LA PORTA A SAN NICCOLÒ NEL PERIODO DI FIRENZE CAPITALE

A cura di Arianna Canalicchio

 

LA PORTA A SAN NICCOLÒ NEL PERIODO DI FIRENZE CAPITALE

“Cercai che la Porta venisse a rispondere nel mezzo delle rampe stesse: e che essa quasi obelisco torreggiasse sopra una vasca recinta da robusta balaustra ornata di figure da gettar acqua […] Cercai inoltre che dal marciapiede recingente la vasca muovesse una doppia scala dello stile del secolo XIII, onde restituire l’accesso alla torre, che era stato tolto con l’abbattimento delle mura”[1]. Così Giuseppe Poggi, architetto incaricato di demolire le mura di Firenze nel 1865 e di dare un volto più moderno alla nuova capitale d’Italia, descrive il suo progetto per la piazza in cui si trova porta San Niccolò.

 

La torre, come si vede nelle incisioni conservate nel volume di Corrado Ricci, Cento vedute di Firenze antica (figg. 1-2) ancora fino ai primi anni dell’800 si presentava privata della merlatura, aggiunta con un restauro in stile soltanto alcuni anni dopo. Intorno alla porta si vedono invece ancora le mura: queste rimasero in piedi per secoli ma persero gradualmente di importanza, tanto da diventare nella maggior parte dei casi solo una cinta daziaria e un argine per le alluvioni. Firenze, però, nel frattempo era cresciuta e le mura cominciavano ad essere strette per una popolazione che per la prima volta da dopo il ‘300 era tornata a contare una popolazione di più di 100.000 abitanti. L’abbattimento però si rese davvero necessario soltanto nel 1865 con il trasferimento della capitale d’Italia da Torino a Firenze.

 

Con la nomina arrivarono in città, nel giro di poco tempo, moltissimi funzionari con le rispettive famiglie, circa 25-30.000 persone, rendendo necessario il ripensamento di alcuni spazi e la creazione di nuove zone residenziali. Abbattere le mura divenne quindi essenziale per permettere alla città di espandersi e per far fronte alla costruzione di strade che migliorassero la viabilità cittadina. Non mancarono ovviamente una lunga serie di proteste tra le più disparate. Così scriveva, nel luglio del 1865, il “Corriere di Firenze” immaginando un dialogo tra due cittadini: “Povera la mia Firenze! […] Povera, e perché? A buon conto converrai meco che Firenze la bella, la colta, la gentile, l’artistica, la non monumentale Firenze non esiste più! In sua vece cosa abbiamo? Abbiamo una capitale provvisoria del regno d’Italia!”[2]

Il Comune incaricò l’architetto Giuseppe Poggi di disegnare il nuovo volto di Firenze. Poggi aveva lavorato già alla ristrutturazione di diverse ville fiorentine come palazzo Guicciardini nei pressi di Santo Spirito, palazzo Antinori in via dei Serragli e nella villa di Frederick Stibbert a Montughi, diventata poi museo. Aveva inoltre viaggiato molto in tutta Europa, e per questo la scelta della commissione istituita dal Consiglio Comunale, e formata tra gli altri da Luigi Guglielmo Cambray-Digny, ricadde su di lui. Nel novembre del 1864 Poggi ricevette l’incarico di redigere il piano di ampliamento della città, che realizzò in poco più di due mesi e che venne approvato il 18 febbraio 1865. Si chiedeva all’architetto di abbattere le mura per costruire delle larghe strade sul modello dei boulevards parigini, di conservare per quanto possibile i vecchi edifici, di corredare i quartieri residenziali con delle piazze e di congiungere le nuove vie con quelle esistenti.

 

Nel progetto di Poggi c’era fin dall’inizio l’idea di conservare le porte in quanto memoria storica e soprattutto in quanto opere d’arte. Scrive, infatti, in una lettera al fratello: “Io lavoro indefessamente sul mio progetto di abbattimento delle mura (conservando però le porte) per creare un bel paesaggio con fabbricati intorno, come i boulevards di Parigi”[3]. In particolare, al Poggi stava a cuore la sorte di porta San Niccolò. Dopo l’abbattimento delle mura, l’architetto aveva realizzato un’elegante piazza intorno alla torre; da questa partivano le “rampe”, ovvero due strade che, incrociandosi, salgono fino a Piazzale Michelangelo. Le rampe erano state decorate con vasche, fontane a incrostazioni naturali sul modello di quelle del giardino di Boboli e con zone di verde. Anche la struttura del Piazzale[4] era stata pensata da Poggi, il quale ne andava profondamente orgoglioso, eppure dopo il trasferimento della Capitale a Roma, venne accusato di aver fatto di quella zona di città un “lavoro di puro lusso”.

Per costruire la piazza vennero attuate delle espropriazioni, si trattava per lo più di case molto povere e in pessimo stato che vennero eliminate per lasciare uno spazio libero intorno alla torre. Il Poggi realizzò anche quattro villini dalle forme molto semplici e lineari che affacciano sulla piazza. Il Comune decise inoltre di spostare la stazione daziaria che si trovava nei pressi della porta, circa 500 metri più avanti, in quella che oggi è piazza Francesco Ferrucci, nei pressi del “ponte di ferro”, ovvero quello che poi ha preso il nome di ponte San Niccolò.

 

Durante i lavori di costruzione della piazza arrivò la proposta da parte di alcuni consiglieri comunali (sostenuta anche da un nutrito gruppo di abitanti) di demolire la porta, poiché ritenevano che così isolata ostruisse la discesa tramite le rampe appena costruite. Poggi si batté con forza affinché la porta rimanesse in piedi, anche se avvertì circa la necessità di promuovere un restauro. Fino a quel momento di fatto solo l’affresco della lunetta, opera trecentesca di Bernardo Daddi, era stato restaurato. Per l’architetto era fondamentale che almeno le antiche porte rimanessero in piedi così da lasciare un segno tangibili di quelle che erano state le mura: “Le Porte soltanto restano ora” – scrive in una lettera del 23 novembre 1874 al professor Giovanni Dupré – “quali punti fissi per seguire di guida a chi in un remoto avvenire vorrà parlare della grandezza di Firenze prima dell’ampliamento testé conseguito”[5].

Decise quindi di inglobare la porta a San Niccolò nelle rampe, dovendo però pensare a una nuova soluzione per poter entrare all’interno della torre. Fino a quel momento l’accesso era stato possibile grazie al camminamento in quota lungo le mura, ma dopo la loro demolizione rimaneva la porta sospesa molto più in alto rispetto al piano di calpestio. Pensò quindi a un’elegante soluzione di scale incrociate per raggiungere l’altezza necessaria (fig. 5) e mise una vasca di fronte all’ingresso. Salendo la prima rampa, che simmetricamente si ripete anche dall’altro lato incorniciando la fontana, si entra all’interno della torre. Proseguendo in una stretta scala a chiocciola si torna nuovamente all’esterno dove un’altra rampa ci permette di salire all’altezza dell’ingresso originario. Anche in questo caso le scale sono simmetriche e arrivano a due porte identiche, quella di sinistra è effettivamente l’accesso alla torre, quella di destra invece è soltanto un vezzo stilistico del Poggi. La porta non ha infatti alcuno sbocco, ma venne realizzata solo per donare simmetria all’ingresso.

 

I battenti della porta erano rimasti intatti nei secoli, proprio come per quella a San Frediano e per Porta Romana, Poggi decise però in questo caso di rimuoverli e sono adesso in attesa da tempo di essere restaurati. La storia della torre ha attraversato molti secoli che, pur cambiando drasticamente l’ambiente che la circonda, non l’hanno mai modificata. Ancora oggi, se si sale fino alla terrazza o passeggiando sotto il fornice, sono ben visibili i segni del tempo, ultimo dei quali una targa che ricorda l’altezza che l’acqua dell’Arno raggiunse durante l’alluvione del 4 novembre 1966 (fig. 6).

 

 

 

 

Note

[1] G. Poggi, Sui lavori per l’ingrandimento (1864-1877), G. Barberà, Firenze 1882, ristampa anastatica promossa da Fiorentina-Gas Pluriservizio, Firenze 1992, p. 256.

[2] Citato in F. Borsi, La capitale a Firenze e l’opera di G, Poggi, Colombo Editore, Roma 1970, p. 22.

[3] Citato in Ivi, p. 69.

[4] Piazzale Michelangelo venne costruito dove un tempo si trovava un orto di proprietà dei frati di San Firenze. L’idea di Poggi era di usarlo, oltre che come belvedere sulla città, anche come museo dedicato a Michelangelo. Vi avrebbero dovuto trasferire le figure allegoriche delle Cappelle Medicee, le statue dei Prigioni che all’epoca si trovavano ancora nella grotta del Buontalenti nel giardino di Boboli e dei calchi di tutte quelle opere, come la Pietà del Vaticano e il Mosè, che non si trovavano a Firenze. Cfr. Ivi, pp. 86-87.

[5] Poggi 1882, p. 259.

 

 

 

 

 

Bibliografia

Borsi, La capitale a Firenze e l’opera di G. Poggi¸ Colombo Editore, Roma 1970.

De Seta, J. Le Goff (a cura di), La città e le mura, Editori Laterza, Bari 1989.

Moreni, Notizie istoriche dei controni di Firenze. Parte quinta. Dalla Porta a S. Niccolò fino alla Pieve di S. Piero a Ripoli, Firenze 1794, ristampa anastatica, Soc. Multigrafica Editrice, Roma 1927.

Pesci, Firenze Capitale (1865-1870) dagli appunti di un ex-cronista, Benporad & figlio, Firenze 1904.

Poggi, Sui lavori per l’ingrandimento di Firenze (1864-1877), G. Barberà, Firenze 1882, ristampa anastatica promossa da Fiorentina-Gas Pluriservizio, Firenze 1992.

Ricci, Cento vedute di Firenze antica raccolte e illustrate, Fratelli Alinari, Firenze 1906.

 

Sitografia

https://www.treccani.it/ (Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani) – voce “Giuseppe Poggi”, di Raffaella Catini, vol. 84, 2015.


LA PORTA A SAN NICCOLÒ DURANTE IL ‘500 PT. II

A cura di Arianna Canalicchio

 

 

“Nel 1526, il conte Pietro Navarra e Niccolò Machiavelli intraprendevano una generale ispezione alle mura della città, che a una radicale relazione machiavelliana: le torri delle porte e delle mura andavano abbassate […] quella a S. Niccolò era inutile e andava addirittura atterrata”[1]: così scrive lo storico Francesco Bandini (Su e giù per le antiche mura).

 

 

La porta a San Niccolò nei secoli ha rischiato per ben due volte di essere demolita ma fortunatamente torreggia ancora oggi al centro di piazza Giuseppe Poggi, che a sua volta deve il nome all’architetto che la salvò la seconda volta e che costruì l’elegante zona che la circonda. Unica tra le porte a conservare ancora oggi la sua altezza originaria di 45 metri, Porta San Niccolò sopravvisse indenne alle modifiche apportate alla cerchia muraria nel XVI secolo e alle demolizioni ottocentesche, nel periodo di Firenze capitale. Come racconta Benedetto Varchi nella sua Storia Fiorentina, scritta per incarico di Cosimo I de’ Medici, le porte erano alte più di venti braccia, con fossi larghi venticinque e tutte merlate. L’unica immagine che ci permette di capire come dovessero essere le mura prima delle modifiche cinquecentesche è una cartina, con una ripresa a volo d’uccello sulla città, attribuita a Francesco Rosselli, nota col nome di Pianta della Catena e datata intorno al 1472 (fig. 2). L’opera ebbe grande importanza perché servì da modello alle rappresentazioni di Firenze che tra la fine del ‘400 e per tutto il ‘500 corredavano le cosmografe e le enciclopedie. Ma non solo, l’immagine è utile ancora oggi a darci un’idea di come fossero disposte le torri e le porte e delle fattezze che esse dovevano avere all’epoca. A differenza di quel che possiamo vedere oggi, infatti, avevano tutte lo stesso aspetto di porta San Niccolò, molto alte e con i tre arconi aperti verso l’interno della città. Le strutture come questa erano dette “porte maestre” poiché erano situate su strade principali e di grande traffico. Esistevano poi le “postierle”, più piccole e situate su strade di minor importanza. Oltre alle porte-torri erano presenti lungo il perimetro anche tutta una serie di altre torrette, più basse e completamente chiuse, che servivano per controllare l’esterno ma che non potevano essere attraversate per entrare in città. Porta San Niccolò, guardando la mappa, torreggia nella parte destra della città in riva all’Arno, con alle spalle, sulla collina, la chiesa di San Miniato al Monte che si trovava fuori le mura.

 

Davanti a porta San Niccolò, come per tutte le altre, si trovava un fossato e dunque si accedeva passando tramite un ponte. Di questi rimangono oggi pochissime informazioni: si trattava di strutture sostenute da due o tre arcate e non di ponti levatoi, che a Firenze non sono documentati probabilmente perché in Italia si diffusero solo in un periodo successivo. Nei secoli, oltre ai ponti, è stata eliminata anche la merlatura, rifatta poi in stile in anni più recenti. Per il resto invece la struttura della porta rimane ancora quella trecentesca (unico caso presente a Firenze). Tutte le altre, pur mantenendo spesso la parte inferiore del fornice pressoché invariata, vennero abbassate e riadattate alle nuove esigenze difensive.

Fino al 1526, le mura non avevano subito nessuna sostanziale modifica: in quell’anno il pontefice Clemente VII, al secolo Giulio de’ Medici, figlio di Giuliano (ucciso durante la celebre congiura dei Pazzi), spaventato per una possibile discesa dell’esercito dell’Imperatore Carlo V, promosse dei lavori di fortificazione e difesa alle esistenti mura. Con l’introduzione dell’artiglieria le fortificazioni medievali si erano rivelate essere non più sufficienti. Se infatti nel ‘300 le porte-torri dovevano essere molto alte per permettere ai soldati di guardia di avere un’ampia visuale e di utilizzare al meglio i piombatoi gettando sull’assediante olio bollente e pietre da alte quote, nel ‘500 il modo di fare la guerra era ormai profondamente mutato. Con l’artiglieria le torri alte erano diventate dei facili bersagli, dunque un po’ in tutta Italia vennero abbassate e rese ancora più massicce per resistere ai colpi. Altre accortezze che vennero prese coinvolsero anche, ad esempio, l’allargamento dei fossati per tenere più lontano il nemico e l’eliminazione dei merli che, essendo costruzioni relativamente sottili, erano la prima cosa a crollare sotto i colpi dell’artiglieria.

 

L’obiettivo di Clemente VII era di trasformare la città toscana in una sorta di avamposto dello stato della Chiesa che si frapponesse quindi tra il nemico e Roma. Firenze all’epoca era retta da Alessandro e dal cugino Ippolito, entrambi Medici[2]. I due erano però all’epoca poco più che quindicenni e dunque agivano sotto la vigilanza del delegato pontificio Silvio Passerini. Il Papa affidò il compito al conte Pietro Navarra che condusse un’indagine sullo stato delle mura insieme a Niccolò Machiavelli. I due decisero di abbassare tutte le porte e le torri della cerchia muraria per evitare che fossero dei facili bersagli per l’artiglieria nemica ma anche per adattarle ad ospitare a loro volta l’artiglieria dell’esercito fiorentino. Le modifiche cinquecentesche sono ancora oggi ben distinguibili per via della diversa lavorazione della pietra, tagliata in blocchi più grandi e con taglio più regolare. Dopo l’ispezione, il conte Navarra e Machiavelli decretarono che porta San Niccolò potesse essere demolita poiché inutile a fini difensivi per la città. La torre, infatti, si trovava difesa naturalmente dalla collina di San Miniato alle sue spalle ed inoltre erano stati aumentati i sistemi difensivi nella zona dell’omonima chiesa, dunque non aveva più alcuna funzione difensiva e avrebbe potuto essere rimossa. Il problema passò però in secondo piano quando i Lanzichenecchi aggirarono Firenze e arrivarono direttamente a Roma, saccheggiandola nel 1527. La porta di San Niccolò rimase così, per puro caso, nella sua veste originale, unica in tutta la città.

 

La notizia del sacco di Roma fu in un primo momento tenuta nascosta a Firenze per evitare che la popolazione venisse a sapere che il papa si trovava in grande difficoltà. Appena l’informazione trapelò, un gruppo di cittadini, capitanati da Filippo Strozzi, Niccolò Capponi e Francesco Vettori, costrinsero il cardinale Passerini, Ippolito e Alessandro de’ Medici a lasciare immediatamente la città. Dopo quest’altra cacciata della famiglia Medici, venne nuovamente fondata la Repubblica ed eletto gonfaloniere Niccolò Capponi. L’inclinazione naturale del nuovo governo, che voleva rompere in maniera definitiva con i Medici, sarebbe dovuta essere filoimperiale e pronta ad un’alleanza con Carlo V. Così però non fu e nel frattempo la netta spaccatura tra l’imperatore e il papa Clemente VII cominciò lentamente a richiudersi, tanto che nel giungo del 1529 questi siglarono il trattato di Barcellona, con il quale l’imperatore prometteva di riconquistare Firenze per la famiglia Medici, in cambio della pace e dell’incoronazione papale. Nel frattempo, il gonfaloniere Capponi, comprendendo la gravità della situazione in cui stava per trovarsi la città, riprese le relazioni diplomatiche con alcuni emissari del papa, in un ultimo tentativo di scongiurare la guerra. Il Capponi, con l’accusa di tramare contro la Repubblica, fu costretto a dimettersi e al suo posto venne eletto Francesco Carducci, il quale non poté fare altro che preparare Firenze alla guerra.

 

Per le nuove fortificazioni venne chiamato a lavorare Michelangelo che creò un importante sistema difensivo nei pressi della chiesa di San Miniato al Monte. Protesse la zona, e in particolare il campanile, con 1.800 balle di lane disposte all’interno di grandi materassi in modo che attutissero i colpi nemici. L’assedio fu molto più lungo del previsto, si concluse nell’agosto del 1530 con il ritorno di Alessandro de’ Medici[3] e, come previsto da Machiavelli e Navarra, porta san Niccolò non ebbe effettivamente nessun ruolo strategico nella difesa della città ma questo fece sì che la torre rimanesse perfettamente integra e conservata nelle sue fattezze.

 

 

 

 

 

Note

[1] F. Bandini, Su e giù per le antiche mura, Fratelli Alinari Edtrice, Firenze 1983, p. 27.

[2] Alessandro de’ Medici era figlio illegittimo di Lorenzo II de’ Medici, nipote di Lorenzo il Magnifico, anche se, secondo alcuni studiosi, si tratterebbe invece del figlio naturale del cardinale Giulio de’ Medici, futuro Papa Clemente VII, tenuto sempre nascosto. Ippolito de’ Medici era invece il cugino di Alessandro, anche lui nipote del Magnifico, figlio però di Giuliano di Lorenzo de’ Medici, duca di Nemours. Ippolito, alla morte del padre venne cresciuto dallo zio Papa Leone X. G. F. Young, I Medici, Salani Editore, Milano 2016, pp. 378-393.

[3] Dopo la disfatta di Gavinana e l’accordo di pace, Carlo V mise nuovamente Alessandro al comando della città. Il governo del giovane Medici non fu però molto duraturo, nel 1937 venne assassinato e sostituito con Cosimo, figlio di Giovanni dalla Bande Nere e membro del ramo “popolare” della famiglia Medici. Cfr. Young 2016, pp. 570-71.

 

 

 

 

Bibliografia

Artusi, Le antiche porte di Firenze. Alla scoperta delle mura che circondavano la città, Semper Editrice, Firenze 2005.

Bargellini, La splendida storia di Firenze, Vallecchi, Firenze 1980.

Bandini, Su e giù per le antiche mura, Fratelli Alinari Edtrice, Firenze 1983.

De Seta, J. Le Goff (a cura di), La città e le mura, Editori Laterza, Bari 1989.

Manetti, M. C. Pozzana, Firenze: le porte dell’ultima cerchia di mura¸ Clusf, Firenze 1962.

Moreni, Notizie istoriche dei controni di Firenze. Parte quinta. Dalla Porta a S. Niccolò fino alla Pieve di S. Piero a Ripoli, Firenze 1794, ristampa anastatica, Soc. Multigrafica Editrice, Roma 1927.

F. Young, I Medici, Salani Editore, Milano 2016.


PORTA A SAN NICCOLÒ: LA PIÙ ANTICA PORTA DELLE MURA DI FIRENZE PT I

A cura di Arianna Canalicchio

 

“L’unica tra le Porte Maestre, che conservi la sua antica maestà ed altezza è la Porta a S. Niccolò, il di cui nome deriva dalla prossima Chiesa, che è al di dentro, e da cui pure il Borgo si appella” [1]

 

 

Con queste parole, nel 1794, veniva descritta dall’abate Domenico Moreni, intellettuale e letterato fiorentino, la torre a San Niccolò. La struttura all’epoca serviva ancora da porta di accesso alla città ed era circondata dalle alte mura costruite a partire dal 1284. Si trattava della sesta e ultima cerchia muraria realizzata dunque in età Comunale con l'intento di difendere la città; la storia delle mura di Firenze è in realtà molto lunga, le prime, con un perimetro di appena 1.800 metri, vennero costruite in epoca romana intorno al 59 a.C., al momento della nascita del primo nucleo della città. Seguirono quelle bizantine, ancora più piccole delle precedenti, e poi ci fu un lento ampliamento della città, prima con la cinta detta carolingia e poi con quella “matildina”, costruita nel 1078 grazie a Matilde di Canossa e che conteneva una popolazione di circa 20.000 abitanti. 

Il grosso sviluppo della città cominciò però a partire dal XII secolo, quindi il governo Comunale, intorno al 1172, prese la decisione di ampliare ancora una volta la cerchia muraria per contenere una popolazione che nel giro di cento anni era quasi raddoppiata. La crescita di Firenze continuò in modo esponenziale, tanto che nel 1284 il Comune decise di dare il via alla costruzione di una seconda cinta di mura.  Questa doveva essere abbastanza ampia da accogliere una popolazione che aveva raggiunto quasi i 90.000 abitanti, cifra impressionante se si pensa che Firenze tornò ad avere una tale densità di popolazione soltanto nell’800. La nuova cinta doveva comprendere anche tutta quella zona definita dai fiorentini “d’oltrarno” poiché si trovava dall’altro lato del fiume Arno, che a poco a poco stava diventando sempre più abitata ma che non aveva mai avuto un vero e proprio sistema difensivo. In questa parte di città sorse Porta San Niccolò; non esiste una datazione precisa del momento della costruzione della struttura, sappiamo che i lavori alle mura iniziarono indicativamente nel 1284 e che vennero affidati ad Arnolfo di Cambio. Il Villani, celebre cronista fiorentino, nel libro IX della sua Cronica racconta che nella zona d’oltrarno i lavori cominciarono intorno al 1324 e che sarebbero finiti già nel 1327. In realtà il lavoro di costruzione delle mura andò avanti almeno fino al 1333, anno del tragico alluvione che distrusse i ponti di Firenze, che viene preso dagli storici come data simbolica di conclusione. Secondo alcuni studiosi invece la porta sarebbe attribuibile ad Andrea Orcagna, che effettivamente dal 1324 venne chiamato a lavorare alla cinta muraria, spostando la datazione al 1329[2]. Quel che è certo è che le mura rimasero per secoli decisamente molto più grandi rispetto all’abitato cittadino, a causa prima dell’alluvione del 1333 e poi della peste nera del 1348 che decimarono la popolazione. 

 

Se è difficile dare una datazione precisa a Porta San Niccolò, ben più facile è invece analizzarne i materiali. La torre, così come le mura che la circondavano, venne costruita con la pietra tipica fiorentina, la così detta “pietra forte”, materiale da costruzione usato in tantissime delle strutture più importanti della città a cominciare da Palazzo Vecchio, per altro in costruzione proprio negli stessi anni. Le pietre vennero in parte recuperate dalla precedente cinta e da altri edifici distrutti, prassi molto diffusa all’epoca perché permetteva agli operai di avere del materiale già tagliato e squadrato, immediatamente pronto all’uso. Per la costruzione della torre si servirono però anche di pietra forte estratta da alcune cave che si trovavano nei pressi del giardino di Boboli. Esiste ancora oggi uno di questi ambienti, che si trova lungo Costa San Giorgio, ormai chiuso da anni ma che per chi lo conosce è ancora individuabile dietro un cancello. La cava venne infatti utilizzata per secoli e aperta ancora, per un’ultima volta, nel secondo dopoguerra quando il Comune la utilizzò per ricavare la pietra forte con cui ricostruire “come erano e dove erano” le torri medievali distrutte dalle mine tedesche. 

La pietra forte veniva tenuta insieme grazie a una particolare calce realizzata con la rena del fiume Arno. In un’ordinanza ufficiale del 1325 si stabiliva infatti che fosse obbligatorio utilizzare soltanto quella dell’Arno e non quella del Mugnone, affluente del fiume fiorentino, poiché era considerata di qualità inferiore[3]. 

Non dobbiamo quindi immaginare la porta isolata in mezzo a una piazza com’è adesso ma con un largo fossato all’esterno e con un camminamento in quota che permetteva di muoversi lungo i circa nove metri di perimetro delle mura e di entrare direttamente all’interno della torre. Le rampe di scale che permettono oggi l’accesso alla porta sono infatti una costruzione di metà ‘800 resa necessaria dall’abbattimento delle mura. Fin tanto che l’accesso alla torre era possibile tramite camminamento, non era infatti necessario che ci fossero delle scale per raggiungere l’ingresso in quota. 

Porta San Niccolò aveva quindi un lato che dava verso la campagna dal quale arrivava chi voleva entrare in città e un lato invece che dava verso l’interno. Il fornice era chiuso da due grandi battenti in legno, che esistono ancora oggi ma che sono in attesa di restauro, i quali venivano aperti la mattina e richiusi al tramonto scandendo la giornata lavorativa della città. Passeggiando oggi sotto il grande fornice sono ancora visibili i cardini della porta (fig. 3), alcune strutture in ferro per tenere le torce e, alzando gli occhi, una lunetta affrescata (fig. 4). L’opera, databile intorno al 1375, è attribuita a Bernardo Daddi e raffigura una Madonna con Bambino fra i santi Giovanni Battista, patrono della città, e Niccolò. L’affresco, come racconta Giuseppe Poggi, architetto che negli anni ’60 dell’800 curò i lavori di costruzione della piazza e di abbattimento delle mura, venne restaurato in quello stesso periodo da Gaetano Bianchi, importante restauratore di affreschi medievali che aveva lavorato alla riscoperta di Giotto nella Cappella Bardi in Santa Croce e degli affreschi del Chiostro Verde di Santa Maria Novella. La lunetta necessiterebbe ad oggi di un altro intervento di restauro, poiché trovandosi all’aperto, anche se nella parte interna del fornice, è da secoli soggetta agli agenti atmosferici che hanno reso la pittura difficilmente leggibile. 

 

La porta, nel lato che dava verso l’esterno della città (fig. 5 ), era completamente murata, ad eccezione di sei piccole aperture utili per l’avvistamento; si trattava infatti della parte che andava difesa dalle minacce esterne ed era quindi pensata in modo tale da resistere ad assedi e attacchi. Non presentava particolari decorazioni, se non gli stemmi, oggi quasi completamente consunti, con scolpito il giglio simbolo del Comune, quello della Parte Guelfa con aquila e drago e la croce del Popolo. Unica decorazione erano due grandi mensole che contenevano dei leoni in pietra, simbolo della città di Firenze, di cui adesso rimangono solo le strutture delle mensole quasi del tutto ricostruite. 

 

Nella parte interna invece (fig. 6), in direzione della città, la porta aveva ed ha ancora oggi, un aspetto completamente differente. Non aveva alcun bisogno di essere difesa e quindi troviamo in corrispondenza dei due piani delle grandi arcate sovrapposte che permettono di vedere l’interno. Sarebbe stato infatti inutile chiudere anche questa parte e avrebbe comportato un utilizzo e uno “spreco” di pietra che il Comune non poteva e non voleva permettersi. La porta è una struttura spoglia anche nella parte interna, non era pensata come un’abitazione ma doveva servire soltanto come appoggio a chi stava di guardia. Addossati alla parete corrono i ripidi scalini che permettevano ai soldati di spostarsi da un piano all’altro, gli ambienti sono molto grandi ma privi di divisioni interne, ad esclusione di una piccola stanzetta al primo piano, alla quale si accede tramite uno stretto corridoio lungo non più di un paio di metri, usata da chi di guardia come bagno. Si tratta infatti di una struttura in mattoni aggettante rispetto alla parete laterale della torre, con un buco sul pavimento. Un ambiente molto semplice ma che ci restituisce un piccolo spaccato della vita di tutti i giorni. 

 

Continuando a salire all’interno della torre si arriva fino alla cima, nella quale oltre a poter godere di una splendida vista su Firenze troviamo alcune strutture difensive caratteristiche delle porte. La torre era infatti coronata da una merlatura guelfa, distrutta nel ‘500 e ricostruita trecento anni dopo ma che ancora oggi poggia sui beccatelli originali (fig. 7). Ci sono i piombatoi; aperture nel pavimento che permettevano ai soldati durante gli assedi di buttare sul nemico olio bollente, sassi o qualsiasi altro materiale di scarto che avessero avuto a disposizione. Questi venivano costruiti sul lato esterno della torre che era leggermente aggettante rispetto alla parete per rendere più efficace la loro funzione difensiva. 

 

La storia della porta a San Niccolò è assai lunga; utilizzata per anni durante gli assedi perse la sua funzione già alla metà del ‘500 ma tornò ad essere un punto di difesa durante la Seconda guerra mondiale. Non sappiamo molto della sua storia in quegli anni ma probabilmente venne usata come luogo di avvistamento dai soldati o dalla resistenza e venne colpita dagli spari nemici. Porta, infatti, ancora oggi sui merli dei buchi segno dei proiettili che la colpirono, raccontandoci un’altra storia. 

 

Note

[1] D. Moreni, Notizie istoriche dei contorni di Firenze. Parte quinta. Dalla Porta a S. Niccolò fino alla Pieve di S. Piero a Ripoli, Firenze 1794, ristampa anastatica, Soc. Multigrafica Editrice, Roma 1927, p. 1

[2] Questa datazione e questa attribuzione vengono proposte da A. Petrioli, F. Petrioli, 1333 Firenze dove passavano le ultime mura, edizioni Polistampa, Firenze 2017, p. 159.

[3] Ordinanza ufficiale citata in L. Artusi, Le antiche porte di Firenze. Alla scoperta delle mura che circondavano la città, Semper Editrice, Firenze 2005, p. 10.

 

 

 

 

Bibliografia

L. Anichini, Alle porte coi sassi. Storia e guida alle porte delle mura di Firenze, Nicomp, Firenze 2011.

L. Artusi, Le antiche porte di Firenze. Alla scoperta delle mura che circondavano la città, Semper Editrice, Firenze 2005.

F. Bandini, Su e giù per le antiche mura, Fratelli Alinari Edtrice, Firenze 1983. 

Comune di Firenze (a cura di), Porta San Niccolò, vol. 4 Itinerari sconosciuti, 

C. De Seta, J. Le Goff (a cura di), La città e le mura, Editori Laterza, Bari 1989. 

R. Manetti, M. C. Pozzana, Firenze: le porte dell’ultima cerchia di mura¸ Clusf, Firenze 1962.

D. Moreni, Notizie istoriche dei controni di Firenze. Parte quinta. Dalla Porta a S. Niccolò fino alla Pieve di S. Piero a Ripoli, Firenze 1794, ristampa anastatica, Soc. Multigrafica Editrice, Roma 1927. 

A. Petrioli, F. Petrioli, 1333 Firenze dove passavano le ultime mura, edizioni Polistampa, Firenze 2017.


IL MUSEO STIBBERT: LA NASCITA DELLA COLLEZIONE

A cura di Arianna Canalicchio

 

Nell'aprile del 1906 si spense nella sua villa di Montughi, nei pressi di Firenze, all'età di 68 anni, il cavalier Frederick Stibbert, lasciando precise disposizioni sull’apertura di quello che amava chiamare “il mio museo”. Nel testamento disponeva che la villa nella quale aveva vissuto e collezionato per oltre quarant’anni manufatti artistici di ogni genere, dovesse diventare un vero e proprio museo e che ne fosse affidata la proprietà e la gestione al governo britannico. Solo in caso di rinuncia sarebbe allora dovuta subentrare la Città di Firenze.

 

Frederick Stibbert era nato a Firenze nel 1838, il cui padre, Thomas Stibbert, era un colonnello inglese originario di Norfolk arrivato in Italia con le campagne antinapoleoniche. Dopo un primo soggiorno a Roma nel 1836, aveva deciso di stabilirsi a Firenze dove conobbe e sposò Giulia Cafaggi, di molti anni più giovane di lui e di origini piuttosto semplici; pare, infatti, che i due si fossero conosciuti durante la permanenza di Thomas nella pensione in Piazza Santa Trinita nella quale lavorava la donna. I due ebbero tre figli, Frederick, Erminia e Sofronia ma soltanto alcuni anni più tardi, nel 1842, decisero di sposarsi in modo tale che i figli venissero riconosciuti dalle leggi toscane come legittimi, anche se avuti prima del matrimonio. Il giovane Stibbert venne mandato ben presto a studiare a Cambridge ma dopo un lungo soggiorno in Inghilterra tornò, a partire dagli anni ‘50, a Firenze. Qui, nel frattempo, nel 1847 era morto il padre e la madre due anni più tardi aveva acquistato la villa sulla collina di Montughi, appena fuori dal centro di Firenze, dove si era trasferita con le due sorelle di Frederick. Erminia, però, morì nel 1859 a soli sedici anni mentre Sophronia sposò nel 1861 il conte Alessandro Pandolfini e si trasferì nella sua residenza in via San Gallo. 

 

Una volta rientrato a Firenze, Stibbert abbandonò subito l’idea di una carriera militare come avrebbe desiderato il padre, e decise di dedicarsi alla sua grande passione: il collezionismo. Grazie alla notevole fortuna della sua famiglia riuscì a mettere insieme quella che è considerata ancora oggi una delle collezioni di armi e armature tra le più rilevanti del mondo. Essendo lui il primogenito, al raggiungimento della maggiore età nel 1859, entrò in possesso del patrimonio del quale continuò sempre ad occuparsi con estremo impegno e grande intuito, riuscendo ad incrementarlo con abili operazioni finanziarie, favorite anche dalle contingenze storiche legate all’Unità d’Italia. Fin dagli anni '60 dell'Ottocento aveva cominciato ad acquistare pezzi antichi, armature e altri oggetti secondo il suo gusto personale. Dagli anni '80 cominciò, invece, a prendere forma l'idea di creare un vero e proprio museo all'interno della sua villa a Montughi, per cui si dedicò all'acquisto di oggetti mirati e alla catalogazione di tutte le opere già in suo possesso. 

 

Nel testamento, Stibbert, oltre ad affidare al governo britannico la sua collezione, lasciò un capitale di 800.000 lire per il mantenimento della villa e degli oggetti esposti al suo interno. Il governo inglese non tardò ad accettare facendosi carico dell'immobile, ma quando si rese conto che, per volontà testamentaria, la villa non poteva essere separata dal contenuto e quindi non sarebbe stato possibile portare fuori da Firenze l'immensa collezione di Stibbert, rinunciò all'incarico. La notifica della rinuncia arrivò con un atto datato 14 agosto 1906 e il governo inglese lasciò nelle mani del Comune di Firenze il compito di gestire la collezione e la villa. L’idea, esposta in maniera molto chiara da Stibbert, era che, nel giro di poco tempo, il villino con la collezione curata e allestita da lui fosse aperto al pubblico, così da permettere finalmente a studiosi e appassionati di conoscerla. Fino a quel momento, infatti, la collezione era stata visibile solo su invito del proprietario poiché si trovava, almeno in parte, in quella che continuava ad essere la sua abitazione. 

 

Il suo interesse principale era sempre stato la storia dell'abbigliamento e infatti acquistò armature di ogni genere ed epoca, ma a questo col tempo si aggiunsero anche nuovi interessi, come quello per quadri, arazzi, oggetti di arredo e di arte applicata. Stibbert amava esporre le sue opere in maniera estremamente scenografica tanto che si fece costruire da importanti artigiani fiorentini dei manichini di cavalli sui quali poter posizionare i manichini dalle sembianze umane con indosso le armature. Una caratteristica importante della collezione di Stibbert è il fatto che non si limitò ad uno studio di abiti o oggetti circoscritto al territorio europeo, ma il suo interesse era talmente vasto da portarlo a collezionare oggetti provenienti da tutto il mondo, come abiti orientali e una notevolissima raccolta di armature samurai. La collezione di armi di Stibbert divenne, in breve tempo, una delle più ricche al mondo e in costante aumento, ma soltanto pochi appassionati ne erano a conoscenza. Nessuno, infatti, tranne lo stesso Stibbert, prima della sua morte poteva dire con certezza quanto questa raccolta fosse ampia, poiché molte opere erano ammassate disordinatamente nelle stanze della villa.

 

Secondo alcuni studiosi, nell'aprile del 1906 la collezione doveva contare circa 36.000 pezzi, i più importanti dei quali erano già esposti all'interno della villa secondo percorsi evocativi attentamente studiati. Dopo la morte di Stibbert, il Comune di Firenze affidò all'architetto Alfredo Lensi il compito di riorganizzare e riordinare il museo in vista di una prossima apertura al pubblico. Venne anche creato un Consiglio di Amministrazione, così come chiesto da Stibbert. Nonostante le numerose resistenze del personale che aveva per anni lavorato alle dipendenze di Stibbert e che insisteva perché nessun pezzo della collezione venisse in alcun modo spostato o alterato, Lensi riordinò la collezione e la rese più facilmente accessibile e godibile. La prima parte della casa-museo venne aperta ai visitatori già a partire dal 27 aprile 1909, mentre tra il 1917 e il 1918 venne pubblicata la prima parte del catalogo del museo, dal titolo Il Museo Stibbert: catalogo delle sale delle armi europee, in due volumi e corredato di 237 tavole illustrative. 

Fin da subito, la nuova disposizione delle opere all'interno del museo piacque molto alla critica poiché le opere avevano ognuna il proprio spazio ed erano disposte in maniera, almeno a detta di Lensi, meno caotica rispetto al lavoro di Stibbert. In realtà si trattò di un riordino che, soprattutto a partire dagli anni '30, si rivelò piuttosto invadente e poco rispettoso di quelle che erano state le volontà testamentarie del collezionista. Lensi organizzò le opere in 67 sale andando ad alterare pesantemente la disposizione lasciata da Stibbert, soprattutto a discapito dei mobili ottocenteschi che vennero in gran parte spostati nei depositi. Soltanto a partire dal 1977, sotto la direzione di Lionello Boccia, il museo venne dotato di un buon sistema di illuminazione e tornò ad avere un aspetto più simile a quello che doveva avere nel 1906.

 

La collezione del Museo Stibbert è considerata ancora oggi una tra le più importanti d’Europa, con circa 50.000 oggetti, per la maggior parte frutto del nucleo originario lasciato da Stibbert e incrementata da alcuni doni e acquisti successivi. Stibbert, dunque, grazie alla sua capacità di controllare per circa cinquant’anni le offerte del mercato antiquario di tutta Europa, realizzò l’ambizioso progetto di trasformare la villa di Montughi nel “suo Museo”.

 

 

 

 

Bibliografia

E. Colle, S. Di Marco, Il collezionista di sogni, Electa Storie, Milano, 2016.

A. Lensi, Il Museo Stibbert: catalogo delle sale delle armi europee, Tipografia Giuntina, Firenze, 1917.

A. Lensi, Il Museo Stibbert a Firenze, in "Emporium", vol. XXXV, n. 208, aprile 1912, pp. 256-268.

A. Lensi, Quaderni di ricordi, Centro Stampa 2P, Firenze, 1985.

A. Lensi, Quaderni di ricordi 1871-1918, Centro Stampa 2P, Firenze, 1996. 

 

Sitografia

http://www.museostibbert.it/  (sito del Museo Stibbert)


ENZO PAZZAGLI E IL SUO PARCO D’ARTE CONTEMPORANEA PT II

A cura di Arianna Canalicchio

 

 

Nulla serve pensare se ciò che pensi si perde in te

 

AUTOPRESENTAZIONE

Tutto puoi trovare in te inaspettatamente

e può sovvertire il tuo modo di esistere.

[…]

Non cancellando

mai le proprie illusioni

che sono la forza della vita

permettendo così

di realizzare e materializzare

le proprie speranze.[1]

 

 

 

Situato alla periferia di Firenze, non lontano dalla stazione di Rovezzano, il parco d’Arte Contemporanea Enzo Pazzagli venne inaugurato dall’artista nel 2008 e accoglie gran parte delle sue sculture realizzate dagli anni ’70 fino al 2018. Sebbene inizialmente fosse stato pensato come una vera e propria galleria in cui invitare quasi esclusivamente ospiti ed acquirenti, ad oggi il parco è visitabile e lo spettatore è introdotto al lavoro dell’artista da una delle sculture forse più nota di Pazzagli e divenuta nel tempo l’icona del suo lavoro: il Pegaso (fig. 1). Commissionatogli nel 1975 come simbolo della Regione Toscana dall’onorevole Lelio Lagorio, primo a ricoprire la carica di presidente regionale, il Pegaso, alleggerito dagli inserti in plexiglass, sembra pronto a librarsi in cielo mentre la luce gioca con la superficie di metallo e i colori. Due versioni di questo lavoro si trovano esposte nel parco, una terza, cronologicamente l’ultima ad essere stata realizzata e considerata dall’artista come definitiva, si trova invece a Novoli, esposta nel giardino della sede della Regione.

 

A partire dalla fine degli anni ’70, il lavoro di Pazzagli cominciò ad essere sempre più diffusamente apprezzato, tanto che nel 1979 ottenne Il primo riconoscimento ufficiale e davvero significativo per la sua carriera: il premio Le Muse[2] per la scultura. Nello stesso anno il corrispettivo premio per la poesia venne invece assegnato a Mario Luzi. Molto importante per l’artista fu anche l’incarico nel 1983 di realizzare un altare per la chiesa di Santa Maria delle Grazie a Caprese Michelangelo, piccolo borgo in provincia di Arezzo di poco più di 1.000 abitanti, che nel 1475 aveva dato i natali a Michelangelo Buonarroti. Pazzagli realizzò l’opera Un paese racconta con la quale affronta il tema della sofferenza delle madri che pregano per il ritorno dei figli dalla guerra. È una preghiera carica di speranza ma profondamente sofferta, che da secoli si rinnova ogni volta che un conflitto allontana i figli da casa. Il tema della guerra torna anche in Omaggio al medico militare, scultura che si trova nel parco e che raffigura una sagoma pseudo-umana che porta le lunghe dita affusolate al volto in un urlo silenzioso che richiama alla memoria quello celebre dell’opera di Edward Munch. Se, dunque, nei primi anni ’80 troviamo dei temi importanti e profondi, non mancano però soggetti più leggeri: realizzò infatti una serie di ritratti-scultura per attori come Roger Moore, Monica Vitti, Luciano Salce e Ugo Tognazzi, che aveva avuto occasione di conoscere nella sua galleria di Punta Ala e con i quali intratteneva rapporti di amicizia.

 

Un lavoro molto delicato e poetico è Coppia con bambino (fig. 3), forse tra le sue sculture più astratte. L’opera raffigura le sagome di due persone, un uomo e una donna, con al centro il figlio, sovrastato da un cerchio, simbolo dell’unione generatrice della coppia. Tra le opere più significative del parco vi è sicuramente il Gran Concerto (fig. 4), che con i suoi 8,20 metri di altezza e diverse tonnellate di peso, è sicuramente la scultura più grande della collezione. Orientate verso l’alto, le lunghe barre metalliche che compongono l’opera rappresentano le linee del pentagramma sopra le quali tutte le componenti più piccole, circa 290 pezzi, scrivono la musica che darà vita al concerto. L’opera fu esposta per la prima volta nel 1995 per una mostra personale dello scultore tenutasi a Montevarchi, in provincia di Arezzo. A partire dagli anni ’90 realizzò anche dei veri e propri gruppi scultorei nei quali le diverse figure dialogano tra loro; nel parco sono esposti Conversazione in piazza e i Pellegrini per il Giubileo. La prima venne pensata ed esposta nel 1995 in una piazza di Arezzo e raffigura varie sagome, ognuna delle quali con un nome, come Vanitosa, Curiosa, Ciao, Allegria e altri, che dialogano tra loro proprio come un tempo si era soliti fare nelle piazzette di paese. Con questo lavoro Pazzagli ricorda proprio questa abitudine, a suo dire ormai morta nelle grandi città, di ritrovarsi alla fine della giornata nelle piazze per stare insieme e condividere un momento di incontro. Il gruppo fu la prima opera installata all’interno del parco dopo i lunghi lavori di bonifica e venne posizionato all’interno della scultura naturale Trinità, là dove i cipressi disegnano la bocca della maschera centrale. Nel giardino sono presenti, distribuiti tra gli alberi, anche alcune versioni più piccole delle sagome di Conversazione in piazza. Pazzagli lavorò spesso in serie, realizzando, come si vede in diversi altri esempi, sculture con lo stesso soggetto ma di dimensioni diverse o con differenti colori per gli inserti in plexiglass.

 

Il secondo gruppo di sculture, intitolato Pellegrini per il Giubileo, venne realizzato in occasione del Giubileo di Roma del 2000. L’opera era stata ultimata, in realtà, già l’anno precedente e dunque si trovava dal 1999 ad Arezzo. Lo scultore utilizza dei grandi tubi metallici di scarto che, aperti e posti verticalmente danno vita a quattro figure profondamente stereotipate. Da un lato Oriente, la sagoma blu con occhi a mandorla e macchina fotografica al collo, da un altro Occidente, l’uomo bianco vestito con lo smoking e il papillon, da un altro ancora Africa, una donna con in grembo un bambino e in fine Capellone, il ragazzo ribelle e contestatore dai capelli lunghi. Sono dunque quattro persone che dai quattro angoli del mondo convergono nel momento di unione a cui, secondo la fede cattolica, siamo chiamati dal Giubileo. Un’opera, dunque, che parla di amicizia e di condivisione in senso non soltanto cattolico ma ben più universale.

 

A partire dai primi anni 2000, dopo l’acquisto del terreno in cui aveva deciso di costruire il parco, Pazzagli cominciò a dedicarsi a una serie di lavori su scala più piccola, tornando a quelli che erano stati gli inizi della sua attività di scultore. Abbandonate le sagome alte diversi metri, lavorò al gruppo delle Particelle celesti (fig. 7). I riferimenti cosmici avevano da tempo caratterizzato le sue opere ma qui si uniscono con un altro dei temi centrali del suo lavoro: l’utilizzo di materiali poveri e soprattutto di avanzo. Le Particelle celesti sono infatti realizzate con elementi di scarto presi da Pazzagli nelle fonderie e uniti insieme dagli inserti in plexiglas. Sono delle strutture molto delicate e ne troviamo alcuni begli esempi, oltre che all’ingresso del parco, ancora una volta nella hall dell’Hotel Mediterraneo a Firenze. Accanto a una delle pochissime opere in pittura visibili realizzate da Pazzagli, troviamo infatti una serie piuttosto consistente di questi lavori donati dall’artista alla proprietà dell’Albergo.

 

Artista in parte dimenticato dopo la morte, Pazzagli continua ad essere conosciuto soprattutto a Firenze, Arezzo e nella provincia, grazie alla presenza di alcune delle sue sculture in piazze e rotonde e per lo stile ludico e facilmente riconoscibile, ma già uscendo dalla Toscana non sono in molti a conoscerlo. I motivi possono essere in realtà diversi: in un mondo in cui la scultura contemporanea sta andando sempre più verso immagini astratte, forse la sua opera così profondamente figurativa può risultare fuori tempo, eppure la lista di artisti che ancora oggi usano la figura è ben lunga. Penso che in tal senso possa aver avuto un peso la sua scelta di gestire personalmente i propri affari senza affidarsi a un gallerista, ma che, soprattutto, sia stato determinante lasciare tutto il suo lavoro all’interno del parco senza assicurarsi che qualcuno ne portasse davvero avanti il lato di galleria commerciale. Rimane comunque la possibilità di ammirare il parco e di muoversi tra le sue sculture apprezzandole nella natura, proprio così come lui avrebbe voluto.

 

 

 

Le foto qui presenti eccetto la numero 4 sono state scattate dall'autrice dell'articolo.

 

 

 

 

Note

[1] Parte della poesia di presentazione scritta da Enzo Pazzagli in occasione della mostra fiorentina a Palazzo Medici Riccardi del 2014. Cfr. Il grillo parlante è volato dal Parco d'arte E. Pazzagli al Parco di Pinocchio, catalogo della mostra a Palazzo Medici Ricciardi, Galleria delle Carrozze (12 aprile-5 maggio 2014), Industria grafica Valdarnese, Firenze 2014, p. 1.

[2] Il premio che ancora oggi viene consegnato dal Comune di Firenze venne istituito da Giuliana Plastino Fiumicelli nel 1965, quando era sindaco Giorgio La Pira. Si tratta di un riconoscimento assegnato a personalità che si sono distinte nei vari campi delle “muse”, dall’arte, alla scienza, alla poesia per arrivare fino a televisione e cinema. Tra i nomi più importanti che negli anni sono stati premiati ricordiamo Salvatore Quasimodo, Maria Callas, Ingrid Bergman, March Chagall, Gabriele Lavia, Enzo Cucchi e molti altri.

 

 

 

Bibliografia

La maggior parte delle informazioni sono tratte dagli appunti lasciati da Pazzagli come guida al suo parco d’arte.

Enzo Pazzagli: Trent’anni di scultura, catalogo della mostra al chiostro di Cennano - Museo Paleontologico, (25 marzo - 28 maggio 1995), Montevarchi (AR), 1995.

Il grillo parlante è volato dal Parco d'arte E. Pazzagli al Parco di Pinocchio, catalogo della mostra a Palazzo Medici Ricciardi, Galleria delle Carrozze (12 aprile-5 maggio 2014), Industria grafica Valdarnese, Firenze 2014.

Tommaso Paloscia, Enzo Pazzagli Spirito e Materia, Nuova grafica fiorentina, Firenze 1980.

 

CREDITI FOTOGRAFICI:

Fig. 1: Arianna Canalicchio

Fig. 2: Arianna Canalicchio

Fig. 3: Arianna Canalicchio

Fig. 4:

Fig. 5: Arianna Canalicchio

Fig. 6: Arianna Canalicchio

Fig. 7: Arianna Canalicchio

Fig. 8: Arianna Canalicchio


ENZO PAZZAGLI E IL SUO PARCO D’ARTE CONTEMPORANEA PT I

A cura di Arianna Canalicchio

 

Il Parco d'Arte Pazzagli

Nulla serve pensare se ciò che pensi si perde in te”

AUTOPRESENTAZIONE

Tutto puoi trovare in te inaspettatamente

e può sovvertire il tuo modo di esistere.

L’importante è credere anche se in modi diversi

credere in noi stessi e nel proprio io

affinché la volontà attutisca

il bene e il male della propria esistenza. […][1]

 

 

Pensato come vera e propria galleria all’aria aperta per accogliere ospiti e vendere opere, il Parco d'Arte Enzo Pazzagli, venne inaugurato nel 2008 per volere dell’artista. Pazzagli aveva acquistato il terreno nei pressi della stazione di Firenze Rovezzano intorno al 2001 e stando al suo racconto versava in condizioni piuttosto disastrose. Nei circa 15 mila mq la vegetazione era cresciuta indisturbata e le frequentazioni notturne non erano, come si suole dire, raccomandabili. Pazzagli impiegò diversi anni per dare forma al suo parco che progettò non soltanto come luogo in cui esporre i lavori ma anche come vera e propria scultura vivente; dopo la bonifica piantò i cipressi disegnando con la vegetazione una maschera con un viso sorridente centrale, vista frontalmente, e due volti di profilo che emergevano lateralmente tracciando il contorno della maschera centrale. L’installazione, intitolata Trinità (fig. 1), non è in realtà facilmente percepibile muovendosi all’interno del parco ma la si vede soltanto con un’immagine dell’alto. Pazzagli voleva veder crescere la sua scultura col passare degli anni e quindi creare un qualcosa che fosse in continua evoluzione. Per quanto non sia facile orientarsi all’interno dell’opera, sapendo della sua esistenza, siamo in realtà in grado di percepirne la composizione muovendoci nel parco; lo spettatore, magari aiutato dal disegno, riesce a rendersi conto di trovarsi nella bocca del viso centrale o di muoversi tra gli occhi. Il tema della trinità torna spesso nelle sue opere, non è dunque un caso che a formare i tre volti abbia piantato 300 cipressi a distanza di 3 metri l’uno dall’altro. È un numero che ritroviamo in alcune delle sue più significative sculture come I Tre Arlecchini o i Tre Pinocchi, in cui ripete sistematicamente la stessa figura, appunto per tre volte. È un numero che, nell’idea dell’artista, dona una certa ritmicità all’immagine ma che allo stesso tempo crea un equilibrio perfetto tra le forme con diversi riferimenti alla religione e al cosmo.

 

Nato a Pietraviva, in provincia di Arezzo, Pazzagli imparò l’arte di lavorare l’acciaio dal padre fabbro ferraio. Le sue opere sono infatti realizzate con lastre in acciaio, nichel o bronzo che taglia con la lancia termica e tratta poi con gli stessi protettivi che venivano usati nei cantieri navali per gli scafi delle barche. A partire dal 1987 comincia ad introdurre anche degli inserti colorati in plexiglas che si alternano alla severità dell’acciaio. Alla fine degli anni ’80, in alcuni casi, ha ripreso anche alcuni suoi lavori precedenti proprio per inserire il plexiglas ed ingentilirli. La scultura di Pazzagli è sicuramente molto ludica e giocosa con forme che appaiono morbide nonostante il materiale. I soggetti sono spesso di facile lettura ispirati a personaggi del mondo dei giochi, come nel caso di Spirito di Pinocchio o di fantasia, come Spaventapasseri (fig. 2) che ricorda E.T. l’extraterrestre, dell’omonimo film di Steven Spielberg del 1982, e con le sue forme morbide ben racconta l’essenza della scultura di Pazzagli.

 

Molto colorata e dalle forme plastiche è anche la sua pittura, bisogna però dire che non è affatto facile riuscire a trovare esposte in spazi pubblici opere su tela o carta. Le ragioni sono in realtà diverse, sicuramente è un mezzo che nella sua carriera artistica ha usato meno ma a questo si aggiunge anche il fatto che Pazzagli non ha mai effettivamente fatto affidamento su un gallerista che trattasse e vendesse le sue opere, ma ha sempre preferito gestire la cosa da solo, lasciando dunque alla sua morte soltanto il parco all’aperto e nessuno spazio chiuso, rendendo difficile l’esposizione di opere in pittura. Un esempio molto bello è visibile nella hall dell’Hotel Mediterraneo a Firenze ed è stato donato dall’artista alla proprietà insieme anche a diverse Particelle Celesti, opere in acciaio realizzate negli ultimi anni di carriera. Dai colori molto accesi il tratto di Pazzagli torna a disegnare quello che sembra un volto sorridente (fig. 4) e che ci riporta alla memoria la Trinità composta dai cipressi.

 

Pazzagli per quanto abbia sempre preferito gestire la vendita dei suoi lavori in maniera diretta, tra il 1970 e il 1980 aveva ben tre gallerie: una a Firenze, una a Roma e una più piccola a Punta Ala, località marina in provincia di Grosseto in cui amava passare l’estate. Diverse fotografie lo ritraggono proprio a Punta Ala accanto ad alcune delle sue sculture esposte nell’elegante porto in occasione della personale del 1988. Con gli anni però tutti i suoi lavori sono stati rimossi, l’ultimo, che ancora fino a un paio di anni fa rimaneva in una delle piazzette del porto, è Rapporto musicale tra vento e mare, scultura di più di 7 metri di altezza.

 

Uno dei suoi lavori più significativi è i Tre Arlecchini (fig. 5), scultura nota anche col nome I Tre Fratelli, in quanto omaggio alla sua famiglia. Realizzata nel 1966, si tratta della prima opera di grandi dimensioni dall’artista; Pazzagli fino a quel momento aveva infatti sempre lavorato su scala più piccola mentre adesso realizza tre sagome alte 2,30 m ciascuna, che, colte nel momento della danza, rappresentano la maschera di arlecchino. L’opera è stata realizzata intagliando con la lancia termica le sagome da una lastra d’acciaio, tecnica appresa alla bottega del padre fabbro ferraio, e successivamente bronzandole. Gli inserti colorati che vediamo oggi non facevano parte della scultura nel momento della sua realizzazione, sono stati infatti aggiunti solo successivamente. La prima scultura in cui utilizza il plexiglas è il Grillo Parlante (fig. 6) del 1987. L’opera raffigura l’animaletto della celebre fiaba di Collodi nel momento in cui Pinocchio, per non sentirlo più parlare, ha deciso di schiacciarlo con una martellata; si tratta di un lavoro in cui bene riusciamo a capire una delle caratteristiche principali della scultura di Pazzagli. L’artista toscano intagliava le lastre metalliche non soltanto disegnando delle forme col contorno, ma anche realizzando delle figure all’interno della lastra e dunque del corpo della scultura. Se osserviamo con attenzione il Grillo Parlante, vediamo che al suo interno le parti di metallo mancante disegnano due ballerini: lui con i piedi a terra che tiene lei mentre si piega all’indietro sospesa per aria. Con le parti sottratte dà quindi vita a una seconda scultura, dal titolo I Ballerini che venne esposta nel 1988 nella sua galleria di Punta Ala. Due versioni più piccole sono presenti anche nel parco (fig. 7) e ci aiutano a rintracciare all’interno del Grillo Parlante le due sagome.

 

L’opera dedicata al saggio animaletto della fiaba, a partire dal 2008, è diventata parte di una serie pensata dall’artista per il Parco di Pinocchio a Collodi. Sette statue, tra cui quella raffigurante la Fatina, il cane Melampo, a cui dà le sembianze del suo amato cagnolino, e quella dedicata a Pinocchio dentro la bocca della balena sono state collocate in uno spazio del giardino denominato “Spazio Pazzagli” ma ne esistono anche delle copie visibili nel parco fiorentino. Sempre di questa serie fa parte anche Spirito di Pinocchio che riprodotta in tre figure adorna il centro di una delle rotonde di Firenze. Pazzagli, per quanto forse non molto noto al di fuori del capoluogo toscano, con uno stile così facilmente riconoscibile e colorato, è un artista a cui i fiorentini sono affezionati e che ritorna con le sue sculture in molte delle piazze e delle rotonde della città.

 

La maggior parte delle informazioni sono tratte dagli appunti lasciati da Pazzagli come guida al suo parco d’arte.

 

 

 

Note

[1] Parte della poesia di presentazione scritta da Enzo Pazzagli in occasione della mostra fiorentina a Palazzo Medici Riccardi del 2014. Cfr. Il grillo parlante è volato dal Parco d'arte E. Pazzagli al Parco di Pinocchio, catalogo della mostra a Palazzo Medici Ricciardi, Galleria delle Carrozze (12 aprile-5 maggio 2014), Industria grafica Valdarnese, Firenze 2014, p. 1.

 

 

Bibliografia

Enzo Pazzagli: Trent’anni di scultura, catalogo della mostra al chiostro di Cennano - Museo Paleontologico, (25 marzo - 28 maggio 1995), Montevarchi (AR), 1995.

Il grillo parlante è volato dal Parco d'arte E. Pazzagli al Parco di Pinocchio, catalogo della mostra a Palazzo Medici Ricciardi, Galleria delle Carrozze (12 aprile-5 maggio 2014), Industria grafica Valdarnese, Firenze 2014.

  1. Paloscia, Enzo Pazzagli Spirito e Materia, Nuova grafica fiorentina, Firenze 1980.

IL LAGHETTO DELLE COLONNE A MAIANO. PITTORESCA E ROMANTICA PISCINA DI SIR JOHN TEMPLE LEADER

A cura di Arianna Canalicchio

 

 

Possessore fino dal MDCCCLV dei terreni limitrofi, il commendatore Giovanni Temple Leader acquistava nel MDCCCLXVII dal R. Demanio la cava detta delle Colonne ed ivi immettendo le acque del torrente Mensola riduceva nella forma presente il Laghetto delle Colonne e ne abbelliva i contorni costruendo il ponte, la torre, la fonte e i fabbricati vicini[1].

 

Così viene descritto e celebrato il romantico Laghetto delle Colone da Sir John Temple Leader che lo face realizzare nei suoi numerosi possedimenti acquistati a Maiano, nei pressi di Firenze.

 

Sir John Temple Leader, ricco e facoltoso nobiluomo londinese, nonostante la sua brillante carriera politica si interessò fin da subito alla storia e all’arte. Profondamente appassionato di pittura Tre-Quattrocentesca, abbandonò l’Inghilterra nel 1844 per trasferirsi a vivere prima a Cannes in Francia e poi in Italia. Nel 1850 acquistò la sua prima villa in Toscana, Villa Pazzi Tolomei a Maiano decidendo da quel momento di dedicarsi alla sua passione: lo studio e la valorizzazione delle colline fiesolane nei pressi di Firenze.[2] La seconda metà dell’800 fu un momento molto vitale per il capoluogo toscano, tantissimi inglesi, affascinati dalla città, considerata una sorta di paradiso in cui si univano arte, storia e un clima mite, vi si trasferirono. Solo per citarne alcuni, Frederick Stibbert, Seymur Kirkup, estroso artista e collezionista, William Rossetti, figlio del pittore Dante Gabriele, il collezionista Herbert Horne e lo storico dell’arte Bernard Berenson che scelse Firenze come sua residenza a partire dal 1900.

 

Nel 1850 Temple Leader acquistò anche l’antica Villa di Maiano che ristrutturò, ma il suo intervento più noto è sicuramente quello sul vicino Castello di Vincigliata[3]. Acquistato nel marzo del 1855 era ormai poco più che un rudere che lui fece ricostruite da capo a piedi in perfetto stile neogotico. Si trattò di un intervento veramente sorprendente con il quale il nobiluomo inglese volle provare a dare forma concreta al suo sogno cavalleresco. Scoperto forse per caso durante una passeggiata, il maestoso castello si presentava con le mura divorate dal tempo e dalla vegetazione ma ancora perfettamente in grado di rievocare nella mente dello studioso quelle atmosfere medievali descritte nei romanzi di Walter Scott.

 

Temple Leader acquistò terrenti tra Vincigliata e Maiano per un’estensione di circa 280 ettari, comprendenti le 40 cave di pietra che si trovavano nei dintorni. La zona di Maiano era infatti una sorta di grande cava di pietra serena che fin dai tempi di Michelangelo era stata usata per estrarre il materiale di alcuni dei più celebri monumenti della città. Secondo alcune fonti ottocentesche sarebbero arrivate da queste colline le pietre con cui venne data forma alla Loggia degli Uffizi, alla Cappella Gaddi in Santa Maria Novella e al coro della SS. Annunziata.[4] Pare, inoltre, che si sia recato sulle pendici di Maiano anche Michelangelo per scegliere le pietre per gli scalini della Biblioteca Laurenziana.

Dopo aver acquistato le cave, Temple Leader, decise di chiuderle tutte ad esclusione di due che gli servirono per estrarre la pietra per la ricostruzione del castello e delle mura che lo circondavano. Aiutato dall’architetto Giuseppe Fancelli e dall’esperto di idraulica e architettura ambientale, Alessandro Papini, Temple Leader iniziò un approfondito studio del terreno e decise di dar vita a un parco romantico. I lavori per rimboschire le pendici e aumentare i corsi d’acqua nelle sue proprietà iniziarono nel 1854. In breve tempo, quello che era un terreno ormai spoglio, divenne un vero e proprio bosco con alberi, rocce e torrenti. Nel cuore di questo giardino il nobiluomo volle crearsi uno stagno da usare come piscina naturale, fu così che nacque il Laghetto delle Colonne.

“La cava che ora il proprietario di Majano ha cambiata in bagno era fra le privilegiate e conosciuta come cava del Mulinaccio, da un mulino che le sta presso sulle dirupate e fronzute sponde della Mensola; ma più come cava delle colonne perché nel 1817 ne furono levate le colonne della Cappella dei principi in San Lorenzo”[5]così racconta lo storico Giuseppe Marcotti nel suo Fantasie di Majano pubblicato nel 1883. Come in una sorta di diario, Marcotti descrive le proprietà di Temple Leader fornendoci molte importanti informazioni che ancora oggi sono alla base dei principali studi sui suoi interventi.

 

Proprio come raccontato da Marcotti, la Cava nella quale Temple Leader fece costruire il suo laghetto venne utilizzata nel 1817 per dar vita alle colonne della Cappella dei Principi nella Basilica di San Lorenzo[6] da qui deriverebbe il nome stesso di Laghetto delle Colonne con cui è tutt’oggi conosciuto. Lucy Baxter, scrittrice inglese, ci riporta addirittura che i tagliapietre in quell’occasione furono Antonio Bartolini e Francesco Materassi, pagati quattro franchi al giorno. Durante i lavori però pare che sia crollato un grande pezzo di roccia uccidendo una delle persone che si trovavano sul posto, un tal Bulli, e rompendo la gamba di un signor Maiano, di cui però non abbiamo nessun’altra informazione. [7] Proprio a causa di questo incidente la cava venne chiusa e rimase tale per diversi anni, fino al 1833. In questa data, sotto la supervisione del capo tagliapietre Pietro Bartolini, forse figlio del precedente Bartolini, vennero cavate le pietre per la costruzione della nuova scalinata di Palazzo Pitti progettata dall’architetto Bernardo Poccianti. Suonano dunque estremamente azzeccate le parole della Baxter: “The bath is certainly ideal in beauty. But this is not all, for in this lovely hollow is contained a whole chapter of Florentine art history”[8].

Temple Leader riuscì a ottenere dal Demanio la storica Cava nel 1867. Lo spazio della cava divenne con il nuovo intervento un bacino per accogliere le acque del torrente Mensola che era stato deviato. L’idea di Temple Leader era di costruirsi una sorta di oasi in cui poter nuotare e accogliere i suoi amici. Interessante è sempre la descrizione di Marcotti: “Ora limpide acque dalle tinte azzurra o verdognola secondo l’ora del giorno, iridescenti d’argento quando il venticello ne accarezza la superficie, riempiono la grande vasca: a ponente paurose rocce di cupo colore, variegato dai grigi filoni dell’arenaria, si innalzano a picco e in qualche punto sporgono così da formare come l’ingresso d’una oscura grotta.”[9]

 

Marcotti non è però l’unico a descrivere il Laghetto delle Colonne, il romantico specchio d’acqua affascinò molti visitatori e ne abbiamo una bella descrizione in un articolo dal titolo Maiano, Vincigliata and Settignano pubblicato dal Barone Alfred de Reumont nell’agosto del 1875 sulla rivista tedesca “Allgemeine Zeitung”[10].

Del piccolo laghetto parla anche Lucy Baxter, scrittrice inglese che nel 1891 pubblica il suo resoconto del viaggio nella zona di Maiano e del Castello di Vincigliata, ospite del suo amico Sir Temple Leader. La Baxter si era trasferita a vivere a Firenze nel 1867 dopo il matrimonio con Samuel Thomas Baxter ed era conosciuta in molti dei più importanti centri culturali frequentati dalla comunità inglese. Come molti dei suoi lavori anche questo volume venne pubblicato con lo pseudonimo di Leader Scott. Il testo è ricco di descrizioni e racconta un’avventurosa passeggiata nel vasto parco che collega il Castello alla Villa di Maiano, accompagnata dal guardiacaccia: “[...] Still down, down to a deep gorge where the Mensola[11] comes tumbling amidst its crags, and crossing over it on the bridge built by Mr. Leader, we reach the bank of a little green lake, beneath great crags of rock, than hang above it, jagged, ragged, and projecting: and rich in sombre tints of brown and gray”[12]

Descrizione forse un po’ enfatizzata a causa dal momento avventuroso che termina però con un’immagine del laghetto più simile a quello che effettivamente appare e doveva apparire già al tempo. Eliminando il turbinio delle acque che si rompono sulle rocce, ritroviamo infatti un luogo solitario: “Its solitude is almost overpowering, - nothing to break the silence but the ripple of the Mensola over its stones, the faint rustle of the wind in the pine-woods opposite, or the swish of a bird’s wing as it flies in and out of his home in the great crags above”[13]

 

Le sponde del laghetto sono costituite da un lato dalla parete della cava con la pietra e alcune insenature e grotte artificiai usate, come appunto viene descritto, come “trampolini” per i tuffi o come spogliatoi (fig. 6). In una delle nicchie Temple Leader fece mettere una robbiana raffigurante una Madonna col Bambino, immagine votiva usata un tempo per proteggere dalle frane chi lavorava nelle cave. Dall’altro invece il nobiluomo inglese fece piantare un boschetto. Gli interventi di Temple Leader non si fermano qua; fece infatti edificare una torretta in stile neogotico (fig. 7) che sovrasta il laghetto e che ben si armonizza con la sua idea di parco romantico. Sulla torre spicca lo stemma congiunto della famiglia del nobile inglese e della moglie, Luisa Raimoni (fig. 8), mentre all’interno troviamo una sala decorata da Ruggero Focardi. L’interno non è purtroppo accessibile trattandosi ormai di una stanza di albergo, stando però a quanto scrive in tempi recenti la storica dell’arte Francesca Baldry, gli affreschi raffigurerebbero una copia della Primavera di Botticelli mentre dall’atro lato Vergini fanciulle che si bagnano nel laghetto silvestre con il Castello di Vincigliata alle spalle, soggetto che ben si addice al luogo e che si ispira al Ninfale fiesolano del Boccaccio.[14] La torre è collegata al resto del parco da un piccolo ponte che passa sopra il fiume Mensola. Intorno al laghetto Temple Leader fece costruire una casetta in legno che doveva servire come spogliatoio per le signore. Secondo le fonti del tempo pare che il gentiluomo si recasse tutti i giorni, solo o con degli amici, a nuotare nel suo “pelaghetto”. Poco distante dal lago si trova invece un’altra struttura fatta modificare dal nuovo proprietario ma che già esisteva ai tempi dell’utilizzo della cava; si tratta di una casetta usata dagli scalpellini come deposito degli attrezzi e che Temple Leader trasformò in una coffe-house. Per rendere più elegante l’ambiente fece anteporre all’ingresso un piccolo porticato di ispirazione cinquecentesca con colonne in pietra serena e decorò l’interno con tavolini e sedie così che i suoi ospiti dopo il bagno potessero consumare insieme pranzi o merende.

 

Uno degli ospiti sicuramente più noti e illustri del piccolo laghetto artificiale fu la Regina Vittoria d’Inghilterra che nell’aprile del 1893 fu accolta nella sua dimora da Temple Leader. Per quanto è improbabile che la regina abbia fatto il bagno nelle acque del lago, aveva sicuramente sostato all’interno della coffe-house e si era riposata nel tranquillo parco. La visita fu a tal punto significativa per il nobile inglese che la volle ricordare con una targa che recita: “Il di XII aprile MDCCCXCIII Vittoria Regina d’Inghilterra Imperatrice delle Indie con la figlia Beatrice Principessa, Enrico di Battemberg e seguito, qui sostava e deliziandosi della bellezza e tranquillità di questo laghetto ne faceva dei disegni nel suo Album di Ricordi”[15].

Il laghetto, come si legge nella targa, era piaciuto molto alla regina, tanto che decise di raffigurarlo in alcuni schizzi e disegni. La rivista inglese “The Illustrated London News” nel numero uscito il 6 maggio del 1893 dedica il frontespizio a un disegno firmato “A. Forestier” che raffigura la regina seduta con davanti un tavolino intenta ad ammirare il laghetto. L’immagine ci mostra fedelmente la torre e tutte le altre strutture intorno alla piscina mentre due gentiluomini con la tuba sono intenti ad osservarla.[16]

Con il suo laghetto Temple Leader si costruì un’oasi di pace in cui dare sfogo alla sua passione per il nuoto e allo stesso tempo rievocare le ambientazioni fiabesche del Boccaccio e quel romanticismo di ispirazione neogotica.

 

 

Note

[1] Targa fatta apporre dal proprietario Sir John Temple Leader nei pressi del laghetto.

[2] F. Baldry, John Temple Leader e il castello di Vincigliata. Un episodio di restauro e di collezionismo nella Firenze dell’Ottocento, Olschki, Firenze 1997, pp. 11-21.

[3] Antico castello un tempo proprietà dei Visdomini e degli Alessandri. Le mura vennero abbattute nel 1364 ma subito ricostruite dagli Alessandri. Sir Temple Leader dopo l’acquisto decise di affidare i lavori di restauro all’architetto Giuseppe Fancelli che si era formato presso Gaetano Baccani (architetto del Torrino del Giardino Torrigiani); il giovane architetto morì però nel 1867 a lavori non ancora ultimati. La bibliografia sul Castello di Vincigliata è molto ampia si vedano ad esempio: F. Guerrieri, Il Palazzo Temple Leader in Firenze, Alinea, Firenze 1991 e R. Innocenti, Storia e magnificenza di John Temple Leader, “Verde Domani”, I, 1991, pp. 9-10.

[4] G. Marcotti, Simpatie di Majano, Tipografia di G. Barbera, Firenze 1883, p. 75

[5] Ivi, p. 77.

[6] La Cappella, adiacente alla Chiesa di San Lorenzo, è conosciuta per le sue decorazioni ad intarsio in marmi policromi e pietre dure che ne rivestono pareti e pavimento.  Si tratta della seconda cupola di Firenze per dimensioni ed accoglie i grandi sarcofagi, realizzati in granito, di sei Granduchi di Toscana. La cappella era stata pensata già da Cosimo I che ne aveva affidato il progetto al suo architetto di fiducia: Giorgio Vasari. Il progetto non prese però mai avvio a causa della morte, quasi coeva dei due. Sarà solo il figlio, Ferdinando I che dopo una serie di concorsi scelse nel 1604 il progetto proposto da Don Giovanni, figlio naturale e riconosciuto di Cosimo I. La bibliografia sulla Cappella dei Principi è molto vasta, si veda ad esempio: U. Baldini, A. Giusti, A. Pampaloni Martelli (a cura di), La Cappella dei Principi e le pietre dure a Firenze, Electa, Milano 1979.

[7] L’episodio è descritto in: L. Scott, Vincigliata and Maiano, G. Barberà, Siena 1891, p. 153.

[8] “Lo specchio d’acqua è certamente di una bellezza ideale. Ma non è tutto perché in questo adorabile incavo è contenuto un intero capitolo della storia di Firenze”.  Ivi, p. 152.

[9] Marcotti 1883, p. 77.

[10] L’articolo è online sul sito della Biblioteca di Stato bavarese https://opacplus.bsb-muenchen (consultata il 20/01/2022)

[11] Si riferisce al fiume Mensola dal quale venne creato artificialmente il Laghetto.

[12] “[…] Ancora giù, giù fino a una profonda gola dove il Mensola arriva a ruzzolare tra le sue rocce, e attraversandolo sul ponte costruito dal signor Leader, raggiungiamo la riva di un piccolo lago verde, sotto grandi rocce a precipizio, che pendono sopra di esso, frastagliate e sporgenti: e ricche di tinte cupe di marrone e grigio". Scott, 1883, p. 152.

[13] “La sua solitudine è quasi opprimente – niente che rompa il silenzio se non l’incresparsi del Mensola contro le rocce e il debole fruscio del vento nelle pinete di fronte, o lo sbattere dell'ala di un uccello che vola dentro e fuori dalla sua casa nelle grandi insenature rocciose di sopra". Ivi, p. 153.

[14] Baldry 1996, p. 102.

[15] Targa commemorativa di dedica alla regina Vittoria.

[16] Frontespizio di “The Illustrated London News” del 6 maggio 1893, online presso https://www.britishnewspaperarchive.co.uk/ The British Newspaper Archive (consultato il 28/01/2022)

 

 

 

Bibliografia

Baldini, A. Giusti, A. Pampaloni Martelli (a cura di), La Cappella dei Principi e le pietre dure a Firenze, Electa, Milano 1979.

Baldry, John Temple Leader e il castello di Vincigliata. Un episodio di restauro e di collezionismo nella Firenze dell’Ottocento, Olschki, Firenze 1997.

Marcotti, Simpatie di Majano, Tipografia di G. Barbera, Firenze 1883

Scott, Vincigliata and Maiano, G. Barberà, Siena 1891.

 

Sitografia

Biblioteca di Stato bavarese - https://opacplus.bsb-muenchen

The British Newspaper Archive - https://www.britishnewspaperarchive.co.uk/

Sito della Fattoria di Maiano - https://www.fattoriadimaiano.com/


LE RAMPE DI GIUSEPPE POGGI: DA “OPERA DI PURO LUSSO” A PATRIMONIO UNESCO. PARTE III: IL MODERNO RESTAURO

A cura di Arianna Canalicchio

 

 

«Sarà restituito alla città uno dei suoi luoghi più amati e suggestivi; fiorentini e turisti potranno riscoprire uno dei tratti più imporranti della “promenade” ideata dall'architetto Poggi. Sarà un restauro accurato, in linea con quello che si sta facendo per conciliare tutela e valorizzazione del patrimonio. Non dimentichiamo il valore storico, oltre che monumentale, delle Rampe»[1].

Queste le parole della vicesindaca di Firenze, Cristina Giachi, all’indomani dell’inizio dei lavori di ristrutturazione delle Rampe nel luglio del 2018. La così detta “passeggiata in carrozza del Re”[2], realizzata dall’architetto Giuseppe Poggi nel periodo dei lavori di ingrandimento per Firenze Capitale, nel corso degli anni, aveva raggiunto uno stato di deterioramento davvero preoccupante. Viste le condizioni si era reso quindi assolutamente necessario un intervento che mettesse un freno a questo fenomeno, impedendo che la situazione divenisse irrecuperabile.

Il grande complesso di fontane e scalinate che scendendo per il monte di San Minato arriva fino alla riva del fiume Arno, per evidenti ragioni, nel corso degli anni aveva cominciato a deteriorarsi in maniera preoccupante; la vegetazione era cresciuta in modo incontrollato coprendo ben presto buona parte della suggestiva decorazione mosaicata e a incrostazioni, mentre le fontane avevano finito per essere disattivate quasi subito. Dunque, il restauro avviato nel luglio del 2018 si era reso assolutamente necessario per porre un freno allo stato di degrado. Dopo un totale di circa 27.000 ore di lavoro l’intervento è effettivamente riuscito a riportare alla luce l’originaria composizione delle Rampe e ha rimesso nuovamente in moto il sistema di acqua delle fontane. L’intervento, in sintesi, si è basato su tre punti fondamentali: il restauro conservativo delle componenti architettoniche e materiche (le grotte e le vasche), la realizzazione del nuovo impianto idrico per rimettere in funzione le fontane e il riordino della parte vegetale che negli anni era cresciuta in maniera incontrollata ricoprendo quasi del tutto le fontane.[3]

 

Per avere un effettivo ordine di grandezza sull’importanza dell’intervento basti pensare che il lavoro di restauro è costato nel complesso circa 2,5 milioni di euro e ha comportato la rimozione di ben 100 quintali di materiali infestati e il ricollocamento di circa 1.200 piante.[4]

Per poter intervenire sulle componenti architettoniche come prima cosa è stato necessario rimuover la vegetazione. Solo a questo punto i restauratori hanno potuto consolidare e reintegrare le parti mancanti delle fontane e delle grotte. Per la parte mosaicata, realizzata in ciottoli di fiume bianchi e neri, che caratterizza la decorazione della grande cascata trapezoidale che si trova al livello più alto, si sono resi necessari dei reintegri per alcuni tasselli mancanti, mentre sono stati messi in sicurezza quelli ancora in buono stato. Inoltre è stata rifatta l’impermeabilizzazione di tutte le vasche, sostituendo quella ottocentesca con strati di malta cementizia e utilizzando nuovi materiali sicuramente più all’avanguardia.

 

Molto importante è stato anche l’intervento all’impianto idrico che ha permesso di rimettere in moto il sistema di cascate e vasche con una portata di acqua che lo stesso Poggi non aveva mai visto ma che si sarebbe tanto auspicato. Le fontane, infatti, erano originariamente alimentate a gravità grazie a un serbatoio appositamente dedicato e collocato qualche decina di metri più in alto rispetto a Piazzale Michelangelo. Pare però che inizialmente la portata dell’acqua fosse molto scarsa, soprattutto in proporzione alle dimensioni delle fontane e che l’effetto fosse quindi piuttosto brutto. È lo stesso Poggi a lamentarsi in una lettera nel 1876, chiedendo al Comune che venisse in qualche modo aumentata la portata dell’acqua così da rendere giustizia all’armoniosità del suo lavoro. Ma il sistema idrico fiorentino presentava all’epoca non pochi problemi e il Comune. ritenendo, a ragion veduta, più utile riuscire a far arrivare l’acqua in maniera sufficiente alla città, decise di non far fronte alla richiesta dell’architetto, nonostante le sue insistenze. Effettivamente alla città mancava un acquedotto in grado di provvedere a soddisfare la richiesta di acqua potabile, motivo per cui, proprio di fronte alla torre di San Niccolò, ai piedi delle Rampe, venne costruita la così detta Fabbrica dell’Acqua (Fig. 5), ovvero il primo acquedotto moderno di Firenze.

 

Il terzo punto del restauro è stato quello dedicato allo studio e al ripristino della vegetazione. Per quel che aveva riguardato le scelte botaniche che dovevano fare da corredo e da abbellimento alle Rampe e al viale dei Colli, il Poggi si era affidato ad Attilio Pucci, personaggio di grande esperienza e futuro Soprintendente dei Pubblici Giardini e Passeggi della città di Firenze. Figlio di Angiolo Pucci, già giardiniere granducale alla villa medicea della Petraia e a Boboli, Attilio, nel 1867, all’età di 51 anni e nonostante fosse già in pensione, condusse lavori per le nuove piantagioni nel viale dei colli dando così inizio alla duratura e assai proficua collaborazione col Poggi. Il Pucci fornì all’architetto preziosi consigli e di fatto prese in mano da solo le redini della decorazione naturale delle fontane di tutto il complesso.

In una lettera del 2 febbraio 1877, riportata da Poggi nel suo resoconto del 1882, il Pucci annunciava che la decorazione delle cinque grotte al secondo livello era oramai conclusa. È dunque chiaro che i lavori alla flora andarono in realtà avanti anche dopo l’inaugurazione del complesso, avvenuta nel settembre del 1875. Dagli scambi epistolari è possibile inoltre dedurre che le piante utilizzate per la decorazione furono per lo più alberi e arbusti sempreverdi, anche se nessun documento dell’epoca ci informa in maniera precisa su quelle che furono le scelte del Pucci. Non abbiamo quindi un resoconto o una lista delle specie piantate e la questione non era mai stata trattata in modo scientifico fino al 2001. In quell’anno prese avvio uno studio sulle piante presenti nelle Rampe e nella zona del viale dei Colli; secondo questo studio sarebbero ben 36 le specie presenti, tra alberi e arbusti sempreverdi e 25 tipi differenti di alberi e arbusti caducifogli. Questa prima analisi della flora è stata ripresa e approfondita in occasione del restauro iniziato nel 2018, affiancata ad un’attenta analisi dei trattati di botanica dell’epoca, consultati per capire quali fossero considerate, a quel tempo, le piante effettivamente più adatte da collocare in un ambiente semi-acquatico come quello delle fontane lungo le Rampe. Il restauro, infatti, voleva riportare le piante originali, restituendo non solo le forme architettoniche ma anche l’aspetto naturalistico del complesso monumentale.

 

L’ultimo capitolo della storia delle Rampe del Poggi, almeno fino ad oggi, riguarda dunque il loro recente ingresso nel perimetro del centro storico fiorentino considerato Patrimonio Mondiale UNESCO. L’aggiunta, avvenuta nel luglio 2021 durante la quarantaquattresima sessione del Comitato per il Patrimonio Mondiale dell’UNESCO, tenutasi a Fuzhou in Cina, ha fatto sì che il sito del centro storico di Firenze, già presente nella lista dal 1982, subisse un notevole ingrandimento. La nuova zona comprende adesso l’Abbazia di San Miniato al Monte, la Chiesa di San Salvatore al Monte, il Giardino delle Rose, quello degl’Iris, Piazzale Michelangelo e infine proprio le Rampe del Poggi, che, citando un altro intervento fiorentino di fine ‘800, sono state “da secolare squallore a vita nuova restituite”[5].

 

 

 

Note

[1] Citato in Al via il restauro delle Rampe del Poggi grazie a quasi due milioni di euro erogati da Fondazione CR Firenze. Il progetto è il regalo alla città della Fondazione per i suoi 25 anni di storia, comunicato stampa di inizio lavori, 24 luglio 2018. Online presso https://www.fondazionecrfirenze.it (consultato il 30/01/2021).

[2] Citato in M. Cozzi (a cura di), Le rampe del Poggi. Storia e recupero, volume realizzato per la conclusione del progetto “Il grande Restauro delle Rampe del Poggi”, Mandragora, Firenze 2019, p. 45.

[3] Un resoconto dettagliato dell’intervento è presente in M. Cozzi (a cura di), Le rampe del Poggi. Storia e recupero, volume realizzato per la conclusione del progetto “Il grande Restauro delle Rampe del Poggi”, Mandragora, Firenze 2019 e nel documentario Il Grande restauro delle Rampe: il documentario, presente su YouTube.

[4] I dettagli e i conti sono riportati nel sito della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze https://www.fondazionecrfirenze.it (consultato il 26/10/2021)

[5] Si tratta di una citazione dalla scritta incisa sull’arco di trionfo costruito in piazza della Repubblica a Firenze. La piazza venne costruita proprio in occasione della nomina di Firenze a Capitale del Regno d’Italia, radendo però completamente al suolo tutta la zona dell’ex-mercato vecchio.

 

 

 

Bibliografia

Cozzi (a cura di), Le rampe del Poggi. Storia e recupero, volume realizzato per la conclusione del progetto “Il grande Restauro delle Rampe del Poggi”, Mandragora, Firenze 2019.

Maccabruni, P. Marchi, Una capitale e il suo architetto. Eventi politici e sociali, urbanistici e architettonici. Firenze e l’opera di Giuseppe Poggi, catalogo mostra per il 150° anniversario della proclamazione di Firenze a Capitale del Regno d’Italia, Archivio di Stato di Firenze, 3 febbraio – 6 giungo 2015, Edizioni Polistampa, Firenze 2015.

Paolini, Il sistema del verde. Il Viale dei Colli e la Firenze di Giuseppe Poggi nell’Europa dell’Ottocento, Quaderni del servizio educativo, Edizioni Polistampa, Firenze 2004.

Poggi, Ricordi della vita e documenti d’arte. Per cura dei nipoti, con prefazione di Isidoro del Lungo, Bemporad e Figlio, Firenze 1909.

Poggi, Sui lavori per l’ingrandimento di Firenze (1864-1877), Tipografia Barberà, Firenze 1882.

 

Sitografia

https://www.fondazionecrfirenze.it - Sito Fondazione Cassa di Risparmio Firenze

https://en.unesco.org/ - sito UNESCO


LE RAMPE DI GIUSEPPE POGGI: DA “OPERA DI PURO LUSSO” A PATRIMONIO UNESCO PT. II

A cura di Arianna Canalicchio

 

Tra problemi e critiche

“Natura ed arte unite insieme non potevano ideare una situazione più incantevole, una passeggiata più deliziosa di questa”[1].

Così Guido Carocci, celebre cronista fiorentino, descrive nella sua guida sui dintorni della città le appena concluse Rampe di Giuseppe Poggi. Quella del Carocci fu però una delle poche voci che si alzarono in difesa del lavoro dell’architetto, accusato di aver fatto un’opera “di puro lusso”[2], senza una reale utilità pratica, una “passeggiata in carrozza del Re”[3] costata una discreta cifra al Comune. 

 

Il lavoro di Poggi fu innegabilmente molto dispendioso ma allo stesso modo utile e non soltanto frutto di una ricerca a fini estetici e decorativi. Stando ai conti dell’architetto, i lavori per l’ingrandimento di Firenze, fatti a partire dal 1865 in occasione della sua nomina a capitale del Regno d’Italia, costarono al Comune circa 33 milione e mezzo di lire, di cui 15 milioni per gli effettivi lavori di abbattimento delle mura e di costruzioni delle nuove parti di città e i restanti 18 milioni per gli espropri.[4] Di questi 15 milioni, ben 2.582.000 di lire servirono unicamente per la realizzazione di Piazzale Michelangelo, delle rampe e del viale dei Colli, l’elegante strada che collega il piazzale con un lato e l’altro della città. Se si aggiunge anche la somma stimata per gli espropri in questa specifica zona il totale degli interi lavori ammontava a circa 3 milioni e mezzo di lire. Scendendo invece nello specifico, il costo dei lavori per le Rampe fu stimato intorno alle 298.773,95 lire.[5]

L’elevato costo dei lavori destò non poco scalpore tra i cittadini e tra gli stessi funzionari comunali. Il progetto del Poggi risultava effettivamente molto ampio, anche più di quanto non fosse realmente necessario, soprattutto alla luce del fatto che la capitale era già stata spostata a Roma. Come racconta l’architetto, al momento della fine dell’esperienza del capoluogo toscano come capitale, la motivazione addotta per riuscire comunque a portare avanti i lavori, che di fatto erano a metà, si fondava sulla necessità di tener conto anche di futuri ingrandimenti. Nel caso di alcuni interventi, tra cui proprio le Rampe, in molti non riuscirono ad andare oltre la forte apparenza estetica finendo per non coglierne l’effettiva utilità. In breve tempo si guadagnò l’appellativo dispregiativo di “passeggiata in carrozza del Re”[6]. Lo stile del Poggi infatti, non soltanto in questa zona di città ma nel complesso di tutti i suoi interventi, risulta sempre caratterizzato da una forte impronta neoclassica ed estetizzante; le Rampe nascevano come passeggiata suburbana nel verde, di carattere estremamente ottocentesco e non come una semplice via di congiunzione tra due parti di città Tra i sostenitori del suo progetto troviamo il già citato Guido Carocci, all’epoca giovane cronista, e Franco Borsi, architetto e storico dell’architettura, che dedicò, alcuni anni più tardi, dei volumi allo studio del suo piano urbanistico, all’interno dei quali definì Poggi

“l’unico urbanista moderno che Firenze avesse mai avuto”[7].

 

Dietro al lavoro delle Rampe si celava però anche un motivo tecnico, trattandosi infatti di un vero e proprio intervento di consolidamento della collina di San Miniato. Poiché questa era da tempo soggetta a smottamenti e fenomeni franosi, l’ultimo dei quali, nel 1853, aveva gravemente danneggiato la chiesa di San Salvatore al Monte, si era ormai reso necessario un intervento tecnico. Già a quel tempo Poggi aveva preso parte, insieme a Gaetano Bianchi, Luigi Passerini e Pasquale Poccianti alla commissione incaricata di trovare una soluzione al problema di stabilità della collina; dunque, era perfettamente a conoscenza delle criticità del posto. Tornato a lavorarci alla fine degli anni ’60 dell’800 ne fece uno dei punti chiave del suo intervento, cercando delle soluzioni con l’aiuto dello storico e archivista Cesare Guasti. I grandi muraglioni delle Rampe vennero quindi pensati per rafforzare la collina e frenare le spinte franose, rendendo maggiormente sicuro il versante.

Il progetto delle Rampe doveva quindi essere considerato in primo luogo come un intervento tecnico di consolidamento delle pendici della collina, nel corso del quale, tuttavia, Poggi non rinunciò ad aggiungere una componente più prettamente estetica nella decorazione dei muraglioni. Eppure, l’opinione pubblica criticò pesantemente il lavoro, tanto che l’architetto fu costretto a giustificarsi nel suo resoconto sui lavori del 1882: “È vero che questi rivestimenti e decorazioni apparvero un lavoro di lusso; ma trattandosi di opere pubbliche, poste in posizione e condizioni speciali, era una necessità per l’artista che le dirigeva da presentarle in modo da conseguire il duplice risultato della solidità e dell’effetto estetico”[8].

Del resto, secondo l’architetto la ricerca di un connubio tra utilità ed estetica nelle costruzioni architettoniche era da considerarsi di fatto una prerogativa dell’arte italiana da molti secoli. Dunque, non doveva mancare una ricerca estetica neanche in casi in cui il lavoro avesse come scopo primo quello tecnico e funzionale. Un lavoro “non di lusso davvero, ma di necessità”, scriveva Poggi, che non per questo doveva essere misero o brutto.

 

Già in un rapporto per l’Amministrazione Municipale datato 1870 Poggi aveva riportato, a giustificazione del suo intervento, il giudizio di alcuni illustri artisti-ingegneri che nei secoli avevano avvertito dell’instabilità del colle; tra questi spiccano il commento espresso da Leonardo da Vinci, quello di Giuliano da Sangallo e quello di Jacopo del Pollaiolo. Prima della realizzazione delle Rampe presero quindi avvio i lavori di consolidamento che vennero affidati alle ditte Lazzeri e Ciampi, entrambe già al servizio di Poggi per la costruzione del viale dei Colli. Le due ditte, come si legge nel contratto, firmarono successivamente anche il progetto per la costruzione delle Rampe, datato 20 luglio 1872 con il quale si impegnavano a concludere il lavoro in appena due anni anche se l’inaugurazione avvenne solo nel settembre 1975.

 

Per quanto sia stato il protagonista assoluto dei lavori inerenti agli ampliamenti in occasione di Firenze capitale, Poggi non ha mai goduto di particolare stima tra i fiorentini, né durante né tantomeno dopo la conclusione degli interventi. Forse per le ingenti spese, forse per il suo gusto ancora troppo legato a un’estetica neoclassica o più probabilmente per l’imperdonabile fatto di aver abbattuto le mura a cui i fiorentini erano tanto attaccati, il suo lavoro di architetto è rimasto per anni decisamente sottostimato.

 

 

Note

[1] G. Carocci, I dintorni di Firenze. nuova guida illustrazione storico-artistica, tipografia Calletti e Cocci, Firenze 1881, p. 237.

[2] Citato in G. Morolli, La città giardino di Giuseppe Poggi. Dal “Quartiere di collina” al “Viale dei Colli”, in F. Petrucci (a cura di), Il disegno della città. L’urbanistica a Firenze nell’Ottocento e nel Novecento, catalogo della mostra Firenze, novembre-dicembre 1986, Alinea Editrice, Firenze 1986, p. 67.

[3] Citato in M. Cozzi (a cura di), Le rampe del Poggi. Storia e recupero, volume realizzato per la conclusione del progetto “Il grande Restauro delle Rampe del Poggi”, Mandragora, Firenze 2019, p. 45.

[4] Il conto è riportato da Poggi in G. Poggi, Ricordi della vita e documenti d’arte. Per cura dei nipoti, con prefazione di Isidoro del Lungo, Bemporad e Figlio, Firenze 1909, p. 17.

[5] Tutti i conti sulle specifiche spese sono riportati in G. Poggi, Sui lavori per l’ingrandimento di Firenze (1864-1877), Tipografia Barberà, Firenze 1882 p. 157.

[6] Citato in Cozzi 2019, p. 45.

[7] F. Borsi, La capitale a Firenze e l’opera di G. Poggi¸ Colombo Editore, Roma 1970, p. 67.

[8] Poggi 1882, p.144.

 

 

Bibliografia

Borsi, La capitale a Firenze e l’opera di G. Poggi¸ Colombo Editore, Roma 1970.

Carocci, I dintorni di Firenze. nuova guida illustrazione storico-artistica, tipografia Calletti e Cocci, Firenze 1881.

Cozzi (a cura di), Le rampe del Poggi. Storia e recupero, volume realizzato per la conclusione del progetto “Il grande Restauro delle Rampe del Poggi”, Mandragora, Firenze 2019.

Maccabruni, P. Marchi, Una capitale e il suo architetto. Eventi politici e sociali, urbanistici e architettonici. Firenze e l’opera di Giuseppe Poggi, catalogo mostra per il 150° anniversario della proclamazione di Firenze a Capitale del Regno d’Italia, Archivio di Stato di Firenze, 3 febbraio – 6 giungo 2015, Edizioni Polistampa, Firenze 2015.

Paolini, Il sistema del verde. Il Viale dei Colli e la Firenze di Giuseppe Poggi nell’Europa dell’Ottocento, Quaderni del servizio educativo, Edizioni Polistampa, Firenze 2004.

Petrucci (a cura di), Il disegno della città. L’urbanistica a Firenze nell’Ottocento e nel Novecento, catalogo della mostra Firenze, novembre-dicembre 1986, Alinea Editrice, Firenze 1986.

Poggi, Ricordi della vita e documenti d’arte. Per cura dei nipoti, con prefazione di Isidoro del Lungo, Bemporad e Figlio, Firenze 1909.

Poggi, Sui lavori per l’ingrandimento di Firenze (1864-1877), Tipografia Barberà, Firenze 1882.


LE RAMPE DI GIUSEPPE POGGI: DA “OPERA DI PURO LUSSO” A PATRIMONIO UNESCO. PARTE I: I LAVORI DI COSTRUZIONE

A cura di Arianna Canalicchio

 

 

“[…] Le Rampe che dalla Piazza San Niccolò montano al Piazzale Michelangelo, rendono sodiva quasi tutta la superficie chiusa dalle antiche fortificazioni e spiovente verso l’Arno, col gran vantaggio di rendere più ferme le zone più mobili del terreno. E se alcuni di questi muraglioni a sostegno furono rivestiti di pietra, se furono disposti in forma di arcate e grotte, e decorati con spugne per far giocare gli avanzi delle acque del piazzale superiore nei sottostanti bacini, non per questo la funzione di quei muri cessò, o divenne meno importante”[1].

 

Così l’architetto Giuseppe Poggi descrive nel 1882 il suo lavoro appena concluso, quella serie di costruzioni che prendono il nome di Rampe e che scendendo da Piazzale Michelangelo lo collegano alla città.

 

A Fuzhou, in Cina, si è tenuta, lo scorso luglio, la quarantaquattresima sessione del Comitato per il Patrimonio Mondiale dell’UNESCO durante la quale, per la prima volta in modo virtuale, la commissione ha passato al vaglio le muove candidature all’inserimento nella lista, sia per il 2020 sia per il 2021. Proprio in questa occasione, oltre ai nuovi ingressi italiani (gli affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova, i portici di Bologna e Montecatini Terme) è stato decretato l’ampliamento del perimetro della zona del centro storico di Firenze considerata patrimonio UNESCO. Il capoluogo toscano aveva ottenuto il riconoscimento già nel 1982 essendo considerata, come si legge nelle motivazioni, “[…] a unique artistic realization, an absolute chef-d’œuvre, the fruit of continuous creation over more than six centuries. […]  the greatest concentration of universally renowned works of art in the world is found here”[2]. L’area inizialmente compresa abbracciava il centro storico fino ad arrivare a Palazzo Pitti, mentre in seguito ai recenti lavori del Comitato sono stati ufficialmente aggiunti anche i principali siti di interesse culturale della zona dall’altro lato del fiume Arno, ovvero l’Abbazia di San Miniato al Monte, la Chiesa di San Salvatore al Monte, il Giardino delle Rose, quello degl’Iris, Piazzale Michelangelo e le Rampe del Poggi, che, tanto criticate dai suoi contemporanei, solo adesso ottengono il loro riscatto. Quel lavoro considerato per anni un’opera puramente estetica ma di poco conto e di scarsa utilità, entra adesso a pieno titolo, proprio accanto a San Miniato e al centro storico fiorentino, tra i monumenti del patrimonio mondiale.

 

 

Le Rampe, ovvero la strada che tra fontane, scalinate e vegetazione, collega Piazzale Michelangelo a Piazza Poggi e al Lungarno, hanno per anni diviso i fiorentini tra chi le apprezzava e chi le riteneva un’opera dispendiosa e di fatto fine a sé stessa. Il lavoro rientra nel piano urbanistico realizzato in occasione della nomina di Firenze a Capitale del Regno d’Italia. Il capoluogo toscano era all’epoca una piccola città ancora praticamente tutta chiusa all’interno della trecentesca cinta muraria, ma col nuovo incarico il Comune si vide costretto a dare il via a un piano di ampliamento e ammodernamento che comportò, tra le altre cose, il quasi completo abbattimento di quelle stesse mura. L’obiettivo era quello di cercare di portare Firenze al livello urbanistico delle altre capitali europee come Parigi, Londra e la stessa Torino.

Il progetto venne affidato a Giuseppe Poggi, nato a Firenze il 3 aprile del 1811, che, come scrive nei suoi Ricordi, aveva deciso di intraprendere la carriera di ingegnere-architetto per via della sua profonda avversione allo studio del latino. Il 22 novembre del 1864, quando il gonfaloniere cavalier Giulio Carobbi, a nome della Commissione nominata dal Consiglio eletto per Firenze Capitale, lo incaricò di redigere il progetto per l’ingrandimento della città noto come Piano regolatore di ampliamento della città all’esterno del circuito dei viali, il Poggi aveva 54 anni e alle spalle un’esperienza abbastanza importante in qualità di architetto.[3] Nonostante questo, racconta nelle sue memorie, “[…] l’incarico di tal progetto, sebbene lusinghiero e graditissimo, mi si presentò subito in tutta la sua gravità, in tutta la sua importanza. Mi assorbì talmente, che vi consacrai tutto il mio tempo, tutte le mie cure, tutti i miei studi […]”[4]. Un primo progetto venne consegnato dall’architetto al Consiglio Comunale il 31 gennaio del 1865 corredato di piante geometriche e disegni, e venne approvato nel giro di un paio di settimane.[5]

Nella pianta proposta dal Poggi nel 1865 non comparivano in realtà le Rampe. La zona che lega il piazzale Michelangelo alla torre di San Niccolò appare del tutto priva di interventi architettonici. Si vedono il lungarno, una strada che dalla chiesa di San Niccolò sale fino a Forte Belvedere, la nuova Piazza della Mulina, nota anche col nome di Piazza San Niccolò e al centro della quale torreggiava l’antica porta[6], ma non le Rampe, in luogo delle quali ci sarebbe dovuta essere ancora la collina allo stato naturale.

 

Il lavoro alle Rampe fu realizzato in effetti, alcuni anni più tardi, tra il 1872 e il 1876, quando ormai erano conclusi i lavori al Piazzale e dovevano essere già iniziati quelli di esproprio e “bonifica” delle abitazioni costruite ai piedi della collina, per dar spazio alla nuova piazza con al centro Torre San Niccolò. Poggi doveva essere molto legato a questa parte di città e in particolare al lavoro alle Rampe, nel suo resoconto sugli interventi pubblicato nel 1882, sebbene nella parte scritta del volume non scenda troppo nel dettaglio, gli dedica però diverse tavole con i disegni dei progetti. Nel corso dell’800 erano diventati molto di moda gli spazi verdi all’interno delle città, nei quali passeggiare e rilassarsi. Le grandi capitali europee, prime tra tutte Londra e Parigi, si erano infatti già da tempo dotate di parchi e passeggiate alberate, e il Poggi volle che Firenze, in quanto capitale, non fosse da meno. Le Rampe quindi, oltre ad essere un modo per unire più rapidamente il Piazzale alla città, volevano essere una passeggiata nel verde in cui lo spettatore non perdesse mai la vista sui principali monumenti della città. Dovevano essere una sorta di continuazione itinerante dell’affaccio di Piazzale Michelangelo.

Fig. 4 - Veduta della città dalle Rampe.

 

Poggi nel costruirle sfruttò i resti degli antichi bastioni cinquecenteschi e il dislivello naturale della collina per dare vita a una strada nuova ed originale oltre che più rapida rispetto alla discesa lungo il viale dei colli. Sono pensate come un omaggio alla dialettica rinascimentale che metteva in continuo scambio natura e artificio; Poggi collocò infatti, aiutato da un famoso giardiniere dell’epoca, Attilio Pucci, una grande varietà di alberi e arbusti realizzando delle grotte artificiali con incrostazioni e spugne (fig. 5-6) che si rifanno chiaramente alla Grotta Grande di Bernardo Buontalenti nel non lontano Giardino di Boboli. Seguendo un perfetto ordine simmetrico troviamo al centro la grande fontana mentre in maniera speculare ai due lati scende la strada in cui si alternano scalini e rampe decorate con muri in bugnato rustico e lesene a bugne, omaggio anch’essi all’architettura fiorentina.

 

Il muraglione più alto, quello sotto Piazzale Michelangelo, presenta una sorta di scogliera rustica con al centro un’imponente fontana trapezoidale a cascata (fig. 7). L’acqua scende da una grande conchiglia intonacata sopra la quale spicca invece il giglio di Firenze. I conci lapidei sono grossolanamente lavorati e decorati con spugne calcaree e con inserti geometrici musivi di ciottoli di fiume policromi che restituiscono un’atmosfera fluviale. Si tratta di una struttura del tutto artificiale in cui le fontane erano originariamente alimentate a gravità con acqua che arrivava da un serbatoio appositamente dedicato e collocato qualche decina di metri più su del Piazzale.

Nel secondo piano troviamo invece cinque grotte (fig. 8) anch’esse con l’acqua e con la decorazione a spugne e incrostazioni. Davanti invece si affaccia una vasca con una fontana zampillante. Tutto segue un perfetto ordine simmetrico, la strada continua a scendere abbracciando un'altra grotta-fontana e terminando nella piazza al cui centro torreggia la Torre di San Niccolò. Quello di Poggi per le Rampe fu un lavoro davvero globale, fu infatti sempre lui a disegnare i parapetti e le ringhiere e a farle realizzare nel 1875.

 

I lavori conclusi alle Rampe e al Piazzale vennero presentati ai fiorentini in occasione delle varie celebrazioni organizzate per il quarto centenario della nascita di Michelangelo, tenutosi tra il 12 e il 14 settembre del 1875. La mattina del 12 settembre partì una solenne processione da Piazza della Signoria che salì verso il piazzale percorrendo e inaugurando la nuova strada. Il lavoro si presentò fin da subito come un qualcosa di molto spettacolare ma piovvero fin dal primo momento numerosissime critiche sull’inutilità del lavoro e sul suo eccessivo costo.

 

Le foto 1,2,4,5,6 e 7 sono state realizzate dalla redattrice.

 

 

Bibliografia

M. Agostini, Giuseppe Poggi. La costruzione del paesaggio, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia 2002.

Cozzi (a cura di), Le rampe del Poggi. Storia e recupero, volume realizzato per la conclusione del progetto “Il grande Restauro delle Rampe del Poggi”, Mandragora, Firenze 2019.

Maccabruni, P. Marchi, Una capitale e il suo architetto. Eventi politici e sociali, urbanistici e architettonici. Firenze e l’opera di Giuseppe Poggi, catalogo mostra per il 150° anniversario della proclamazione di Firenze a Capitale del Regno d’Italia, Archivio di Stato di Firenze, 3 febbraio – 6 giungo 2015, Edizioni Polistampa, Firenze 2015.

Poggi, Ricordi della vita e documenti d’arte. Per cura dei nipoti, con prefazione di Isidoro del Lungo, Bemporad e Figlio, Firenze 1909.

Poggi, Sui lavori per l’ingrandimento di Firenze (1864-1877), Tipografia Barberà, Firenze 1882.

Tiberi, Il paesaggio nell’opera di Giuseppe Poggi per Firenze capitale, Edifir, Firenze 2014.

 

Sitografiia

https://en.unesco.org/ sito UNESCO

 

Note

[1]   G. Poggi, Sui lavori per l’ingrandimento di Firenze (1864-1877), Tipografia Barberà, Firenze 1882, p.144.

[2] Historic center of Florence. Outstanding Universal Value, in https://en.unesco.org/ Sito UNESCO (consultato in data 29/08/2021).

[3] Tra i lavori più importanti realizzati dal Poggi, già prima che gli venisse affidato l’incarico nel 1865, troviamo alcuni restauri alla chiesa della SS. Annunziata risalenti al 1856 e al 1858. Il primo fu un restauro generale della chiesa mentre il secondo fu un intervento mirato per la costruzione di un nuovo campanile.  Tra gli altri lavori sono sicuramente degni di nota i restauri a Palazzo Antinori in via dei Serragli, a Palazzo Gerini in via Ricasoli, a Villa Strozzi (detta il Boschetto), a Palazzo Gondi in Piazza San Firenze e a molti altri. G. Poggi, Ricordi della vita e documenti d’arte. Per cura dei nipoti, con prefazione di Isidoro del Lungo, Bemporad e Figlio, Firenze 1909, pp. 57-58.

[4] Ivi, p. 14.

[5] Il piano negli anni fu rivisto e aggiornato diverse volte, soprattutto dopo il trasferimento della capitale da Firenze a Roma. Cfr. F. Tiberi, Il paesaggio nell’opera di Giuseppe Poggi per Firenze capitale, Edifir, Firenze 2014, p. 85.

[6] La piazza ha preso oggi il nome di Piazza Giuseppe Poggi, in memoria dell’architetto che ne fu l’artefice.