IL CASTELLUCCIO: UN FORTALIZIO SVEVO A POCHI PASSI DA GELA

A cura di Adriana d'Arma

 

 

Introduzione

 A pochi chilometri dalla città di Gela, situato su una collina gessosa nei pressi della contrada Spadaro, si erge il cosiddetto Castelluccio, una costruzione di epoca sveva (Fig. 1).

 

Nonostante la notevole posizione geografica di questo edificio fortificato nell’entroterra della pianura di Gela e la sua struttura architettonica, il Castelluccio non viene citato dagli storici e dagli autori più antichi, come il Fazello e il Camilliani, tra i baluardi costieri della Sicilia. Tuttavia, esso viene menziontato soltanto come struttura in termini di luogo di confine e non di costruzione.

 

Storia del Castelluccio 

Le origini di tale fabbrica risalgono già al XII secolo, e nello specifico al 1143, data a cui risalgono alcuni documenti che menzionano un atto di concessione. In quell’occasione fu il conte Simone di Butera, membro della famiglia Alemarica, che lo concesse in dono, insieme ad alcune terre nella zona meridionale della contea, all’Abate del Monastero di San Nicolò l’Arena di Catania. Per comprendere meglio la storia e l’evoluzione architettonica del Castelluccio sono state fondamentali delle operazioni di scavo condotte, in occasione dei primi interventi di restauro, nel maggio del 1988. All’epoca, il piano terra della costruzione era stato ribassato di circa 50 centimetri. Inoltre, erano stati condotti due saggi. Il primo, in corrispondenza del finestrone di sud, il secondo in corrispondenza dell’angolo di sud-est.

L’anno successivo, durante la seconda fase dei lavori, il Castelluccio ha visto succedersi al suo interno una regolare campagna di scavo, sia al suo interno sia nelle zone della torre est. Altri due saggi all’esterno della struttura, poi – in particolare uno nel pendio meridionale della collina (Fig. 2) – sono stati effettuati in questa occasione.

 

L’edificio medievale si è sviluppato, secondo gli studi, in quattro distinti periodi. Il primo periodo, quello cosiddetto “antico”, è circoscritto spazialmente all’area collinare del Castelluccio e alle zone limitrofe. È solo alla seconda fase, invece, che dobbiamo far risalire la costruzione della fabbrica vera e propria e al suo utilizzo come fortificazione, come presidio militare. La costruzione della fabbrica è stata portata avanti in due distinti momenti, uno attorno al 1200 e l’altro circa un secolo dopo. Il terzo periodo, invece, è databile attorno al 1400: all’epoca il Castelluccio iniziò ad essere abitato dalla famiglia, ed è in questo momento che la fortezza assunse un carattere di residenza civile, ad uso abitativo, perdendo il suo ruolo strettamente strategico-militare. La storia del Castelluccio, tuttavia, si concluse con un disastroso incendio, che fu l’evento che condusse la struttura ad una successiva fase della sua storia, un momento di abbandono totale. Tali eventi sfavorevoli portarono ad un successivo tentativo di ristrutturazione, con il seguente avvio di lavori che non vennero mai portati a termine. Il quarto ed ultimo periodo, infine, può essere associato esclusivamente alle frequentazioni sporadiche della struttura da parte dei pastori e della locale comunità contadina e, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, alla collocazione di una postazione militare.

 

Descrizione del Castelluccio

Per entrare al Castelluccio, vi si accede percorrendo la collinetta.  Esso presenta una pianta rettangolare, disposta in senso est-ovest, con accesso a occidente.

La struttura è caratterizzata da due torri terminali a pianta quadrata, disposte alle opposte estremità a est e ad ovest. La prima si contraddistingue per aver ricoperto sia funzioni di avvistamento sia ruolo di protezione verso l’ingresso. La seconda torre, invece, era destinata esclusivamente a controllare il lato est della pianura. Tale torre contiene, sulla parete sud, una nicchia contornata da cornici in pietra; si suppone, secondo gli studiosi, che questa torre dovesse in origine contenere un’immagine di culto.

Il Castelluccio ad oggi si presenta formato da un piano terra e da un primo piano che in verità non fu mai portato a termine. Probabilmente l’edificio doveva prevedere più piani, ed originariamente era pianificata una copertura, un tetto che però non venne mai completato.

Nel piano terra sono disposte diverse feritoie e due grandi finestre ad arco, decorate con ghiere, che si affacciano rispettivamente sul lato sud e su quello nord.

La parete nord presenta un incasso, proprio allo spigolo, in alto; tale incasso corrisponde a una traditora, ovvero il punto dove gli arcier colpivano il primo nemico che provava ad entrare nel castello.

Inoltre, sempre sulla parete nord, una monofora ogivale, che in qualche modo qualifica la particolarità dell’ambiente chiuso rispetto al salone d’ingresso. Si tratta della camera padronale, dalla quale si accede direttamente alla torre orientale, al terrazzo e quindi alla torre ovest.

Al centro della parete sud, poi, si trova un magnifico finestrone in pietra bianca, mentre altre quattro finestre sono presenti sul muro della seconda elevazione, sui lati opposti di nord e di sud.

Lo spazio interno era suddiviso da cinque archi ogivali disposti trasversalmente; nella parete meridionale si trovava un grande camino, ornato da stipiti scolpiti e sormontati da un arco a tutto sesto.

 

Oggi è possibile visitare il Castelluccio soltanto se preventivamente autorizzati, e sono concesse peraltro soltanto visite in gruppo. Grazie ad una scala e ad una passerella prefabbricata in metallo, ci si può affacciare e godere del panorama mozzafiato, in virtù della posizione strategica in cui è collocato.

Il diminutivo “Castelluccio”, usato per descrivere questa struttura, si conserva fino ai giorni nostri, ma non restituisce l’immagine reale, di grande bellezza e magnificenza, di un edificio che è invece oggetto del sentito e profondo apprezzamento da parte di di tutti coloro che hanno, e hanno avuto, l’occasione di ammirarlo (Fig.3).

 

 

 

Le immagini sono scattate da chi scrive.

 

 

Bibliografia

Scuto, S. Fiorilla, Gela, il Castelluccio. Un nuovo documento dell’architettura sveva in Sicilia, Messina, 2001.


LA FONTANA PRETORIA, SIMBOLO DELLA CITTA’ DI PALERMO

A cura di Adriana d'Arma

 

 

A pochi passi dai Quattro Canti di Palermo, esattamente nel quartiere Kalsa, si trova una delle più belle e popolari piazze della città: Piazza Pretoria (Fig. 1), al centro della quale si colloca l’omonima fontana, così chiamata per via del principale ingresso del Palazzo municipale – già residenza del Pretore cittadino -  che si apre su di essa.

La Fontana Pretoria

La Fontana Pretoria si presenta circondata su tre lati da antichi edifici: il Palazzo Pretorio, la chiesa di Santa Caterina e due palazzi baronali, Palazzo Bonocore e Palazzo Bordonaro (quest’ultimo tristemente abbandonato). Il quarto lato, infine, si affaccia su via Maqueda.

Considerata uno dei monumenti più iconici della città, la fontana Pretoria narra al visitatore che si approccia ad essa una storia lunga ed appassionante, che tuttavia in pochi conoscono (Fig. 2).

 

La sua costruzione risale al 1554 ad opera del famoso architetto e scultore italiano Francesco Camilliani. Tuttavia tale fontana non è stata progettata per l’attuale piazza in cui si trova, bensì per decorare il giardino della villa fiorentina di don Luigi di Toledo, fratello della granduchessa Eleonora di Toledo. Per il progetto della fontana fu scelto un materiale di grande effetto scenico nel verde dei giardini: il marmo bianco di Carrara.

Spinto dai debiti, don Luigi fu costretto a vendere la fontana al Senato palermitano. L’idea del Senato era quella di collocare la fontana nel piano del Pretorio, abbattendo alcune case per recuperare spazio, arredandolo prestigiosamente in un periodo in cui si stavano effettuando degli interventi urbani migliorativi, che includevano tra l’altro l’ampliamento del Cassaro.

Quella per la fontana fu sicuramente una spesa non indifferente, e in un momento in cui la città versava in uno stato di miseria essa divenne il monumento simbolo della corruzione politica e civile della città acquisendo il non gradito appellativo di Fontana della Vergogna.

Tale epiteto si lega, tuttavia, anche ad altre dicerie: la “Vergogna” a cui ci si riferisce sarebbe anche quella delle suore di clausura dell’adiacente monastero di Santa Caterina, costrette a coprirsi ripetutamente il volto ogni volta che attraversavano la piazza per non osservare le nudità delle statue. Si narra infatti che che le stesse suore, una notte, uscirono dal convento per distruggere le parti intime maschili e per non dover più tollerare tale visuale.

 

Il complesso, trasportato su una nave, approdò nella città di Palermo, smembrato in 644 pezzi, nel 1573; tuttavia, il gruppo scultoreo che giunse in città era incompleto, mutilo di alcune statue che in parte vennero danneggiate durante il tragitto, in parte furono trattenute dal proprietario.

Il complesso monumentale è ricco, e conta ben trentasette statue in marmo di Carrara, alcune delle quali sono rappresentazioni di divinità (Fig. 3).

 

Tra le figurazioni scultoree umane trovano spazio anche delle figure animali (Fig.4), divinità pagane ed eroi mitologici (Orfeo con Cerbero, Ercole e l’Idra trifauce ecc.), mostri e ninfe del mare, creature per metà uomini e per metà pesci, come i Tritoni e le Nereidi, una ninfa d’acqua dolce con Pegaso. Completano la curiosa rassegna di animali fantastici cariatidi, satiri, pesci-cavalli emergenti dalle nicchie.

 

La fontana Pretoria presenta una pianta ellittica, con vasche d’acqua concentriche sul cui bordo giacciono statue allegoriche dei fiumi di Palermo: l’Oreto, il Papireto, il Gabriele e il Kemonia. Essa si sviluppa in più livelli ai quali si accede attraverso delle piccole scalinate, dove si possono ammirare teste di animali e mostri mitologici, dalla cui bocca sgorga acqua (Figg. 5-6) nonché altre figure mitologiche tra cui si riconoscono Venere, Adone, Ercole, Apollo, Diana e Pomona.

 

Probabilmente lo stesso architetto Camilliani fu fonte di ispirazione per Gianlorenzo Bernini il quale, circa cento anni dopo in Piazza Navona a Roma, realizzò la celeberrima Fontana dei Quattro Fiumi nella quale quattro statue raffigurano i principali corsi d’acqua di ogni continente: il Gange per l’Asia, il Rio della Plata per l’America, il Danubio per l’Europa, il Nilo per l’Africa.

 

Il giardino di don Luigi di Toledo costituisce un esempio eloquente di quel passaggio dal gusto rinascimentale – tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento - a quello più propriamente manierista, in cui l’arte e la natura si confrontavano, all’interno dei giardini, a creare uno scenario magico fatto di allegorie, giochi d’acqua e percorsi labirintici che avevano lo scopo di coinvolgere il visitatore tanto nella sua sfera emozionale quanto in quella intellettiva.

Ad oggi la fontana Pretoria è protetta da una cancellata in ferro battuto concepita e realizzata dall’architetto Giovanni Battista Filippo Basile nel 1858.

 

La fontana pretoria, uno dei simboli più rappresentativi di Palermo che ancora oggi si manifesta agli occhi dei visitatori in tutta la sua meravigliosa imponenza architettonica e decorativa (Fig. 7), venne celebrata, del resto, anche dallo stesso Giorgio Vasari nella Vita dell’architetto Camilliani:

 

“Fonte stupendissima che non ha pari in Fiorenza, né forse in Italia: e la fonte principale, che si va tuttavia conducendo a fine, sarà la più ricca e sontuosa che si possa in alcun luogo vedere, per tutti quegli ornamenti che più ricchi e maggiori possono immaginarsi, e per gran copia d’acque, che vi saranno abbondantissime d’ogni tempo”. (Vasari-Milanesi, IVV. P. 628).

 

 

Tutte le fotografie sono state scattate dalla redattrice dell'articolo.

 

 

 

Bibliografia

De Castro e M. R. Nobile, L’eroico e il meraviglioso. Le donne, i cavalier, l’arme…in Sicilia. Un mondo di immagini nel V centenario dell’Orlando Furioso, Palermo, Caracol, 2017.

La Monica, La Fontana pretoria di Palermo analisi stilistica e nuovo commento, Palermo, Pitti, 2006.


SAN GIOVANNI DEGLI EREMITI: LA CHIESA-MOSCHEA

A cura di Adriana d'Arma

 

 

La chiesa di San Giovanni degli Eremiti (Fig. 1), costruita in epoca normanna – promotore della ricostruzione fu re Ruggero II – tra il 1130 e il 1148, è senza dubbio uno dei più celebri edifici medievali di Palermo nonché testimonianza del felice connubio tra le maestranze normanne e la magnificenza dell’architettura araba, che proprio i nuovi dominatori dell’isola vollero rispettare.

Il complesso monastico, patrimonio mondiale UNESCO, dal 3 luglio 2015 fa parte del cosiddetto “itinerario arabo-normanno”, un percorso che comprende, oltre che Palermo, anche Cefalù e Monreale,

Situata in via dei Benedettini, lungo la quale esistevano due monasteri, quello degli Olivetani e quello di San Giovanni degli Eremiti, la chiesa venne edificata probabilmente sulle orme di un precedente monastero gregoriano del VI secolo dedicato a Sant’Ermete, il quale morì martire e fu venerato come santo sia dalla chiesa cattolica sia dalla chiesa ortodossa orientale. La presenza del monastero, voluto da Gregorio Magno nel 581, rende assai difficoltosa una data precisa di inizio di costruzione della chiesa di San Giovanni, soggetta, nel corso del tempo, oltre ad una distruzione per opera dei Saraceni (842) anche ad una serie di successive modificazioni strutturali.

L’insieme di costruzioni afferenti al complesso comprende la chiesa, uno spazio contiguo – denominato sala araba – e un piccolo ma suggestivo chiostro, colonnato e scoperto, oltre ad alcuni tratti murati. Questi ambienti sorgono in un luogo storicamente molto stratificato, all’interno del quale un ruolo privilegiato è sicuramente svolto dalla vicinanza al Palazzo Reale e al fiume Kemonia.

 

La chiesa

La chiesa di San Giovanni degli Eremiti è un caso interessantissimo di commistione tra linguaggio architettonico romanico e modelli più propriamente arabi. Essa ha una pianta a croce latina, con il corpo principale, longitudinale, che si interseca con il transetto a formare una “T”. L’edificio è disposto verso l’Oriente e all’interno risulta privo di qualsiasi decorazione, ad eccezione di alcuni piccoli lacerti pittorici, e caratterizzato dalla presenza di alcune semplici finestre ad arco acuto, o ogivali.

Sulle pareti laterali della chiesa, poi, si aprono le porte ogivali (Fig. 2), una delle quali è stata ritrovata durante i restauri ottocenteschi (1880) effettuati dall’architetto Giuseppe Patricolo.

 

Una delle peculiarità di questa tipologia di edifici è la presenza di piccole cupole (qubba) di colore rosso – cinque, in questo caso specifico – che risultano, tra l’altro, presenti anche in altri edifici analoghi, come la chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi (fig. 3) e la chiesa di San Cataldo.

 

La pianta della chiesa di San Giovanni degli Eremiti è impostata sull’asse verticale di una di queste qubba, il quale rende possibile il passaggio dal quadrato di base – che raffigura la terra – al cerchio su cui si imposta la cupola – che invece rappresenta il cielo. Tale passaggio geometrico è ottenuto dalla suddivisione dello spazio in otto lati uguali su cui si impostano altrettanti archi: quelli centrali contengono finestre mentre quelli angolari una serie di archetti pensili angolari e aggettanti (Fig. 4).

 

Durante i restauri del 1880 fu portato alla luce uno spazio a forma rettangolare, con l’asse maggiore orientato da nord a sud in direzione della Mecca, che prende il nome di sala araba (Fig. 5), coperta da tre grandi volte a crociera di età cinquecentesca.

 

Sulla parete orientale della campata centrale si nota un affresco (Fig. 6) che, pur in pessimo stato di conservazione, risulta riconoscibile dal punto di vista iconografico: esso raffigura, infatti, una Madonna con due santi ai lati. Le ricerche e gli studi condotti da alcuni storici dell’arte hanno  portato ad ipotizzare che il santo sulla destra possa essere un San Giovanni Evangelista, in virtù della presenza di alcuni attributi iconografici a lui associati (la mancanza della barba, il gesto benedicente della mano destra, il Vangelo tenuto sulla sinistra). Per quanto riguarda il santo sulla sinistra, invece, se alcuni studiosi lo identificano con San Giacomo Apostolo, altri lo collegano a Sant’Ermete. A differenza di Giovanni, la figura sulla sinistra, con i capelli neri, è barbata e tiene nella mano sinistra un bastone, con una borsa pendente dal fianco. La Madonna, invece, è seduta su un trono dipinto da cui scende un manto ricamato; assai probabile, se non certa, era poi la presenza del Bambino, non sopravvissuto se non per un piccolo piede che si intravede sul ginocchio della Vergine. Altre tracce di pittura sono state rinvenute sulla parte bassa della stessa parete, oltre che sul muro opposto. Sono tracce di scrittura, in colore oro e ocra (fig. 7), probabilmente funzionali all’uso cimiteriale cui erano adibiti tanto lo spazio ecclesiastico quanto il giardino adiacente.

 

Il chiostro

Il chiostro (Fig. 8), indubbiamente la parte meglio conservata dell’intero complesso monastico – e anch’esso dalla datazione problematica – ha una pianta rettangolare, ed è caratterizzato dalla presenza di numerose colonne binate, esili ed eleganti, con terminazioni corinzie sui capitelli (Fig. 9). Le colonnine hanno subito ristrutturazioni pesanti, spesso sostituite nei materiali e nelle lavorazioni. Alcune di esse, infatti, sono state rimaneggiate con il tufo calcareo bianco, altre sono state modificate tramite l’inserzione di elementi decorativi antichi, tassellati e rinforzati.

 

All’interno del chiostro, poi, si trova anche un pozzo, risalente all’età normanna e con ogni probabilità relativo ad una possibile cisterna sotterranea, quest’ultima di epoca araba.

 

Nel suo complesso, San Giovanni degli Eremiti, indubbiamente uno dei monumenti simbolo della città di Palermo, è un luogo dall’atmosfera unica, in cui le bellezze dell’arte musulmana dialogano con il lussureggiante ed esotico giardino “all’inglese”, voluto in occasione dei restauri di fine Ottocento, ricco di piante di agrumi, nespoli, allori e ulivi.  

 

 

Tutte le fotografie, tranne la n. 3, sono state scattate dalla redattrice.

 

 

Bibliografia

  1. Torregrossa, San Giovanni degli Eremiti a Palermo, Edizioni Caracol, Palermo, 2013.

LA CHIESA MADRE DI GELA

A cura di Adriana d'Arma

 

 

 

Percorrendo il centro storico della città di Gela, corso Vittorio Emanuele, ci si ritrova su piazza Umberto I, dove erge maestosa e solenne la Chiesa Madre dedicata a Maria Santissima Assunta in Cielo (Fig. 1).

La chiesa Madre, simbolo e  Duomo della città, custodisce lunghe tradizioni e folklore tra cui l’antica denominazione in gergo locale la “Matrici”, espressione ancora oggi adottata dalla popolazione.

 

L’attuale chiesa Madre di Gela, la cui costruzione risale intorno al 1766, sorge sui ruderi di un’altra chiesa edificata nel XIII secolo denominata Santa Maria de Platea. Tuttavia, quest’ultima, piccola e unica chiesa della città fino a quel tempo, fu elevata a parrocchia nel 1230 e gravemente danneggiata durante il terremoto del 1693. L’abbattimento, infatti,  fu necessario e tale da poter dare vita ad una nuova e più grande chiesa, l’odierna chiesa Madre.

Si suppone che, dal ritrovamento di diversi ruderi risalenti al periodo greco di Gela, alcune colonne portanti incorporate nel nuovo edificio potrebbero appartenere ad un antico tempio greco. Da ciò si potrebbe, inoltre, supporre che l’edificio anticamente occupasse lo stesso spazio della chiesa attuale.

 

Tra il 1779 e il 1798, circa dopo tredici anni dall’inizio della costruzione, l’edificio grazie al parroco Giovanni Mallia, subì alcuni ampliamenti: la realizzazione di due arcate (ad ovest verso la piazza principale), la cupola e l’abside. Tale rifacimento donò ampio spazio e respiro a tutto l’edificio di culto (Fig. 2).

 

Successivamente, nel 1837, su progetto dell’architetto Emanuele Di Bartolo venne edificata la torre campanaria (Fig. 3) - con ingresso anche da via Matrice in direzione ovest-est - la quale possiede in sommità una cella campanaria con sette campane che presentano delle decorazione  e iscrizioni.

 

Durante alcuni lavori di restauro, al di sotto del pavimento delle navate della chiesa sono state rinvenute alcune cripte, diverse sepolture gentilizie e reperti di epoca greca.

La facciata esterna è in stile architettonico neoclassico, opera dell’architetto, artista fine e geniale,  Giuseppe Di Bartolo Morselli. Essa si articola in due ordini architettonici sovrapposti: il piano inferiore con colonne doriche e quello superiore con colonne ioniche. I due ordini della facciata sono divisi da una fascia continua caratterizzata da metope in rilievo (Fig. 4)

 

Nel piano inferiore della facciata vi sono il grande portale d’ingresso centrale e due porte laterali sulle quali sovrastano due lapidi marmoree con un’iscrizione.

La lapide di sinistra riporta la seguente iscrizione: “Alla Gloria di Dio ottimo massimo, al culto della Beatissima Vergine Maria assunta in Cielo. Questo principe tempio è sagro”.

Invece in quella destra “La pietà dell’arcidiacono cavaliere Luigi Mallia dei Marchesi di Torreforte. Questo prospetto su disegno dell’artista concittadino Giuseppe Di Bartolo di sue largizioni dell’anno 1844, innalzava”.

L’ordine inferiore della facciata termina con due paraste, rispettivamente una a destra e una a sinistra, collocate all’estremità della parete.

È invece al piano superiore che in corrispondenza del portone centrale si colloca un grande finestrone e lateralmente due profonde nicchie, entrambe occupate da due vasi.

Sul prospetto della chiesa, sopra il doppio ordine sovrapposto, si eleva il timpano sopra il quale sono collocati degli acroteri del periodo greco a coronare il vertice e gli angoli del timpano – esattamente come avveniva per il frontone dei templi antichi a scopo simbolico o ornamentale – e due gruppi di statue: a sinistra quello della Fede e a destra quello della Speranza.

Al centro del frontone troneggia lo stemma della Madre di Dio, sormontato della corona che La indica come Regina del Cielo e della Terra; in sommità culmina una croce che domina l’interno edificio.

 

Per la costruzione della chiesa Madre di Gela occorsero più di trent’anni: l’impianto dell’edificio presenta una pianta a croce latina con schema basilicale a tre navate e la cupola.

La configurazione degli spazi interni è ampia e molto luminosa con pilastri e arcate in stile tardo-barocco e decorazioni in oro zecchino (Fig. 5). Lungo la navata centrale vi si trova un ordine composito con alti capitelli e lesene scanalate,  numerosi affreschi e iscrizioni latine; le navate laterali, inoltre, presentano delle volte a vela.

 

La navata laterale destra della chiesa Madre comprende la cappella del SS. Sacramento (che è la maggiore), la cappella di Gesù, delle anime del Purgatorio, della Sacra Famiglia e di Santa Teresa; Segue dunque l’ingresso sud della chiesa.

Invece la navata laterale sinistra comprende la cappella della Passione, la cappella della Madonna di Lourdes, di S. Antonio, della SS. Trinità e di Santa Lucia.

Nella cappella della Passione, che è la maggiore della navata, si trova un altare su cui sovrasta la statua dell’Addolorata e al sotto di essa vi è un’urna con la statua del Cristo Morto. Entrambi i simulacri sono noti e  importanti nella tradizione locale, perché gli stessi, come ogni anno, vengono portati in processione al Calvario durante della settimana Santa.

E ancora in occasione del venerdì santo che viene adoperata una “vara”, ovvero un’urna in legno dorato chiuso da vetrate per il trasporto di Cristo Morto dal Calvario alla chiesa Madre. Tale monumento è custodito e coperto da un telone presso la navata centrale della chiesa Madre. In quest’ultima, completata nel 1784, comprende la cappella dell’Assunta, il transetto con la cupola e la cantoria con un grande organo con doppio filare di canne, ormai in disuso, dono dell’allora Capo del Governo Benito Mussolini in occasione della visita a Gela, avvenuta il 14 agosto dell’anno 1937.

Inoltre, all’interno della chiesa è custodita l’icona di Maria SS. Di Alemanna con fondo oro, veste marrone e manto blu; il dipinto, firmato dal pittore Giacomo Furnari di Gela, durante la celebrazione della Patrona la cui festa  ricorre  l’8 settembre, viene posto nel finestrone esterno della facciata principale.

All’interno dell’edificio sono ubicati numerosi dipinti del Settecento e dell’Ottocento di diversi autori, in particolare un notevole dipinto su tavola del 1563 che raffigura il Transito di Maria attribuito a Deodato Guinaccia.

 

La chiesa Madre di Gela si configura come una costruzione armonica, un esemplare di architettura neoclassica che primeggia nel cuore della città che al suo interno custodisce tradizione, devozione, arte e cultura (Fig. 6).

 

 

 

Le immagini sono fotografie scattate dalla redattrice, ad esclusione dell’immagine n. 5.

 

 

 

Bibliografia

Mulè, La chiesa Madre di Gela e il culto di Maria SS. D’Alemanna, Aliotta, Gela, 1985.

Vicino, Gela-Monumenti antichi, Raccolti di studi sui beni culturali e ambientali, Vaccaro editore, Caltanissetta, 1992.

A. Alessi, Gela. Città greca della Sicilia. Storia-Archeologia-Monumenti-Ambiente, Associazione Culturale “Archeo-Ambiente” di Gela con il contributo della Camera di Commercio della Provincia di Caltanissetta, Coop. C.D.B., Ragusa, 1997.

Mulè, Dell’Antico Centro Storico di Gela, E-Solution di A. Tandurella, Gela, 2017.


PALAZZO ABATELLIS: DA DIMORA STORICA A GALLERIA REGIONALE DELLA SICILIA

A cura di Adriana D'Arma

 

 

 

La Via Alloro

Nel cuore del quartiere Kalsa di Palermo si colloca una delle vie più antiche e significative della città, la via Alloro. Si narra che quest’ultima prese il nome da un secolare albero di alloro, appunto, radicato all’interno di un’antica dimora storica, l’odierno Palazzo San Gabriele.

Tuttavia, le vicende di questa strada sono fortemente legate alla storia dell’antica nobiltà di quartiere. Infatti, viaggiando indietro nei secoli e ripercorrendo l’asse stradale, è qui che vi dimoravano le più alte e prestigiose cariche della città. Per tale motivo, lungo la via vennero costruiti numerosi altri palazzi ancora esistenti e in parte visibili.

Tra le dimore nobiliari vanno ricordate: il Palazzo Diana Cefalà, il Palazzo Bonagia (crollato nel 1982), il Palazzo Calvello, il già citato Palazzo San Gabriele e il Palazzo Abatellis.

Ancora in questa via emergono due importantissime chiese: Santa Maria dell’Itria, detta dei Cocchieri e la Chiesa di Santa Maria degli Angeli, più nota come Chiesa della Gancia, con l’annesso convento, oggi sede distaccata dell’Archivio di Stato di Palermo.

 

Palazzo Abatellis

Storia

Palazzo Abatellis, mirabile esempio di architettura gotico-catalana, conobbe nel corso dei secoli varie destinazioni d’uso a causa delle intrecciate e complesse vicende di coloro che l’abitarono.

La vicenda storica del Palazzo è in primis legata ad un uomo di origini toscane, Francesco Abatellis, personalità nota e popolare che, oltre a ricoprire la carica di pretore tra il 1477 ed il 1490, fu Mastro Portolano del Regno, ovvero colui che controllava il traffico mercantile del porto della città, nei pressi della via Alloro.

Allo scadere del 1400 venne affidata la costruzione dell’edificio, che divenne l’abitazione del pretore, al noto architetto Matteo Carnalivari.

I motivi per cui personalità come quella di Francesco Abatellis decidevano di far edificare questi palazzi erano strettamente personali e legati dunque al prestigio, all’affermazione della loro autorità e alla posizione raggiunta in quel periodo nell’Isola.

Tuttavia, la discendenza della famiglia Abatellis non fu certo longeva: né la prima e amata moglie Eleonora Soler, che venne a mancare nel fiore degli anni, e neppure la seconda, la palermitana Maria Tocco, riuscirono a dare a Francesco un erede.

Pertanto, alla morte di Francesco Abatellis e della moglie, la prestigiosa Domus Magna tardo - quattrocentesca venne ceduta alle suore del monastero benedettino di clausura, cosicché nei secoli successivi il palazzo subì molte aggiunte e rifacimenti per essere adattato all’uso monasteriale.

La grandiosa dimora cambiò radicalmente nel corso dei secoli fino a quando, durante i bombardamenti del 1943, venne colpita rovinosamente da un ordigno che provocò il crollo del prospetto laterale nonché il muro del torrione di destra.

Nel 1953 l’edificio nobiliare venne affidato alla Soprintendenza ai Monumenti che voleva farne un museo: è a partire dall’anno seguente, infatti, che il Palazzo Abatellis è la sede ufficiale della Galleria Regionale della Sicilia, che, contando su un vasto e ricco percorso museale, offre al visitatore i più svariati tesori dell’arte siciliana medievale e moderna.

Descrizione

L’accesso al palazzo sulla via Alloro è favorito dal maestoso portale d’ingresso (Fig. 1) sormontato da tre stemmi (il centrale identifica la famiglia Abatellis) e accoglie il visitatore consentendogli l’ingresso all’atrio sul quale si affaccia il piano loggiato.

La dimora-fortezza si presenta come un edificio compatto dal profilo quadrangolare, delimitato a destra e a sinistra da due torri coronate da merlature (Fig. 2). Uno dei due torrioni si conserva ancora oggi in ottimo stato grazie agli interventi di restauro ad opera di Carlo Scarpa.

La torre nord è stata gravemente distrutta dalle bombe americane e ricostruita ex novo grazie ad un intervento che cercò di restituirla il più possibile nel suo aspetto originario.

Dal cortile principale si colgono i tratti peculiari delle residenze quattrocentesche: le emblematiche trifore impreziosite da archetti traforati sormontati da esili colonnine, la scala “descubierta” che conduce al piano nobile e la particolare apertura con strombature (Figg. 3-4).

 

Le originarie stanze nobiliari, destinate alle residenze dei proprietari, oggi ospitano una cospicua collezione d’arte che suddivide i manufatti in base alla tipologia a cui afferiscono; si tratta di materiale proveniente dall’antico Museo Nazionale di Palermo, l’odierno Museo Archeologico Salinas.

A sinistra dell’atrio d’ingresso alcuni ambienti accolgono invece materiale lapideo e ceramiche arabe e medioevali; la restante collezione, infine, trova un’adeguata collocazione ai piani superiori. Di quest’ultima meritano menzione alcune delle opere più importanti: il Trionfo della Morte (Fig. 5) affresco murale di ragguardevoli dimensioni e tra gli esemplari più emblematici e controversi dell’arte siciliana, il ritratto marmoreo di Eleonora d’Aragona (Fig. 6), potente donna del quattrocento siciliano realizzato da Francesco Laurana e la celeberrima Annunciata di Antonello da Messina (Fig. 7), straordinaria prova pittorica nella quale il pittore seppe rappresentare la Vergine in un connubio di solennità e raffinatezza.

 

In occasione della XIII edizione del Festival “Le Vie Dei Tesori” (2019), la Galleria Regionale aprì le porte al Gabinetto di Disegni e Stampe, collocato all’interno della torre nord del Palazzo. Un percorso inedito, quest’ultimo, accessibile dalla Terrazza del Belvedere (solitamente chiusa al pubblico) che collega una torre con l’altra.

Sul lato posteriore dell’edificio è possibile ammirare il secondo cortile, edificato in epoca successiva (ovvero quando il palazzo venne adibito a monastero): è un giardino all’italiana, con siepi a motivi geometrici di varia forma (Fig. 8) e finestre in corrispondenza delle sale che oggi ospitano le collezioni della Galleria.

 

Arricchiscono inoltre la decorazione architettonica del palazzo alcuni caratteristici doccioni zoomorfi e splendidi esempi di gargoyles di stile gotico (Fig. 9).

 

Dalla terrazza di Palazzo Abatellis è inoltre possibile ammirare dall’alto i monumenti circostanti come l’Oratorio dei Bianchi, la chiesa di Santa Maria dello Spasimo, la chiesa della Gancia, pezzi di storia che vive e splende mirabilmente nel cuore della città.

 

 

Le immagini dalla n. 2 alla n. 9 sono fotografie esclusivamente scattate da chi scrive.

 

 

Bibliografia

Chirco A., Breve guida di Palermo per itinerari storici, Flaccovio Dario, 2015;

Patera B., Il Rinascimento in Sicilia. Da Antonello da Messina ad Antonello Gagini, Edizioni d’arte Kalòs, 2008.


UN’ICONA BIZANTINA SIMBOLO DELLA CITTÀ DI GELA: IL QUADRO DI SANTA MARIA DELL’ALEMANNA

A cura di Adriana d'Arma

 

  

Come ogni anno, l’8 settembre si celebra la tradizionale ricorrenza in onore di Maria Santissima dell’Alemanna, divenuta patrona della città di Gela.

La festa, ancora oggi attesissima da parte della comunità cittadina, è un intreccio di cultura, storia e leggenda, memoria e fede; difatti, questa piccola icona d’arte bizantina (Fig. 1) costituisce la memoria storica di alcune vicende che coinvolsero la città di Gela nel periodo medievale.

 

Fig. 1 – Originale Icona bizantina, Maria Santissima dell’Alemanna.

 

Il culto della patrona, infatti, risale al XII secolo e trae origine dall’Ordine religioso Cavalleresco dei Teutonici di Santa Maria d’Alemanna (Ordo domus Sanctae Mariae Teutonicorum) – antico ordine ospedaliero – che nel 1220 si stanziò nella città di Gela fondando una cappella con annesso ospedale. La stessa area scelta dai Teutonici coincideva inoltre con quella di un antico edificio di culto greco risalente al VII-VI sec. a.C.

Tuttavia, non abbiamo una versione unica circa l’origine dell’effigie sacra, ma interpretazioni diverse: una di esse vuole che essa sia stata portata da alcuni viandanti, i quali, essendo ospitati dagli abitanti della città, la donarono in segno di ringraziamento ribattezzandola come “Madonna della Manna” (riferito probabilmente al nome della pianta manna); un’altra ipotesi vuole il dipinto realizzato da un’artista di passaggio e lasciato in quel luogo; un’altra tradizione ancora sostiene invece che l’immagine sia stata portata in città proprio dal sopracitato Ordine Teutonico; è quest’ultima ipotesi, in definitiva, a sembrare la più plausibile in quanto legata anche alla sua etimologia: Alemanna deriva infatti da Alemanni, termine con il quale si indicavano le popolazioni germaniche, e dunque riconducibile all’Ordine Teutonico.

 

La storia locale, i racconti popolari e le generazioni più antiche, però, ci tramandano che tale icona fosse stata sotterrata in una buca e nel 1476 rinvenuta miracolosamente da parte di un contadino intento ad arare la terra nei pressi dell’antico Santuario.

Ancora oggi si narra che questo contadino, resosi conto che i suoi buoi non proseguivano più il cammino, ipotizzò si potesse trattare di un ostacolo nascosto sotto il terreno. Messosi a scavare nella speranza di trovare un tesoro nascosto, si ritrovò tra le mani l’effige della Santissima Vergine. Sempre secondo la leggenda, nello stesso istante in cui il contadino trovò l’icona, i suoi buoi di inginocchiarono.

Il punto esatto in cui venne rinvenuto il quadretto della Vergine viene indicato oggi dietro l’altare maggiore (Fig. 2) dell’odierno Santuario dedicato a Maria Santissima dell’Alemanna.

 

Fig. 2 – Luogo in cui venne trovato il quadretto della Vergine.

 

L’edificio religioso vide, nel corso dei secoli, susseguirsi numerosi rifacimenti: nel 1400 venne edificato il santuario vero e proprio (sulla base della preesistente cappella del 1220) che, a causa della precaria struttura, crollò; nei secoli successivi, tra il 1700 e il 1800, sul santuario vennero effettuati altri interventi di costruzione e demolizione fino al 1911, anno in cui l’edificio venne riadattato a lazzaretto durante un’epidemia di colera che interesso il territorio gelese.

Varie vicissitudini interessarono l’edificio, anticamente definito “chiesa rurale”, che venne dotato di colonne ioniche, di una facciata in stile neoclassico, di sei finestre e di un campanile a vela. Solo nel 2017, tuttavia, venero ripresero le attività di promozione e valorizzazione e grazie al sostegno dell’intera popolazione e del Comitato, il Santuario, luogo di culto e di pellegrinaggio per i devoti abitanti della città di Gela, oggi gode di una nuova vita sancita dalla definitiva riapertura avvenuta il 31 agosto 2020 (Fig. 3).

 

Fig. 3 – Odierno Santuario di Maria SS. d’Alemanna.

 

L’icona della Santissima Madonna dell’Alemanna è un piccolo dipinto (67x52 cm) realizzato su tavola di quercia. Esso raffigura la Vergine che poggia delicatamente la guancia sul viso del Bambino il quale, a sua volta, è tenuto delicatamente in braccio dalla madre.

La veste della Madonna è di color marrone e adornata con un manto di colore blu, la cui estremità è finemente decorata con fregi e volute a girali color oro.

Il Bambino Gesù offre allo spettatore uno sguardo assorto e pensoso ed è abbigliato con una veste color amaranto scuro, anch’essa decorata in oro.

Il dipinto si caratterizza per una forte ricchezza decorativa, che interessa, del resto, anche lo sfondo, anch’esso contraddistinto dalla predominanza assoluta dell’oro.

Sebbene la datazione e l’autore siano molto discussi, la critica tende a ricondurre l’icona all’attività di maestranze bizantine; la tecnica del fondo oro, usato soprattutto per la realizzazione delle icone, compare dapprima in ambito bizantino e successivamente nel XII secolo in Italia. Essa prevede la stesura sulla tavola di sottili lamine d’oro (foglie) ricavate grazie al lavoro degli artigiani i quali martellavano delle monete d’oro e successivamente le univano ad altri elementi e sostanze vegetali.

L’oro simboleggia l’Eterno, elemento alla base di quel messaggio cristiano di cui l’opera vuole farsi carico; l’oro esalta le figure, le estrae dal contesto reale isolandole nel tempo e nello spazio. Annulla ogni consuetudine e rapporto con la quotidianità, ogni riferimento a paesaggi familiari o edifici riconoscibile, lasciando allo sguardo la verità assoluta del Divino.

 

Questa meravigliosa icona bizantina è collocata presso il Duomo della città e non all’interno del Santuario a Lei dedicato, presso il quale è custodita una copia fedele (Fig. 4).

 

Fig. 4 - Copia dell’icona bizantina presso l’odierno Santuario.

 

In occasione della Festa patronale la città è in grande fermento: tra i diversi momenti, religiosi e non, vanno ricordati la solenne processione dell’icona, la spogliazione dei bambini di fronte alla Vergine dell’Alemanna e tradizioni popolari quali il Palio dell’Alemanna e il cosiddetto gioco del “paliantino”.

La ricorrenza della festa dell’Alemanna è ormai da anni una particolare tradizione popolare che attrae in chiesa una moltitudine di fedeli che, in quel giorno, vogliono rendere omaggio alla Patrona, alla Santissima Maria dell’Alemanna e a quell’icona tanto piccola quanto preziosa.

 

Le figure 2,3 e 4 sono state scattate dalla redattrice.

 

 

Bibliografia

Mulè, La chiesa Madre di Gela e il culto di Maria SS. D’Alemanna, Gela, Aliotta, 1985.

Vicino, Gela-Monumenti antichi, Raccolti di studi sui beni culturali e ambientali, Caltanissetta, Vaccaro, 1992.

 

 

 

 

 

 


UN GIOIELLO DI STRAORDINARIA BELLEZZA: LA CHIESA DI SANTA MARIA DELL’AMMIRAGLIO

A cura di Adriana D'Arma

 

 

La chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, facente parte dell’itinerario Arabo-Normanno di Palermo, Cefalù e Monreale, è un edificio di culto situato al centro storico della città di Palermo.

Il monumento, che appartiene alla diocesi di Piana degli Albanesi in cui si celebra il rito greco-bizantino, è adiacente alla chiesa di San Cataldo e la sua facciata si specchia su Piazza Bellini, fronteggiando l’imponente chiesa di Santa Caterina d’Alessandria.

Questa chiesa è dedicata a Santa Maria, ma la sua denominazione è legata al committente Giorgio di Antiochia, Grande Ammiraglio del Regno di Sicilia sotto re Ruggero II, che la fece edificare nel 1143, anno in cui la chiesa risultava già essere esistente, come si evince da un diploma arabo-greco dello stesso anno che si conserva nel Tabulario della Cappella Palatina di Palermo.

Un curioso aneddoto è relativo al nome con cui questo monumento è comunemente noto: la chiesa, conosciuta come la “Martorana”, deve il suo nome alla nobildonna cittadina Eloisa Martorana, fondatrice dell’omonimo monastero benedettino femminile al quale la chiesa venne concessa nel XV secolo. All’interno del monastero, si narra, le monache benedettine preparavano il tipico dolce di pasta reale che i siciliani tuttora usano consumare nel giorno dedicato ai morti, chiamato “frutta martorana”.

Fig. 1 - Esterno Chiesa Santa Maria dell’Ammiraglio.

La storia di questa chiesa è legata a numerose vicissitudini e a continui rimaneggiamenti, probabilmente dovuti ai cambi di indirizzo religioso che interessarono il monumento; difatti in origine la chiesa presentava una pianta a croce greca sulla quale si impiantava il corpo quadrato dell’edificio - tipico dell’arte bizantina - sormontato dalla cupoletta emisferica di derivazione orientale; transitata nelle mani dei fedeli cattolici, la chiesa venne modificata e riadattata secondo i canoni del rito latino.

Gli interventi sulla chiesa per secoli vennero indirizzati ad ampliarla, abbellirla ed infine a conferire ad essa le sue forme barocche. Fondamentali risultarono, in particolare, il rifacimento del prospetto, eseguito attorno alla metà del Settecento su direzione dell’architetto Nicolò Palma, e le rimozioni ottocentesche delle aggiunte posteriori, volute dall’architetto Giuseppe Patricolo, mosso dall’intento di restituire alla chiesa l’impostazione medievale originaria. Circa la facciata, l’intervento di Palma fu causato da motivazioni prevalentemente estetiche (rivaleggiare nei confronti della facciata ad essa opposta?), poiché la facciata non aveva – e non ha – una funzione pratica.

Fig. 2 - Esterno Chiesa Santa Maria dell’Ammiraglio e chiesa di San Cataldo.

Ricordando l’espressione usata dal noto geografo arabo Ibn Giubayr, vissuto a cavallo dei secoli XII e XIII, che, parlando della chiesa, la definì “una delle meraviglie del mondo”, essendo rimasto piacevolmente stupito dalla sua bellezza. A ben vedere Giubayr aveva ragione: la chiesa è un magnifico tesoro, semplice ed essenziale all’esterno e così ricca, sfavillante e splendente al suo interno. Il segreto della sua straordinaria bellezza è racchiuso nella molteplicità di stili e dettagli artistici, architettonici e culturali che la caratterizzano, dovute alla presenza dei vari popoli che si insediarono nell’isola.

Fig. 3 - Particolare torre campanaria.

L’edificio è accessibile dal suo campanile, a pianta quadrata, la cui parte inferiore – corrispondente al piano terra – è aperta da arcate con colonne angolari, sulla quale si elevano tre grandi ordini di grandi bifore.

Entrando nella chiesa si è colpiti dai colori e dalle splendide decorazioni dell’apparato musivo, in cui spiccano, sul corpo frontale originario, due pannelli in mosaico con la raffigurazione dell’Incoronazione di Ruggero II da parte di Cristo e il fondatore della chiesa Giorgio di Antiochia ai piedi della Vergine.

Fig. 4 - Mosaico raffigurazione re Ruggero II incoronato da Cristo.

Percorrendo la navata centrale ci si trova di fronte al cappellone absidale e al grande tabernacolo in lapislazzuli (sopra il quale è collocata l’Ascensione dipinta da Vincenzo degli Azani) circondato da festosi putti reggi drappo in marmo mischio.

È alzando gli occhi al cielo, tuttavia, che si viene rapiti dalla straordinaria cupola decorata con l’immagine del Cristo Pantocratore; l’Onnipotente, in tutta la sua magnifica bontà, è colto nell’atto di benedire con la mano destra tutti i suoi fedeli ed attorniato da quattro arcangeli prostrati a terra in adorazione.

Nelle nicchie dei pennacchi angolari si collocano invece i quattro Evangelisti - Marco, Matteo, Luca e Giovanni - e nel tamburo della cupola sono raffigurati gli otto Profeti.

Il modello iconografico del Cristo Pantocratore, tipico della tradizione bizantina e ortodossa (era consuetudine rappresentare l’Altissimo Cristo in sommità) è ravvisabile, in ambito siciliano, anche nella Cappella Palatina di Palermo, nel Duomo di Cefalù e nel Duomo di Monreale.

Fig. 7 - Cupola con la raffigurazione del Cristo Pantocratore.

All’interno dell’articolata rappresentazione musiva, nell’arco di passaggio tra la zona dei fedeli e la zona presbiteriale, particolare rilievo assume la rappresentazione dell’Annunciazione, emblema di nascita nonché del passaggio tra il Vecchio ed il Nuovo Testamento.

Gli addobbi musivi delle maestranze bizantine e l’originario pavimento cosmatesco, tipica ornamentazione delle grandi chiese normanne del sud Italia, splendono tra gli squillanti colori delle volte affrescate da Guglielmo Borremans, Olivo Sozzo e Antonino Grano.

Fig. 8 - Decorazione musiva interna.

Quello della chiesa della Martorana è un episodio singolare nell’Occidente cristiano e nella chiesa siciliana: un prototipo unico nella storia dell’arte, un groviglio di storia, di stili differenti, in cui si svela la perfetta e armoniosa unione delle espressioni culturali bizantine, arabe, normanne, che per diversi secoli raggiunsero la Sicilia ed in particolare la città di Palermo.

 

Tutte le immagini sono fotografie esclusivamente scattate da chi scrive.

 

 

Bibliografia

Napoleone C., Enciclopedia della Sicilia, Ricci, Parma, 2006;

Severino N., Il pavimento musivo della Chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio a Palermo, Collana Studies on Cosmatesque Pavements, n.5 dicembre, 2014.


LA TORRE DI MANFRIA SUL LITORALE SICILIANO

A cura di Adriana d'Arma

 

Introduzione: la Torre di Manfria. Baluardo difensivo sul litorale siciliano

Nel corso dei secoli, e sin dai tempi più antichi, la Sicilia, territorio di passaggio e luogo di permanenza delle diverse popolazioni che vi si insediarono, fu protagonista di numerose e cruente attività piratesche.

In seguito alla caduta dell’Impero d’Occidente, le acque del Mediterraneo non furono più difese, e la pirateria prese vigore: i Bizantini prima e i Saraceni dopo diedero vita alle scorrerie che terrorizzarono per secoli tutti gli abitanti delle coste siciliane.

Di tali azioni sono pervenute solo notizie frammentarie, le quali, però, vennero arricchite dalle testimonianze storiche delle numerose torri di avvistamento che, ancora oggi, si possono ammirare in diversi punti strategici dell’Isola.

La storia delle torri in Sicilia ha origini antichissime. La loro funzione è sempre stata intimamente legata alla loro ubicazione; in prossimità del litorale, in siti sopraelevati o sui promontori della città, dalle torri era possibile avvistare un imminente pericolo che giungeva dal mare e in tal modo procedere a lanciare rapidamente l’allerta ad altre torri di corrispondenza, per mezzo di fumate in pieno giorno, e di segnali di fuoco nel cuore della notte.

Sul litorale siciliano si possono contare circa 200 torri: tra le più note la torre di Nubia vicino Trapani, la torre di Monterosso vicino Agrigento, la torre dell’Acqua de’ Corsali vicino Palermo, quella di Calura vicino Cefalù, quella dei Vendicari nella baia omonima, la Vigliena nel territorio di Punta Braccetto, la Toleda nel litorale di Carini, la torre di Santa Anna nel territorio catanese.

A circa 10 km dalla città di Gela è ubicata, presso la località omonima, la Torre di Manfria [Fig. 1], parte del complesso di 37 strutture difensive di pertinenza della Deputazione del Regno. La costruzione venne affidata all’ingegnere militare fiorentino Camillo Camilliani, che propose di ripristinare le torri danneggiate facendone edificare altre a distanza opportuna.

 

Fig. 1 – Veduta della Torre di Manfria.

 

Sull’avvio della costruzione della Torre di Manfria non c’è accordo di datazione: alcune fonti la fanno risalire al 1549, altre la posticipano al 1583.

Sebbene le notizie non siano troppo precise, si sa per certo che l’edificazione della torre, dopo essere stata interrotta, fu ripresa nel primo decennio del XV secolo per volontà del viceré Pedro Giron, Duca di Ossuna, dal quale probabilmente proviene anche la denominazione “Torre d’Ossuna” usata da alcuni storici.

 

Silenziosa e imponente, la Torre di Manfria, si staglia sul promontorio che, affacciandosi sulla costa balneare, è visibile da diversi punti della città.

Essa presenta una pianta quadrata - caratteristica ricorrente delle torri camilliane -  con gli spigoli in tufo, una base, il piano operativo e la terrazza. Sviluppa un’altezza di circa 15 metri e un basamento scarpato, privo di apertura, di 12,5 metri per lato.

Alla torre si accedeva al primo piano, il quale è costituito da un unico ambiente coperto da una volta a botte. In quest’ultimo ambiente, il cui accesso avveniva mediante una scala di legno o di corda retrattili, si svolgeva gran parte della vita della guarnigione.

Solo nel 1805 venne costruita una scala esterna, in muratura e a due rampe [Figg. 2 - 3], dalla quale si accedeva al primo piano. Nello stesso anno fu costruito anche il secondo piano, oggi quasi del tutto crollato.

 

 

Dalle finestre quadrangolari, affacciate sul mare, era possibile scrutare il mare e avvistare preventivamente l’arrivo dei nemici.

Dal primo piano, poi, si elevava un ulteriore scala a rampe – ricavata nello spessore del muro -  grazie alla quale in origine si accedeva a una terrazza i cui lati ancora oggi presentano delle pensiline sorrette da mensoloni che servivano per controllare l’esterno della torre [Fig. 4].

 

Fig. 4 – Particolare dei mensoloni della torre.

 

Notevole curiosità suscitano anche delle piccole fessure in corrispondenza della porta d’ingresso, che altro non sono che delle “caditoie” o “piombatoie”. Anche queste ultime avevano funzioni di difesa: venivano utilizzate, infatti, per far cadere sul nemico liquidi bollenti o infiammabili, oppure materiali solidi (pietre o altro a disposizione).

Tuttavia, all’interno di tali fortificazioni vi erano anche diverse tipologie di armi, dalle più antiche alle più moderne, che prevedevano l’impiego di polvere da sparo [Fig. 5].

 

Fig. 5 – Interno del primo piano con visibili atti di vandalismo.

 

È molto probabile, infatti, che sulla terrazza della Torre di Manfria ci fossero addirittura dei cannoni a difesa delle coste dell’isola fino al 1830, anno in cui, con la conquista francese dell’Algeria, si pose fine alle scorribande dei pirati nel Mediterraneo.

 

Tra le vicende leggendarie che arricchiscono la tradizione locale, la più curiosa vorrebbe che la Torre di Manfria fosse stata in passato la dimora di un gigante buono e giovane, il quale, alla ricerca della sorella rapita, venne poi ucciso a tradimento insieme al suo cavallo. Questo racconto tradizionale, che ancora suscita curiosità, è alimentato da dicerie relative a misteriose impronte tuttora presenti sul terreno.

 

Sebbene esposta ancora alle intemperie, ai continui atti di vandalismo e ai ricercatori di tesori preziosi, la Torre di Manfria, così come le altre torri nel resto della Sicilia, offre una fedele testimonianza della storia dell’Isola, presentandosi come imponente baluardo della cristianità a strapiombo sul mare, imponente in tutta la sua monumentale bellezza, nel suo ruolo di avamposto di storia e tradizione [Fig. 6].

 

Fig. 6 – La torre di Manfria.

 

 

 

Le immagini dalla 1 alla 6 sono scattate dalla redattrice

 

 

Bibliografia

A. Alessi, Gela. Città greca della Sicilia. Storia-Archeologia-Monumenti-Ambiente, Associazione Culturale “Archeo-Ambiente” di Gela con il contributo della Camera di Commercio della Provincia di Caltanissetta, Coop. C.D.B., Ragusa, 1997.

Mulè, Dell’Antico Centro Storico di Gela, E-Solution di A. Tandurella, Gela, 2017.