L’ORATORIO DELLA COMPAGNIA DI SAN NICCOLÒ DI BARI, DETTA "DEL CEPPO"
A cura di Silvia Faranna
Un tesoro nascosto nel centro di Firenze
Nascosto dai luoghi di maggior attrazione del capoluogo toscano, l’Oratorio della Compagnia di San Niccolò di Bari, più conosciuta come “del Ceppo”, si erge nelle vicinanze della basilica di Santa Croce: la Compagnia, la cui storia secolare può essere fatta risalire al XIV secolo, possiede l’ingresso presso via Pandolfini, una traversa di via Verdi, dove ad oggi è ubicato il complesso, esteriormente non sfarzoso né facilmente identificabile (fig. 1).
Storia e attività della Compagnia
Per “compagnia”, secondo la dicitura toscana, si intende una confraternita di laici riconosciuta a livello ecclesiastico: nello specifico, in origine alla nascita delle confraternite, avvenuta nel IV secolo a Roma, gli scopi da perseguire erano ridotti all’organizzazione di suffragi religiosi e al seppellimento dei defunti, attività che furono col tempo ampliate anche ad altri ambiti[1].
La Compagnia del Ceppo era dedicata al culto della visitazione della Vergine e a san Niccolò, detto Nicola. Le attività svolte erano pensate per due gruppi di partecipanti che si riunivano nei giorni festivi, in orari differenti: il gruppo dei giovani, dagli otto ai diciotto anni, e quello degli uomini, seguiti da una rigida gerarchia interna in cui vi erano ruoli di spicco, decisi in accordo alla bolla papale di Eugenio IV. Varie e numerose erano le attività svolte, molte volte accompagnate da musica[2], la cui presenza in occasione dei riti è testimoniata dai coretti nell’oratorio e dall’arco per gli esecutori[3]. Alla fine del XIV secolo, la sede della compagnia si trovava alla sinistra del fiume Arno, ma ben presto, in seguito alla fondazione ufficiale – il 1° maggio 1417 – si cominciò a costruire una nuova sede alla destra del fiume fiorentino, all’interno del convento delle Polverine – non più esistente – nonché conosciuto come l’ospedale di San Jacopo e Filippo della Torricella, detto il Ceppo delle Sette Opere della Misericordia. Da qui proviene il nome che ancora oggi la Compagnia porta per via della prossimità all’Ospedale, in quanto l’edificio fu costruito grazie alle elemosine raccolte all’interno di un ceppo, un tronco di albero scavato[4].
L’evento che comportò il trasferimento ad un'altra sede fu l’assedio di Firenze nel 1529, a causa del quale il monastero delle benedettine di Santa Maria a Monte fu demolito e le monache si trasferirono negli ambienti fino ad allora occupati dalla Compagnia nell’ospedale di San Jacopo e Filippo della Torricella[5]. Fu così che la Compagnia del Ceppo trovò un’altra sistemazione presso la compagnia di Santa Maria del Tempio, dove poco dopo, nel 1557, fu colpita da delle più forti alluvioni di Firenze, in seguito alla quale si decise di costruire la nuova sede per accogliere i membri della confraternita di San Niccolò. L’acquisto del terreno su cui oggi si erge la sede della Compagnia avvenne nell’agosto del 1561: “l’orto” acquistato apparteneva alle monache benedettine di San Pier Maggiore, una chiesa andata distrutta nel XVIII secolo. L’edificio fu terminato nel 1565 ed inaugurato con una processione l’8 dicembre dello stesso anno[6].
Dall’esterno alla loggia
L’ingresso del complesso, ubicato in via Pandolfini, può trarre in inganno: l’esterno dell’edificio è infatti semplice e il portale, risalente al 1566, presenta lo stemma della compagnia e una dedica al santo ‹‹Divo Nicolao Devotorum Collegium›› da parte dei confratelli[7] (fig. 2). In verità, sebbene l’aspetto esteriore del complesso appaia anonimo, appena oltrepassato l’uscio della porta, ci si ritrova all’interno di una loggia riccamente affrescata (fig. 3).
La loggia, costruita nel 1578 e rimasta aperta verso la corte fino al 1714, presenta un affresco realizzato per mano di Pieter de Witte, artista fiammingo conosciuto anche come Pietro Candido, commissionato dal confratello Antonio di Benedetto Mochi nel 1586. L’affresco raffigura la Madonna col Bambino tra i santi Niccolò e Girolamo ed è posizionato sulla lunetta al di sopra della porta di ingresso al vestibolo[8].
Si tratta dell’ultima opera realizzata dall’artista prima del suo definitivo trasferimento a Monaco di Baviera, dopo la formazione a Firenze. Gli strascichi della sua formazione sono evidenti nell’affresco del Ceppo, dove la Madonna, insieme al Bambino, è affiancata dai due santi, Niccolò e Girolamo, perfettamente riconoscibili dai loro attributi, mentre si ergono contro un caldo cielo dorato.
In seguito alla chiusura della loggia, Francesco Maria Papi, nel 1743, si propose per completare la decorazione murale dell’ambiente ‹‹gratis io stesso […] purché mi siano somministrati i colori, pennelli ed ogn’altro che possa occorrere.››[9].
Il pittore, che era anche un confratello, può essere ricondotto a quel gruppo di pittori ‹‹quadraturisti›› attivi a Firenze – e non solo – sin dal XVII secolo. Le pareti della loggia furono affrescate con un’architettura illusionistica con tanto di piedritti, portali, vasi, fiori, ed una finta lapide al di sotto del busto del beato Tommaso Bellacci in terracotta argentata, posizionato in una nicchia al muro (fig. 5).
A completamento dello spazio illusionistico suggerito dagli affreschi alle pareti, la volta fu affrescata nello stesso anno dal pittore fiorentino Mauro Soderini, con Angeli volanti che sostengono i simboli di San Niccolò. Avvolti dalle morbide stoffe, gli angeli si librano in un cielo celestiale, arricchito da leggere nuvole gialle e violette, incastonato nell’architettura dipinta da Francesco Maria Papi con volute a “S” e le valve di conchiglia nei pennacchi[10] (fig. 6).
Il vestibolo
In seguito alla loggia di ingresso si trova il “vestibolo” o “ricetto”, un ambiente utilizzato sin dal 1568 come spogliatoio, dove i membri della confraternita potevano indossare la veste ufficiale. Anche all’interno di questo spazio ristretto si colgono i risultati di maestranze che sin dal XVI secolo si occuparono di abbellire questo luogo di riunione e di preghiera (fig. 7).
Maestosa è la Madonna col Bambino sulla parete di fondo, commissionata nel 1571 a ‹‹Chamillo scultore››[11], da riconoscere in Camillo Camilliani, di formazione fiorentina ma di adozione siciliana[12]. Posizionata all’interno di una nicchia – ad opera dello scalpellino Giovanni Gargiolli – la scultura in stucco è a grandezza naturale: la Madonna si erge in piedi mentre porta in braccio il figlio, dagli occhi vispi e dal volto sorridente, e i panneggi delle vesti avvolgono il corpo in torsione della Madonna, riportando all’idea della scultura del Giambologna, spesso vorticosa e intrecciata nelle forme (fig. 8).
Ai lati dell’imponente scultura si trovano due ovali destinati ad ospitare due tele raffiguranti San Francesco e San Girolamo Penitente, entrambe di Onorio Marinari, allievo di Carlo Dolci, eseguite intorno al 1659[13].
La decorazione ad affresco della muratura è invece successiva, realizzata nel 1734 in contemporanea con quella dell’oratorio: in questa sede, come per la loggia precedente – e in seguito nell’oratorio – si devono distinguere più artisti con ruoli differenti. La decorazione della volta “sfondata” si deve a Giovan Domenico Ferretti, il quale raffigurò gli Angeli con simboli di san Niccolò seduti sulle nuvole bianche e in contrasto con i simboli dorati.
A completare la decorazione vi erano i pittori quadraturisti, specializzati nella pittura di architettura: Pietro Anderlini, che si occupò dei colonnati, balaustre e scalinate, e infine Domenico e Francesco Maria Papi, i quali si occuparono degli aspetti più decorativi come ghirlande, fiori e vasi[14].
Non passano inosservati due dipinti ovali di Giovan Camillo Ciabilli con Sant’Antonio Abate e San Niccolò.
Come per la loggia, anche nel vestibolo la porta di collegamento con l’ambiente successivo – l’oratorio – fu progettata nel 1602 da Fra Francesco Buonarroti: la data è stata identificata sulla base dei suoi Ricordi manoscritti e sul progetto cartaceo, oggi al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi[15] (fig. 10).
L’oratorio
Dal vestibolo si giunge all’ambiente più grande e fastoso: l’oratorio.
Sulla base di un manoscritto di Memorie del confratello Giovanni Antonio Marini, redatto nel 1720, si è supposto che il progetto architettonico fosse di mano del Giambologna, ma le fonti documentarie non permettono di confermare questo dato, nonostante siano state evidenziate delle affinità con l’operato dell’artista fiammingo[16].
È certo però che la costruzione dell’oratorio avvenne lentamente, attraverso diverse fasi e grazie alla generosità dei confratelli: di forma rettangolare, l’ambiente venne ulteriormente allungato nel 1588, essendo un luogo molto frequentato. I lavori si protrassero fino al 1598: nel 1595 fu edificata la volta con l’intento di sostituire le travi a vista risalenti al 1564[17].
A testimonianza del ruolo centrale che ebbe la musica nell’oratorio, si può ricordare che nel 1820 venne collocato l’organo a unici registri di Benedetto Tronci: un evento tanto importante da essere ricordato su due iscrizioni dipinte in finto marmo, nonché riportato in un dipinto di Giuseppe Servolini raffigurante Sant’Ambrogio approva i capitoli della compagnia, risalente, per l’appunto, al 1820[18].
L’affresco di carattere narrativo è accompagnato ai lati da due piccoli rilievi in terracotta, risalenti al 1614, raffiguranti a sinistra l’Annunciazione (fig. 13) e a destra San Niccolò dota tre fanciulle povere (fig. 14), anche questi ricondotti alla mano del Giambologna, o più propriamente alla sua bottega, e donati dal confratello Matteo Segaloni[19] (fig. 13-14).
La pala d’altare, oggi collocata sulla parete centrale, fu posizionata il 4 dicembre 1610 in occasione dell’antivigilia della festa di San Niccolò: si tratta della Crocifissione e santi di Francesco Curradi (fig. 15).
Il dipinto ripropone gli stessi soggetti della precedente pala d’altare dell’oratorio, il Crocifisso tra i santi Niccolò e Francesco del Beato Angelico, capolavoro indiscusso del pittore fiorentino, sin dall’origine sagomato – oggi conservato nella sagrestia – dipinto per la Compagnia tra il 1427 e il 1430 e posizionato sull’altare maggiore (fig. 16).
La sua posizione originaria si deduce dalla tavoletta votiva (1598-1610 ca.), probabilmente di un pittore dell’ambito di Jacopo da Empoli, che non solo permette di ricostruire la nativa postazione della tavola dell’Angelico, ma concede di confrontare l’attuale altare maggiore con quello antecedente[20] (fig. 17).
Il Curradi, chiamato per sostituire il capolavoro dell’Angelico, non più soddisfacente per i gusti dell’epoca, riprese l’iconografia originaria aggiungendo però due personaggi in più alla scena: la Madonna e San Giovanni Evangelista ai piedi di Gesù, accompagnati da due angeli oranti intorno alla testa del Cristo[21].
Ai lati dell’altare furono appesi due stendardi ad opera di Giovanni Antonio Sogliani con la Visitazione e San Niccolò e due fanciulli membri della Compagnia del Ceppo (1522 circa), due tele destinate ad essere trasportate durante le processioni cittadine insieme a un ornamento in legno dorato. Giorgio Vasari, nell’edizione delle Vite del 1568, ricorda che il Sogliani per ‹‹la Compagnia del Ceppo dipinse il segno da portare a processione che è molto bello: nella parte dinanzi del quale fece la visitazione di Nostra Donna, e dall’altra parte S. Niccolò vescovo e due fanciulli vestiti di Battuti, uno de’ quali gli tiene il libro e l’altro le tre palle d’oro.››[22]
Di grande spessore è la decorazione ad affresco che avvolge tutto l’ambiente dell’oratorio, di epoca successiva rispetto alle tavole già preesistenti. Infatti, come si evince dai documenti d’archivio, i lavori di decorazione dell’ambiente ebbero inizio nel maggio 1733[23]. Il primo artista ad intervenire fu Giovan Domenico Ferretti, probabilmente dal marzo 1734, che dipinse la volta dell’oratorio – ricordando anche il suo affresco nel soffitto del vestibolo – dove realizzò un’apertura celestiale rappresentante San Niccolò in gloria.
Se negli ambienti precedenti il santo patrono della Compagnia veniva solo alluso attraverso i suoi simboli, nell’oratorio vero e proprio è finalmente rappresentato: il santo, al centro della volta, si erge sulle nuvole sorrette dagli angeli, che lo presentano alla Vergine Maria, anch’ella sulle nuvole, rivolta alla Trinità. A completamento della composizione a spirale, si trovano in basso San Girolamo, San Francesco e l’arcangelo Michele[24].
Il Ferretti fu pagato ‹‹a conto della pittura dello sfondo e altre figure››, queste ultime da riconoscere nelle lunette sulle pareti laterali, dove Ferretti ricostruì gli episodi della vita del santo[25].
Infine, come per gli altri ambienti del complesso, anche l’oratorio presenta una decorazione architettonica illusionistica: fu infatti Pietro Anderlini a realizzare lo sfondato pittorico. Anderlini, specialista nella pittura di architettura “dell’illusione”, ricoprì le pareti con una costruzione prospettica ben precisa, utilizzata anche per dilatare lo spazio a disposizione, imitando quasi alla perfezione una costruzione tridimensionale attraverso la raffigurazione di colonnati, balaustre aggettanti, cornici e balconcini decorati con fiori, ghirlande e cartigli[26] (fig. 20).
La collaborazione tra Giovan Domenico Ferretti e Pietro Anderlini non si svolse solo al Ceppo, ma anche alla Badia Fiorentina, proprio nello stesso anno[27]. In seguito ai loro interventi, l’ambiente dell’oratorio fu inaugurato in occasione della festa di San Niccolò del 1734.
Grazie alla collaborazione dei vari artisti, ai lasciti testamentari, alle donazioni, furono tante le commissioni rivolte all’abbellimento di questo piccolo luogo, conservatore di importanti manufatti artistici che subirono anche danni profondi: sin dall’alluvione del 1844, passando per il Primo conflitto mondiale, fino all’alluvione del 4 novembre 1966. Grazie ai recenti restauri l’oratorio è tornato al suo originario splendore e i membri della confraternita continuano a riunirsi al suo interno, contribuendo alla sua cura e al servizio religioso di questo luogo ricco di storia e di arte.
Note
[1] Cfr. L. SEBREGONDI, La Compagnia di San Niccolò di Bari detta del Ceppo, Firenze 2018, p. 11
[2] All’interno della Compagnia prese parte il musicista Luigi Cherubini (Firenze 1760-Parigi 1842), da cui prende il nome il conservatorio fiorentino.
[3] Cfr. Ivi, pp. 18-19.
[4] Cfr. Ivi, p. 11.
[5] Cfr. Ivi, p. 13.
[6] Cfr. Ivi, p. 14.
[7] Cfr. Ivi, p. 21.
[8] Cfr. Ivi, p. 21-23. Il portale fu eseguito su disegno di Fra Francesco Buonarroti il Giovane, pronipote di Michelangelo.
[9] L. SEBREGONDI FIORENTINI, La compagnia e l’oratorio di San Niccolò del Ceppo, Firenze 1985, p. 71.
[10] Cfr. F. FAUZIA, S. BERTOCCI, L’architettura dell’inganno a Firenze: spazi illusionistici nella decorazione pittorica delle chiese tra Sei e Settecento, Firenze, p. 223.
[11] Cfr. L. SEBREGONDI, La compagnia…cit., p. 27.
[12] Camillo Camilliani è certaente noto per essere stato uno scultore e un archietetto attivo in Sicilia, dove tra le maggiori testimonianze del suo operato si ricorda la Fontana di Piazza Pretoria.
[13] Cfr. L. SEBREGONDI, La Compagnia…cit., p. 27-31.
[14] Cfr. Ivi, p. 31.
[15] Cfr. Ivi, p. 27.
[16] Cfr. Ivi, pp. 31-32.
[17] Cfr. Ivi, p. 34.
[18] Cfr. Ivi, p. 35.
[19] Cfr. Ibidem.
[20] Cfr. Ibidem.
[21] Cfr. Ivi, pp. 45-52.
[22] G. VASARI, Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997.
[23] Cfr. L. SEBREGONDI, La compagnia…cit., p. 43.
[24] Cfr. Ibidem.
[25] Cfr. Ibidem.
[26] Cfr. Ivi, p. 45.
[27] Cfr. F. FAUZIA, S. BERTOCCI, L’architettura dell’inganno…cit., p. 137.
Bibliografia
SEBREGONDI, La compagnia e l’oratorio di San Niccolò del Ceppo, Firenze 1985.
VASARI, Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997.
SEBREGONDI, La Compagnia di San Niccolò di Bari detta del Ceppo, Firenze 2018.
FAUZIA, S. BERTOCCI, L’architettura dell’inganno a Firenze: spazi illusionistici nella decorazione pittorica delle chiese tra Sei e Settecento, Firenze 2006.
GLI AFFRESCHI DI DOMENICO GHIRLANDAIO NELLA CAPPELLA TORNABUONI PT III
A cura di Silvia Faranna
Un percorso tra storia sacra e storia fiorentina. Le Storie di San Giovanni Battista
Parete destra: le storie di San Giovanni Battista
Le storie della parete destra nella Cappella Tornabuoni sono dedicate a ripercorrere gli eventi salienti della vita di San Giovanni Battista, un santo particolarmente importante per la città di Firenze, in quanto ne era (ed è) il santo patrono, nonché il santo con cui condivideva il nome Giovanni Tornabuoni, il committente degli affreschi. La prima scena che apre il racconto della vita di San Giovanni Battista rappresenta L’annuncio a Zaccaria della nascita di Giovanni Battista, secondo il Vangelo di Luca (fig. 1).
Al centro dell’affresco si trovano l’angelo, vestito in giallo, e Zaccaria, l’anziano padre del Battista, innalzati su uno spazio sacro che li divide dalla gradinata inferiore. Zaccaria era giunto a Gerusalemme per svolgere la solenne cerimonia dell’offerta dell’incenso, ma mentre si trovava all’altare, venne raggiunto dal lieto angelo, che gli annunciò la nascita del futuro figlio. Il felice annuncio è nella scena interpretato in una dimensione totalmente fiorentina: ad assistere si trovano, a sinistra e a destra, i componenti maschili della famiglia Tornabuoni (fig. 2), ma non solo; il committente volle far raffigurare i membri dell’Accademia neoplatonica: Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, Angelo Poliziano e Gentile de’ Becchi (fig. 3).
A seguire si trova La visitazione di Maria alla cugina Elisabetta. Secondo il Vangelo di Luca, la Vergine Maria volle intraprendere un lungo viaggio pur di andare a fare visita alla cugina, che ormai da sei mesi, nonostante l’età avanzata, portava in grembo la sua creatura, il San Giovanni (fig. 4).
L’affettuoso incontro tra le due donne avviene al centro della scena, ma non all’interno di un’abitazione, quanto in un’ambientazione esterna, che ricorda la città di Firenze. In fondo a sinistra, dalla porta della città salgono le scale due personaggi: una donna che porta sul capo una cesta e un uomo vestito di rosso, che alcuni identificano col pittore stesso (fig. 5).
Il paesaggio possiede delle analogie con l’altura di San Miniato al Monte; si riconosce la torre di Arnolfo di Palazzo Vecchio, il campanile di Santa Maria Novella, e anche il Mar Tirreno. La scena è vivamente partecipata: al centro le due cugine sono colte nell’attimo prima di un abbraccio, ma ai lati sono presenti cinque donne, delle quali le tre a sinistra, dal punto di vista iconologico, sono riconosciute come le tre Marie (Maria Maddalena, Maria Cleofe, Maria Salomè). A destra, invece, giunge una bella donna dai capelli raccolti, vestito broccato, portamento regale, in avanzato stadio di gravidanza: si tratta di Giovanna degli Albizi, la giovane sposa di Lorenzo Tornabuoni, figlio di Giovanni, e colei che pose fine alla rivalità tra le due famiglie fiorentine (fig. 6).
Alle sue spalle, la donna che indossa il manto nero è Dianora, la sorella di Giovanni Tornabuoni, moglie di Pier Soderini; accanto a Dianora, non può passare inosservata la giovane donna riccamente abbigliata, la cui identità però è sconosciuta.
La scena successiva, se letta da destra verso sinistra, sembra avere una guida: si tratta, secondo la descrizione del Vasari, di ‹‹una femmina che porta a l'usanza fiorentina frutte e fiaschi da la villa, la quale è molto bella››[1] (fig. 7).
L’ancella dalla celeste veste, svolazzante, eterea, porta sul capo un cesto colmo di frutta e accompagna lo sguardo del visitatore al centro della scena, ma differentemente da quanto si possa aspettare, nonostante sia stata rappresentata La nascita di Giovanni Battista, l’attenzione viene tutta rivolta alla donna al centro (fig. 8).
Si tratta di Lucrezia Tornabuoni, la sorella di Giovanni, già ricordata come la madre del Magnifico, che indossa un abito rosaceo, decorato con motivi floreali e tiene in mano un fazzoletto; il suo sguardo vivido e sicuro è diretto verso lo spettatore, ma attrae verso di sé quello di tutte le altre donne che la circondano: della stessa Elisabetta, ancora a letto dopo il parto, delle dame di compagnia e persino delle balie (fig. 9).
L’imposizione del nome del Battista è la scena seguente, differente dalle tre precedenti per l’essenzialità della narrazione; non compaiono né particolari elementi paesaggistici, né ritratti fiorentini, ma solo una chiara e incisiva descrizione degli eventi secondo le parole del Vangelo (fig. 10).
Zaccaria, alla notizia della gravidanza della moglie, ormai avanzata negli anni, e del nome “Giovanni” imposto al figlio per volere del Signore, manifestò una reazione di incredulità verso l’angelo, che di conseguenza lo punì privandolo della parola fino alla nascita del figlio. Data la premessa, si comprende meglio la scena, che vede protagonista Zaccaria, al centro del quadro e affiancato dalla moglie e dal neonato, che comunica, mettendolo per iscritto sulla tavoletta, il nome del bambino. Spicca poi il rosso del manto di Zaccaria, che in questo momento, dopo l’imposizione del nome, riprende la parola.
Proseguendo nelle scene della storia del Battista, nella Predicazione del Battista il santo è ben riconoscibile nei suoi tipici attributi: la veste di pelli, la cintura in cuoio e la croce. Il santo è raffigurato al centro della scena, in un luogo roccioso tipicamente ricordato, secondo i testi sacri, come il deserto, circondato da molti uditori. In alto, sulla destra, anche lui riconoscibile dalle vesti rosse e blu, si trova Cristo, il Messia, colui che viene “anticipato” da Giovanni (fig. 11).
Gesù e Giovanni compaiono nuovamente insieme nella penultima scena del ciclo, il Battesimo di Gesù al fiume Giordano (fig. 12).
Gesù si erge al centro della rappresentazione, con i piedi immersi nel fiume, con un corpo nudo ed elegante allo stesso tempo, coperto solo con un velo bianco; accanto a lui, Giovanni compie il gesto del battesimo con sicurezza, portandosi leggermente in avanti. La benedizione al battesimo è data dalla Trinità che è esaltata al di sopra con colori accesi, dove Dio Padre benedicente è affiancato da una sfilza di angeli. Intorno ci sono i fedeli, intenti a spogliarsi per ricevere anche loro il sacramento, ‹‹che aspettando d'essere battezzati, mostrano la fede e la voglia scolpita nel viso››[2] ricordano le fisionomie delle sculture antiche. Sin dal Trecento, in verità, le figure di persone nude o intente a spogliarsi erano già inserite nella scena del Battesimo, come si nota nel Battesimo di Cristo (1445 circa) di Piero della Francesca (1412 circa-1492), o similmente nella Cappella Brancacci (1425-1428 circa) del Masaccio (1401-1428).
Infine, a completamento delle sette scene dedicate alla vita del Battista, Ghirlandaio ha rappresentato nella lunetta che giunge alla volta il Banchetto di Erode e la decapitazione del Battista (fig. 13).
La vita di San Giovanni si concluse infatti tragicamente per decisione del re Erode, il quale, cedendo alle volontà della figlia di Erodiade, Salomè, le consegnò a testa del Battista in cambio della sua danza. Il Battista, l’ultimo profeta inviato da Dio a Israele, anticipa il sacrificio che compirà Cristo per l’umanità. Ghirlandaio con le sue pennellate descrive passo per passo la vicenda di cui il santo fu protagonista. Pone la narrazione all’interno di una maestosa architettura a tre navate, coperta in parte da volte a botte cassettonate, che ricordano le stesse costruzioni architettoniche dei rilievi bronzei donatelliani per la Chiesa del Santo a Padova.
In primo piano, spicca Salomè, danzante, avvolta dalle crespe della veste che ne segue il ritmo della danza, e irriverente con la sua macabra richiesta, ovviamente esaudita (fig. 14). La testa del Battista, posta su un piatto d’argento, è presentata ad Erode, che seduto al centro della tavola, la guarda pietosamente.
Conclusione
Il Ghirlandaio, secondo Artur Rosenauer, fu il primo pittore ad aver perfezionato l’organizzazione del lavoro della bottega artistica ‹‹secondo un metodo che sarà proprio dei grandi decoratori murali dei secoli successivi››[3]. Fu proprio durante i cinque anni di decorazione della Cappella Maggiore che poté mettere in atto un metodo di lavoro disciplinato che, a partire dai disegni, andava a dirigere i lavori su tutte le pareti della cappella, riuscendo a mantenere, nonostante le mani differenti, uniformità e armonia delle forme e colori. Per portare a compimento la grande impresa, il pittore fece affidamento anche ai suoi collaboratori, le cui pennellate sono a volte distinguibili lungo lo strato pittorico (anche il giovane Michelangelo (1475-1564), allievo del Ghirlandaio, sembra aver partecipato al cantiere in Santa Maria Novella). Al Ghirlandaio si deve riconoscere la capacità di unire, attraverso una pittura ricca di dettagli e di lontano gusto fiammingo, il passato sacro e il presente fiorentino, evidenziando il nuovo rapporto tra artista-committente-opera d’arte in cui non bisognava più solo celebrare la sacralità delle storie bibliche, ma anche la ricchezza e la potenza di chi poteva permettersi di acquistare la cappella più grande della chiesa, decorarla secondo il proprio gusto, fino a sceglierne i colori e i dettagli più minuziosi.
Il Ghirlandaio seppe rispecchiare nella sua pittura, di grande raffinatezza ed eleganza, la volontà di un committente come Giovanni Tornabuoni, uno dei tanti fautori dell’età dell’oro medicea, di cui il pittore fu uno dei massimi interpreti e per questo lodato anche grazie alla sua Cappella che fu ‹‹tenuta cosa bellissima, garbata e vaga per la vivacità dei colori, per la pratica e la pulitezza del maneggiarli nel muro, e per il poco essere stati ritocchi a secco; oltre la invenzione e collocazione delle cose››[4].
Note
[1] G. VASARI, Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997, p. 956.
[2] Ivi, p. 957.
[3] C. DANTI, G. RUFFA, Note sugli affreschi di Domenico Ghirlandaio nella chiesa di Santa Maria Novella in Firenze, in “OPD restauro”, 2, 1990, p. 29.
[4] G. VASARI, Le vite…cit., p.957-958.
Bibliografia
C. DANTI, G. RUFFA, Note sugli affreschi di Domenico Ghirlandaio nella chiesa di Santa Maria Novella in Firenze, in “OPD restauro”, 2, 1990, pp. 29-28, 87-89.
R. G. KECKS, Ghirlandaio: catalogo completo, Firenze 1995.
Domenico Ghirlandaio (1449-1494), atti del convegno internazionale a cura di W. Prinz, M. Seidel, (Firenze, 16-18 ottobre 1994), Firenze 1996.
G. VASARI, Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997.
A. SALUCCI, Il Ghirlandaio a Santa Maria Novella. La Cappella Tornabuoni: un percorso tra storia e teologia, Firenze 2012.
C. C. BAMBACH, Michelangelo divine draftman & designer, catalogo della mostra (The Metropolitan Museum of Art, New York, 13 novembre 2017- 12 febbraio 2018), New Heaven London 2018.
Sitografia
https://www.treccani.it/enciclopedia/ghirlandaio_%28Enciclopedia-Italiana%29/
GLI AFFRESCHI DI DOMENICO GHIRLANDAIO NELLA CAPPELLA TORNABUONI PT II
A cura di Silvia Faranna
Un percorso tra storia sacra e storia fiorentina. Le Storie della Vergine
Parete sinistra: le storie della Vergine
Esattamente difronte le storie di Giovanni Battista, nella parete sinistra della Cappella Maggiore in Santa Maria Novella, furono affrescate le storie della Vergine. Se per il ciclo precedente la fonte principale fu il Vangelo di Luca, per queste scene Ghirlandaio trasse le sue informazioni dai cosiddetti “vangeli apocrifi”. Spopolati nel Medioevo, i vangeli apocrifi sono stati scritti tra il II e III secolo con lo scopo di colmare alcune lacune riscontrate nei vangeli canonici, o per trasmettere una rivelazione segreta (come suggerisce lo stesso nome, “apocrifo” vuol dire chiuso, segreto). Le fonti a cui si affidò il Ghirlandaio possono essere riconosciute nei Protovangelo di Giacomo e Vangelo dello Pseudo-Matteo. Essendo il ciclo dedicato alle storie di Maria, molte delle informazioni riguardanti la sua famiglia – i genitori (di cui vengono svelati i nomi), la sua presentazione al tempio o la sua assunzione, ad esempio – sono state riportate all’interno di questi testi.
Differentemente dai sette affreschi dedicati al Battista, per queste scene Giovanni Tornabuoni non volle contaminare eccessivamente il racconto sacro con personaggi della propria famiglia, ma dispose una rispettosa narrazione della vita di Maria, concedendo una maggiore attenzione alla sua giovinezza e alla famiglia.
Le storie della Vergine incominciano con un evento di cui fu protagonista il padre: la Cacciata di Gioacchino dal tempio. La scena fu impostata dal Ghirlandaio in un’ambientazione che rimanda, nella fisionomia del tempio, alla triplice ripartizione di Santa Maria Novella, dove si svolge la scena centrale; sullo sfondo, invece, si trova il portico, dal colore rosaceo, dell’Ospedale di San Paolo a Firenze (fig. 1).
Ghirlandaio rappresentò l’evento con forte dinamicità ed energia; per farlo dispose per gruppi e su più livelli i personaggi della scena. Se in secondo piano è rappresentato al centro il sacerdote che riceve i sacrifici, in primo piano Gioacchino, che tiene in braccio un capretto, viene cacciato dal tempio, mentre ai lati due gruppi di personaggi assistono all’evento. Il loro ruolo non è secondario, in primis perché con i loro sguardi rivolti allo spettatore ne attirano l’attenzione; secondariamente, perché ognuno di loro può essere ben identificato. Le quattro figure a sinistra corrispondono a Lorenzo Tornabuoni, Cosimo di Leonardo Bartolini Salimbeni e Alessandro di Francesco di Lutozzo; a destra, secondo il Vasari, David Ghirlandaio, Alessio Baldovinetti, Domenico Ghirlandaio e Sebastiano Mainardi (fig. 2).
Ritratti estremamente dettagliati e realistici, come lo stesso Vasari ricordava: ‹‹sempre al disegno attendendo, venne sì pronto e presto e facile che…ritraendo ogni persona che da bottega passava, il faceva subito somigliare: come ne fanno fede ancora nell’opere sue infiniti ritratti, che sono di similitudini vivissime››[1].
La nascita di Maria è forse una delle scene più celebri dell’intero ciclo di affreschi. Sebbene l’evento principale rappresentato sia la nascita della madre di Cristo, in realtà Ghirlandaio unì due episodi diversi: alla sinistra, sulla rampa di scale del vestibolo si riconoscono Gioacchino ed Anna che si abbracciano (Incontro di Gioacchino e Anna) che, secondo il Protovangelo di Giacomo si rincontrarono all’uscio della loro abitazione; per separare questo evento da quello seguente, il Ghirlandaio distribuì in due ambienti lo spazio grazie a dei pilastri riccamente decorati (fig. 3).
Dall’altra parte, infatti, Anna è nuovamente raffigurata sul letto, dopo aver dato alla luce Maria, che nel frattempo viene affidata alle cure delle balie, tra le quali spicca l’ancella che versa l’acqua da una brocca, figura ipnotica grazie al movimento della morbida veste spinta dal vento, che colpì anche il Vasari (fig. 4).
A dimostrazione dei molti studi e disegni dedicati all’antico, il Ghirlandaio rappresentò il cornicione superiore con una sfilza di putti danzanti e musicanti, tra i quali ben riconoscibile è il modello del piccolo Ercole che uccide i due serpenti. Protagonista della scena è certamente la luce che, proveniente da una finestra sulla parete laterale, inonda gli ambienti creando un gioco di chiarori e di ombre a cui partecipano i putti sul fregio e i personaggi che vivono la scena. Naturalmente, in uno degli eventi più importanti della cristianità non possono mancare, su richiesta di Giovanni Tornabuoni, i componenti della propria famiglia. Di superba bellezza è la figura di Ludovica Tornabuoni, unica figlia del committente venuta a mancare a soli 15 anni per complicanze dovute al parto, commemorata eternamente nell’affresco per desiderio del padre: indossa un abito broccato aranciato, con i capelli fulvi che ricadono lungo la schiena; le mani congiunte si poggiano sul grembo, mentre guarda la nuova creatura, accompagnata da un corteo di dame (fig. 5, 6).
La Presentazione di Maria al tempio si svolge all’interno di un’imponente architettura dalle fattezze anticheggianti ed una perfetta costruzione prospettica che si conclude con una piazza fiorentina sullo sfondo (fig. 7).
Il punto di fuga del reticolato prospettico corrisponde alla figura della giovane Maria che sta salendo le scale, senza remore, salutando affettuosamente i genitori e portandosi avanti verso i sacerdoti, pronti a riceverla insieme alle vergini che dal tempio accorrono felici ad accoglierla. L’idea di gioia e sicurezza trasmessa da Maria viene contrapposta all’insolito atteggiamento meditativo dell’uomo seminudo, poveramente vestito, accovacciato sui gradini sulla destra (fig. 8).
Per lo Sposalizio della Vergine Ghirlandaio costruì la scena all’interno di un grandioso tempio, dove un ruolo imponente possiedono gli ornamenti sui pilastri ed i mosaici, che lo rendono ancora più sontuoso (fig. 9).
Al centro i due sposi sono raffigurati nel momento preciso della loro unione, posti al di sotto dell’arco centrale per darne maggiore evidenza. Contrari agli sposi sono i pretendenti rifiutati da Maria, che ridono di Giuseppe alle sue spalle e che con atteggiamento malevolo manifestano il disappunto per il matrimonio: addirittura c’è chi spezza con il piede un ramoscello (fig. 10).
Quello successivo è purtroppo l’affresco più rovinato del ciclo. L’Adorazione dei Magi è un tema che, come per altri artisti quattrocenteschi quali Benozzo Gozzoli (nella Cappella dei Magi, 1459) e Gentile da Fabriano (nella Pala Strozzi, 1423), fungeva da espediente per esercitarsi nella rappresentazione di volti, costumi, ornamenti orientali ed animali esotici (fig. 11).
La ricchezza e l’eleganza pullula, nonostante le condizioni dell’affresco malridotte, dai tre re rappresentanti di una terra lontana e quasi fantastica ‹‹con gran numero di uomini, cavalli e dromedarii et altre cose varie››[2].
La penultima scena del ciclo dedicato alla Vergine fu definita dal Vasari come il miglior affresco realizzato dal Ghirlandaio per Santa Maria Novella ‹‹condotta con giudizio, con ingegno et arte grande››[3]. Risulta interessante vedere come il pittore abbia reso attraverso la composizione di colori e posizioni un’idea di movimento: ‹‹dove si vede una baruffa bellissima di femmine e di soldati e cavalli, che le percuotono et urtano››[4] (fig. 12).
L’episodio tragico della Strage degli innocenti non può che colpire il visitatore. Per la scena raffigurata in seguito alla scelta di Erode di uccidere tutti i bambini di Betlemme da due anni in giù, secondo il Vasari, Ghirlandaio riuscì a esprimere tre differenti sentimenti: ‹‹uno è la morte del putto, che si vede crepare; l’altro, l’impietà del soldato che, per sentirsi tirare sì stranamente, mostra l’affetto di vendicarsi in esso putto; il terzo è che la madre, nel veder la morte del figliuolo, con furia e dolore e sdegno cerca che quel traditore non parta senza pena››[5].
Le parole scritte dal Vasari si dispiegano scenograficamente sul primo piano dell’affresco: a sinistra una madre cerca di scappare dal soldato mentre tiene il braccio il proprio pargolo, ormai colpito a morte dall’arma fatale; a destra, una madre dalla veste porpora tira i capelli a un soldato, pronto già con il bambino in braccio per togliergli la vita. La drammaticità della scena è sottolineata dalla furia dei personaggi, nei volti dei soldati accecati dal comando di Erode, e dalle vesti che enfatizzano il senso di movimento e di fuga a cui tutte le madri volevano abbandonarsi pur di salvare i propri figli. Inoltre, l’affresco lascia nuovamente intendere quanto il Ghirlandaio avesse studiato i modelli delle architetture antiche raccolte durante il suo soggiorno romano: fa da sfondo un imponente arco di trionfo, simile al noto arco di Costantino.
L’ultima scena che conclude le storie della Vergine si dispiega lungo tutta la lunetta superiore, all’interno della quale Ghirlandaio ha in realtà raffigurato due momenti distinti, ma correlati tra loro: la Dormizione di Maria e la sua Assunzione.
Per distinguere le due fasi, il pittore, che probabilmente non ha eseguito personalmente la scena, ma per cui ha fornito il cartone, ha diviso l’affresco in due parti. Nella parte inferiore si svolge la dormitio Virginis, in cui la Vergine giace “addormentata” sulla bara, circondata dagli apostoli e plurimi personaggi, forse i Giudei che avrebbero tentato di rovinare il corpo di Maria. La scena, come si legge nelle scritture, si volge all’aperto, nella Valle di Giosafat, ma sembra che il Ghirlandaio abbia interpretato più liberamente l’aspetto paesaggistico. Alzando gli occhi, infine, si riconosce l’assumptio corporis della Vergine che si erge su una nuvola leggera, accompagnata da un corteo di angeli che la trasportano in alto per ricongiungersi col figlio, pronto ad accoglierla a braccia aperte.
Note
[1] G. VASARI, Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997, p. 945.
[2] G. VASARI, Le Vite…cit., p. 954.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p. 955.
Bibliografia
C. DANTI, G. RUFFA, Note sugli affreschi di Domenico Ghirlandaio nella chiesa di Santa Maria Novella in Firenze, in “OPD restauro”, 2, 1990, pp. 29-28, 87-89.
R. G. KECKS, Ghirlandaio: catalogo completo, Firenze 1995.
Domenico Ghirlandaio (1449-1494), atti del convegno internazionale a cura di W. Prinz, M. Seidel, (Firenze, 16-18 ottobre 1994), Firenze 1996.
G. VASARI, Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997.
A. SALUCCI, Il Ghirlandaio a Santa Maria Novella. La Cappella Tornabuoni: un percorso tra storia e teologia, Firenze 2012.
Sitografia
https://www.treccani.it/enciclopedia/ghirlandaio_%28Enciclopedia-Italiana%29/
GLI AFFRESCHI DI DOMENICO GHIRLANDAIO NELLA CAPPELLA TORNABUONI PT I
A cura di Silvia Faranna
Un percorso tra storia sacra e storia fiorentina
Domenico Ghirlandaio e la bottega
Chi si addentra nella chiesa di Santa Maria Novella, giunto in mezzo alla navata centrale, rimane colpito dal commovente Crocifisso (1290-1295 circa) di Giotto (1267 circa-1337) che ne domina maestosamente lo spazio, ma spostando lo sguardo leggermente più avanti, si nota la grande Cappella Maggiore, riccamente affrescata da Domenico Ghirlandaio (1449-1494) e la sua bottega (fig. 1).
Domenico Ghirlandaio fu ‹‹uno de’ principali e più eccellenti maestri dell’età sua, fu dalla natura fatto per esser pittore››[1]. Le parole di apertura della “Vita” di Domenico Ghirlandaio scritte da Giorgio Vasari (1511-1574) presentano benevolmente la figura di un artista fiorentino che fu attivo sin dal 1470 a capo di una bottega, una delle più rinomate a Firenze, insieme ai due fratelli David (1452-1525) e Benedetto (1458-1497) (fig. 2). Come si evince leggendo le parole del Vasari, l'artista preferiva di gran lunga la tecnica dell’affresco rispetto ad altre pratiche pittoriche, e ne divenne uno dei massimi esperti: incominciò la sua produzione affrescando la Cappella di Santa Fina a San Gimignano, e nel 1476-1477 l’Ultima cena nella Badia di Passignano. A Firenze lavorò al servizio delle famiglie legate alla cerchia medicea, tra le quali la famiglia Sassetti, per cui affrescò la Cappella in Santa Trinita (fig. 3) per volere di Francesco Sassetti, che precedentemente rinunciò al patronato della Cappella Maggiore in Santa Maria Novella, in seguito assunto da Giovanni Tornabuoni.
La famiglia Tornabuoni e la Cappella Maggiore
Giovanni Tornabuoni, conosciuto a Firenze per la parentela con Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo il Magnifico, moglie di Piero il Gottoso e grande donna di cultura, ingaggiò il Ghirlandaio per affrescare tutte le pareti della Cappella mentre ancora stava lavorando per Francesco Sassetti in Santa Trinita; al pittore fu chiesto di eliminare i rovinati affreschi di Andrea (1308-1368) e Bernardo Orcagna, sottoposti ormai da tempo all’acqua piovana e all’umidità causati dalla cattiva conservazione del luogo. In quegli anni la Cappella apparteneva alla famiglia de’ Ricci che non voleva né restaurare l’impianto danneggiato, né cederne il patronato. Fu quindi trovato un compromesso con Giovanni Tornabuoni, il quale, pur di detenere il controllo su un luogo così importante per celebrare la sua famiglia, propose di finanziare la nuova decorazione, promettendo di inserire lo stemma dei Ricci. A conclusione dei lavori, in verità, la promessa non fu mantenuta: Giovanni Tornabuoni non fece dipingere lo stemma della famiglia Ricci e in seguito acquistò la Cappella Maggiore, dove finalmente poté celebrare se stesso e la sua famiglia (fig. 4).
Il metodo pittorico nella nuova Cappella Tornabuoni
Il contratto per il rifacimento della Cappella fu stipulato il 1° settembre 1485: all’interno del documento era stabilito che i lavori sarebbero cominciati nel maggio dell’anno seguente e che il pittore avrebbe avuto quattro anni per portarli a compimento. Giovanni Tornabuoni fu per il Ghirlandaio un committente molto esigente, infatti, all’interno del contratto, furono citate tutte le scene da dipingere nella parete di destra, di sinistra, nella volta e nella parete di fondo; furono scelti minuziosamente i colori; e fu deciso che per ogni singola scena il pittore avrebbe presentato al committente il disegno preparatorio, in modo che eventualmente potessero essere apportati cambiamenti in corso d’opera. Il ruolo dei disegni nello svolgimento della decorazione parietale della Cappella fu di fondamentale importanza per l’organizzazione dell’intero ciclo. I disegni conservati sono di diversi tipi: vanno dagli schizzi, caratterizzati da figure sintetizzate, formate da veloci linee indicative delle silhouettes dei personaggi e degli spazi architettonici (fig. 5,6,7) per poi proseguire con gli studi dal naturale in maniera non idealizzata dei volti, delle vesti, e di particolari specifici (fig. 8, 9).
Infine, i disegni erano riportati in scala 1x1 (come nei cartoni o nei cartoni ausiliari), da utilizzare per trasporre l’illustrazione sullo strato di intonaco fresco. (fig. 10)
Attraverso questo modus operandi diligente, il Ghirlandaio si mise al lavoro insieme ai due fratelli e al cognato Sebastiano Mainardi, il quale si occupò degli affreschi nella parte superiore, mentre il Ghirlandaio di quelli inferiori e della volta. Il ciclo di affreschi, conclusi solo sette mesi più tardi della scadenza, nel dicembre 1490, furono eseguiti secondo una sequenza serrata: prima fu affrescata la volta, poi le storie di Maria alla parete sinistra (sei riquadri e la lunetta), la parete di fondo (sei scene laterali e la lunetta in alto), e infine le storie di San Giovanni Battista sulla destra (altri sei riquadri e la lunetta). Dal 1490 in poi furono concluse le decorazioni con le vetrate, realizzate nel 1491 da Alessandro Agolanti, detto il Bidello, su disegno del Ghirlandaio, e l’altare, ma il maestro, morto improvvisamente nel gennaio del 1494, non vide mai la cappella definitivamente completata.
La parete di fondo e la volta
Gli affreschi, esemplari massimi della grande abilità e perizia tecnica del Ghirlandaio come affrescatore, possono essere ripercorsi grazie a un excursus attraverso la storia sacra e la storia fiorentina: analizzando le pitture si comprende come fosse passato ormai in secondo piano il soggetto sacro delle scene, in modo da esaltare il ruolo dei finanziatori e le loro possibilità economiche, oltre che politiche (non a caso sono ritratti personaggi fiorentini contemporanei nelle scene inferiori, dove sono più visibili). Del resto, ai lati delle maestose vetrate, nei primi riquadri in basso si riconoscono i due committenti: Giovanni Tornabuoni a sinistra (fig. 11), e destra la moglie Francesca Pitti (fig. 12), ‹‹che dicono essere molto naturali››,[2] inginocchiati e rivolti verso il centro della cappella, mentre si stagliano su un paesaggio collinare anteceduto da due colonnati.
La moglie di Giovanni, già deceduta e sepolta in Santa Maria sopra Minerva a Roma, è raffigurata orante e dall’incarnato pallido; Giovanni invece, con le mani incrociate al petto, è rivolto a tre quarti verso la cappella. I ritratti dei due committenti stanno alla base delle successive rappresentazioni affrescate accanto alle vetrate, dove il Ghirlandaio dipinse dal basso verso l’alto, a destra: San Giovanni Battista nel deserto (fig. 13) e il Martirio di San Pietro da Verona (fig. 14).
A sinistra, l’Annunciazione di Maria (fig. 15) e il Miracolo di San Domenico (fig. 16).
Sulla lunetta soprastante la parete di fondo, la scena presenta L’incoronazione della Vergine Maria con angeli, profeti e santi (fig. 17), momento di unione fra la madre di Dio e il figlio di Dio, dove, su tre livelli orizzontali sovrapposti, si dispongono i patriarchi e i profeti in trono, lasciando la vera protagonista della scena in alto: Maria viene incoronata da Cristo, con il quale è incorniciata da angeli musicanti, e viene illuminata da ‹‹un’aureola di cherubini››[3].
Il ciclo degli affreschi però cominciò dalla volta, dove il Ghirlandaio rappresentò i Quattro Evangelisti, seduti su nuvole e accompagnati dai loro simboli, su un fondo blu dove risaltano i raggi di luce che loro stessi sprigionano (fig. 18).
Note
[1] G. VASARI, Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997, p. 944.
[2] G. VASARI, Le vite...cit., p. 952.
[3] R. G. KECKS, Ghirlandaio: catalogo completo, Firenze 1995, p.135.
Bibliografia
DANTI, G. RUFFA, Note sugli affreschi di Domenico Ghirlandaio nella chiesa di Santa Maria Novella in Firenze, in “OPD restauro”, 2, 1990, pp. 29-28, 87-89.
G. KECKS, Ghirlandaio: catalogo completo, Firenze 1995.
Domenico Ghirlandaio (1449-1494), atti del convegno internazionale a cura di W. Prinz, M. Seidel, (Firenze, 16-18 ottobre 1994), Firenze 1996.
VASARI, Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997.
SALUCCI, Il Ghirlandaio a Santa Maria Novella. La Cappella Tornabuoni: un percorso tra storia e teologia, Firenze 2012.
C. BAMBACH, Michelangelo divine draftman & designer, catalogo della mostra (The Metropolitan Museum of Art, New York, 13 novembre 2017- 12 febbraio 2018), New Heaven London 2018.
Sitografia
https://www.treccani.it/enciclopedia/ghirlandaio_%28Enciclopedia-Italiana%29/
DONATELLO “POLIMATERICO”
A cura di Silvia Faranna
Donatello: il maestro del Rinascimento tra legno, terracotta, bronzo e marmo
Donato di Niccolò di Betto (1386 circa – 1466), conosciuto come Donatello, può essere considerato il padre del nuovo linguaggio artistico rinascimentale, come ha evidenziato Luisa Becherucci: ‹‹Con l’opera di Donatello […] la tradizione scultorea […] appare in tutta la sua matura pienezza››[1]. Una ‹‹matura pienezza›› che si evince dal naturalismo e dalla ‹‹caratterizzazione psicologica››[2] fiorite nelle opere di Donatello, realizzate attraverso tecniche e con materiali differenti, ‹‹et con il porre, et con il levare››[3], riportando le parole di Leon Battisti Alberti. Infatti, il corpus artistico donatelliano è molto vasto e variegato: se ne riconoscono le opere in legno, stucco, terracotta, bronzo e ovviamente marmo.
Il Crocifisso in legno di Santa Croce di Donatello
Tra le opere giovanili del maestro, esemplare è il Crocifisso realizzato intorno al 1408, destinato in origine alla Cappella del Beato Gherardo da Villamagna e dal 1571 posizionato nella Cappella Bardi di Vernio in Santa Croce (fig. 1).
La storia del crocifisso ligneo non può che essere ricondotta all’aneddoto vasariano che vide coinvolti i due amici, Donatello e Brunelleschi; al di là della veridicità della storia, il testo lascia comprendere le differenze stilistiche dei due maestri, e contestualmente testimonia la loro vicinanza. Maestoso il Crocifisso di Brunelleschi, stanco e sofferente quello di Donatello; una differenza fondamentale che avrebbe portato Donatello, secondo il Vasari, ad affermare che a Brunelleschi ‹‹è conceduto fare Cristi et a me i contadini››[4] (fig. 2).
Il Crocifisso donatelliano è un crocifisso ligneo policromo, scavato in legno di pero, in cui si riconoscono gli strascichi della formazione ghibertiana nella resa del perizoma.
La sofferenza del Cristo non è dimostrata solo dal sangue che percorre gli arti (mani, braccia, costato e piedi), ma anche dalla muscolatura: il suo corpo è affaticato come il suo volto, dove le labbra carnose e schiuse, gli occhi semiaperti e i capelli bruni divisi in ciocche si mostrano all’opposto dell’eleganza del Crocifisso di Brunelleschi (fig. 4).
La Madonna col Bambino del Museo Bardini: alla scoperta della terracotta
Il contributo dello storico dell’arte Luciano Bellosi fu fondamentale per ampliare il corpus donatelliano con le opere in terracotta, cosicché negli ultimi trent’anni sono state individuate diverse opere realizzate in coroplastica; tra queste, la Madonna Bardini (conosciuta anche come Madonna della mela) è una delle più rappresentative (fig. 5).
Databile intorno al 1420-1423 circa, alla fine del XX secolo fu trovata in un edificio nel Mugello e fu poi acquistata dall’antiquario Stefano Bardini. Si tratta di un altorilievo scontornato, realizzato in terracotta policroma, dipinto e dorato, di cui colpisce la resa graduale dell’aggetto delle figure: partendo dal basso lo spessore è minore, per poi aumentare progressivamente (fig. 6).
La sensazione che si percepisce è quella di essere guardati dalle due figure; un aspetto voluto dall’artista che aiuta a comprendere che in origine il rilievo fosse collocato in alto. Infatti, Maria si sporge verso il basso, mentre il piccolo e vivace Gesù si contorce e tira via il velo alla madre, la quale riesce a frenare il figlio con una mano, e con l’altra mano invece cerca di intrattenerlo con un melagrana dorata (fig. 7).
Fortunatamente i colori e le dorature sono in gran parte originali e tutt’oggi coprono il rossastro della terracotta.
Gli Spiritelli “parigini” in bronzo del Musée Jacquemart-André
Se c’è un soggetto che Donatello ha amato rappresentare con qualsiasi materiale, quello è certamente lo “Spiritello”. Di origine antica, gli Spiritelli sono bambini nudi e alati, allegri e sorridenti, danzanti, musicanti, protagonisti di molte opere del maestro. Tra gli Spiritelli realizzati in bronzo spiccano gli Spiritelli portacero (1436-1438) del Musée Jacquemart-André di Parigi, in origine posizionati sulla Cantoria realizzata da Luca della Robbia su commissione dell’Opera del Duomo di Firenze (fig. 8,9).
La loro originaria posizione ha indotto in errore Giorgio Vasari che nelle Vite ricondusse i due Spiritelli bronzei a Luca della Robbia, ma dai documenti si evince che fu Donatello l’artista pagato per realizzare i due Spiritelli, che ad oggi si mostrano appollaiati su dei supporti marmorei non originali; bisogna però immaginarli disposti sul pergamo, intenti a illuminare l’organista attraverso le candele, in modo da garantirgli la lettura dello spartito (fig. 10).
La posizione delle gambe pingui, abbellite con nastri e ghirlande, non passò inosservata all’epoca: rievocazioni dei due Spiritelli si ritrovano sia nel Gesù bambino nella Madonna col Bambino (1438-1440 circa) di Paolo Uccello (fig. 11), che nella Madonna di Tarquinia (1437) di Filippo Lippi (fig. 12).
Sottilissimo e leggerissimo marmo: la Madonna del Pugliese-Dudley
Grande quanto la copertina di un libro, questo piccolo marmo è stato per molto tempo attribuito a Desiderio da Settignano, ma solo recentemente è stato ricondotto da Francesco Caglioti a Donatello[5] (fig. 13).
Vasari stesso, nella vita di Fra Bartolomeo, relazionò il marmo alla mano dell’artista: ‹‹Aveva Pier del Pugliese avuto una Nostra Donna piccola di marmo, di bassissimo rilievo, di mano di Donatello, cosa rarissima››[6]. Sebbene non sia nota la committenza del rilievo marmoreo, si conosce invece Piero del Pugliese, il committente degli sportellini dipinti da Fra Bartolomeo, raffiguranti l’Annunciazione, la Natività e la Presentazione al Tempio per costruire un piccolo tabernacolo (fig. 14).
In questo marmo “in miniatura” Maria, seduta di profilo, è tutta rivolta al figlio, il quale, sempre attivo, si attacca alla veste fatta di panneggi leggeri, sottilmente intagliati ma comunque palpabili, a cui si unisce il velo che copre il capo della Madonna. Ma è ‹‹l’effetto sentimentale addirittura terebrante››[7] che Donatello seppe far risaltare attraverso il suo stiacciato così sottile – quasi in competizione con la pittura – che si staglia su uno sfondo neutro (fig. 15).
Artisti da Leonardo (fig. 16) a fra Bartolomeo, dal Bronzino (fig. 17) fino ai Gentileschi (fig. 18), seppero acquisire la lezione donatelliana, continuando a dimostrare come Donatello fosse stato così grande da lasciare la sua scia fino al Seicento e oltre.
La maestria e il virtuosismo di Donatello si riconoscono nel modo in cui seppe agevolmente modellare materiali diversi, con i quali creò opere innovative, per cui Vasari lo riconobbe come: ‹‹[…] non pure scultore rarissimo e statuario maraviglioso, ma pratico negli stucchi, valente nella prospettiva […] Et ebbono l'opere sue tanta grazia, disegno e bontà, ch'oltre furono tenute più simili all'eccellenti opere degl'antichi Greci e Romani, che quelle di qualunche altro fusse già mai››[8].
Note
[1] L. BECHERUCCI, Il Museo dell’Opera del Duomo a Firenze, 2 voll., Milano 1969-1970, p. 26.
[2] A. GALLI, «Pressoché persone vive, e non più statue», in La primavera del Rinascimento. La scultura e le arti a Firenze 1400- 1460, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi, 23 marzo - 18 agosto 2013; Parigi, Musée du Louvre, 26 settembre 2013 - 6 gennaio 2014), a cura di B. Paolozzi Strozzi, M. Bormand, Firenze 2013, p. 89.
[3] L.B. ALBERTI, Della architettura della pittura e della statua, traduzione di Cosimo Bartoli, Bologna 1782, p. 323.
[4] G. VASARI, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997, p. 697.
[5] Per approfondire lo studio di Francesco Caglioti a riguardo: Il Giardino di San Marco. Maestri e compagni del giovane Michelangelo (Firenze, Casa Buonarroti, 30.6-19.10.1992), a cura di P. Barocchi, Milano 1992, pp. 72-78 n. 14.
[6] G. VASARI, Le vite…cit., p. 1176.
[7] F. CAGLIOTI, I secoli della Madonna Dudley, in Donatello, il Rinascimento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi-Museo Nazionale del Bargello, 19 marzo-31 luglio 2022), a cura di F. Caglioti, Firenze 2022, p. 398.
[8] G. VASARI, Le vite…cit., pp. 694-695.
Bibliografia
L.B. Alberti, Della architettura della pittura e della statua, traduzione di Cosimo Bartoli, Bologna 1782.
Becherucci, G. Brunetti, Il Museo dell’Opera del Duomo a Firenze, 2 voll., Milano 1969-1970.
Il Giardino di San Marco. Maestri e compagni del giovane Michelangelo (Firenze, Casa Buonarroti, 30.6-19.10.1992), a cura di P. Barocchi, Milano 1992, pp. 72-78 n. 14.
G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997.
Caglioti, Tra dispersioni e ricomparse: gli “Spiritelli” bronzei di Donatello sul pergamo di Luca della Robbia, in Santa Maria del Fiore: the Cathedral and its Sculpture, atti del convegno (Firenze, Villa I Tatti, 5-6 giugno 1997), a cura di M. Haines, Fiesole 2001, pp. 263-287.
Lalli, P. Moioli, M. Rizzi, C. Seccaroni, L. Speranza, P. Stiberc, Il Crocifisso di Donatello nella Basilica di Santa Croce a Firenze. Osservazioni dopo il restauro, in “OPD Restauro”, 2006, 18, pp. 13-38.
Galli, «Pressoché persone vive, e non più statue», in La primavera del Rinascimento. La scultura e le arti a Firenze 1400- 1460, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi, 23 marzo - 18 agosto 2013; Parigi, Musée du Louvre, 26 settembre 2013 - 6 gennaio 2014), a cura di B. Paolozzi Strozzi, M. Bormand, Firenze 2013.
Caglioti, L. Cavazzini, A. Galli, N. Rowley, Reconsidering the young Donatello, in «Jahrbuch der Berliner Museen», LVII, 2015.
Donatello, il Rinascimento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi-Museo Nazionale del Bargello, 19 marzo-31 luglio 2022), a cura di F. Caglioti, Firenze 2022.
LA CAPPELLA “DI ELEONORA” A PALAZZO VECCHIO
A cura di Silvia Faranna
Uno scrigno di pittura ad opera di Agnolo Bronzino
Cosimo I de’ Medici ed Eleonora di Toledo: duchi, committenti, collezionisti
Eleonora di Toledo (fig. 1), da cui prende il nome la cappella per lei realizzata a Palazzo Vecchio, fu una figura di grande importanza per la storia fiorentina, ricordata da Giorgio Vasari come una ‹‹donna nel vero […] valorosa, e per infiniti meriti, degna d'eterna lode››[1]. Figlia di Don Pedro, viceré di Napoli, nacque in Spagna nel 1522, ma trascorse l’adolescenza nella città partenopea, dove crebbe tra ambienti sfarzosi, feste e l’etichetta “alla spagnola” della corte. Nel 1539 si trasferì a Firenze per sposare il giovane Cosimo I de’ Medici (fig. 2), discendente dal ramo della famiglia detto “Popolano”, ed eletto duca di Firenze a soli diciassette anni.
Il loro fu un matrimonio ben riuscito, non solo per motivi economici, in quanto la giovane Eleonora fu portatrice di ricchezze, ma anche perché fu uno dei pochi matrimoni sinceri del tempo: la duchessa Eleonora sostenne il governo del marito, occupandosi anche della gestione delle finanze. I due coniugi ebbero undici figli, ma molti morti in giovane età, insieme alla duchessa, che morì nel 1562. Sia il duca Cosimo I, che la duchessa Eleonora, furono notevoli committenti durante il loro governo: la duchessa Eleonora, in particolare, acquistò Palazzo Pitti nel 1549 e si occupò della realizzazione del Giardino di Boboli. Giunsero quindi a corte i più importanti artisti e architetti fiorentini dell’epoca: Giorgio Vasari, Benvenuto Cellini, Bartolomeo Ammannati, Agnolo Bronzino e tanti altri, che in questi anni apportarono importanti modifiche sul piano artistico-architettonico a Firenze, dandone un nuovo volto e un nuovo prestigio economico e culturale.
La pittura di Agnolo Bronzino alla corte medicea
Agnolo Bronzino (fig. 3), allievo e figlio adottivo del Pontormo, fu un artista e poeta[2] che lavorò prevalentemente al servizio della famiglia Medici e dei suoi alleati: fu nell’estate del 1539 che il giovane principe appena ventenne rimase così colpito dal talento dell’artista tanto da nominarlo pittore di corte.
Numerosi sono i ritratti ufficiali realizzati dal Bronzino per i duchi e nobili fiorentini: celebri sono i ritratti di Eleonora di Toledo con il figlio Giovanni (1545) (fig. 4) e il Ritratto di Lucrezia Panciatichi (1541 ca) (fig. 5) dove seppe cogliere il carattere ideale dei suoi committenti, senza ledere l’aspetto naturalistico né psicologico dei personaggi, attraverso una resa minuziosa e realistica dei volti e delle vesti ‹‹tanto naturali che paiono vivi veramente e che non manchi loro se non lo spirito››.[3]
La cappella “di Eleonora”
Secondo la testimonianza di Giorgio Vasari, il duca ‹‹conosciuta la virtù di quest’uomo, gli fece metter mano a fare nel suo ducal palazzo una cappella non molto grande per la detta signora duchessa››[4]. Dal 1540 al 1545 Agnolo Bronzino portò a compimento la decorazione pittorica della Cappella “di Eleonora” in Palazzo Vecchio (fig. 6), trasformato nella residenza ufficiale della famiglia Medici. Era necessario, in età della Controriforma, che nella seconda corte medicea (la prima fu l’attuale Palazzo Medici Riccardi in via Cavour, al tempo via Larga) esistesse una cappella privata per la preghiera individuale e l’adorazione eucaristica. La cappella di Eleonora è posizionata nel “Quartiere di Eleonora”, negli ambienti dedicati alla prima donna che visse al palazzo, ricavata attraverso la chiusura di una campata dell’antecedente Camera Verde, al secondo piano, grazie al progetto di Giovan Battista del Tasso e Giorgio Vasari.
Il Bronzino affrescò tutta la superficie delle pareti e del soffitto della cappella, creando un’architettura illusionistica; il tema iconografico, trattato attraverso la rappresentazione delle storie bibliche, è incentrato sul corpus Christi. Sulla parete frontale si trova la pala con la Deposizione di Cristo (fig. 7): si tratta di una replica autografa, ma più modesta, di un dipinto del 1545 che oggi si trova al Museo di Besançon (fig. 8), in quanto fu donato al segretario dell’imperatore Carlo V Nicolas Perrenot de Granvelle, in missione diplomatica a Firenze.
Ai lati della pala si trovano un Angelo annunciante (fig. 9) e la Vergine annunciata (fig. 10), che nel 1564 sostituirono per volere della duchessa Eleonora, come testimonia il Vasari[5], un San Cosma, santo patrono di Firenze e un San Giovanni Battista, santo eponimo di casa Medici. In alto, nei pennacchi, un David e la Sibilla Eritrea.
Sulla parete destra della cappella è situato l’affresco con il Passaggio del Mar Rosso e la Nomina di Giosuè (fig. 11), dove si percepiscono i rimandi al potere mediceo. Il Bronzino non rappresentò sullo sfondo l’annegamento degli egiziani, secondo l’episodio biblico, ma dei turchi: infatti, essendo i turchi a quel tempo nemici di tutta l’Europa, con questa rappresentazione Cosimo volle essere paragonato a un nuovo Mosè, in grado di portare pace, ordine e prosperità nel Ducato di Toscana. Per rendere il rimando ancora più forte, sono rappresentati sull’affresco alcuni personaggi contemporanei quali il segretario di corte Pierfrancesco Riccio (fig. 12) e la duchessa Eleonora (fig. 13).
Sulla parete di ingresso si trova l’Adorazione del serpente di bronzo (fig. 14) mentre sulla parete di sinistra sono dipinti la Caduta della manna e la Comparsa di sorgenti nel deserto, episodi biblici completati con due Angioletti con calice e globo al di sopra della finestra.
Infine, sul soffitto, splendente nel suo azzurro celestiale, il pittore raffigurò la Trinità come il Vultus trifrons, sebbene inizialmente fosse stato dipinto lo stemma Medici-Toledo, coperto nel 1565 e parzialmente riapparso. Al centro della volta, disposti secondo una ritmica alternanza di festoni e putti, si riconoscono San Giovanni Evangelista penitente a Patmos, San Michele Arcangelo che vince il demonio, San Francesco che riceve le stimmate e San Girolamo penitente con Leone (fig. 15). Infine, in corrispondenza dei pennacchi, il Bronzino rappresentò le personificazioni delle Virtù: Temperanza, Giustizia, Fortezza e Prudenza.
Dal punto di vista stilistico la cappella nel suo insieme manifesta nel visitatore un senso di meraviglia e stupore: sensazioni recepite grazie all'utilizzo da parte del Bronzino di colori smaglianti, come il blu lapislazzuli, i rossi, i verdi e i grigi, uniti all'iperrealismo che attraversa le fisionomie dei personaggi, dalle carnagioni estremamente candide (figg. 16-17).
Ogni singola figura si amalgama perfettamente alla storia, partecipandone con intensità. Le pitture della cappella furono realizzate con forme e colori tra i più alti del Manierismo fiorentino, interpretato dal Bronzino che nella sua pittura consolidò gli insegnamenti del suo maestro, il Pontormo, unendole alle anatomie michelangiolesche e alludendo alla prospettiva di Paolo Uccello[6]. In questo ambiente ristretto, ma prezioso e intimo, la duchessa Eleonora ebbe modo di raccogliersi in preghiera durante le sue giornate a corte, e ancora oggi è possibile immergersi in un connubio di colori ed espressioni brillanti.
Note
[1] G. VASARI, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997, p. 2894.
[2] Sebbene la sua occupazione principale fosse quella di pittore, Giorgio Vasari così scrisse nelle Vite: ‹‹Si è dilettato costui e dilettasi ancora assai della poesia, onde ha fatto molti capitoli e sonetti, una parte de' quali sono stampati. Ma sopra tutto (quanto alla poesia) è maraviglioso nello stile e capitoli bernieschi, intanto che non è oggi chi faccia in questo genere di versi meglio, né cose più bizarre e capricciose di lui, come un giorno si vedrà, se tutte le sue opere, come si crede e spera, si stamperanno››. (G. VASARI, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997, p. 2902.)
[3] Ivi, p. 2893.
[4] Ivi, p. 2894.
[5] ‹‹In luogo della qual tavola ne ha fatto una simile il medesimo e postala sopra l’altare in mezzo a due quadri non manco belli che la tavola, dentro i quali sono l’angelo Gabriello e la Vergine da lui annunziata. Ma in cambio di questi, quando ne fu levata la prima tavola, erano un San Giovanni Batista et un San Cosimo, che furono messi in guardaroba quando la signora Duchessa, mutato pensiero, fece fare questi altri due.›› (G. VASARI, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997, p. 2895.)
[6] Cfr. A. PAOLUCCI, Bronzino, collana “Art Dossier”, 180, Firenze 2002, p. 26.
Bibliografia
VASARI, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997.
E. ELDESTEIN, Bronzino at the Service of Eleonora di Toledo and Cosimo I de’ Medici: Conjugal Patronage and the Painter-Courtier, in Beyond Isabella. Secular Women Patrons of Art in Renaissance Italy, a cura di S. E. Reiss, D. C. Wilkins, Truman State University Press, Kirksville 2001, pp. 225-261.
PAOLUCCI, Bronzino, collana “Art Dossier”, 180, Firenze 2002.
ACIDINI, I Medici e le arti, collana “Art Dossier”, 255, Firenze 2009.
Bronzino. Pittore e poeta alla corte dei Medici, catalogo della mostra a cura di C. Falciani (Firenze, 24 settembre 2010-23 gennaio 2011), Firenze 2010.
Sitografia
https://www.youtube.com/watch?v=AC3koLyWqWg
https://www.frammentiarte.it/2014/11-cappella-eleonora-da-toledo/
L’ANNUNCIAZIONE PER SAN MARTINO ALLA SCALA DI SANDRO BOTTICELLI
A cura di Silvia Faranna
La pittura murale di Botticelli alle Gallerie degli Uffizi
‹‹Ne’ medesimi tempi del Magnifico Lorenzo Vecchio de’ Medici, che fu veramente per le persone d’ingegno un secol d’oro, fiorì ancora Alessandro, chiamato a l’uso nostro Sandro e detto di Botticello››[1]: Sandro Botticelli fu uno dei massimi rappresentanti della cultura figurativa laurenziana a Firenze, dove si formò per poi diventare un artista indipendente dal 1470, quando fondò una propria bottega artistica.
Nel corso della sua vita Botticelli lavorò prevalentemente a Firenze, al servizio della famiglia Medici e di altre nobili famiglie fiorentine, nonché per un committente molto prestigioso, il papa Sisto IV, per il quale si recò a Roma dal 1481 al 1482 al fine di dipingere la cappella Sistina insieme ad altri eminenti artisti dell’epoca.
Fra l’aprile e il maggio del 1481, poco prima della sua partenza per Roma, Botticelli fu impegnato nella realizzazione di un affresco presso lo Spedale di San Martino alla Scala di Firenze, posto tra via della Scala e via degli Orti Orticellari (fig. 1). Lo Spedale, che sorse nel 1313 in dipendenza dall’omonimo e più noto Ospedale di Siena, era predisposto prevalentemente all’accoglienza e curatela degli infermi e dei bambini orfani. Nel corso degli anni, lo Spedale fu oggetto di ristrutturazioni architettoniche e progetti: in seguito alla distruzione del convento delle suore di San Bartolomeo e San Martino, per via dell’assedio di Carlo V del 1529, nel 1532 l’Ospedale fu donato parzialmente a queste ultime che ne mutarono anche l’intitolazione. Nel 1536 fu soppresso e agglomerato a quello degli Innocenti, ospedale dall’architettura brunelleschiana, fondato con l’intento di accogliere gli infanti abbandonati.
Grazie ai documenti pubblicati da Giovanni Poggi nel 1915-1916, è possibile sapere che Botticelli realizzò ‹‹una dipintura d’una Nunziata la chuale è nella logg(i)a inanzi della nostra porta della chiesa e de la porta di chasa.››[2] e il cui compenso fu consegnato a un collaboratore dell’artista, un certo Lodovico. Probabilmente le monache dello Spedale scelsero di commissionare la pittura murale al Botticelli anche in relazione alla sua vicinanza: lo Spedale si trovava in prossimità di Borgo Ognissanti, dove Botticelli visse sin dall’infanzia e dove in seguito aprì la sua bottega (non per caso il pittore è sepolto proprio nella chiesa di San Salvatore in Ognissanti). L’affresco del Botticelli può essere interpretato come un dono di ringraziamento alla Vergine Annunciata, patrona dello Spedale, richiesto in seguito alla pestilenza che colpì Firenze nel 1478-1479, quando l’orfanotrofio di Santa Maria della Scala fu utilizzato come luogo di sepoltura (fig. 2).
In origine l’affresco fu realizzato dall’artista sotto una loggia antistante la chiesa di San Martino, proprio ‹‹al di sopra del secondo portale››, ma in seguito alla creazione di un coro per le suore nel 1623, l’affresco venne parzialmente coperto e ristretto in due lunette. Data la condizione a rischio della pittura, venne staccato dal supporto nel 1920 e restaurato nella sua forma completa, recuperando anche la porzione superiore.
L’identificazione dell’esatta posizione originaria dell’affresco contribuisce a una lettura più chiara della costruzione prospettica adottata dal Botticelli. Infatti, il punto di fuga della scena è posto in corrispondenza della testa dell’angelo, di conseguenza decentrato verso sinistra (fig. 3); essendo l’affresco posizionato sopra la porta, la visione dell’angelo ‹‹è centrale per chi entri nella porta e questo è il punto di vista dell’intera opera››[3].
La scena dell’Annunciazione è distribuita in diversi ambienti: dall’atrio in cui si libra l’angelo Gabriele, si prosegue con l’anticamera di Maria, che lascia intravedere la camera da letto, e si conclude con un giardino recintato (un hortus conclusus, simbolo della verginità di Maria) che appare alle spalle dell’angelo attraverso una sorta di “cannocchiale prospettico”, dal quale si intravedono i cipressi e un passaggio d’acqua in lontananza. La sapiente spartizione dello spazio, che anticipa i prossimi affreschi nella cappella Sistina, è arricchita da minuziosi particolari decorativi che rendono l’affresco una preziosa testimonianza degli interni delle abitazioni quattrocentesche: i pilastri sono ricoperti da girali e i capitelli decorati con motivi floreali, mentre le pavimentazioni prospettiche sono composte da intarsi di marmi bianchi e rossi da una parte e di cotto dall’altra. Dominante è il colore bianco: sin dal tappeto orientale su cui si poggia la Vergine, fino alla coltre sotto cui si protegge Maria, ai tendaggi, alle federe e, infine, alla coperta trasparente che ricopre il letto (fig. 4).
Difatti, la presenza costante del bianco che illumina gli appartamenti dell’Annunciata potrebbe richiamare alla virtuosa purezza[4] di colei che, appena ricevuto l’annuncio dall’Angelo, messo del Signore, lo accetta con umiltà. La sensazione di movimento della scena è resa dall’arrivo dell’Angelo dalla porta: Gabriele è rappresentato in volo, quasi sul punto di toccare terra, mentre si avvicina alla Vergine incrociando le mani al petto e portando con sé il giglio, simbolo di purezza (fig. 5).
I suoi capelli morbidi e le vesti, che ne avvolgono il corpo leggero, si gonfiano e ondeggiano al passare della brezza; il dolce volto del messaggero divino è raffigurato nel mentre del suo annuncio: ‹‹Ave gratia plena, Dominus tecum››, accompagnato dai raggi di luce che attraversano lo spazio per raggiungere Maria (fig. 6).
Inginocchiata su un tappeto, raccolta nella sua intimità, Maria interrompe la lettura, china il volto aggraziato e porta le mani al petto: è coperta da un mantello celeste ed è avvolta da un copricapo diafano, colta nella sua umanità e profonda fede (fig. 7).
Sebbene l’affresco non possa essere ammirato nel suo luogo d’origine, grazie alle fonti e ai documenti è possibile ricostruirne il contesto originale, comprendendo le scelte dell’artista, il cui affresco ad oggi può essere osservato nella Galleria degli Uffizi in compagnia di altrettanti capolavori del maestro (fig. 8).
Note
[1] G. VASARI, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997, p. 974.
[2] G. POGGI, “The Annunciation”of San Martino; by Botticelli, in “The Burlington Magazine for Connoisseurs”, vol. 28, 154, 1916, p. 130.
[3] GODOLI, PALLET, in Rinascimento, 2001, p. 69.
[4] Cfr. N. PONS, Sandro Botticelli. Pittore della Divina Commedia, catalogo della mostra a cura di G. Morello, A. M. Petrioli Tofani (Roma, Scuderie Papali al Quirinale, 20 settembre - 3 dicembre 2000), Roma Milano 2000, pp. 56-57.
Bibliografia
POGGI, “The Annunciation”of San Martino; by Botticelli, in “The Burlington Magazine for Connoisseurs”, vol. 28, 154, 1916, pp. 128-130, 132-133, 137.
VASARI, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997.
Sandro Botticelli. Pittore della Divina Commedia, catalogo della mostra a cura di G. Morello, A. M. Petrioli Tofani (Roma, Scuderie Papali al Quirinale, 20 settembre - 3 dicembre 2000), Roma Milano 2000.
ARASSE et aliis, Botticelli e Filippino: l’inquietudine e la grazia nella pittura fiorentina del Quattrocento, catalogo della mostra (Parigi, 1° ottobre 2003-22 febbraio 2004, Firenze 11 marzo-11 luglio 2004), Milano 2004.
DEBENETTI, Botticelli artist and designer, Bruxelles 2021.
Sitografia
https://www.uffizi.it/video/le-annunciazioni-di-botticelli-9c369805-0183-4625-a5b8-874361c1787f
LA CAPPELLA DEL MIRACOLO DEL SACRAMENTO NELLA CHIESA DI SANT’AMBROGIO, FIRENZE
A cura di Silvia Faranna
Accenni alla storia della Chiesa di Sant’Ambrogio
Nei pressi del mercato di Sant’Ambrogio, nelle vicinanze della Sinagoga, si erge la chiesa di Sant’Ambrogio, fulcro di un quartiere brulicante di vita e quotidianamente popolato dai fiorentini e dai turisti. La chiesa, la cui esistenza è attestata dal 988, è sorta nel luogo dove nel 393 sarebbe stato ospitato Sant’Ambrogio, vescovo di Milano (Fig. 1). Nel corso del Medioevo la chiesa fu ampliata e accolse numerosi capolavori quali la Sant’Anna Metterza di Masaccio e Masolino, l’Incoronazione della Vergine di Filippino Lippi e la Pala di Sant’Ambrogio di Sandro Botticelli, oggi tutte conservate alle Gallerie degli Uffizi.
La decorazione della Cappella del Miracolo del Sacramento
Nel 1484 si sentì il bisogno di rinnovare la cappella della reliquia del Corpus Christi. La cappella a pianta rettangolare, collocata a sinistra del presbiterio, fu decorata da due affermati artisti dell’epoca: lo scultore Mino da Fiesole[1] e il pittore Cosimo Rosselli. Mino da Fiesole realizzò un grande dossale marmoreo, completato con le stesse dorature (di cui ad oggi non rimane traccia) usate sugli affreschi. Ai lati del tabernacolo, la muratura fu affrescata da Cosimo Rosselli con Gli angeli musicanti, e negli spicchi della volta a crociera furono rappresentati i quattro Dottori della chiesa (Girolamo, Agostino, Gregorio e Ambrogio) su uno sfondo di un cielo stellato che, perdute le sue tonalità originali, oggi si presenta rossastro (Fig. 2).
Il miracolo del Santissimo Sacramento e il suo affresco
Cosimo Rosselli[2], pittore ormai affermato e reduce dall’incarico ricevuto da papa Sisto IV, nel 1481, di decorare le pareti della Cappella Sistina, eseguì l’affresco dalla primavera del 1484 all’estate del 1486, seguendo un progetto voluto dalle monache benedettine. Questa grande impresa valse al pittore il riconoscimento della badessa Maria de’ Barbadori, la quale infatti gli commissionò altre opere e gli concesse dei privilegi. La scena affrescata fa riferimento al miracolo avvenuto nella chiesa di Sant’Ambrogio il 30 dicembre del 1230, quando il sacerdote Uguccione nel detergere il calice durante la messa del venerdì vi lasciò del vino consacrato che il mattino seguente venne trovato come sangue, che si divise per due volte in tre parti. La domenica successiva, il sangue divenne carne viva. L’affresco, tradizionalmente conosciuto come il Miracolo del Santissimo Sacramento, non rappresenta in verità il miracolo in sé, quanto un evento ambientato sul sagrato della chiesa, ma legato comunque alla sacra reliquia. Sono diverse le interpretazioni iconografiche e si pensa probabilmente all’esposizione del calice che scongiurò la peste nel 1340, oppure alla cerimonia di trasferimento della reliquia all’episcopio nel 1231[3] (Fig. 3).
Giorgio Vasari nelle Vite scrisse: “Alle monache di Santo Ambruogio fece la cappella del miracolo del Sacramento, la quale opera è assai buona, e delle sue che sono in Fiorenza tenuta la migliore”[4]. L’artista aretino definì questo affresco come una delle opere migliori di Cosimo Rosselli a Firenze, il quale diede rilevanza a molti dettagli: dalle colline fiorentine sullo sfondo, alla donna che dalla finestra di un casolare stende i panni bianchi sulla sinistra, fino al gatto che caccia un piccione sul cornicione della finestra, mentre accanto un uomo si affaccia per assistere alla scena. Il pittore pose una particolare attenzione anche nelle vesti e copricapi delle donne che partecipano alla scena, le quali indossano delle lunghe parrucche bionde per apparire più belle, come prevedeva la moda dell’epoca (Fig. 4).
La scena principale avviene sulla destra, in corrispondenza della facciata della chiesa di Sant’Ambrogio, dove un vescovo tiene in esposizione un’ampolla con dentro il vino sacro, circondato da suore e preti, tra cui la badessa committente (Fig.5).
Tra la folla spiccano alcuni gruppi che rappresentano personaggi realmente esistiti. All’estrema sinistra, l’uomo che si rivolge verso lo spettatore è identificato come un autoritratto dell’artista. Al centro, invece, si riconosce il gruppo con i tre umanisti neoplatonici Marsilio Ficino, Giovanni Pico della Mirandola e Agnolo Poliziano. Lo sottolineò anche Vasari scrivendo: “Et in questa fece di naturale il Pico signore della Mirandola tanto eccellentemente, che e’ non pare ritratto, ma vivo”[5](Fig. 6).
Infine, sulla destra, si nota un piccolo gruppo formato da una giovane donna, che indossa una veste azzurra e ha i capelli raccolti in una lunga treccia, in compagnia di due bambini: questi sono colti mentre avanzano in avanti, ma i loro volti sono girati in modo da richiamare l’attenzione dello spettatore verso la scena centrale (Fig.8).
L’affresco e la sinopia: all’interno della mente dell’artista
A seguito del distacco dell’intonaco pittorico operato da Dino Dini tra il 1965 e il 1966 è emersa la preziosa sinopia dell’affresco principale, attualmente conservata sul lato sinistro della navata della chiesa e facilmente visibile (Fig.7).
Osservando la sinopia, dove i personaggi furono rappresentati in maniera sbozzata e con le vesti poco dettagliate, è possibile comprendere il progetto iniziale dell’artista e i cambiamenti attuati in corso d’opera. Un dettaglio esemplare riguarda proprio il gruppo della giovane donna con i due bambini: nell’affresco sono rivolti verso gli spettatori, nella sinopia invece è solo il bambino sulla sinistra ad essere girato, mentre la giovane, con un’altra acconciatura, e il secondo bambino, camminano e guardano avanti (Fig.9).
Sono tante le differenze rispetto all’affresco completo, come il caso dell’uomo che riceve il calice dal vescovo, il quale nella sinopia sembra possedere i tipici attributi di San Benedetto (barba, chierica e abito monastico con cappuccio), ma che nell’affresco finale è stato identificato un altro personaggio.
Grazie al recente restauro della cappella, finanziato da Unigum SpA di Calenzano, avviato nel 2016 e conclusosi all’inizio del 2017, è oggi possibile godere pienamente delle pitture di Cosimo Rosselli, da considerare preziose testimonianze della realtà artistica e sociale a Firenze in epoca laurenziana.
Note
[1] Mino da Fiesole (Poppi 1430 ca – Firenze 1484), scultore toscano, si formò presso la bottega di Bernardo Rossellino, insieme a Desiderio da Settignano e Antonio Rossellino a Firenze. Lavorò a diverse imprese monumentali tra Firenze, Roma e anche a Napoli alla corte di Alfonso d’Aragona. Molto celebri i suoi ritratti scultorei, caratterizzati dalle forme morbide e un approfondimento psicologico.
[2] Cosimo Rosselli (1439/1440 ca – 1507) fu un pittore fiorentino, si formò e fece parte della bottega di Neri di Bicci. Nel 1481 fu chiamato da Papa Sisto IV per decorare la cappella Sistina insieme a Domenico Ghirlandaio, Sandro Botticelli e Pietro Perugino. La sua attività è per lo più documentata in territorio fiorentino, tra le chiese di Santa Trinita, Santo Spirito e Sant’Ambrogio. Nel 1491, partecipò con altri artisti al concorso per la facciata del duomo di Santa Maria del Fiore, con un disegno di cui non si sa nulla. Il 19 aprile 1492 ricevette la nomina da Benedetto di Maiano di tutore dei suoi figli e curatore dell’eredità. Era probabilmente considerato un uomo pacifico e onesto, si narra infatti che più volte venisse chiamato per risolvere controversie ed esporre pareri, come quando fu interpellato per aiutare Vittorio di Lorenzo Ghiberti e i suoi figli.
[3] Per un approfondimento sull’identificazione della tematica rappresentata nell’affresco è utile il testo di E. Gabrielli, Cosimo Rosselli: catalogo ragionato (2007).
[4] G. VASARI, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, a cura di L. Bellosi e A. Rossi, Torino 2015, pp. 441.
[5] Ibidem.
Bibliografia
GABRIELLI, Cosimo Rosselli: catalogo ragionato, Torino 2007, pp. 185-194.
VASARI, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, a cura di L. Bellosi e A. Rossi, Torino 2015, pp. 440-442.
Cosimo Rosselli: tre restauri. Nuova luce su un maestro del Rinascimento fiorentino, a cura di C. Acidini, N. Rosselli Del Turco, Firenze 2018, pp. 61-91.
Sitografia
http://www.treccani.it/enciclopedia/cosimo-di-lorenzo-rosselli_%28Dizionario-Biografico%29/
https://www.treccani.it/enciclopedia/mino-da-fiesole/
www.adottaunoperadarte.it/dalla-sinopia-allaffresco
http://www.adottaunoperadarte.it/la-cappella-del-miracolo-in-santambrogio
https://www.guidemeflorence.com/it/2020/06/15/chiesa-sant-ambrogio-firenze/