IL DUOMO DI LECCE E I PROPILEI

A cura di Rossana Vitale

LE FORME DEL BAROCCO: I PROPILEI

Tra il XVII e il XVIII secolo la città di Lecce parlava un’unica lingua artistica: quella del Barocco, che con le sue decorazioni piene, le sue esuberanze e i profondi significati simbolici nascosti nei suoi ornamenti aveva dato un’impronta omogenea alla città. Nonostante il Barocco, secondo Benedetto Croce, dovesse essere relegato alla periferia, in quanto “fenomeno di degradazione, non essendo né uno stile né un movimento, ma al massimo una categoria del brutto o un pervertimento”, questo fiorì velocemente nella città salentina, barocca al pari di Roma, che negli stessi anni vide la magnificenza delle opere di Borromini e Bernini, solo per citare due importanti artisti.

Una tra le “scene” artistiche a dover essere migliorate dall'arte barocca in quegli anni era la Piazza Duomo, che ospitava appunto il Duomo di Lecce e che necessitava di un nuovo ingresso degno dell’alto livello di tecnica e di raffinatezza raggiunto dagli altri edifici, simbolo del potere ecclesiastico. Il vescovo Alfonso Sozi Carafa, grande ispiratore di opere come il suo predecessore - il vescovo Pappacoda - decise di affidare al suo architetto di fiducia, Emanuele Manieri, la sistemazione del prospetto di ingresso alla piazza del Duomo e all'adiacente Palazzo Vescovile, eliminando l’antico portale d’accesso sormontato da una meridiana e dall'orologio.

L’architetto non era nuovo ai lavori in questa piazza, avendo dato già prova di grande ingegno nella sistemazione dello stesso Palazzo Vescovile.

La scelta progettuale del Manieri non fu semplice, e piuttosto che optare per un nuovo portale o per un arco di trionfo celebrativo, decise di sfruttare al meglio l’esiguo spazio che aveva a disposizione, dando vita ai “Propilei”.

Dall'elaborato profilo planimetrico, i Propilei non sono autonomi dalla scena che introducono: sono invisibili finché non vi si arrivi davanti, ma la loro presenza prospettica dà il benvenuto e invita ad entrare nella piazza, raccordando tutti gli elementi qui presenti in una specie di grande cerchio, di cui essi sono l’ingresso e l’uscita, e in cui si susseguono a partire da sinistra il Campanile, il Duomo, il Palazzo Vescovile e il Palazzo del Seminario. È come se rappresentassero un confine netto tra la strada del corso, viva e chiassosa, e la piazza, silenziosa e raccolta. Una volta che si oltrepassa questo varco si rimane senza fiato per la bellezza che ci si trova davanti.

Le costruzioni nella piazza hanno altezze e misure molto diverse tra loro: per ovviare a questo problema visivo i Propilei, vere e proprie quinte di pietra, mantengono un unico asse prospettico non simmetrico che determina la cosiddetta “struttura a cannocchiale”, e che permette di dare allo spettatore un unico punto di traguardo.

Nel cerchio rosso si vede la planimetria dei propilei, mentre nel rettangolo il punto di fuga prospettico, cosi come anche quello dello spettatore, sulla facciata laterale del duomo.

Entrambi i Propilei hanno un profilo mistilineo e sono dotati di balaustra su cui si imposta la loggia con le statue dei Santi Oronzo, Irene e Venera da una parte e di tre Padri della Chiesa dall'altra, ognuno con un orientamento spaziale differente: i due personaggi adiacenti alla strada sono rivolti in quella stessa direzione, i due centrali guardano all'interno del varco e i due prossimi alla piazza sono girati verso di essa. Accompagnano il percorso del visitatore, accogliendolo, e proseguono con lui. Subito al di sotto della balaustra, centralmente, si presenta lo stemma del vescovo.

La parte superiore, oltre la balaustra e le statue, si configura come una porzione trapezoidale irregolare, con il lato maggiore prominente verso l’esterno al fine di indirizzare un’apertura prospettica al di fuori della piazza.

Le due strutture sono connesse tra di loro mediante svasature e raccordi, così da determinare una dilatazione visuale sulla piazza: entrambe suddivise da un sistema di tre paraste, una disposta centralmente e le altre due ruotate alle estremità, risultano solo apparentemente speculari tra loro.

IL DUOMO DI LECCE: L'ESTERNO

Appena oltre questo benvenuto scultoreo si apre al visitatore, con il numero civico “13”, la bellezza della fastosità barocca rappresentata dalla facciata laterale del Duomo di Lecce, ricostruito tra il 1659 e il 1670 laddove sorgeva un’altra chiesa, demolita nel 1658, per conto del vescovo Pappacoda e per mano di Giuseppe Zimbalo.

Presenta due prospetti: quello principale è adiacente al Vescovado, poco visibile pur essendo il punto di fuga dei propilei, ed è anche la proiezione esterna della divisione interna della fabbrica.

Con un sistema di paraste scanalate la facciata, così come l’interno, è divisa in tre sezioni verticali - quindi tre navate - e due ordini orizzontali, popolati dalle statue di San Pietro e San Paolo, San Gennaro e San Ludovico, riconoscibili dalle iscrizioni lapidarie poste al di sopra. Sul timpano che chiude in alto questa prima facciata si trova un finestrone rotondo decorato con motivi curvilinei. È stata concepita pulita e sobria, proprio perché non è la facciata che accoglie il visitatore, quindi non deve stupire. Vi si apre il portone d’ingresso rifatto dallo scultore Armando Marrocco nel 2000, anno del Giubileo, per volere di Monsignor Ruppi: raffigura in alto Cristo che in una nuvola risorge tra Padre e due scene separate tra loro. La chiesa universale che incontra la chiesa locale in basso e l’Assunzione della Vergine e la visita di San Giovanni Paolo II a Lecce nel 1994, in alto.

L’attenzione quindi viene totalmente catturata dalla magnificenza barocca del prospetto laterale, che risulta diviso anch’esso in tre sezioni verticali, con il portale inquadrato da due colonne sfarzose, con capitelli corinzi in alto e due corone a tre quarti della lunghezza, abitate queste da due grandi putti coperti da un drappo. Tuttavia la ripartizione in due ordini orizzontali è quella più interessante da un punto di vista artistico: la decorazione nei minimi particolari è una delle rappresentazioni di punta del Barocco Leccese.

Ai lati del portale i compatroni della città, i Santi Giusto e Fortunato, occupano due nicchie, mentre sulla lunetta del portale tre putti si appoggiano su di un festone composto da melograni e altri frutti e piante intrecciati tra loro. Questa rappresentazione si ripete anche sulla base dell’architrave, abitata da tanti piccoli putti che mantengono tra di loro piccoli festoni, simili a quello più grande al di sopra.

Sulla ricca balaustra svetta un arco - la cui cornice è piena anch’essa di melograni, simbolo di ricchezza e fecondità - in cui campeggia maestosa la statua di Sant’Oronzo, accompagnato da due putti ai suoi lati: con ricchi paramenti vescovili, mitra e bastone del comando, con la mano in segno benedicente. In alto lo stemma del vescovo Pappacoda chiude la facciata.

IL DUOMO DI LECCE: L'INTERNO

All'interno la struttura del Duomo di Lecce è a croce latina, con tre navate divise da pilastri con semi-colonne addossate, ed ogni navata ospita quattro cappelle:

  1. cappella di San Giovanni Battista;
  2. cappella dell’Annunziata;
  3. cappella di San Fortunato;
  4. cappella di Sant’Antonio da Padova.

Il soffitto è ligneo a lacunari dorati e tele incastonate, realizzate per mano di Giuseppe da Brindisi e Carlo Rosa.

Il primo ha composto: 1. la predicazione di Sant’Oronzo, in cui il santo è raffigurato mentre mostra ad una folla di adoranti ai suoi piedi la croce sulla quale è morto Gesù; 2. la protezione dalla peste, in cui Sant’Oronzo scende dal cielo, e con l’aiuto di tre angeli che mantengono il bastone del potere vescovile, la palma simbolo del martirio ed una spada simbolo della decapitazione, difendono la città rappresentata sullo sfondo dalla peste, raffigurata come un uomo dalle sembianze demoniache; 3. martirio di Sant’Oronzo, che attende prono l’esecuzione della decapitazione, mentre un putto sopra di lui lo attende con l’aureola della santità e la palma del martirio.

Mentre per mano di Carlo Rosa abbiamo: 1. l’Assunzione della Vergine; 2. l’Ultima Cena, all’incrocio del transetto con la navata, si presenta come una scena affollata, in cui però è subito riconoscibile Giuda, seduto in primo piano su di uno sgabello con in mano un sacchetto blu con le monete ricevute per il tradimento.

Per tutti gli elementi che caratterizzano l’interno del Duomo di Lecce, per la loro bellezza e fastosità, è necessaria una trattazione specifica a parte, che sarà oggetto del prossimo articolo.

 

Bibliografia

Cazzato e M. Cazzato, a cura di, “Atlante del barocco in Italia. Lecce e il Salento. Vol.1: i centri urbani, le architetture e il cantiere barocco.” ed. De Luca, 2015

Fagiolo, M.L. Madonna, a cura di, “Il Barocco romano e l’Europa. Centri e periferie del Barocco. Vol.1”, Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, 1992

Cazzato “Puglia Barocca”, ed. Capone, 2013

Cazzato “Il Barocco Leccese”, ed. Laterza, 2003

 

Sitografia

www.brundarte.it

www.puglia.com


I TRULLI DI ALBEROBELLO

A cura di Rossana Vitale

Il grande poeta e scrittore Pier Paolo Pasolini rimase talmente colpito dal bianco folgorante di trulli da descriverne la struttura come solo lui sapeva fare, facendosi guidare dal sentimento che provava ammirandoli:

di un bianco rigido, ovattato e freddo, con qualche striscia azzurrina e il nerofumo. Ma ogni tanto nell'infrangibile ordito di questa architettura degna di una fantasia, maniaca e rigorosa – un Paolo Uccello, un Kafka – si apre una frattura dove furoreggia tranquillo il verde smeraldo e l’arancione di un orto”.

Inseriti dall’UNESCO nel 1996 nella World Heritage List come “esempio notevole di architettura spontanea in un contesto urbano e paesaggistico di grande valore storico”, i trulli (dal greco antico τροῦλλος, trûllos, cupola), sono testimonianze davvero eccellenti di un’edilizia antichissima, risalente all'epoca preistorica e ancora presente in Puglia: la tecnica in pietra a secco a lastre.

Venivano di solito costruiti e utilizzati come ricoveri temporanei nelle campagne oppure come abitazioni permanenti per gli agricoltori, anche se, secondo alcuni documenti, i trulli sono stati concepiti e costruiti inizialmente per non dover pagare il tributo che il re di Napoli, nel XIV secolo, aveva posto per ogni nuovo villaggio che venisse edificato. Quindi nella zona di Alberobello, unica al mondo con i suoi 1500 trulli, il Conte di Acquaviva, signore del feudo dopo i duchi Caracciolo di Martina Franca, alla fine del Quattrocento trovò un accordo con i suoi coloni affinché non utilizzassero nulla, nemmeno la malta, per assemblare i blocchi delle abitazioni, che in questo modo avrebbero avuto l’aspetto di costruzioni precarie, di facile demolizione e quindi non sottoponibili al tributo del Re. Con questo stratagemma il duca riuscì ad eludere la cosiddetta Pragmatica de Baronibus, che per l’appunto imponeva autorizzazioni e tasse per i nuovi insediamenti, rimasta in vigore fino al 1700.

La tecnica costruttiva dei trulli

Una tecnica di costruzione, fatta di sola pietra calcarea, che in realtà si è dimostrata nel tempo tutt'altro che fragile, anzi straordinariamente stabile e robusta, pur non avendo alcun tipo di collegamento o sostegno.

Nonostante nella zona della Valle d’Itria si rinvengano reperti archeologici di epoca preistorica o capanne risalenti all'Età del bronzo, non esistono trulli particolarmente antichi, ma al massimo risalenti al XVII secolo, edificati dai contadini e dai pastori con le pietre trovate nel terreno stesso o in scavi e levigate grossolanamente.

L’unità costruttiva di un trullo tipico presenta una pianta di forma circolare, sul cui perimetro si imposta la muratura a secco con uno spessore importante: questo, unito al ridotto numero e dimensione delle aperture (solo un finestrino quadrato che fa da sfiato ai piccoli gabinetti, ricavati all'interno per esigenze igieniche nel secondo dopoguerra e la porta di ingresso), ne assicura un’elevatissima inerzia termica, conferendo calore durante l’inverno e fresco durante i mesi più caldi, per effetto dell’inversione termica, in quanto le pietre pian piano in estate rilasciano il fresco accumulato in inverno, e viceversa, in inverno rilasciano il calore accumulato in estate.

Tutte le costruzioni vengono completate da un tetto conico, una pseudo cupola che ne costituisce ovviamente la copertura. Struttura autoportante, senza centinatura, costituita da una serie concentrica di lastre orizzontali disposte a gradini sempre più rientranti, man mano che si sale verso l’alto, in cui ogni giro è in equilibrio con quelli inferiori. Presenta un doppio rivestimento, uno interno con pietre di forma conica di maggiore spessore e un cono esterno impermeabile costituito dalle cosiddette chiancarelle, ovvero pietre più sottili. Queste sono bloccate dal pinnacolo decorativo sporgente, un elemento composto a sua volta da quattro elementi:

1- ultime file di pietre sigillate con malta e imbiancate con la calce;

2- detto cannarile, di forma cilindrica o a tronco di cono;

3- detto carrozzola, di pietra a forma di scodella;

4- chiamato cocla, costituita molto spesso da una sfera di pietra dalla forme più svariate.

Questo pinnacolo è il marchio del trullo ed ha principalmente lo scopo di contraddistinguere una costruzione dall'altra, anche se la sua origine è da ricondurre alla simbologia primitiva magica, con la finalità di allontanare influenze maligne e la sfortuna. Motivi cruciformi o stellari come emblemi della cristianità e dell’interpretazione religiosa hanno man mano sostituito il valore magico. Recentemente anche questi simboli sono stati sostituiti da sculture antropomorfe e decorative.

Anche la parte frontale della cupola reca simboli in cenere bianca, che ad una prima occhiata possono sembrare insignificanti ma che in realtà portano con se miti, emblemi e simboli di natura religiosa. Cristiana o pagana, propiziatoria o magica, sono identificabili e suddivisibili seguendo una classificazione ufficiale del 1940: primitivi, magici, pagani, cristiani, ornamentali e grotteschi.

I simboli PRIMITIVI sono disegni non strettamente riconducibili a modelli reali, con linee curve e dritte, di solito tre, cinque o sette. A questa prima classe appartengono anche i triangoli simboli di invocazione della Trinità, i cerchi simboli di Dio e i punti isolati segni della miseria umana.

I simboli MAGICI sono invece ricollegabili ai segni zodiacali e astrologico-planetari: ad esempio il segno del Toro, Gemelli, Cancro, Leone e Bilancia sono augurio di fortuna per - rispettivamente - abitanti della casa, fratelli, genitori, bambini e sposi. Il sole e la luna sono i simboli con maggiore importanza in quanto raffigurazioni del principio della vita del trullo e dei suoi abitanti l’uno e custodia del trullo addormentato l’altro (con l’attenzione alla gobba rivolta a levante affinché non sia confusa con la mezzaluna turca, simbolo di dannazione). Il tridente invece simboleggia le preghiere dell’uomo rivolte alla Trinità.

I simboli PAGANI sono da ricondurre al culto degli animali da parte degli antichi Romani: l’aquila è il simbolo dell’anima che aspira al cielo, la testa di cavallo, del bue, del cane e del gallo, simboleggiano rispettivamente il lavoro, la scongiura delle sfortune, la famiglia e la vigilanza. Il serpente è segno di prudenza.

I simboli CRISTIANI sono quelli più frequenti e numerosi: il monogramma di Cristo, i simboli della passione, del cuore trafitto di Maria, il Calice Eucaristico o le iniziali dei Santi Patroni. Ma comunque il simbolo più comune è la Croce nelle sue molteplici varianti: semplice, radiante o punteggiata, rappresenta il segno della cristianità e delle preghiere elevate al cielo.

Infine i simboli ORNAMENTALI e GROTTESCHI non sono legati alla tradizione ma sono frutto della fantasia del proprietario del trullo: le proprie iniziali, una raffigurazione del proprio mestiere (zappa, martello) o della produzione agricola in cui il proprietario è specializzato (una spiga, un ramo di ulivo o di vite).

Essendo la copertura esterna della cupola impermeabile, in ogni trullo l’acqua scivola e viene raccolta con delle gronde sporgenti dalla base del tetto, per poi confluire attraverso un canaletto nella cisterna posta sotto l’abitazione.

L’interno

Ogni trullo inizialmente veniva predisposto con un unico vano, al quale poi si potevano aggiungere altri moduli abitativi, in base alle esigenze del proprietario. Se questo non si dimostrava possibile l’intera struttura veniva abbattuta e se ne costruiva un’altra più grande e più funzionale.

All'interno il pavimento è di pietra calcarea e l’area della cupola viene di solito isolata rispetto alla base con delle travi, ricavando così un ulteriore spazio per conservare le riserve di cibo o per ricavare una stanza più piccola, a cui si ha accesso tramite una scala. Mentre la zona principale risponde a due funzioni: di alcova e di focolare/angolo cottura.

Gli ambienti utilizzati come stalle, depositi e ovili, sono separati dal nucleo abitativo principale, ma presentano la stessa tipologia costruttiva.

Con i loro simboli e la loro architettura, queste case di fiaba, come le chiamava D’Annunzio, sono da sempre il simbolo della Valle d’Itria e della Puglia nel mondo, riuscendo a creare un panorama da sogno che incanta ogni singolo visitatore:

all’improvviso nella Valle d’Itria ecco spuntare case di fiaba…attendamenti di pietra nel terreno ondulato…innumerevoli coni bruni contrassegnati dall’emblema fenicio. Vorrei stendermi per terra in un trullo dalla volta d’oro e lì sognar”.

 

Bibliografia

Esposito “Architettura e storia dei trulli: Alberobello, un paese da conservare”, 1983

Galiani, tratto da "La Guida Storico-Turistica di Alberobello"

Berrino “I trulli di Alberobello: un secolo di tutela e turismo”, 2012

Leone “Impressioni pugliesi di Gabriele D’Annunzio. Cronache di viaggio 1917”

 

Sitografia

http://www.italia.it/it/scopri-litalia/puglia/poi/la-storia-dei-trulli-di-alberobello.html

http://www.italia.it/en/travel-ideas/unesco-world-heritage-sites.html

www.pescaranews.net

Museo del Territorio di Alberobello


LA CRIPTA DELLA BASILICA DI SAN NICOLA A BARI

A cura di Rossana Vitale

Una seconda chiesa: la cripta di san Nicola

Nella grande fabbrica basilicale di San Nicola a Bari, sotto l’intero transetto e in corrispondenza del largo presbiterio, si estende la cripta, una vera e propria seconda chiesa sotterranea, che vide i lavori per la sua edificazione concentrarsi tra il 1087 e il 1089. Tutto il progetto della basilica fu attuato per volontà dell’abate Elia, che aveva preso in consegna le reliquie del Santo all’arrivo, nel pomeriggio del 9 Maggio 1087, della spedizione di marinai che le trafugò in una chiesa a Myra.

Due anni dopo, nel 1089, lo stesso abate Elia accolse il papa Urbano II che durante il Concilio consacrò la cripta e le reliquie, che furono riposte sotto l’altare appena costruito.

Nella cripta si accede tramite due scalinate collocate nelle navate laterali della Basilica, protette da antichi plutei traforati che un tempo chiudevano l’iconostasi. Queste scalinate rappresentano un vero e proprio rito di passaggio per il visitatore: dal grande spazio austero e maestoso dell’impianto superiore si passa infatti ad una ricchezza fatta di ex voto in argento e oro, dipinti e una selva di colonne, tutta racchiusa in uno spazio alquanto serrato.

Fig. 1

La pianta a base rettangolare - 30 mt per 14,81 mt - racchiude il ritmo di nove navate scandito da ventisei tozze e pesanti colonne che sostengono trentasei campate coperte da altrettante volte a crociera, delimitate da robusti sottarchi: due di marmo numidico, due di breccia corallina, una di marmo caristio e ventuno di marmo greco. Sulle colonne è presente una svariata serie di capitelli - di riporto, bizantini o tardo medievali, ma comunque per la maggior parte eseguiti appositamente per la cripta - che rappresentano al meglio quello che era il primo cantiere nicolaiano: un’unione di esperienze dove maestranze bizantine si fondevano con esperienze nuove, provenienti dal nord, che portavano con sé modelli nuovi o la presenza occasionale di scultori forestieri di passaggio da Bari.

Fig. 2 - credits: Mariantonietta Luongo.

I modelli e le forme tutte diverse per ogni capitello danno l’idea che vi fossero presenti due gruppi di scultori: gli uni “educati” dai bizantini e quindi abituati a lavorare secondo modelli orientali e a trattare temi paleocristiani come pavoni e cornucopie, gli altri erano anonimi portatori di esperienze diverse, meno raffinati, ma sapienti nel dare alle forme scultoree un’impronta espressiva per quel tempo senza eguali.

Si riconoscono leoni con un’unica testa in comune che occupano lo spigolo, le maschere di leonessa inquadrate tra sottili sagome di uccelli, antichi pavoni, tra pigne e grappoli, alternati a volpi che azzannano lepri, e grifi che artigliano pantere.

Alcuni dei temi, come il tralcio con fogliame a forma di ventaglio che nasce da un piccolo vaso rotondo, accomunano questi capitelli a quelli degli stipiti del portale Sud della Basilica - il famoso Portale dei Leoni -, confermando la tesi di una esecuzione contemporanea nello stesso cantiere.

Meritano attenzione i quattro capitelli nella zona centrale della cripta di fronte alla tomba del Santo, poiché presentano caratteristiche romaniche con forme riscontrabili anche in altre sculture ed elementi presenti nella Basilica, come ad esempio nella famosa Cattedra dell’abate Elia. Questi tre capitelli li potremmo descrivere e denominare:

  • Capitello dei Leoni e degli Arieti: due leoni con una testa - che fa da angolo al capitello - e tra i due corpi, su tutte le facce, spunta la testa di un ariete. Trasmettono un sentimento di aggressività. Il chiaroscuro viene utilizzato in maniera sapiente, riuscendo a conferire una maggiore forza agli animali rappresentati.
Fig. 3 - credits: Mariantonietta Luongo.
  • Capitello dei Leoni e dei Pavoni: è in linea con il precedente. Anche qui i pavoni vengono rappresentati ad ogni angolo con i due becchi che convergono. Fra i loro corpi ci sono le teste di leoni: contrariamente al precedente, trasmettono un senso di serenità.
Fig. 4 - credits: Mariantonietta Luongo.
  • Capitello dei Pavoni e del Grifo: si trova in diagonale rispetto agli altri due e quindi un po' più lontano dalla tomba del Santo. E’ il più vario della cripta poiché le scene degli animali variano su ciascuna delle quattro facce: due pavoni che bevono alla medesima coppa - simbolo dell’universale mezzo di salvezza che è l’acqua battesimale e Dio -, due pavoni non più in armonia - uno becca l’altro e l’altro reagisce beccandolo a sua volta -, un grifo alato che azzanna un leprotto dall'espressione dolorante e infine un levriero che azzanna un coniglio.
Fig. 5 - credits: Mariantonietta Luongo.

Prevalgono strutture piene e plastiche, modelli che diverranno dominanti a partire dalla metà del XII secolo. A chiudere il quadrilatero non c’è un capitello figurato, ma uno raffigurante tutt'intorno delle pigne, con quattro rettangoli sovrastanti che incorniciano dei disegni ornamentali.

Il problema dei pavimenti

In questa chiesa sotterranea il problema delle maree ha avuto un ruolo dominante nella scelta del pavimento e delle colonne: trovandosi quasi 50 centimetri sotto il livello del mare, il pavimento venne, dopo molti anni, sollevato con l’ovvia conseguenza di nascondere la base delle colonne. Gli allagamenti del 1599 fecero scomparire il mosaico e tutto fu sostituito da lastre di pietra. Un altro intervento pose un nuovo pavimento per volere di Nicola II di Russia, che visitò la cripta nel 1892.

Solo i recenti restauri di Schettini (1953-1957) hanno riportato la cripta al primitivo splendore: l’ultimo pavimento aggiunto è stato rimosso, le basi sono tornate nuovamente visibili, il tutto protetto da iniezioni di cemento. L’antico pavimento era, molto probabilmente, a mosaico con caratteri geometrici, come dimostra l’area che circonda la tomba di San Nicola e i frammenti alla base della “colonna miracolosa” in marmo rossiccio - secondo la leggenda sarebbe stata collocata alla vigilia della consacrazione della cripta da San Nicola stesso, per supplire alla mancanza di una colonna (e quindi di un sostegno) -.

Fig. 6

Caratteristiche uguali anche a quelle del mosaico presente nel presbiterio delle chiesa superiore, sotto l’altare e il ciborio voluti da Eustazio, successore di Elia.

Dietro la cancellata che chiude il presbiterio campeggia la grande icona donata da Uroš di Serbia, in cui su un fondo totalmente dorato spicca San Nicola a figura intera che risalta da questo fondo grazie alla sua carnagione e ai lati della sua testa, in piccolo, ci sono rappresentati Gesù e la Madonna.

Fig. 7

Il Santo con tre dita della mano sinistra regge il Vangelo mentre la destra è in segno benedicente (unico elemento “movimentato” della rappresentazione che esce dalla staticità complessiva della figura). I paramenti episcopali - dorati anch'essi - presentano delle croci verdi che danno punti di fuga dal dorato predominante, e ai piedi del Santo le figure del re Uros III e della regina Maria sono ben visibili, ma sono la seconda e la terza versione dell’icona: infatti questa opera è stata più volte trasformata, rimaneggiata, per rispondere alle esigenze dei sovrani slavi che di generazione in generazione si avvicendavano.

La cornice che corre lungo tutto il perimetro è in argento.

Sotto questa ricchissima icona, l’altare in pietra che custodisce le reliquie del Santo stride di contro per la sua semplicità. La tomba, sobria e austera, fu rivestita d’argento e nel 1319 assunse la sua conformazione definitiva con la copertura donata, per l’appunto, dallo zar di Serbia Uroš II Milutin.

Durante l’epoca barocca questo altare fu considerato “antiquato” e quindi venne fuso con altri argenti, rinascendo dalle mani di due artisti napoletani: Marinelli e Avitabile. La porticina antistante, vegliata da due angeli con due bottiglie di manna, era concepita per potersi introdurre, venerare le reliquie ed estrarre la manna. Per fortuna, con l’epoca dei Grandi Restauri di metà Novecento, il nuovo altare argenteo fu spostato nel transetto destro della Basilica superiore, ridando all’“antiquato” altare e alla tomba l’originale aspetto severo in pietra: rialzato su due scalini, dove ci si inginocchia per pregare e, attraverso una piccola grata nera, si può ammirare una raffigurazione del Santo giacente che riceve l’ultima benedizione alla presenza delle tre fanciulle salvate con la sua donazione e dei bambini risorti per mano sua - di cui si parlerà in seguito - e un tappeto preziosissimo di raso rosso con decorazioni dorate che copre e protegge le ossa del Santo.

E’ attraverso questa grata che ogni anno si apre e si raccoglie la manna dalle ossa.

Le reliquie del Santo

Ossa conservate che rappresentano il 65% dell’intero scheletro e si trovano all'altezza del piano di calpestio, racchiuse in blocchi di cemento: le ossa mancanti sono sparse nel mondo (tra cui anche a Venezia) e quindi, al loro arrivo a Myra, nella famosa domenica di maggio, i marinai trafugatori baresi si accontentarono delle ossa più grandi e del liquido sacro in cui erano immerse. La famosa manna di San Nicola è appunto un liquido che veniva e viene tuttora raccolto e distribuito ai fedeli in fiale, bottiglie, ampolle o medagliette.

Nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1953 fu eseguita, con la presenza della Commissione Pontificia, la ricognizione Canonica di questi resti scheletrici, avvenimento eccezionale, visto che per 866 anni nessuno aveva potuto né vedere né toccare le ossa del Santo Taumaturgo: di queste analisi ne rimane menzione nella relazione del Prof. Martino, docente di Anatomia Umana dell’Università di Bari e del suo collega Dott. Ruggeri, facenti parte della commissione scientifica e medica.

Molto interessante è leggere qualche passaggio di quello che è stato il risultato dell’analisi:

“Il loculo mostrò nel suo fondo rettangolare ossa sparse senza alcun particolare ordine sistematico (il che dimostrava che non era stato di certo un conoscitore di anatomia ad averle precedentemente deposte), con il cranio situato al centro di una estremità del loculo, e con i pezzi, in parte frammentari, di ossa lunghe e di ossa brevi accumulate irregolarmente di torno; il cranio era ben collocato con la base poggiata in basso. Insieme ai minuti frammenti ossei, presenti in gran numero, abbiamo trovato anche del piccolo pietrisco, che presumibilmente dovette essere stato trasportato nel momento del frettoloso trafugamento delle ossa effettuato dai coraggiosi marinai baresi.

Tutti i pezzi ossei si trovavano immersi in un liquido limpido, simile ad acqua di roccia, occupante il fondo del loculo per l’altezza di circa 2 cm; le parti delle ossa che sovrastavano al pelo dell’acqua risultavano tutte umide.

[…] Lo scheletro è risultato appartenente ad un solo e ad uno stesso individuo ed è costituito da ossa molto fragili e molto frammentate. Il cranio é di esso la parte meglio conservata, il che fa credere che sia stata anche oggetto di maggiore attenzione e pertanto la parte maggiormente protetta durante le operazioni di trafugamento. Il cranio è completo nei suoi segmenti e manca soltanto della metà posteriore della emimandibola sinistra; i denti sono presenti in gran numero ed alcuni si trovano ancora infissi nei loro alveoli[1].

Tutto lo spazio chiuso dell’altare e della tomba è pavimentato da un sontuoso tappeto in sectile di chiara impronta bizantina, dove fasce marmoree annodate seguono un complesso disegno geometrico e gli spazi sono stati realizzati con preziosi marmi antichi molto colorati; molto simile il sectile che pavimenta la piccola cappella che corrisponde alla torre di sud-est.

Questa cappella orientale rappresenta a livello visivo la vocazione ecumenica esistente tra la città di Bari e San Nicola e la conciliazione tra le due chiese cattolica e ortodossa. La Basilica di San Nicola a Bari diviene la prima chiesa latina con una cappella al suo interno in cui celebrare anche il rito ortodosso: ogni giorno, anche contemporaneamente, si svolgono le liturgie cattolico-cristiane nella chiesa superiore e la liturgia ortodossa nella cripta. Una coesistenza che rende la Basilica incantevole anche sotto questo aspetto: i canti e le preghiere, continue litanie in slavo ecclesiastico, riempiono l’intero spazio della cripta e affascinano il visitatore.

L’iconostasi della cappella è stata eseguita da un artista croato, Zlatko Latkovic, e attira l’attenzione e la curiosità dei fedeli per la scritta INBI, anziché INRI (Iesus Nazarenus Rex Iudeorum): una scritta che trae in inganno ad una prima visione, ma che in realtà è assolutamente corretta visto che in greco la parola “re” -Rex - è Basileus.

Sulla parete di fronte, opposta all'altare, è posizionata un’altra grande icona del Santo, anche questa dono dello zar, che, protetta da una griglia e da una parete in plexiglass, accoglie le offerte dei devoti che ogni giorno ne fanno visita.

Le pareti laterali tutt'intorno sono occupate da sei lunette dipinte con scene della vita del Santo, realizzate durante la stagione delle trasformazioni barocche; le figure rappresentate hanno tratti in comune con quelle rappresentate sul soffitto della Basilica superiore.

A partire dalla parete di destra in corrispondenza della colonna miracolosa troviamo:

  1. la “Nascita di San Nicola”: il bambino è rappresentato in preghiera mentre la sua nutrice tenta di lavarlo in una bacinella e la madre, dal suo letto, spazialmente racchiuso nella lunetta, lo osserva assorta nei pensieri;
  2. San Nicola e la dote alle tre fanciulle”: la scena più caratteristica e tipica dell’iconografia nicolaiana poichè corrispondente alle tre palle d’oro e al numero tre ricorrente. La scena rappresenta il momento della carità del Santo verso tre fanciulle molto povere, destinate alla prostituzione per volere del diavolo;
  3. Resurrezione dei tre bambini”: il Santo è colto nell'atto di resuscitare tre bambini uccisi da un oste. Le creature gli rendono grazie mentre l’oste guarda sbalordito la scena; una figura dietro di lui, immersa nell’ombra e del quale non si scorge fisionomia, rimanda il giudizio dell’uomo a Dio (la mano, chiara e perfettamente visibile, punta verso l’alto);
  4. I tre innocenti condannati a morte”: anche loro immersi nella penombra, piegati su loro stessi e con il torace nudo, tre uomini attendono il colpo che li decapiterà. Al centro della scena, con il corpo incurvato a seguire l’andamento curvo della lunetta, San Nicola ferma la mano del carnefice;
  5. La colonna miracolosa”: la scena descrive la leggenda raccontata prima circa la posa della colonna miracolosa da parte del Santo, per sopperirne la mancanza, facendosi aiutare da quattro angeli. Il gesto di spingerla con il piede rimanderebbe alla scena della colonna gettata nel Tevere durante un suo viaggio a Roma;
  6. La morte del Santo”: l’ultima lunetta rappresenta San Nicola spogliato e morente nel suo letto, sorretto alle spalle da un angelo, sul quale il Santo abbandona la testa. Tre uomini a sinistra assistono pregando alla scena, mentre i paramenti episcopali giacciono ordinati ai piedi del letto.

Infine, a vegliare sul Santissimo Sacramento, c’è la lampada uniflamma, bellissima a forma di caravella, segno inconfutabile dell’arrivo del Santo a Bari e segno dell’unica fede, cattolica e ortodossa, alimentata dalle due tradizioni occidentale ed orientale - i cui simboli sono riportati ai lati del Santo.

Unite nel nome e nella figura di San Nicola, intercessore Taumaturgo, patrono e simbolo della città di Bari.

Fig. 9

 

Note

[1] Il passo riportato dalla relazione del prof. Martino è stato pubblicato nel Bollettino di San Nicola, numero speciale, aprile-dicembre 1957.

 

Sitografia:
www.basilicasannicola.it
www.caminvattin.it

 

Bibliografia:
G. Cioffari, La cripta di San Nicola, Bari, 1989.
P. Belli D'Elia, La Basilica di San Nicola a Bari, Galatina, 1985.
G. Dotoli-F. Fiorino, Storia e leggenda della Basilica di San Nicola a Bari, Bari, 1987.


LA BASILICA DI SAN GIOVANNI O DEL ROSARIO

LA BASILICA MINORE DI SAN GIOVANNI BATTISTA O DEL ROSARIO A LECCE

Sul sito di una precedente costruzione risalente al 1348 - anno di arrivo dei domenicani  a Lecce- nel 1691 iniziano i lavori della basilica di San Giovanni Battista o del Rosario, in una città in cui si stava vivendo il pieno sviluppo dei canoni dell’arte Barocca, di cui ne è fortemente investita partendo dal modello romano. Barocco come fenomeno artistico che si afferma in maniera totalitaria nel territorio salentino grazie all'assimilazione e alla reinterpretazione delle forme medievali, all'autonomia delle forme rispetto ad altre zone e soprattutto all'utilizzo della pietra calcarea leccese, duttile sotto le mani degli artisti, che rendeva possibile la decorazione di tutti gli elementi architettonici: colonne, fregi e capitelli con festoni, ghirlande, angeli e putti.

I lavori della Chiesa furono affidati ad un ormai anziano Giuseppe Zimbalo, che contribuì tra l’altro al finanziamento e che qui richiese ed ottenne sepoltura, quando nel 1710 muore. Alla sua morte i lavori passarono nelle sapienti mani di Giulio Cesare Penna il giovane e Leonardo Protopapa, fino al completamento nel 1728.

Il prospetto esterno si presenta esuberante e movimentato, diviso in tre ordini come da richiamo ad altre opere dello Zimbalo - una su tutte la Basilica di Santa Croce - da due lunghe balaustre che seguono l’andamento dell’intera struttura. Il registro inferiore si presenta diviso in cinque volumi scanditi da numerose paraste e da due voluminose colonne con scanalature a spirale a maglia stretta, con due corone di fiori e piccole pigne - più o meno ad un terzo dell’altezza - che ne spezzano l’andamento. Le colonne incorniciano il portale sormontato dal simbolo dei domenicani e dalla statua di San Domenico Guzman.

Ai lati del portale ci sono due nicchie con San Giovanni Battista e beato Francesco dell’Ordine dei Predicatori, caratterizzate dalle decorazioni a punte lanceolate, anche queste tipiche delle decorazioni di Zimbalo.

Le due possenti colonne poggiano su una base di forma rettangolare che ritroviamo nella forma dei due alti plinti che ai lati dell’intero prospetto chiudono la facciata ed ospitano due statue: al momento ne è presente solo una, ed è quella di San Tommaso d’Aquino. Caratterizzanti sono i capitelli corinzi in cui terminano: tra i classici motivi floreali trovano spazio anche cavalli alati e una sirena bicaudata.

Quest’ultima è uno degli elementi che il Barocco leccese ripete molte volte nelle sue decorazioni, ma è uno di quegli elementi di chiara provenienza medievale, in cui risiede una simbologia dicotomica tra pagano e cristiano, tra peccato e fertilità.

Una trabeazione alta e liscia, sormontata da una cornice fortemente aggettante, divide il registro inferiore da quello superiore, caratterizzato da una lunga balaustra che segue l’andamento della facciata, ed è decorata da grandi trionfi floreali e dieci statue di piccoli putti posti su dei piedistalli sferici, rappresentanti le visioni del profeta Ezechiele.

Al centro di questa balaustra si trova la statua della Vergine, in corrispondenza del finestrone, che funge, quindi, da elegante e profonda nicchia. Ai suoi lati altre due nicchie con statue di santi e i trionfi floreali sulle volute: queste nicchie collegano, visivamente, i due registri della facciata.

Nel terzo registro più in alto, una balaustra più bassa chiude la facciata separando questa sezione dal timpano mistilineo in cui altri trionfi floreali, più piccoli rispetto ai precedenti, scandiscono lo spazio insieme a candelieri e due statue ai lati, di cui adesso ne è presente una.

L’interno della Basilica, a croce greca, presenta un grande vano ottagonale coperto da capriate lignee: in origine infatti il progetto prevedeva una copertura con una cupola, mai realizzata data l’ampiezza prevista da Zimbalo e la sua morte arrivata prima dell’inizio dei lavori di questa struttura. Tutto il perimetro della fabbrica è segnato da numerose nicchie con statue di santi e dodici cappelle con altrettanti ricchi altari barocchi sei-settecenteschi: dall'ingresso troviamo posizionati gli altari di Santa Caterina da Siena e del Battesimo di Gesù, entrambi della prima metà del XVII secolo su disegno di Manieri.

Proseguendo verso sinistra si susseguono gli altari della Natività di Gesù, della Madonna del Rosario e della Natività di Maria. Il presbiterio accoglie l’altare maggiore in pietra leccese e diversi dipinti tra qui quello più importante con la tela raffigurante la Predicazione del Battista (forse di Oronzo Letizia, artista di Alessano) di patronato dei Montefusco.

Continuando, trovano posto gli altari dell’Assunta, del Crocifisso e di Santa Rosa da Lima, in cui trova spazio una tela del 1735 di Serafino Elmo.

Tutte le ricche colonne degli altari sono di tipo salomonico, modello che si afferma dapprima negli altari della chiesa di Sant’Irene: funge da quinta scenica per le rappresentazioni sacre. Sul fusto tortile si avvolgono tralci di vite e grappoli di uva, simboli del sangue di Cristo che si trasformano in vino tramite la celebrazione dell’Eucarestia. La decorazione a tutto tondo diventa sempre più elaborata e l’andamento ascensionale , curvilineo, sensuale, permette di rispondere ai bisogni di chiaroscuro del barocco, insieme ai bisogni di movimento, di esuberanza artistica e di significati. Le varietas di tutti questi bisogni si manifestano nel numero di spire e nei cambiamenti delle decorazioni man mano che si sale dalla base al capitello, che, prevalentemente corinzio, sembra essere avere la forma di una corona.

Un’ulteriore differenziazione sta anche nella disposizione numerica delle colonne in diversi ordini: singole, binate o trine, in cui la terza colonna è di rinforzo alle altre due e presenta un forte gioco di dimensioni tale da permettere un’integrità di visuale prospettica - esempio è l’altare del Crocifisso -.

Nelle cappelle dell’ottagono ci sono altri quattro altari dedicati a San Tommaso d’Aquino, San Vincenzo Ferrer, San Domenico e San Pietro martire.

Il pulpito cesellato, proprio vicino all'altare di San Domenico, anch'esso in pietra leccese, rappresenta la scena della visione dell’Apocalisse, l’unico delle chiese leccesi ad essere realizzato in pietra.

Lungo il perimetro dell’intera struttura trovano spazio gli stemmi scolpiti delle famiglie aristocratiche di Lecce che contribuirono alla realizzazione della chiesa, mentre sulla contro-facciata si conserva il cenotafio di Antonio De Ferrariis, chiamato anche “il Galateo”, con ritratti ed epigrafi marmoree del 1651 e 1788.

Adiacente alla Basilica di San Giovanni o del Rosario si trova il convento dei Domenicani, ricostruito dal priore Contegresco, che realizza le stanze superiori e il chiostro su due pilastri, il cui prospetto, attribuito ad Emanuele Manieri, è scandito da sei paraste di ordine gigante e delimitato alle estremità dai due portali raccordati mediate volute ai balconi sovrastanti. Attualmente è sede dell’Accademia delle Belle Arti.


IL CASTELLO DI COPERTINO IN PROVINCIA DI LECCE

Le origini e l'edificazione: il Castello di Copertino.

Compreso tra la via vecchia di Leverano e i confini di Arnesano e Monteroni di Lecce, popolato gradualmente nei secoli e coperto a tutt'oggi da vigneti ed uliveti rigogliosi, è il paese di Copertino. Della sua nascita viene riportata notizia in una cronaca del 1552 conservata nell'archivio Vescovile di Nardò e che cita testualmente:

“...che vedendo esser nell’anno 560 distrutte dai Goti li castelli e le terre di Casole, San Vito, Mollone, Cigliano e San Nicolò si diedero a credere che l’abitatori di detti luoghi si fussero uniti a fabbricarsi una nuova terra che dalla diversità dalle genti indi convenute, la chiamano Cupertino".

La sua cinta muraria era di forma ovoidale, racchiudeva un dedalo di strade e piccole cappelle, su cui dominava - e domina - la mole della Torre Angioina; il Castello di Copertino si erge possente, infatti da qualunque strada si arrivi al paese si scorge subito questa costruzione, nata a difesa dei casali circostanti.

E’ difficile ricostruire i diversi momenti dell’edificazione: il nucleo originario può essere ricondotto al programma di riorganizzazione militare di Carlo I d’Angiò, che nominò il paese sede amministrativa di contea. Nel ‘500 il marchese Alfonso Castriota, generale di Carlo I avviò i lavori di rammodernamento del Castello affidando i lavori ad Evangelista Menga: inglobò le strutture preesistenti in un impianto quadrangolare coronato da quattro poderosi bastioni angolari e circondato da un ampio fossato.

Negli anni la costruzione è passata attraverso diverse famiglie, dagli Squarciafico ai Pinelli, dai Pignatelli ai Belmonte.

Trascurato per anni, il Castello di Copertino ha rischiato il degrado, adibito com'era a presidi militari o a usi ignobili fino a che nel 1875 è stato dichiarato Monumento Nazionale e quindi sottoposto ai vincoli per la conservazione e la tutela.

L’edificio, come detto prima, con i quattro bastioni angolari lanceolati, racchiude elementi antichi, tra cui svetta il mastio angioino, circondato da un profondo fossato lungo tutto il perimetro. Dinanzi ad esso, quello che colpisce immediatamente è la profonda diversità delle costruzioni che si sovrappongono le une alle altre, difformi nella concezione e nello stile, specchio delle esigenze e dei capricci dei diversi signori che lo hanno abitato e che lo adibirono ad usi differenti.

Evangelista Menga raccolse nel magnifico portale rinascimentale tutte le numerose Signorie: sui 20 medaglioni scolpiti, si identificano i ritratti di imperatori e conti, in ordine cronologico, come fossimo in una narrazione delle vite che hanno abitato il Castello fino al 1540.

L’arco che sovrasta l’architrave, ad esempio, è stato scolpito in chiave fortemente allegorica, con la rappresentazione delle armi (cannoni, frecce, corazze) vinte dagli Aragonesi nella battaglia contro gli Angioini.

Al di là del portale, ci si ritrova in un atrio coperto da volte a botte, in cui si affacciano strutture di epoche differenti, tra cui la piccola cappella di San Marco al cui interno sono collocati i sarcofagi degli Squarciafico, detentori del Castello dal 1557 e committenti anche del ciclo di affreschi che decora l’ambiente, opera del pittore copertinese Gianserio Strafella.

Le piccole dimensioni hanno influito sull'inusuale disposizione del portale rispetto al rosone, spostato sulla destra rispetto al prospetto della porta: l’altare all'interno, spoglio, è accompagnato ai lati dai due sarcofagi di Umberto e Stefano Squarciafico, in pietra leccese opere di Lupo Antonio Russo. Delle pareti e della volta affrescate e restaurate rimangono per i visitatori le immagini di San Sebastiano, Santa Caterina d’Alessandria e San Giacomo di Compostela, i quattro Evangelisti e alcuni episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento.

Tornando al portale del Menga, visto dall'interno, vi sono alle due estremità due teste coronate, Carlo I d’Angiò e Maria d’Enghien, e al centro un cavaliere armato che viene raffigurato nell'atto di uccidere il nemico.

Attraversando l’atrio coperto, ci si ritrova nell'atrio interno scoperto a sinistra del quale vi sono due grandi archi sfalsati, che attraverso un ulteriore portico immettono in due gallerie sud sovrapposte e comunicanti tra loro attraverso strette scale interne.

Qui troviamo il Palazzo Pignatelli, sotto il cui intonaco ancora campeggiano elementi architettonici in stile romanico, gotico e normanno; stessi elementi riscontrabili all'interno, con doppie pareti e archi a sesto acuto che sorreggono le mura perimetrali. In condizioni accettabili è la ghera del pozzo, antistante a questa sezione di palazzo.

A destra invece sono presenti più ingressi che portano alle gallerie del piano terra: il più grande tra questi ingressi dà accesso all'antica costruzione di origine normanna, in parte interrata e adibita, originariamente, a scuderia: i pilastri e gli archi imponenti hanno consentito la costruzione dei tre piani sovrapposti, senza che la volta a botte e le pareti laterali subissero danni strutturali.

Una scalinata scoperta conduce al piano superiore in cui gli ambienti quattro-cinquecenteschi caratterizzano il cosiddetto Palazzo Vecchio; a metà rampa si apre la Cappella della Maddalena con i resti del suo ciclo pittorico affrescato risalente alla prima metà del 1400. Una parte di questi sono conservati presso il centro restauro della Sovrintendenza a Bari, mentre altri sono stati staccati e ricomposti in una sala del Castello. Altre sinopie sono ancora visibili e raffigurano Caterina d’Enghien e la regina Isabella, nell'atto di pregare.

Negli anni, tutti i diversi feudatari hanno più volte modificato questo palazzo, come già detto in precedenza, secondo il gusto e l’arte del proprio tempo: gli archetti che sostengono ed ornano il cornicione sono tutti diversi, simboli intatti delle maestranze che li hanno realizzati. Colonne e capitelli, così come anche le pareti interne sono state indegnamente cancellate, intonacate e trasformate in epoche differenti.

La torre - o mastio - angioina campeggia e domina dall'alto l’intera costruzione, costituita da tre piani sovrapposti con volta a botte e grande camino di stile gotico. L’ingente spessore delle murature è stato, e lo è ancora, un aspetto provvidenziale per la sua stabilità, salvandola dalla rovina. Ed è in questo spessore che sono state ricavate le scale che mettono in comunicazione i diversi piani sino al terrazzo.

Infine, a circondare tutto il Castello di Copertino troviamo 600 metri di fossato: scavato nella roccia, presenta, davanti al portale di ingresso, un ponte in pietra di tufo a 2 arcate. Il livello inferiore è aumentato rispetto al passato per via dei detriti e del terriccio depositato nei secoli: per questo motivo alcune feritoie, le più basse, risultano interrate.

Sotto il primo bastione corre un’ampia galleria scavata nella roccia, che dai sotterranei della torre termina direttamente nel fossato. Il secondo bastione, a sud-ovest, presenta la cosiddetta Porta Falsa, in posizione opposta rispetto al portale principale, che serviva per l’intervento dei difensori al di là delle mura in caso di assedio.

Sullo spigolo del bastione a nord-ovest, invece, un tufo più sporgente reca i segni di un altorilievo diventato indecifrabile, oggetto di credenza popolare: si ipotizza che l’altorilievo  raffigurasse un drago, al quale si attribuisce la colpa di aver ingerito tutta l’acqua del fossato, lasciandolo a secco.

Al lato nord, ad est del fossato, trova spazio una piccola casa di tufo quadrata, chiamata Casa delle Decime, che un tempo ospitava i gabellieri; attraverso una scala si scendeva al trappeto sotterraneo del Castello di Copertino, oggi adibito, durante le festività natalizie, a luogo per il Presepe.

Percorrendola e proseguendo più avanti, si arriva al Posto di Guardia a ridosso dell’arco di San Giuseppe, antica porta di accesso al centro abitato.

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LA CHIESA DI SANTA MARIA VETERANA A TRIGGIANO

“Nel cuore della vecchia Triggiano, nei vasti meandri tufacei del sottosuolo, ove oggi ergesi la bella mole architettonica della chiesa dedicata a Santa Maria Veterana, disimpegnossi nel più fosco Medioevo, il culto cattolico”.

La Chiesa di Santa Maria Veterana, grazie alla sua evoluzione artistica, nel corso dei secoli ha segnato la storia di Triggiano, paese a pochi chilometri da Bari, che a cavallo tra il 1600 e il 1700 divenne un centro artistico molto attivo e molto apprezzato, anche per il nutrito numero di artisti locali che vi operavano (i due fratelli De Filippis, discenti della scuola napoletana, il fiammino Hovic e un non meglio identificato “pittore di Triggiano”).

L’attuale costruzione è stata innalzata nel 1580 su una chiesa medievale preesistente: questa, fondata probabilmente intorno al 1080, per volere di un sacerdote barese, abbracciava il castrum Triviani e presentava la facciata rivolta verso Ovest – esattamente opposta a quella moderna -.

La chiesa infatti, nei vari secoli, ha subìto trasformazioni e ampliamenti conseguenti all’incremento demografico e urbanistico che il paese man mano attraversava, e che la rendevano incapiente alle esigenze liturgiche dettate all’indomani del Concilio di Trento; tra queste trasformazioni possiamo ricordare quella avvenuta tra il 1908 e il 1913 durante la quale, per l’appunto, venne rimossa la facciata dal lato Ovest e trasportata sul lato Est. Qui fu dotata di maggiore decoro artistico, del tutto differente da quello iniziale. Un’altra trasformazione è quella del 1982, grazie alla quale venne recuperato l’ipogeo della chiesa medievale sottostante ed originaria, i suoi affreschi, le tombe e i sepolcreti.

Santa Maria Veterana a Triggiano: descrizione

La descrizione architettonica ed estetica della fabbrica comincia dalla facciata, che si innalza maestosa e tripartita – esattamente come le navate interne – in pietra bianca, chiusa, secondo una lettura verticale, da due paraste ioniche che scaricano il loro peso su due piedistalli.

La parte centrale, ospitante il portale maggiore e corrispondente internamente alla navata centrale, presenta due colonne corinzie che sorreggono un ampio arco a tutto sesto, nel quale trova spazio anche una piccola finestra ogivale ornata a losanghe e poggiata – lieve – sulla cornice dell’architrave del portale. Le due porzioni laterali della facciata ospitano due portali più piccoli; sormontate da ogive dentellate  di piccole dimensioni, presentano due rosoni di dimensioni inferiori rispetto al principale.

Se si volesse seguire una lettura orizzontale della facciata, si noterebbe come essa sia divisa su due livelli: quello inferiore, più quadrato e compatto, in cui sono presenti gli elementi appena descritti, e quello superiore, cuspidato, che accoglie il prezioso rosone ricamato nella pietra con motivi curvilinei.

Risalente nel 1500, con un diametro di ben 3.80 mt, ha “seguito” lo spostamento della facciata. Inscritto in uno spazio quadrato è sormontato, a sua volta, da uno spiovente a timpano riccamente decorato con festoni di alloro che scandiscono perfettamente lo spazio della cornice. Ai lati del corpo quadrato troviamo due lunette a forma di conchiglia che poggiano su una fuga di archetti, tutti a sesto acuto, stretti da pinnacoli che chiudono l’intera struttura.

E’ interessante soffermare l’attenzione e notare come la forma a conchiglia di queste due lunette rimanda, visivamente, alle decorazioni presenti ai lati della finestrella ogivale, di cui prima. Possiamo tracciare, quindi, delle linee diagonali che regolano lo spazio, organizzandolo in maniera geometrica: il rosone centrale è collegato da rette, immaginarie, ai due piccoli laterali, formando insieme un triangolo volto verso l’alto. Di conseguenza le due lunette a conchiglia del registro superiore legano con quelle della finestrella, formando un triangolo volto verso il basso.

Attraversando il portale centrale, l’interno si apre e si mostra con un tipico impianto basilicale, a tre navate e catino absidale sopraelevato.

I pilastri presenti nella navata centrale intervallano le quattro campate e presentano scanalature frontali terminanti con ricchi capitelli che, a coppie simmetriche, rappresentano (dall’ingresso verso il fondo): due allegorie musicali – ad delimitare l’organo e il coro -, la cacciata dal Paradiso e l’Arcangelo a guardia, la vita e la morte, le quattro stagioni e il cielo  e la terra – ai lati dell’arco absidale -. Questi pilastri sorreggono archi a tutto sesto risalenti al 1500.

L’altare maggiore, monumentale, dell’inizio del XX secolo, consacrato al culto della Vergine, è in marmi pregiati in stile bizantino-pugliese, disegnato da Corradini.

Dominato dalla tela raffigurante l’ “Esaltazione della Vergine” di Vitantonio De Filippis (XVII secolo), risente nel modulo compositivo della Controriforma.E’ ripartita in due piani: in alto domina la figura della Vergine, sorretta da un coro di putti e totalmente immersa nella luce, mentre in basso presenziano alla scena (da sinistra a destra) San Sabino, San Vito, San Nicola (in abito episcopale), Sant’Antonio da Padova e San Filippo Neri.

Lungo tutto l’asse longitudinale dell’altare, corrono, una serie di bassorilievi in bronzo simboleggianti la vita della Vergine, dalla nascita all’Assunzione, per mano del Sabatelli.

Lungo le navate laterali, più piccole, si aprono una serie di cappelle volute sul finire del 1500 da associazioni di fedeli per l’esercizio di opere di carità e di pietà. Particolarmente degno di nota è il cosiddetto Cappellone dedicato a Maria SS di Costantinopoli (seconda cappella nella navata di sinistra): articolata su un piano terra e un piano superiore, a cui si accede tramite due scalinate laterali.

Al piano terra, l’altare di inizio 1900 è devoto al Santissimo Sacramento, è in marmo bianco con due angeli ai lati, anch’essi in marmo. Il piano superiore presenta un secondo altare, del 1832 per mano di Pollenza di Napoli, sovrastato da un affresco del 1500 raffigurante la Madonna Odegitria di Costantinopoli ridipinto, purtroppo, per rispondere ai diversi gusti delle epoche attraversate: la Vergine in trono con abito rosso e mantello blu, ha il capo inclinato e sostiene con entrambe le mani il Bambino che, avvolto in un drappo, porta tra le mani un uccellino (probabilmente un cardellino, simbolo della Passione, futuro destino del fanciullo).

In qualsiasi direzione il nostro occhio si posi, l’interno è ricco di tele databili tra il XVI e il XIX secolo, anche se ha perso molto della sua atmosfera rinascimentale, per via delle sovrapposizioni con decori liberty, portate dal restauro del 1908-1913. Come ad esempio quelle del soffitto.

Il soffitto è a tavolato con tele mistilinee, un tempo raccordate tra loro da decorazioni a racemi rocaille, rimosse e perdute durante i restauri. Le tele raffigurano il ciclo pittorico della vita della Vergine Maria: la Presentazione al tempio, Natività, Incoronazione, Sposalizio e I Santi Evangelisti.

La prima tela Presentazione al tempio, Maria in ginocchio sulla gradinata viene ritratta nel momento in cui viene presentata al Sommo Sacerdote da parte dei genitori Sant’Anna e san Gioacchino, mentre all’estrema destra due donne sembrano commentare quello che sta avvenendo. Il tutto inserito in una composizione di angeli e putti.

La Natività invece è una tela tripartita in registri orizzontali e paralleli: dal basso c’è il momento della nascita, al centro San Gioacchino e Sant’Anna, distesa su dei cuscini assistita da ancelle, in alto gli angeli festeggiano l’avvenimento.

Nell’Incoronazione, la tela più grande del ciclo pittorico la Vergine occupa la scena centrale in attesa dell’incoronazione da parte del Padre Eterno e del Figlio, poco al di sopra di lei.

La scena dello Sposalizio è occupata da Maria e San Giuseppe che, uniti in matrimonio, sono benedetti dal sacerdote alle loro spalle. Sul primo gradino si legge R.D Nicolò De Filippis P(inxit) A.D 1746.

I Santi Evangelisti sono racchiusi singolarmente e in maniera plastica, seppur immersi nella luce, in piccole tele triangolari e lobate, accompagnati dai loro simboli: aquila per San Giovanni, leone per San Marco, bue per San Luca, uomo per San Matteo.

L’ultimo apparato, separato dal perimetro chiesastico e collocato dietro l’abside, è la torre campanaria del 1580, che danneggiata dal nubifragio del 1681 è arrivata a noi senza la cuspide piramidale di cui era dotata.

Come detto all’inizio, l’attuale chiesa sorge sulla prima chiesa medievale, riportata alla luce nel 1982 durante i lavori di restauro sul pavimento attuale, dando una forte conferma a quello che sino ad allora si era solo ipotizzato; dedicata alla Madonna della Grazia, fu parzialmente abbattuta cinque secoli dopo la sua costruzione per fare spazio al nuovo tempio più ampio. L’ipotesi di datazione alla metà dell’XI secolo della chiesa è confermata anche da un’iscrizione lapidea ritrovata durante i lavori che ha permesso di risalire a colui che ne volle l’edificazione.

[ MAGISTER ] LEO DIALECTIEUS ATQUE SACERDOS

[ HANC] AD LAUDEM XPI GENETRICIS AMANDE

[D] EDI MAGNI PRECURSORIQUE IOHANNIS

[ BA] SII SACRI SIMUL ET CUM MATREQUE NATIS

[ S.S.] LEONUM CONFESSORUMQUE DUORUM

 

Dettata quindi da Leone, dialettico e sacerdote, molto probabilmente barese.

Oggi, scendendo al piano inferiore della Chiesa Madre, ci si trova immersi in un percorso sotterraneo i cui resti di epoche differenti si mescolano e convivono perfettamente: a sinistra le mura perimetrali cedono il passo alle fondamenta dell’edificio superiore sul lato destro. Dagli elementi architettonici presenti e rimasti fino a noi si capisce come, anche il corpo medievale, era concepito su tre navate, con l’abside posto in corrispondenza della centrale.

Dal sagrato medievale si giunge, attraverso il percorso creato per i visitatori, ad ammirare un pozzo ed una cisterna scavati nel sottosuolo fino ad uno spesso strato di argilla, che, da materiale impermeabile quale è, avrebbe protetto la costruzione da eventuali penetrazioni di acqua.

Il perimetro racchiude ben 19 tombe, alcune ancora integre ed altre solo parzialmente, distrutte in seguito alla costruzione dei pilastri di sostegno dell’attuale costruzione. Con pianta rettangolare e scavate nella roccia sono disposte lungo tutta la navata centrale sino a raggiungere l’abside. Dalle tombe a fossa, presenti al di sotto delle tombe normali, sono state ricavate le camere sepolcrali, costruite a fine 1500 durante la realizzazione della chiesa superiore ed utilizzate come sepolcreti fino al XVIII secolo, quando l’editto di Napoleone sancì il divieto di seppellire i defunti negli edifici sacri. Qui, infatti, fino a quel momento erano sepolti non solo gli appartenenti alle confraternite, ma anche i loro famigliari. Da un’analisi specifica le pareti e le volte dei sepolcreti appaiono molto deteriorati a causa del gas che i corpi in decomposizione hanno emanato nell’arco dei secoli.

Completamente affrescata – ipotesi molto probabile – come anche testimoniano i frammenti a tre strati arrivati sino a noi, nel vano absidale è stato ritrovato un frammento a massello raffigurante il volto, di tre quarti, del Bambino, con incarnato roseo ombreggiato da toni verdastri e capelli lisci, contornato da una forte linea nera.

Sulla parete destra è apprezzabile, seppur mutila, la raffigurazione di San Leonardo, con le sue catene pendenti dal braccio sinistro, accompagnato, sul secondo strato, dalla testa di un animale con fauci aperte (forse un cane o un leone). A questo, su un ulteriore strato sovrapposto, si riconosce la figura di San Vito, con un gonnellino da centurione, gambe calzate e due cani ai suoi piedi: palesemente posteriore all’affresco di San Leonardo, è databile nella seconda metà del XVI secolo. Caratteristica comune ad entrambe è il carattere votivo.

Questa fabbrica d’altronde ci consente di affermare come, in ogni tempo, sia possibile conservare e preservare l’antico e il moderno, il medievale e il rinascimentale, racchiudendo in maniera naturale le sue anime al servizio del culto cristiano.