa, l’opera finisce per divenire emblema del fenomeno del nepotismo che, sotto un’apparente devozione, trapela nei gesti e negli sguardi dei più giovani, sintomi della loro ambizione e degli intrighi che li coinvolgono. Per Tiziano le forme, liberate dall’obbligo del disegno, acquistano una vivezza ed un realismo che fino ad allora erano rimasti sconosciuti all’ambiente artistico veneto e infatti la sua sperimentazione pittorica proseguì fino alla fine, attraverso nuove, personalissime tecniche: le pennellate divennero più rapide e febbrili, i toni più scuri e tragici, e la stesura veloce del colore in un disegno appena abbozzato creava delle rappresentazioni palpitanti di vita. Il quadro è databile all’ ultima fase della sua produzione, come si può addirittura notare nella mano destra mancante del papa, dettaglio quasi non percepibile, poiché l’attenzione risulta totalmente rapita dall’atmosfera straordinariamente riflessiva che aleggia intorno ai personaggi.

 

La collezione Farnese, con i suoi capolavori legati agli artisti più vari e prestigiosi, rappresenta un fiore all’occhiello all’interno del Museo di Capodimonte, pienamente enfatizzata e valorizzata dal museo stesso. Gran parte della collezione è oggi esposta a Napoli, in altri due complessi, il Museo archeologico e il Palazzo Reale. Altre opere sono invece esposte in importanti sedi come la reggia di Caserta, la Galleria nazionale di Parma, il British Museum di Londra ed in altri musei sparsi per il mondo.

 

 

 

Note

[1] Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti. Con ritratti, volume 13, Firenze, Felice Le Monnier, 1857, p. 35.

 

 

 

 

Bibliografia

Salvatore Settis e Tommaso Montanari, Arte. Una storia naturale e civile, volume 3. Dal Quattrocento alla Controriforma, Einaudi scuola, 2019

Maria Cecilia Mazzi, In viaggio con le muse. Spazi e modelli del museo, Edifir Edizioni Firenze, 2010

Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti. Con ritratti, volume 13, Firenze, Felice Le Monnier, 1857.

 

Sitografia

https://it.wikipedia.org/wiki/Catalogo_dei_dipinti_del_Museo_nazionale_di_Capodimonte


“L’ISOLA DI TOSCANA IN LOMBARDIA”: IL BORGO DI CASTIGLIONE OLONA

A cura di Beatrice Forlini

 

 

Castiglione Olona definita da Gabriele d’Annunzio: “L’isola di Toscana in Lombardia”, è un piccolo borgo in provincia di Varese che racchiude ancora il suo spirito rinascimentale; qui, infatti, il Cardinale Branda Castiglioni (1360 circa-1443) a partire dal 1422, grazie a una bolla di papa Martino V, e all’autorizzazione del Duca di Milano, ottenuta l’anno seguente, decide di riedificare il suo borgo natale (Fig. 3).

 

Il cardinale Castiglioni è stato un’importante figura del primo Quattrocento italiano, dapprima come legato apostolico e riformatore in diverse zone dell'Europa centro-orientale e poi attivo protagonista di alcuni dei maggiori Concili ecumenici del tempo. È stato però anche un grande cultore d’arte e a lui si deve, per esempio, la committenza a Masolino da Panicale degli affreschi della Cappella di San Clemente a Roma.

Il suo contributo maggiore però è forse proprio la trasformazione di Castelseprio da piccolo borgo fortificato a un centro nevralgico di cultura e spiritualità, dove si respira lo spirito rinascimentale del centro Italia. Il cardinale è partito proprio dai resti dell'antico castello collocato in cima al colle del paesino, antica rocca fortificata, è documentata già dall'XI secolo ma nel corso dei secoli venne più volte assediata, fino alla distruzione nel XIII secolo. Successivamente fondà una Collegiata (edificata in soli tre anni, dal 1422 al 1425) per l'educazione del clero secolare, un Ginnasio, diverse dimore signorili e una Chiesa dedicata al Corpo di Cristo (edificata a partire dal 1437) (fig. 5). Quest'ultima è particolarmente interessante in quanto è un precoce esempio della fortuna del prototipo brunelleschiano della Sagrestia Vecchia della fiorentina Basilica di San Lorenzo, in Lombardia.[1]

 

Per realizzare e decorare questi nuovi edifici il cardinale ha richiamato nella sua “officina” di Castelseprio artisti di svariata provenienza, affidandosi per l'architettura e la scultura a maestranze lombarde primi fra tutti i fratelli Pietro, Giovanni e Alberto Solari che realizzano la Collegiata e diversi altri palazzi; anche le sculture presenti nella Collegiata e nel Battistero sembrano riferibili a due artisti lombardi, ovvero  Filippo e Andrea da Carona, mentre ad affrescare le pareti della Collegiata, del Battistero e del Palazzo del Cardinale giunsero rinomati artisti toscani: Masolino da Panicale(1383-1447), il senese Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta (1410-1480) e Paolo Schiavo (1397-1478). Una scelta forse insolita per il tempo ma dovuta alla vasta e aggiornata cultura del cardinale grazie ai suoi interessi in ambito umanistico e ai frequenti viaggi in Italia e all’estero che gli permettono di vedere e prendere spunto da diverse culture. (fig. 1)

 

La Collegiata (fig.2) venne consacrata nel 1425, gli architetti che la realizzarono, i fratelli Solar, divennero in breve tampo protagonisti del rinnovamento architettonico del gotico lombardo. La chiesa è dedicata ai SS. Stefano e Lorenzo, come ricordato dalla lunetta presente sulla facciata datata 1428 che riunisce tutti i personaggi legati alla storia della Collegiata diaposti intorno alla Vergine con Bambino: oltre ai due santi sono infatti presenti anche il cardinale Branda, inginocchiato ai piedi della Madonna, e i SS. Ambrogio e Clemente.

 

A pianta longitudinale, la chiesa è suddivisa in tre navate, non presenta transetto né cappelle laterali ma culmina con un’abside semiottagonale poco sporgente dal perimetro, affrescata con storie della Vergine e dei Santi Stefano e Lorenzo, realizzate dai tre pittori toscani soprannominati.

A Masolino da Panicale si devono gli episodi della vita della Vergine affrescati sulle vele della volta, caratterizzate da volti delicati e colori luminosi, esempi suggestivi dell’innovativo passaggio pittorico tra Medioevo e Rinascimento. Essi sono di un’elevatissima qualità compositiva, luminosa e cromatica, inoltre nelle tre vele centrali le architetture si presentano complesse e fantasiosamente gotiche, caratterizzate da un ritmo innovativo che percorre univocamente l'intera decorazione; nonostante la fragilità conservativa, questi affreschi furono restaurati negli anni Venti del Novecento, strappati e trasportati su tela, ed infine ricollocati in situ nel 1972.

Per completare la Collegiata, le decorazioni delle pareti del presbiterio (dedicate ai due santi Stefano e Lorenzo) vengono affidate al fiorentino Paolo Schiavo e al Vecchietta, che al tempo era all’inizio della sua carriera artistica ma portatore di un linguaggio moderno e ben informato sulle novità di Donatello che lo porterà a diventare uno dei principali artisti senesi del tempo. Il solo Vecchietta invece opera nel palazzo signorile di Branda Castiglioni (fig. 7-8) dipingendo i murali raffiguranti Uomini e Donne famosi, oggi molto deteriorati. Inoltre, il cardinale dota la chiesa di ricchi oggetti e tesori che oggi sono conservati al museo attiguo ed entro il 1437 fu anche realizzato un monumento sepolcrale del cardinale Branda, attribuito ai fratelli Filippo e Andrea da Carona.

 

Un altro esempio di questo grandioso progetto è il Battistero (fig. 4) che sorge probabilmente sui resti di una torre angolare del preesistente castello, trasformata poi in cappella gentilizia; esso deve la propria celebrità al ciclo di affreschi del sottarco realizzati sempre da Masolino, che poi affresca anche parte del palazzo del cardinale dipingendo uno dei primi esempi di solo paesaggio (fig. 9).

 

Le scene nel sottarco del battistero (datate al 1435) rappresentano, invece, momenti della vita di San Giovanni Battista, dall’annuncio della sua nascita alla sepoltura. Questi episodi sembrano sfondare illusionisticamente le pareti con architetture e paesaggi molto realistici e suggestivi; sono inoltre ricchissimi di particolari studiati nei minimi dettagli, per i quali Masolino utilizza l’innovativa prospettiva scientifica, ideata a inizio secolo da Filippo Brunelleschi che però accostata a lavorazioni attinte dall’oreficeria, caratteristiche ancora dell’arte tardogotica. Sono presenti quindi elementi pienamente rinascimentali, nei quali si risente l'eco degli affreschi della Cappella Brancacci di qualche anno prima, a cui però si affianca una vena più gotica tipica del contesto lombardo, con la sottile descrizione dei costumi, la delicata gamma cromatica e l’altezzoso atteggiarsi dei personaggi.

Un’altra novità è rappresentata dalle decorazioni delle pareti del Battistero, dove i protagonisti della storia sacra si mescolano insieme a quelli dell’epoca contemporanea, con l’inserimento di ritratti e riferimenti a costumi e avvenimenti odierni, in cui ovviamente Branda Castiglioni ricopre un ruolo di primo piano; come nel Battesimo di Cristo, ambientato in un paesaggio che sembra non abbia termine e si perde nell’infinito, una scena carica di grazia e armonia. (fig. 6)

 

Il borgo di Castiglione Olona però dopo la morte del cardinale Branda Castiglioni, nonostante questo ambizioso progetto e le grandi maestranze intervenute, va incontro ad un lento declino. Nel XVI secolo sia il castello che la Collegiata furono saccheggiati e a metà del secolo quello che resta del castello viene smantellato. Nel 1775 invece, le pareti interne della chiesa vengono completamente ricoperte da uno strato di calce, che nel 1843 in occasione di alcuni lavori fu rimosso, facendo così venire alla luce gli affreschi della volta della zona absidale con la firma di Masolino.

Sempre nell’Ottocento continuano delle modifiche e rinnovamenti dell’assetto originale, per esempio viene cambiato l’assetto delle navate per ricreare decorazioni in stile quattrocentesco, e all’ inizio del Ventesimo secolo viene aggiunto un pulpito in pietra (su disegno dell'ingegnere Antonio Castiglioni). Nel 1927 viene realizzato un primo intervento di restauro degli affreschi dell'abside, eseguito da Mauro Pelliccioli e pochi anni dopo viene rimosso anche l'altare barocco. Come già accennato, negli anni Settanta, si procede ad un nuovo restauro degli affreschi dell'abside, con strappo e successiva ricollocazione. In anni più recenti sono stati eseguiti nuovi restauri che hanno riguardato il rosone, la facciata e la copertura, ma anche le pale degli altari (lavori eseguiti nel 2001) ed infine vengono nuovamente ritoccati gli affreschi dell'abside nel 2002.

Oggi però è possibile visitare l’intero complesso, diventato museo, di proprietà della Parrocchia della Beata Vergine del Rosario di Castiglione Olona (sotto l’Arcidiocesi di Milano) e dal 2010 ufficialmente riconosciuto come Museo dalla Regione Lombardia, immergendosi e rimanendo quasi sospesi nel magico tempo e spirito rinascimentale del Quattrocento italiano.

 

 

 

Note

[1] G. Dorfles, S. Buganza, J. Stoppa, Storia dell’arte, vol.2, 2004, p. 76.

 

 

 

 

Bibliografia

G. Dorfles, S. Buganza, J. Stoppa, Storia dell’arte, vol.2, 2004, Bergamo, Atlas editore.

 

Sitografia

Sito complesso museale: http://www.museocollegiata.it/wp/

Scheda Sirbec: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/LMD80-00006/


VILLA CAMPOLIETO AD ERCOLANO

Villa Campolieto: un esempio di villa vesuviana.

Immortalata in una scena del film “Operazione San Gennaro” di Dino Risi, Villa Campolieto è uno splendido esempio di quello che poi diventerà il genere “villa vesuviana”, ossia un edificio architettonico che si inserisce perfettamente nel paesaggio diventandone parte fondante. La villa sorge nel cosiddetto “Miglio d’Oro” di Ercolano, un tratto della strada statale 18 che va da Ercolano a Torre del Greco ricchissimo di ville. In realtà la definizione “Miglio d’Oro” si riferiva un tempo alla straordinaria quantità di alberi di limone e arancio ubicati lungo la strada, ma nel corso del tempo si cominciò ad attribuire alla quantità di ville splendide, e non più agli alberi, il soprannome e la bellezza di questo percorso. Sono infatti un centinaio le ville sparse lungo questa strada, circa 120 per la precisione, alcune fatiscenti altre recuperate, opera dei più grandi maestri che nel tardo Settecento operavano in queste zone, da Vanvitelli a Vaccaro a Sanfelice. È possibile ricondurre quasi tutte queste costruzioni a un tardo barocco, anche se non eccessivamente pomposo, tendente al rococò, anche se alcune anticipano degli stilemi propri del Neoclassicismo. La concentrazione di queste ville in un particolare tratto di strada fu dovuta alla costruzione nel 1738 della residenza estiva di Carlo di Borbone e Maria Amalia di Sassonia a Portici, sulla strada vesuviana. Da quel momento in poi tutta l’aristocrazia napoletana cominciò a far erigere le proprie dimore nei pressi di quella reale, secondo un’abitudine molto diffusa all’epoca sia in Italia che in Francia di “gravitare”, anche architettonicamente, sempre nei pressi dei sovrani. Nacque così una straordinaria proliferazione di ville in un preciso tratto di strada, e fra queste una delle più belle è sicuramente Villa Campolieto.

Figura 1: Di Lalupa - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1323471

Fu fondata nel 1755 dal principe Lucio o Luzio di Sangro, signore del luogo e duca di Casacalenda, e la sua costruzione durò esattamente venti anni, venendo completata nel 1775. Molte furono le maestranze che ci lavorarono: in un primo tempo i lavori furono affidati a Mario Gioffredo, il Vitruvio napoletano, allievo del Solimena e architetto molto in voga del tempo. Fiero oppositore degli eccessi del barocco, Gioffredo immaginò per Villa Campolieto un corpo di fabbrica centrale quadrangolare da cui si dipartissero, con una pianta a croce greca, quattro bracci, che dividevano tutta la costruzione in quattro blocchi distinti. La Villa presenta due facciate: una anteriore, piuttosto classica, e quella posteriore, molto più particolare.

La facciata principale, quella che affaccia sulla strada, è un unico blocco massiccio, inquadrato da un porticato: presenta un elemento centrale a serliana scandito ai lati da due paraste monolitiche, mentre il piano superiore, o piano nobile, diviso dalla parte inferiore da una fascia marcapiano, offre allo sguardo una classica successione di finestre coronate da timpani triangolari e intervallate da paraste con capitelli ionici. Solo la finestra centrale, in accordo con l’arco sottostante, è inquadrata in una sorta di strombatura. Il tutto è coronato da una balaustra sull’attico. Dalla facciata anteriore si diparte un androne che mette in ideale continuità con un asse longitudinale la facciata anteriore con quella posteriore; tale asse si incrocia con l’altro braccio, quello orizzontale, della croce greca, che riceve tanta luce naturale dal giardino collocato ai lati della struttura. Tale luce va a sommarsi a quella derivante dalle due aperture anteriori e posteriori e illumina, come un gioco di luci scenografico, lo scalone posto a sinistra dell’entrata e che ricorda molto quello di Caserta. infatti sia la sua disposizione all’interno della struttura sia il suo essere a doppia rampa coronata da balaustra centrale sono riprese dalla reggia di Caserta. Inoltre la cupola che si eleva sull’incrocio dei bracci e i grandi finestroni ovali contribuiscono a inondarlo ancora di più di luce, la vera protagonista di questo edificio.

Figura 2: https://www.napoli-turistica.com/walk-in-art-evento-spettacolo-a-villa-campolieto-ercolano/

La facciata posteriore, invece, presenta sì elementi di continuità con quella anteriore, ma è caratterizzata da un ampio portico che si allarga difronte ad essa e che inquadra scenograficamente il paesaggio circostante. Gioffredo lo aveva immaginato circolare, ma poi fu sostituito alla direzione dei lavori a causa di contrasti con i duchi e, dopo un breve periodo, l’incarico fu affidato al Vanvitelli. Quest’ultimo, in carica dal 1763 al 1773 (anno della sua morte), apportò sostanziali modifiche al progetto originale, tra cui la forma del portico, che modificò in ellittico. Così facendo diede molta più ariosità al progetto, che acquistava slancio nella parte posteriore proprio grazie all’allungamento del portico. Infatti la successione, più stretta e lunga, di numerose e fitte volte a crociera sorrette da archi e colonne toscane che costituiscono il portico fanno sì che esso si confonda quasi con il paesaggio, che da elemento circostante diventa una successione di fondali naturali inquadrati dagli archi. La balaustra che corre al di sopra del portico sembra una corona posta al di sopra, e snellisce otticamente il tutto. Il portico ellittico si adagia nel giardino grazie a una scala a ferro di cavallo a doppia rampa.

Figura 3: https://www.turismocampano.it/miglio-doro

Figura 4: http://www.villevesuviane.net/villa-campolieto/

Dallo scalone si accede al piano nobile, scrigno incredibile di bellezza. L’atrio, il primo ambiente che si incontra, è letteralmente definito dalla luce, grazie alla cupola senza tamburo e ai finestroni che eliminano quasi le differenze tra interno ed esterno. La decorazione pittorica interna, opera di Fedele Fischetti e Gerolamo Starace, è un trionfo di elementi naturalistici e barocchi: conchiglie, festoni, ghirlande e figure mitologiche, inquadrate in nicchie. Ogni porta reca sulla sommità un cartiglio, e ai due lati vi sono medaglioni ovali con soggetti tipici della statuaria classica.

Figura 5: https://www.napolidavivere.it/2019/12/30/walk-in-art-a-villa-campolieto-ad-ercolano/

Dall’atrio si accede alla Sala da pranzo, particolarissima. Infatti è circolare, secondo i desideri dei padroni di casa. Vanvitelli la realizza grazie alla tecnica dell’incannucciato, che consiste nel creare una leggera ma resistente travatura in legno, sovrapposta con bambù, che viene poi coperta e affrescata. Il risultato è una struttura portante leggera e flessibile, resa ancora più leggiadra allo sguardo dalle pitture parietali a trompe l’oeil, opera dei fratelli Magri.

 

Figura 6: Di Lalupa - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1323498

Figura 7: http://www.villevesuviane.net/villa-campolieto/

Cesare Fischetti, invece, connota tutta la stanza secondo il gusto tipicamente bucolico vanvitelliano, ricoprendo le pareti con raffigurazioni del locus amoenus e tripudi di amorini e puttini.

Figura 8: http://www.villevesuviane.net/villa-campolieto/

In particolare segue la conformazione circolare della stanza riproducendo una sorta di gazebo e un vitigno, probabilmente uno di quelli del principe. Da destra verso sinistra si scorgono “...un gruppo di persone che giocano a carte tra cui il De Sangro, a seguire sullo sfondo le isole del golfo, e superata la porta possiamo vedere uno dei pochi autoritratti su affresco del Vanvitelli che scruta il cielo con il monocolo”. Agli angoli, oggi purtroppo andate perdute, si trovavano le raffigurazioni delle quattro stagioni.

Figura 9: http://www.villevesuviane.net/villa-campolieto/

Figura 10: http://www.villevesuviane.net/villa-campolieto/

Ultimo ambiente di villa Campolieto è il cosiddetto Salone delle Feste, la cui decorazione è andata persa. Si sa che era caratterizzato da un grande affresco sulla volta a botte della sala, e dai lacerti si capisce che lo stesso gusto bucolico delle altre sale doveva dominare anche qui. Alle pareti invece era raffigurato il mito di Ercole.

Dopo la seconda guerra mondiale, in cui subì gravissimi danni, la villa fu recuperata e restaurata nel 1984, diventando un centro internazionale di arte e la sede della Fondazione Ente per le Ville Vesuviane. A Villa Campolieto si è svolto spesso anche il ballo di fine anno dei cadetti della scuola Militare della Nunziatella, uno dei balli più famosi e prestigiosi delle Accademie Militari.

 

 

 

http://www.treccani.it/enciclopedia/mario-gioffredo/

https://www.sirericevimenti.it/portfolio/villa-campolieto/

https://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/ville-vesuviane/18916-ville-vesuviane-la-villa-campolieto/

https://www.touringclub.it/destinazione/localita/edificio-monumentale/170003/villa-campolieto-ercolano

http://www.villevesuviane.net/villa-campolieto/

http://www.campaniartecard.it/tour-item/villa-campolieto/

 

 

 


LA CHIESA DI SOTTERRA A PAOLA

Una chiesa sotto un'altra chiesa

La chiesa ipogea di Sotterra si trova in località Gaudimare, a pochi passi dal centro storico di Paola, in prossimità della chiesa del Carmine che la sovrasta. La chiesetta è infatti una delle più antiche della Calabria è stata dimenticata per secoli non solo “sotto” la terra, ma anche “sotto” il luogo scelto per la chiesa del Carmine. La sua datazione è incerta, ma secondo alcuni studiosi potrebbe risalire all’ VIII secolo. Subì diversi rimaneggiamenti nel corso del tempo, fino a scomparire, forse in epoca cinquecentesca, a causa di eventi franosi o per una grande alluvione del torrente Palumbo. Dopo la riscoperta nel 1876, in modo fortuito, si sono moltiplicati gli studi e le teorie sulla chiesetta.

La chiesa si incrocia con la sovrastante chiesa del Carmine, dalla quale si accede per mezzo di una scala del portico. Per scendere più agevolmente nella cripta fu praticata un’apertura nel pavimento della chiesa superiore. Di questo accesso è rimasta l’apertura in fondo alla attuale scala, ora trasformata in un finestrone con inferriata. Secondo alcuni, l’edificio era una cripta, secondo altri era l’oratorio di eremiti. Due importanti monografie presentano differenze fondamentali: secondo le osservazioni di Francesco Ruffo la chiesa di Sotterra è bizantina, mentre per Rubino essa ha solo tracce bizantine. Nel catalogo degli edifici monumentali del Francipane, si trovano osservazioni che fanno capo dell’attività della Soprintendenza ai monumenti del successore di Paolo Orsi, Edoardo Galli, in base ai rilievi e grafici dell’assistente Ricca. Queste osservazioni sono di grande pregio. Nel primo elenco del 1929-1933, viene descritta: “chiesa del Comune di Sotterra in contrada Gaudimare, di origine basiliana (VII-VIII) ma ricostruita, con cripta medievale affrescata”.

Nel secondo elenco, molto più curato, è del 1938 viene riportato: “Santuario Ipogeo di origine bizantina, ricostruito nel XIV. Interno della cripta a tipo basilicale, con presbiterio e abside decorati da un ciclo di affreschi in parte di età bizantina e in parte iconografia benedettina del XIV secolo”. L’edificio si presenta come una semplice aula rettangolare monoabsidata, orientata lungo l’asse nord-sud e preceduta da un endonartece. È sormontata da volte a botte, suddivisa da tre archi in quattro campate, e un’abside semicircolare.

Fig. 1- Chiesa di Sotterra, la Vergine e gli Apostoli nel semicilindro, il Cristo in gloria, nel catino.

Nonostante secoli di oblio, sono arrivati fino a noi bellissimi affreschi. Le più antiche pitture secondo Pace risalgono all'età normanna ed in particolare alla fine del XI-XII secolo. La stessa datazione è stata proposta anche da Falla Castelfranchi.

La chiesa di Sotterra a Paola: descrizione

Gli affreschi sono distribuiti all'interno dell’abside dove, al di sopra di una zoccolatura dipinta a motivi geometrici romboidali, trovano un’ascensione suddivisa in due registri: la Vergine e gli Apostoli, nel semi-cilindro; il Cristo in gloria, nel catino. Quest’ultimo soggetto parrebbe contaminato dal tema occidentale della Majestas Domini. Una fascia orizzontale divide e nello stesso tempo fa convergere le due parti, superiore e inferiore, dell’icona. Gli Apostoli nonostante debbano essere undici, perché l’Ascensione avviene prima dell’elezione di Mattia al posto di Giuda, sono sempre dodici per esprimere la totalità della chiesa, con la Vergine al centro spesso affiancata da due candidi angeli. Alcuni Apostoli indicano con il dito alzato il trono di Cristo e le palme proiettate verso l’alto contribuiscono a rendere l’idea del congiungimento fra terra e cielo. I dodici Apostoli anziché raggruppati sono allineati in maniera semplice ma pieni di pensiero e carattere. Non si capisce perché qualcuno scriva che sono un uomo e una donna in maniera alternata quando è evidente come donna solo la Vergine. Forse perché nei moduli bizantini due Apostoli sono sempre raffigurati senza barba come si può notare anche nell'icona di Recklinghausen. Le due zone sono divise dalle fasce orizzontali e dalla mandorla entro la quale è il Cristo eppure hanno un punto di convergenza. Accanto alla zona delimitata della mandorla si osservano i resti dei panneggi dei due angeli. Ai lati dell’abside si svolge il tema dell’Annunciazione, con l’angelo (fig.2) a sinistra che annuncia il divino concepimento e la Madonna (fig.3) sul lato opposto.

 Fig. 2- Chiesa di Sotterra, affresco, angelo dell’Annunciazione.

Fig. 3- Chiesa di Sotterra, Madonna.

L’angelo, che, volando è già prossimo alla terra, ma non la tocca, ha le braccia incrociate sul petto e larghe ali a ventaglio che sconfinano dalla cornice. In posizione aerea, con una lunga stola tramezzata da numerose crocette di forma latina, con leggera torsione si protende verso la Madonna. Tutte e due le figure sono in una parete liscia con sfondo a tappeto di stile cosmatesco. Il movimento del panneggio, con un dinamico rigonfiamento che lo solleva dal fondo, ed una stola come agitata dal vento, contrastano con il pacato incrociare delle braccia sul petto. La Madonna è in piedi, con veste sobria e manto orlato. Una mano è sul petto e l’altra sorregge un libro, la testa leggermente piegata verso l’angelo. Queste due figure dipinte da un artista ignoto sono datate XIV-XIV secolo. Sulla parete di sinistra ci sono altri due affreschi più recenti, risalenti al Quattrocento: una Madonna con Bambino e la figura di un santo (fig4).

Fig. 4- Chiesa di Sotterra, Madonna con il Bambino e Santo.

Bibliografia

Cuteri, A., Percorsi della Calabria bizantina e normanna, itinerari d’arte e architettura nelle provincie calabresi, Roma, 2008.

Falla Castelfranchi, M., Disiecta membra. La pittura bizantina in Calabria (secoli X-XIV), in Calabria bizantina. Testimonianze d’arte e strutture di territorio. VIII Incontro di studi bizantini (Reggio Calabria- Vibo Valentia-Tropea, maggio 1985), Soveria Mannelli 1991, pp. 21-61.

Musolino, G., Calabria Bizantina, Venezia 1966, pp.341-342.

Russo, F., La chiesa bizantina di Sotterra (storia e arte), Roma 1949, p.14.

Venditti, A., Architettura bizantina nell’Italia meridionale, Campania, Calabria e Lucania, Napoli 1967, p.221

Verduci, R., La chiesa di Sotterra di Paola, Reggio Calabria, 2001, pp. 9-64.

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CASA-MUSEO BOSCHI-DI STEFANO A MILANO

Una molteplice realtà novecentesca: la casa-museo Boschi-Di Stefano

Di Milano, città associata agli aggettivi di caos e frenesia, ci lascia un'accurata testimonianza Umberto Saba nell'omonima poesia, che recita:

 

Fra le tue pietre e le tue nebbie faccio

villeggiatura. Mi riposo in Piazza

del Duomo. Invece di stelle

ogni sera si accendono parole.

 

Nulla riposa della vita come

la vita.

 

In questo sintetico ed essenziale ritratto della città, in cui le miriadi di stelle nel cielo vengono portate in secondo piano dalle luminose insegne dei negozi, il poeta invita a trovare la pace dell’anima nell'ordinaria vita cittadina. Per assaporare quanto egli predica è sufficiente recarsi presso uno dei fiori all'occhiello della moderna città, la casa dei coniugi Boschi e Di Stefano. Quest’ultima, trasformata in museo per loro volontà testamentaria, è collocata in via Giorgio Jan 15 ed ospita al suo interno una rosa di trecento opere, tra le oltre duemila attualmente di proprietà del Comune di Milano.

Ma chi erano i due coniugi collezionisti d’arte? Marieda Di Stefano, il cui padre fu collezionista di opere del Novecento italiano, rimase colpita dalle potenzialità dell’arte fin dalla tenera età e ciò la spinse a prendere lezioni dallo scultore Luigi Amigoni. Conclusa la sua formazione espose in svariate mostre sotto lo pseudonimo, così come molti suoi contemporanei, di Andrea Robbio.

Durante una vacanza in Val Sesia incontrò Antonio Boschi, ingegnere di Novara con una grande passione per il violino, con cui si sposerà poco tempo dopo nel 1927. Una volta incontratisi i due avviarono la loro attività di collezionisti ed investitori nel mondo dell’arte, che li portò a creare un’esaustiva collezione del Novecento comprendente opere cronologicamente collocate tra il 1910 e il 1960.

La Casa-Museo, risalente ai primi anni Trenta,fu progettata da Piero Portaluppi, già noto nel panorama milanese per la realizzazione di Villa Necchi Campiglio. Dal punto di vista architettonico il palazzo presenta all'esterno una struttura ad angolo, mentre l’interno è definito da ringhiere Art Déco e grandi vetrate. La casa è dotata di ben undici spazi espositivi, all’interno dei quali si segue un percorso cronologico, e l’ingresso accoglie il pubblico con i ritratti dei coniugi e le ceramiche di Marieda.

Casa-museo Boschi-Di Stefano. L'anticamera e il bagno

Dall'ingresso, svoltando a sinistra, si giunge all'anticamera contenente le opere che precedettero il Novecento italiano col prevalere di Marussig; 

Nei pressi dell’anticamera si trova quello che fu il bagno dell’abitazione, ora ospitante opere di Rumney.

La camera degli ospiti

Proseguendo nel percorso espositivo ci si addentra in una delle sale, un tempo camera degli ospiti, che testimonia l’esperienza dei pittori che aderirono alla poetica di Novecento italiano”.

L’anima del movimento fu Margherita Sarfatti che riunì i sette pittori del Novecento (Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi, Sironi) presentandoli alla galleria milanese di Lino Pesaro. Tali artisti furono legati da un senso di “ritorno all'ordine” nell'arte dopo le sperimentazioni delle Avanguardie, si tornò così a prendere come riferimento l’antichità classica, la purezza delle forme e l’armonia della composizione. Nella sala sono presenti gli artisti sopracitati, ma anche altri che con loro trovarono un dialogo pur mantenendosi autonomi dal movimento. Nello spazio espositivo le opere vengono raggruppate per temi, ossia figure e ritratti, paesaggi e nature morte.

Dei grandi nomi elencati si distingue Achille Funi, il quale aderì al ritorno alla tradizione italiana del Tre e Quattrocento, e di cui qui ammiriamo “Il pescatore”, “Nudo femminile” e “Bagnante” che attestano il gusto per volumi dilatati e monumentali della sua fase Novecentista. Oltre a lui nella sala regna l’atmosfera sospesa delle opere di Felice Casorati, ulteriori testimonianze di Marussig, ed infine due paesaggi ed una natura morta di Carrà, che affiancò de Chirico nell'esperienza metafisica.

Lo studiolo

Continuando si incontra la prima sala monografica della casa, ex studiolo dedicata a Mario Sironi e contente ben 40 quadri dell’artista che attestano i momenti salienti della sua esperienza, tra cui: il periodo del cubo-futurismo, l’adesione a Novecento e la pittura murale.

Due opere significative sono le seguenti: la “Venere dei porti”, testimoniante il passaggio dalle esperienze tardo-futuriste e l’avvicinamento alla pittura metafisica, e “Gasometro”, una delle prime periferie da lui realizzate dove la città è indagata negli aspetti della solitudine nelle fabbriche e dell’abbandono delle periferie. Importante aggiungere come, in generale, l’architettura costituisse per lui una presenza monumentale e incombente. Per quanto concerne le opere più tarde, permeate dal culto per l’antico e la mediterraneità dell’arte italiana, ne sono un chiaro esempio il “Figliol prodigo” e “Grande composizione”.

La sala da pranzo

Entrando nella vecchia sala da pranzo ci si imbatte nel gruppo Corrente, nome dell’esperienza e rivista nata a Milano nel 1938, diretta da Treccani e conclusasi con l’entrata in guerra dell’Italia. La rivista si dichiarò apertamente contro l’autarchia imposta dal regime fascista, facendosi portatrice di un’esigenza di rinnovamento e rifiuto delle sue imposizioni.

Un chiaro esempio è fornito dai due principali esponenti del movimento: Guttuso con “Figliol prodigo” e “Piccola nuda sdraiata” e  Migneco, a cui si aggiungono poi gli altri artisti in esposizione.

Nella sala, oltre a Corrente, il vero protagonista è Giorgio Morandi che coi suoi temi prediletti di paesaggio e natura morta continua ad essere influenzato dalla lezione di Cézanne nella divisione degli spazi e nel misterioso silenzio. Tra i suoi capolavori qui esposti: “Natura morta scura “ del 1924, tre paesaggi del 1940-41, “Fiori” del 1941 e del 1952 e “Rose secche” del 1940.

Altro artista protagonista è Filippo De Pisis, di cui si possono ammirare sei dipinti provenienti dalla Galleria del Milione e Milano, ma di cui mancano le fasi metafisiche e futuriste.

Il soggiorno

Nel soggiorno sono collocate una serie di opere della scuola di Parigi, con nomi noti come Campigli, Paresce, Savinio e de Chirico.

Quest’ultimo fu l’elaboratore della pittura metafisica nel 1917, diffusa poi attraverso la rivista “Valori Plastici”, insieme a Carrà, De Pisis e il fratello Savinio presso l’Ospedale militare di Ferrara.

In ordine cronologico, tra le sue più importanti qui esposte, si trovano: la “Peruginesca” (1921) che affronta il tema della rilettura dell’arte rinascimentale, “Les Brioches" (1925) dipinte negli anni parigini di contatto col surrealismo e memore del mondo metafisico, ed infine “La scuola dei gladiatori: il combattimento” (1928) che si riallaccia all’arte classica col recupero degli schemi compositivi dei bassorilievi romani. Altro capolavoro esposto è “L’Annunciazione” (1932) di Savinio, in essa alla finestra vi è una gigantesca testa di angelo che porta la notizia ad una Madonna dalla testa di pellicano, già dal Medioevo simbolo di bontà e amore materno.

Attraversando il corridoio si incontrano i chiaristi, legati alle voci dissonanti di contestazione dell’arte ufficiale, che contrapposero al cromatismo cupo il dipingere chiaro della tradizione lombarda e la luminosità della campagna contro le angosce della periferia industriale. Tra i massimi esempi Angelo Del Bon, Francesco De Rocchi, Umberto Lilloni, De Amicis e Adriano di Spilimbergo.

Nello studio di Antonio si giunge nella seconda sala monografica della casa dedicata al grande Lucio Fontana.

 

Nato in Argentina e poi giunto in Italia, si propose di indagare un nuovo concetto di spazio che si tradusse sia nel superamento della bidimensionalità della tela, attraverso tagli e buchi, sia nella creazione di ambienti spaziali che dovevano coinvolgere lo spettatore e usavano una luce nera in modo da creare “forme,colore,suono attraverso lo spazio”.

Tra le opere in collezione vi sono ventitré “Concetti spaziali”, ricoprenti l’arco dal 1954 al 1960, e la successiva fase di impiego di pietre colorate che ribaltano il vuoto spaziale dei buchi.

Un chiaro esempio è “Concetto spaziale” del 1956, una superficie bianca costernata di pietre di vari colori. Molto significativo e di impatto è il “Golgotha” (1954), animato da lampadine che, posizionate sul retro della tela, fanno filtrare luce attraverso i fori. Da non tralasciare è “La bara del marinaio”, costituente una summa di tutte le sue esperienze.

Entrando in quello che un tempo era lo studio di Marieda si colloca uno spazio dedicato agli spazialisti e pittori che, negli anni della guerra, volsero lo sguardo alla cultura europea e furono impressionati dagli esiti drammatici dell’arte di Picasso.

L’ultima sala, in origine camera da letto, presenta il movimento di crisi della forma che si verifica a partire dagli anni Cinquanta, quando i modi tradizionali di espressione vennero rifiutati poiché ritenuti privi di significato, ovvero l’Informale le cui parole chiave furono segno, gesto e materia. I coniugi furono affascinati da Piero Manzoni, di cui qui si conservano i bianchi “Achrome” realizzati tra 1958 e 60 con materiali diversi. In contrapposizione al bianco di Manzoni sulla parete opposta si trovano dipinti dove il colore diventa l’elemento espressivo dominante.

 

 

Bibliografia

- “Le opere” Maria Teresa Fiorio

- “Gli arredi” Ornella Selvafolta

- “I luoghi dell'arte. Storia opere percorsi”, voll. V-VI di G. Bora, G. Fiaccadori, A. Negri, A. Nova,,Electa-Bruno Mondadori, Milano, 2003

 

Sitografia:

- www.fondazioneboschidistefano.it[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]


SANTA CROCE SULL'ARNO E LE SUE CHIESE

L'ORIGINE DI UN NOME

Santa Croce sull’Arno è una cittadina del pisano che si trova nella zona del Valdarno inferiore, in età contemporanea particolarmente nota per far parte del distretto industriale conciario denominato “comprensorio del cuoio”, un centro economico-lavorativo di grande rilievo per la Toscana. Sebbene il fiorente sviluppo possa far pensare a Santa Croce come un paese nato in seguito all'industrializzazione, si rimarrà sorpresi nello scoprire che invece le sue origini sono antichissime e anche il suo toponimo, non a caso,nasconde delle ragioni storiche e religiose.

Il territorio dove nacquero i primi insediamenti sulle rive dell’Arno (già testimoniati a partire dal VIII secolo), apparteneva al tempo alla diocesi di Lucca, in cui era diffusa la venerazione del Volto Santo, il celeberrimo crocifisso ligneo raffigurante il corpo di Cristo vivo sulla croce, vestito con una lunga tunica. Sono molteplici le leggende riguardanti questa immagine divina, secondo alcuni scolpita da Nicodemo dopo la resurrezione per ricordare ai fedeli la fisionomia umana del figlio di Dio.

La leggenda racconta il ritrovamento della croce in Palestina da parte del vescovo Gualfredo, che spedì il simulacro su un’imbarcazione via mare con la speranza che potesse raggiungere una terra cristiana, scongiurando così la sua distruzione.Nel 782 la nave si avvicinò a Luni, approdando spontaneamente solo quando il vescovo Giovanni I giunse nella zona dopo essere stato avvisato in sogno da un angelo. Da qui la croce venne trasferita a Lucca (ancora oggi conservata nella Cattedrale di San Martino) e la devozione all'immagine sacra fu inarrestabile, crescendo a dismisura in Europa come meta di pellegrinaggio di potenti e semplici fedeli, e arrecando alla città legittimazione divina, prestigio, ricchezza.

È proprio grazie al modello votivo lucchese che nasce Santa Croce nel Valdarno, quando nella seconda metà del XIII secolo è attestato per la prima volta il toponimo di questo luogo, fiorito intorno ad un medesimo Volto Santo custodito nell'antico oratorio di Santa Croce sul Poggetto, e dove confluirono le piccole realtà territoriali che popolavano queste rive dell’Arno. Il culto della croce,esteso nell'intera circoscrizione vescovile, fu uno dei più venerati in età medievale e moderna, ed è quindi legittimo presupporre che fu proprio la progressiva importanza acquisita da tale fede popolare che portò anche nelle zone limitrofe l’emulazione di una croce analoga, servendo inoltre come legittimazione dell’autorità lucchese sul territorio.

L’oggetto di culto legato alle vicende di fondazione del paese oggi si trova nella collegiata di San Lorenzo, costruita nel XVI secolo sulla preesistente chiesa intitolata proprio alla santa croce.

L’imponente statua policroma, che secondo la critica è da datare al XIII secolo per mano di un anonimo artista lucchese, è costituita da più parti assemblate con gesso e colla, dipinte con pittura a tempera, e ritrae l’immagine viva di Cristo,caratterizzato da una fisionomia del volto severa e solenne,con la testa leggermente sporgente per la propensione del collo in avanti: i connotati somatici s’ispirano al Volto Santo di Lucca ma non sono completamente identici, in quanto appaiono più sintetici, così come anche la resa plastica della tunica orientale  è ridotta ai minimi termini, appena accennata in fondo alla veste e nelle maniche, mentre è del tutto assente nella parte alta del torace. Il fascino arcaico che sprigionano le croci ispirate al modello lucchese, in Toscana presenti in vari esemplari, deriva dalla tradizione del Christus Triumphans, che unisce nella rappresentazione la morte di Gesù e il momento della resurrezione, oltre alla particolarità della tunica sacerdotale che li copre.

Nella collegiata è esposta un’altra notevole opera statuaria, raffigurante un Angelo annunziante in terracotta parzialmente invetriata, datato ai primi decenni del XVI secolo. Secondo le ricostruzioni storiche recenti, l’opera non faceva parte dell’arredo originario della chiesa ma vi giunse in seguito da un luogo di culto imprecisato, dove forse era collocata a lato di un altare, accompagnata da un suo ignoto pendant raffigurante la Vergine annunciata. Per l’inclinazione sentimentale con cui è modellato questo giovane angelo, la critica ha assegnato la statua a Andrea della Robbia (1435-1525), nome sostenuto anche dall'utilizzo dalla lavorazione della terracotta solo in parte invetriata: la tecnica di cui l’artista si servì spesso nella sua produzione tarda, fu ideata per rifinire alcune zone con colore a secco, conferendo all'opera un’impronta più naturale, come avviene per la statua santacrocese, policroma nell'incarnato del viso e delle mani, oltre che nella stola in origine di colore rosso (colorazione non era realizzabile con tale metodo). Oggi la pittura stesa a secco si è quasi del tutto persa, mentre permangono intatti i colori della tunica fissati dall’invetriatura, a riprova della straordinaria resistenza della tecnica robbiana.

Guardando nella zona presbiteriale, la parete di fondo dietro l’altare maggiore è occupata da un’edicola pensile di gusto settecentesco (1709-1716) in marmi misti, attribuita a Bartolomeo di Moisé, la cui attività è ancora tutta da ripercorrere.

Il dossale si compone dell’unione di diversi elementi architettonici e decorativi, quali volute, ghirlande di frutta, cornucopie e angeli, che ne fanno un monumento complesso ma nell'insieme armonioso: al centro una nicchia contiene la statua del santo titolare della chiesa, San Lorenzo, affiancata ai lati da alcune raffinate lesene disposte gradualmente e che determinano il focus dell’altare.

Spostandoci nella navata destra della collegiata, incorniciato da una monumentale edicola, si trova un quadro raffigurante la Pietà, dipinto dal pittore fiorentino Anton Domenico Bamberini (1666-1741), molto attivo nella diocesi di San Miniato. Oltre la fama di buon frescante, Bamberini da qui prova di sé in un’opera su tela dove colloca al centro della scena il fulgido corpo di Cristo sostenuto da Maria, sotto un cono di luce etera e celestiale che rischiara entrambi, lasciando il resto dei partecipanti in penombra. Il dipinto proveniente dal monastero di Santa Cristiana e realizzato probabilmente tra il secondo e terzo decennio del XVIII secolo, ci offre il pretesto per raccontare un’altra storia religiosa e attuale al tempo stesso,appartenuta a Santa Croce sull'Arno e che si lega al nome di Oringa Menabuoi.

Oringa nacque a Santa Croce(1237/1240-1310) da un’umile famiglia, coltivando fin da piccola la fede e i valori cristiani: poiché fu obbligata dai fratelli a sposarsi contro la sua volontà, decise di allontanarsi da casa rifugiandosi a Lucca, dove ebbe inizio il suo percorso spirituale che la condusse in molti viaggi fra cui a Roma e Assisi. Nel 1277 tornata nuovamente a Santa Croce, insieme ad altre giovani donne fondò nel suo paese natale il monastero intitolato ai Santi Maria Novella e Michele,affermando così la sua volontà consacrata alla fede e alla generosità, e vestendo gli abiti dell’ordine agostiniano. Tanto fu il suo impegno sociale e il suo intenso credo, per cui si ricordano anche fatti miracolosi e divini, che gli abitanti del posto la denominarono “Cristiana”, oggi patrona di Santa Croce, festeggiata dalla comunità ogni 4 gennaio,nella ricorrenza della sua morte.

La chiesa di Santa Cristiana nelle forme in cui la vediamo oggi, adiacente al monastero ancora attivo, venne ricostruita su un originario impianto duecentesco andato distrutto in un incendio nel 1515, dove andò perduto anche il corpo incorrotto della Santa. L’assetto odierno è frutto di un ennesimo restauro settecentesco, insieme all'affresco dipinto dal già citato Bamberini fra il 1716 e il 1717,che nella volta presbiteriale vi raffigurò Santa Cristiana in gloria accolta in cielo da un tripudio di angeli e putti in festa, che ritroviamo anche nei pennacchi come allegorie delle virtù di Cristiana.

L’interno ad aula unica, voltato con una copertura a botte con decori ottocenteschi, è arricchito dalle vetrate realizzate dalla ditta Polloni di Firenze nel 1945, che illustrano con vivaci colori gli episodi più significativi della vita della Santa.

Sull'altare maggiore è esposta una pala cinquecentesca raffigurante la Resurrezione di Cristo e Santi (fra cui Cristiana),attribuita alla scuola pittorica di Fra’ Bartolomeo, tra i cui seguaci la critica ha riconosciuto nell'opera la mano di Ridolfo del Ghirlandaio (1483-1561), ipotesi avvalorata anche da una tarda memoria scritta. Dietro la zona presbiteriale si trova la cappella consacrata alla Santa, dove in una sfarzosa urna dorata è rappresentato il simulacro del corpo di Cristiana insieme ad alcune reliquie.

Fra i luoghi di culto storici di Santa Croce sull'Arno ricordiamo anche la chiesa di San Rocco, che spicca subito nell'abitato cittadino per il curioso color arancio che ricopre esternamente l’edificio. Già nota nel Cinquecento come piccolo oratorio nei pressi del quale si trovava un ricovero per gli appestati, l’importanza di San Rocco aumentò considerevolmente dopo che vi fu trasferita un’immagine miracolosa della Madonna, tanto che fra il 1792 e il 1796 furono necessari dei lavori di ampliamento che portarono all'aspetto odierno della struttura: il portico che copre l’entrata principale della chiesa è invece una ricostruzione fedele e recente dell’originale settecentesco che crollò negli anni ‘30 del Novecento.

L’interno si presenta ad aula unica ampliato sui lati da due cappelle laterali che conservano rispettivamente una Crocifissione e l’Adorazione del simulacro della Vergine di Loreto da parte dei Santi Bartolomeo, Caterina, Apollonia e Rocco, entrambi dipinti collocabili alla metà del XVII secolo e attribuiti al pittore ancora poco noto Giovanni Gargiolli, appartenente al clima artistico del seicento fiorentino.

L’altare maggiore è coronato da un’edicola a forma di grande nuvola che allude al Sacro Cuore, e che custodisce al centro la santa immagine della Madonna col Bambino.

In conclusione si ricorda un’opera ottocentesca che si trova nella parete destra appena precedente alla zona presbiteriale della chiesa, realizzata dal santacrocese Cristiano Banti(1824-1904), pittore celebre per aver aderito al movimento artistico dei macchiaioli, in stretta amicizia con i grandi esponenti del gruppo, come Telemaco Signorini e Vincenzo Cabianca. Il dipinto devozionale che raffigura San Rocco pellegrino, realizzato per l’omonima chiesa, si colloca a metà fra i lavori giovanili eseguiti da Banti, dopo la frequentazione dell’Accademia artistica di Siena, quando ancora lo stile del pittore era fortemente influenzato dall'insegnamento neoclassico dei suoi maestri, e appena prima del suo trasferimento a Firenze nel 1854 che lo convertì definitivamente alla macchia. L’opera rappresenta San Rocco al centro di una nicchia lunata, vestito in abiti da pellegrino, mentre con lo sguardo rivolto in alto indica la piaga sulla coscia (simbolo della peste che lo afflisse), accompagnato dal cane, che secondo la leggenda sfamò San Rocco durante la malattia,portandogli quotidianamente un pezzo di pane rubato alla mensa del padrone.

Dietro l’immagine del Santo si apre un vasto paesaggio agreste e uno scorcio molto ampio di cielo azzurro limpidissimo, che occupa più di metà dello sfondo. Stilisticamente l’opera è in linea con i principi neoclassici di simmetria e ricerca armonica della composizione, dove i contorni nitidi delle forme si accompagnano ad una stesura del colore in campiture uniformi e omogenee.

 

 

Bibliografia

  1. Matteucci,Cristiano Banti, Firenze 1982.
  2. Marchetti, Settecento anni di vita del Monastero di Santa Maria Novella e San Michele Arcangelo in Santa Croce sull'Arno comunemente detto Monastero di Santa Cristiana, Ospedaletto 1994.
  3. Bitossi, Scheda n.108 (Andrea della Robbia-Angelo annunziante), Scheda n.116 (Bartolomeo di Moisé (?)-Dossale di San Lorenzo), Scheda n.117 (Antonio Domenico Bamberini-Pietà), Scheden.122-123 (Giovanni Gargiolli (?)-Crocifissione-Santi in adorazione del simulacro della Vergine di Loreto), in Visibile pregare: arte sacra nella diocesi di San Miniato, a cura di R.P. Ciardi, Ospedaletto 2000, Vol I, pp. 228-229,233-234, 241-242, 243-244, 250-253.
  4. Parri, Scheda n. 105 (Ignoto scultore toscano, Volto Santo), in Visibile pregare: arte sacra nella diocesi di San Miniato, a cura di R.P. Ciardi, Ospedaletto 2000, Vol I, pp.228-229.

M.G. Burresi, Il simulacro ligneo del Volto Santo nella Collegiata di Santa Croce sull’Arno, in La Santa croce-il culto del Volto Santo, a cura di G. Parrini, San Miniato 2006, pp. 7-12.

  1. Gagliardi, La Santa Croce. La continuità del culto nella differenziazione delle forme, in La Santa croce-il culto del Volto Santo, a cura di G. Parrini, San Miniato 2006, pp.14-39.
  2. Giannoni, Una storia da riscoprire-Il monastero di Santa Cristiana, San Miniato 2007.
  3. Gagliardi, OringaMenabuoi - santa Cristiana da Santa Croce nella tradizione agiografica (sec. XIV-XVIII), in Santa Cristiana e il castello di Santa Croce tra Medioevo e prima Età moderna, a cura di A. Malvolti, Ospedaletto 2009, pp. 31-46.
  4. Marcori, Con la croce e il giglio, luoghi di preghiera e devozione di una comunità, in Santa Cristiana e il castello di Santa Croce tra Medioevo e prima Età moderna, a cura di A. Malvolti, Ospedaletto 2009, pp. 101-116.

 

Sitografia

Il monastero di Santa Cristiana: www.agostiniani.it

 

 

*Le foto n.6-7-8 sono tratte dal libro Santa Cristiana e il castello di Santa Croce tra Medioevo e prima Età moderna (Ospedaletto 2009).[/vc_column_text][/vc_column]

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LA MOSTRA "RITRATTO DI DONNA", UBALDO OPPI

IL SOGNO DEGLI ANNI VENTI E LO SGUARDO DI UBALDO OPPI

"Ritratto di donna", è questo il titolo che si è voluto dare alla mostra in essere da Giovedì 6 dicembre 2019 a Vicenza, nei meravigliosi spazi della Basilica Palladiana. Una mostra dal sapore sensuale e coinvolgente, in cui l’amicizia femminile, il sogno, il doppio riflesso nello specchio, il rapporto tra il pittore e la modella,donne fiere al punto di divenire feline, la nostalgia di paradisi perduti, ma anche la crudezza della realtà, sono i temi centrali della mostra.

Dipinti, gioielli, abiti firmati Chanel, rendono immersiva e suggestiva questa esperienza di vita che Oppi e i contemporanei del suo tempo, come Felice Casorati, Mario Sironi, Antonio Donghi, Achille Fumi, Piero Marussig, Mario Cavaglieri, Guido Cadorin e Massimo Camigli, hanno voluto raccontare, e noi siamo partecipi di questo racconto personale e eterno.

Oppi, cresciuto a Vicenza ma formatosi a Vienna, Venezia e Parigi, ha un immediato successo in mostre importantissime, anche e soprattutto nella Milano e Roma dei primi anni Venti, dove viene scoperto da Ugo Ojetti e Margherita Sarfatti, la quale afferma: “la pittura appare tra tutte l’arte magica per eccellenza”.

Una delle correnti di pittura più affascinanti degli anni Venti è quella del ”Realismo Magico” -di cui Ubaldo Oppi è uno dei maggiori esponenti-, in cui la visione della realtà è immersa in un'atmosfera di meraviglia e di attesa, e questa aura di sogno si respira tutta in questo spazio museale costruito ad hoc per accogliere sia questa mostra che le successive esposizioni, in prospettiva di un grande progetto di rilancio della Basilica Palladiana di Vicenza come spazio espositivo per eventi culturali di rilevanza internazionale.

L’ ESPOSIZIONE.

L’esposizione è curata da Stefania Pontinari, docente di storia dell’arte contemporanea all'Università Cà Foscari di Venezia, la quale ha suddiviso in sette sezioni la mostra:

Sezione 1: UNA PRIMAVERA DELL’ARTE

La Secessione Viennese ci accoglie con i suoi ultimi echi e simboli, che influenzano ancora la ricerca artistica dei pittori italiani degli anni Dieci. In questa sala svetta tra tutte LA GIUDITTA II di GUSTAV KLIMT (1909). Questa sezione ricrea la suggestione della sala dedicata a Klimt alla Biennale di Venezia del 1910.

 

Sezione 2: LE MUSE STRANIERE

In questa parte si intende dar merito all'intreccio delle affascinanti suggestioni che giungono anche da Parigi, intesa dagli artisti come la Ville Lumière della Belle Epoque, dove imperano divertimenti e dissolutezza, ma che è anche il laboratorio dell’avanguardia, in cui si mescolano intelligenza e disperazione. Le donne, in questa fase, divengono fatali o perdute, sono ritratte nel loro incedere nella vita moderna: mentre sono nei caffè vestite alla moda, compiaciute della loro gioventù, o smarrite e distanti come falene nella notte.

Sezione 3: PASSAGGI

Qui troviamo il racconto del passaggio dalle vie di Montmartre, dove Oppi si recò tra il 1913 ed il 1913, al suo ritorno in Italia in cui, nel 1915 viene spedito al fronte a combattere: da qui i soggetti di profughi e addii.

 

Sezione 4: NOVECENTO

Siamo negli anni Venti. Sta avvenendo un rinnovamento nelle arti: Valori Plastici, Novecento Italiano, Realismo Magico, Nuova oggettività, sono tra le correnti e i gruppi che indicano una strada nuova, ispirata anche alla classicità e all'italianità del Rinascimento italiano. In questo periodo avviene l’incontro tra Ugo Ojetti e Margherita Sarfatti con Ubaldo Oppi.

Sezione 5: IMMAGINAZIONE

In questo spazio domina l’opera LE AMICHE (1924), dando origine ad una rosa di possibili chiavi di lettura, come per esempio due amiche, due sorelle o due sculture. Negli anni Venti dive del cinema e della moda come Josephine Baker, Amelia Louise Brooks, Greta Garbo o Coco Chanel lanciano l’immagine di una donna nuova e diversa: dotata di una diversa silhouette ma anche di ambizioni moderne. Questo è il messaggio che si vuole lanciare attraverso questa sala: il progresso femminile.

Sezione 6: VISIONE

Questa parte della mostra presenta un momento di riflessione sul momento storico e sulle figure del tempo, sul ruolo sociale del lavoro, sul ruolo sociale del lavoro ed il confronto con la controparte maschile.

Sezione 7: PARADISO PERDUTO

Scandali e successi: Le “donne nuove” sono ardite e sanno essere anche scandalose, ma sono costantemente rinchiuse anche in ruoli tradizionali, subordinati, come quello della modella per il pittore, che diviene solo un oggetto da contemplare o desiderare.

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PASTORI E PRESEPI A SAN GREGORIO ARMENO

“… te piace ‘o presepio?” 

  1. De Filippo – Natale in casa Cupiello, 1931.

Percorsi di fede, cultura e arte

Via San Gregorio Armeno è probabilmente una delle vie più famose del mondo: è la strada dei presepi e dei pastori artigianali di Napoli e per raggiungerla, si passa attraverso un percorso che è un museo a cielo aperto. Da Piazza del Gesù, che deve il suo nome alla Chiesa del Gesù Nuovo e che s’impone sulla piazza con la sua maestosa facciata di bugnato rustico a punta di diamante, con davanti l’obelisco dell’Immacolata, s’imbocca Via Benedetto Croce, strada in cui lo sguardo inevitabilmente cade sulla facciata e sul campanile della Basilica del Complesso Monumentale di Santa Chiara, ove c’è l’imbocco di  “SpaccaNapoli”, un vero e proprio viaggio attraverso il sacro ed il profano.

Un pullulare di bancarelle con i più svariati articoli accompagna fino a Piazza San Domenico Maggiore, dove troneggiano l’obelisco di San Domenico con la sua Basilica che fieramente conserva le Arche Aragonesi, di lì a poco si giunge ad un’altra chiesa, quella di Sant’Angelo a Nilo con le opere di Donatello e,nella Piazzetta adiacente, alla statua di epoca romana rappresentante il Dio Nilo che immette a San Biagio dei Librai, dove ci si imbatte tra le prime botteghe dell’arte presepiale napoletana, fino ad incrociarsi proprio con Via San Gregorio Armeno,la strada dei pastori, che congiunge perpendicolarmente il Decumano inferiore a quello superiore fino a Piazza San Gaetano, dove alle spalle della statua del Santo s’impone la Basilica di San Paolo Maggiore e alla sua sinistra, quella di San Lorenzo  che immette nella Napoli Sotterranea.

Nella “strada dei pastori” s’ incontrano botteghe d’arte presepiale centenarie, nelle quali quest’arte  si è mantenuta inalterata per secoli, divenendo parte delle tradizioni natalizie più consolidate e seguite della città, nonostante l’avvento della tecnologia, mantenendo ancora vivo il ricordo di una lavorazione artigianale, immutata nel tempo.

La tradizione dei pastori di San Gregorio Armeno: la lavorazione

Dalle operose mani dei maestri artigiani nascono presepi in sughero, quadri di paesaggi tridimensionali, dove gli elementi fondamentali sono la grotta della Natività, che è il centro della scena, elementi paesaggistici come fiume e ponte, i mercati e le botteghe, poiché non è solo la rappresentazione della Natività, ma è tutto un mondo in cui rivivono scene e momenti della quotidianità napoletana del ‘700.

ll secolo d’oro del presepe napoletano è il Settecento, quando regnò Carlo III di Borbone: per merito della fioritura artistica e culturale, in quel periodo anche i pastori cambiarono le loro sembianze. I committenti non erano più solo gli ordini religiosi, ma anche i ricchi e i nobili che gareggiavano per allestire impianti scenografici e statuine sempre più ricercati, c’era già la figura del “figurinaio” cioè l’artista specializzato nella creazione delle statuine.

Ma era un diletto anche per i nobili:lo stesso Carlo III s’impegnava personalmente nella realizzazione del presepe, preparando mattoncini e scene diverse, la Regina si occupava tutto l’anno nel preparare, con le Dame di Corte, gli abiti per i pastori.

La preparazione dei pastori richiede diverse fasi, molte di esse sono sempre le stesse e segue una lavorazione che è immutata nel tempo: si tratta di un corpo preparato creando una struttura in filo di ferro morbido e riempito con della stoppa così da formare un corpo appena abbozzato.

Le parti da modellare, saranno le uniche visibili: sono la testa, le mani complete di avambraccio e la parte finale delle gambe, che alla fine andranno assemblate sul corpo;con l’argilla fresca si modella la testa dandole un certo movimento sottolineando i muscoli del collo e i tratti somatici dell’espressione E’ necessario, inoltre forare la pettiglia avanti e dietro per poterla innestare e fissare sul manichino in fase di assemblaggio. Lo stesso procedimento vale per gli arti inferiori e superiori.

I pezzi finiti ed essiccati, dovranno essere quindi cotti nel forno. Dopo la cottura entro i 980° l’argilla naturale diventa terracotta. Sulla testa, dopo la cottura andranno inseriti gli occhi di vetro nelle orbite.

A questo punto il passo successivo era e resta quello della pitturazione , in cui non solo è fondamentale realizzare il colore esatto per gli incarnati, ma anche esaltare le gote, le palpebre, i muscoli del collo, il dorso delle mani e le dita per dare maggiore realismo alle figure.

Dopo essere stati dipinti, sono pronti per l’innesto sul manichino. La rifinitura del corpo non è importante, poiché verrà vestito con abiti e accessori.

figura del presepe napoletano e suo abito – Museo Nazionale Bavarese –Monaco di Baviera – Wikipedia

 

La vestizione è la fase conclusiva che dovrebbe essere affidata ad una persona specifica in quanto, per quest’operazione, si richiedono requisiti affini a quella di un sarto: importante è la scelta delle stoffe, la conoscenza degli abiti d’epoca, un tempo contemporanei; le stoffe usate saranno adeguate al personaggio, così che per i pastori si creeranno costumi con tessuti poveri e grezzi, mentre per i Re Magi si useranno stoffe di maggior pregio e bellezza; utile è anche il ricordo di eventi come i costumi orientali dei re e del loro seguito come accadde per gli inviati del Sultano e del re di Tripoli, o a quelli degli ambasciatori della Porta Ottomana in visita a Napoli, che nel 1778 sfilarono in pompa magna per via Toledo.

Per il Corteo dei Magi si prediligono abiti lunghi e grandi mantelli, ori, perle e preziosi che arricchiscono i già preziosi tessuti damascati e i velluti, colori forti e tra essi quasi contrastanti, abbinamenti cromatici forti che rendono la scena ricca ed imponente al tempo stesso, corone realizzate cercando di rimanere il più fedele ai Paesi di provenienza.

ph. Ornella Amato – Magi – Napoli, coll. priv.

ph. Ornella Amato – Magi – Napoli, coll. priv.

ph. Ornella Amato – Magi – Napoli, coll. priv. Dettagli del tessuto dell’abito.

Essi s’impongono nella scena della Natività, dove i costumi con i quali sono vestiti i personaggi della Sacra Famiglia cercano di mantenere l’iconografia originale, poiché il manto di Maria è azzurro, la veste rosa chiaro, mentre Giuseppe è rappresentato in viola e marrone. Ciononostante i tessuti restano pregiati, le greche ed i bordi dorati arricchiscono i mantelli che generalmente sono realizzati in  seta od organza rigida e cinture dorate. Scende sulla grotta lo sciame angelico, anche’esso vestito secondo l’iconografia sacra tradizionale: tuniche larghe dai colori pastello, cinti in vita da  una cintura dorata.

Ma è sui personaggi che animano tutto il resto della scena che si scatena la fantasia, ieri contemporanea dell’epoca che li creò, oggi riproposizione di un passato glorioso: nobildonne con corsetti ed adornate di gioielli, chiuse in abiti dai tessuti importanti come velluti e damascati;gli uomini in giacche lunghe e ricchi bottoni dorati, finemente decorati, i servi con le loro tipiche vesti, camicie bianche e pantaloni al ginocchio, le donne, con  il tradizionale grembiule bianco che spesso poggia su gonnelloni di colore scuro, i cui tessuti non sono quasi mai pregiati, così come il loro stesso status sociale imponeva, ma soprattutto tutti i personaggi che animano il mercato che è un vero e proprio mercato napoletano: il fruttivendolo con la sua frutta in cassette di legno, il pescivendolo col pescato del giorno ed il pescatore che pesca lungo il fiume, accanto al ponte, i bottegai, l’oste con i suoi tavoli  e soprattutto il pizzaiolo, con la sua pizza, il suo camice bianco.

Interessanti poi le minuterie del presepe napoletano ovvero tutti gli oggetti miniaturizzati, appositamente creati da artigiani specializzati, con l’utilizzo di vari materiali, come cuoio, rame, legno, vimini, ceramica, argento e oro, ferro, cordame, cera colorata. Questi accessori  completano e caratterizzano le figure e le scene, in genere riproducono oggetti realmente in uso nel Settecento; così come gli ambienti sono quelli dei vicoli napoletani, delle finestre coi panni stesi, delle case coi tetti dei mattoni rossi a spioventi, eppure non mancano “angoli verdi” con la presenza di alberi sempreverdi e alberi completamente spogli dovuti alla stagione invernale.

La narrazione evangelica della Natività è rivisitata dalla fantasia napoletana che, mettendola al centro e con, attorno ad essa, i pastori adoranti e i re Magi, si allarga alla figure di contorno, come gli zampognari subito fuori la grotta e i bottegai dei mercati e delle piazze della città, esprimendo lo spirito festoso e vivo del popolo  partenopeo del XVIII secolo e che continua fino ai giorni nostri.

 

pastori del presepe napoletano  – Wikipedia

pastori del presepe della Reggia di Caserta – Wikipedia

ph. Ornella Amato – Napoli, Via San Gregorio Armeno

ph. Ornella Amato – Napoli, Via San Gregorio Armeno- presepi in mostra

Bibliografia:

Collana Monumenti e Miti della Campania Felix – Supplem. A “Il Mattino”Vol. XIV – Le tradizioni di Natale e il Presepe – Ed. Pierro Gruppo Editori Campani Dic. 1996

 

Sitografia:

Treccani.it

Sapere.it

Wikipedia.it

 

 

 


STORIARTE IN VIAGGIO NELLE FIANDRE

RACCONTO DI UN VIAGGIO TRA STORIA, ARTE E SOGNI

Quando sono stata contattata per questo viaggio nelle Fiandre, quasi non potevo crederci. Mi si chiedeva di andare a visitare luoghi che avevo avuto la possibilità di vedere e studiare solo nei libri. Chiaramente, la paura c’è stata da subito, ma sarebbe stata più la frustrazione di restare nella zona di comfort che quella di lasciare il certo per qualcosa di mai vissuto. Le tappe di questo viaggio sono state BRUGES e GENT, due cittadine situate nel cuore pulsante delle Fiandre e che racchiudono l’essenza stessa della cultura fiamminga.

BRUGES

Il mio viaggio nelle Fiandre è iniziato da BRUGES, il 15 ottobre, con una visita al centro storico della città e, grazie alla guida di ANNE, abbiamo avuto modo di comprendere la vita e la storia del luogo.

Il Markt, ossia la piazza principale della città, è il fulcro intorno al quale si sviluppa la vita sociale cittadina, circondata da adorabili case in stile tutte colorate  al centro del quale sorge la torre di vedetta, che anticamente serviva per proteggere il centro abitato da attacchi esterni.

Subito dopo ci siamo recati al Beghinaggio, luogo in cui le donne, durante le crociate, si riunivano per formare una comunità e per sentirsi al sicuro durante l’assenza degli uomini in guerra.

Tutta la città è attraversata da canali e ponti, che rendono il soggiorno molto romantico. I canali sono navigabili, infatti ci sono vari punti di attracco per fare delle piccole gite lungo le acque di Bruges.

Il 16 ottobre è stata la giornata destinata alla scoperta della vita di van Eyck,quindi ci siamo recati nel suo quartiere, abbiamo visto la casa dove ha abitato e la statua nella piazza a lui dedicata.

Lo sapevate che van Eyck era tenuto in altissima considerazione alla corte di Duca Filippo il Buono, suo Signore? Ebbene sì, fu il Pittore di Corte di Filippo il Buono il perfezionatore della tecnica della pittura a olio, che verrà celebrata nel 2020 nella grande mostra a lui dedicata: VAN EYCK. AN OPTICAL REVOLUTION (per info qui: https://vaneyck2020.be/en/).

Visto il maltempo abbiamo approfittato per visitare l’Historium, un‘ attrazione multimediale ed interattiva che sta proprio nel Markt, il cui scopo è di proiettare il visitatore nell'epoca del Maestro e a quando l’opera della Madonna del Canonico van der Paele venne dipinta. In questo museo si fa un vero e proprio salto indietro nel tempo, perché sono state ricreate le esatte ambientazioni, i rumori, i suoni e gli odori dell’epoca. Un’esperienza immersiva che rende davvero l’idea di cosa voleva dire vivere durante il rinascimento fiammingo! (https://www.historium.be/en )

Una tappa importante per scoprire i dipinti dei Primitivi Fiamminghi a Bruges è stata la visita al Museo Groeninge, custode di due importanti opere di Jan van Eyck: il RITRATTO DI MARGARETA e la MADONNA DEL CANONICO VAN DER PAELE.

Da lì ci siamo poi spostati all’ OSPEDALE DI SAN GIOVANNI, al cui interno sono conservati una quantità notevole di dipinti di HANS MEMLING, altro grande artista del luogo e del tempo di van Eyck.

Il direttore RUUD PRIEM ci ha accolto e ci ha spiegato le origini di tale luogo, ossia che storicamente i malati venivano condotti lì, non per essere curati nel corpo, ma nello spirito. Solo successivamente si è iniziato a curare la malattia in modo scientifico, infatti al suo interno sono conservati, oltre alle opere d’arte, anche vari strumenti medici. In supporto a questo luogo di cura,venne fondata anche una farmacia, caduta in disuso negli anni ‘70 e che ora è diventata luogo di interesse culturale annessa all’ospedale.

Terminata questa visita il nostro tempo a Bruges era terminato, ed era già ora di spostarsi a GENT, che ci ha accolti sotto una pioggia battente.

GENT

Gent, città universitaria, conserva il più grande patrimonio lasciatoci dal grande maestro van Eyck, il POLITTICO DELL’AGNELLO MISTICO.

 

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Si sta ultimando la seconda fase del restauro su questo dipinto maestoso, che verrà presentato ufficialmente in tutto il suo rinnovato splendore con una grande mostra a lui dedicatagli nel 2020 (https://www.mskgent.be/en/home), infatti, una parte del polittico si trova dal 2012 in restauro presso il museo MSK di Gent.

Nell'autunno del 2016 è stato completato il restauro dei primi otto pannelli esterni del polittico, che ora si possono ammirare in una sala appositamente allestita all'interno della Chiesa di San Bavone.

Al momento il team di restauro sta lavorando alla seconda fase: il registro inferiore della pala d’altare, contenente l’imponente pannello centrale con l’agnello. Gli esperti restauratori stanno rimuovendo, con la massima cura, gli strati di pittura che si sono sovrapposti nel corso del tempo, e permettendo al vero virtuosismo di Jan van Eyck di venire nuovamente alla luce.

I restauri hanno rivelato i colori, i dettagli, le pieghe e la profondità proprie dell’opera e che dimostrano ancora una volta la bravura dell’autore.

In primo luogo i restauratori hanno svelato l’agnello originale, che ha dimostrato di avere un muso molto più “umano” rispetto alla versione che prima si vedeva dipinta. Intorno alla metà del XVI secolo, la testa dell’agnello venne ridipinta. Quando nel 1951 i restauratori rimossero la vernice verde intorno all’agnello, vennero alla luce le due orecchie originali della bestiola.

I restauratori hanno inoltre scoperto, sotto gli strati di vernice, una serie di edifici sconosciuti.

Come base per gli innumerevoli strati di pittura ad olio del polittico, Jan van Eyck scelse di utilizzare dei pannelli di quercia ai quali sovrappose strati sottili di gesso e colla animale: il risultato, visibile ancora oggi, è un effetto traslucido  che sembra creare una dimensione aggiuntiva e che fa sembrare che la vernice brilli dall’interno.

 

JAN VAN EYCK E IL 2020: LA GRANDE ESPOSIZIONE

Il 2020 sarà l’anno dedicato a JAN VAN EYCK, a conclusione del progetto triennale “Flemish Masters 2018-2020” promosso da VISITFLANDERS.

Il progetto è strutturato per focalizzarsi ogni anno su un artista diverso, facendo emergere la sua arte, le città fiamminghe che l'hanno ospitato e che lo celebrano con eventi e mostre.

Il 2018 è stato l’anno  dedicato a RUBENS, con la rassegna “Anversa barocca 2018. Rubens Inspires” e la città coinvolta è stata Anversa.

Il 2019 è l’anno di BRUEGEL, in occasione del 450° anniversario della sua morte  e si è concentrato a Bruxelles, Pajottenland e in parte ad Anversa.

Il 2020, come anticipato, sarà l’anno di JAN VAN EYCK, con la città di Gent come protagonista, in occasione della fine della seconda parte del restauro del POLITTICO DELL’AGNELLO MISTICO, iniziato nel 2012.

Al termine del restauro verrà inaugurata una grande mostra in programma dal primo febbraio a fine aprile 2020 dal titolo: “VAN EYCK. AN OPTICAL REVOLUTION

La mostra si svilupperà intorno ai pannelli esterni restaurati del polittico di Gent, ed includerà più della metà delle 23 opere dell’artista attualmente esposte in altre parti del mondo.

Questa sarà una grande occasione per poter ammirare il maggior numero di opere del maestro fiammingo tutte nello stesso luogo, inoltre questi tesori saranno esibiti accanto alle opere di contemporanei di van Eyck di maggior talento.

 

APERTURA DEL NUOVO VISITOR CENTER NELLA CATTEDRALE DI SAN BAVONE

A ottobre 2020 verrà inaugurato il nuovissimo VISITOR CENTER all’interno della Cattedrale di San Bavone.

Attualmente si stanno ultimando i lavori di messa a punto delle sale.

In questo centro verranno sperimentate delle nuove tecniche di presentazione per evidenziare la storia che si cela dietro  il Polittico.

Grazie all’ausilio della realtà aumentata, si potrà osservare ed apprezzare la  campagna di restauro che si sta ultimando, e conoscere la straordinaria storia del pannello centrale del Polittico.

All’ingresso, i visitatori riceveranno un set di occhiali per la realtà aumentata, che darà loro la possibilità di vedere mura medioevali e numerose opere d’arte come se fossero effettivamente sul posto.

Grazie all’aiuto di simulazioni storiche e moduli interattivi, i visitatori potranno sperimentare le diverse fasi di costruzione della cattedrale, avvenuta in periodi storici diversi, nonché la storia movimentata della Pala d’ Altare di Gent.

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