CHIESA DI SAN MARCO A ROSSANO CALABRO

A cura di Antonio Marchianò

La piccola chiesa di San Marco sorge all'estremità sud-orientale nel centro storico di Rossano su un banco di roccia tufacea. Edificata intorno al X secolo, probabilmente dopo il terremoto che colpì Rossano nel 950 d.C., la chiesa di San Marco è considerata uno dei massimi esempi di architettura religiosa bizantina in Calabria. Originariamente nasce come oratorio bizantino dedicato all'ascesi comunitaria dei monaci. I monaci eremiti vivevano nelle sottostanti grotte di tufo, utilizzando il piccolo oratorio per le preghiere comunitarie, per la meditazione, per i canti corali, e soprattutto per la lettura dei testi sacri. La struttura pare che sia stata fatta costruire a proprie spese da Euprassio, protaspatario delle Calabrie, che a quel tempo dimorava a Rossano. Egli edificò questa chiesa, che ai tempi di San Nilo era dedicata a Santa Anastasia, ed in seguito a San Marco. Molti credono che in questo luogo, prima che Euprassio avesse disposto di fabbricarvi questa chiesa, ne esistesse un’altra dedicata a San Marco, che forse andò in rovina.

Fig.1 - Chiesa di San Marco.

La struttura originaria presenta strette affinità con la Cattolica di Stilo. Di forma quadrata e pianta a croce greca, con cupola centrale e quattro volte intorno, tipicamente bizantine, la chiesa di San Marco presenta anche quattro pilastri che reggono la cupola centrale, terminanti con capitelli ornati. La facciata orientale è adornata da tre absidi semicircolari, con piccole finestre bifore in alto a transenna di stucco. L'interno dell'oratorio (fig.2) è diviso in nove riquadri da quattro pilastri ciascuno, sul riquadro centrale e su quelli angolari si levano le cupole. La struttura ha subito nel tempo una serie di aggiunte e manomissioni oltre a restauri resi necessari dai danni del terremoto del 1836, che tuttavia non ne hanno compromesso la fisionomia originale. Sul lato sinistro, quello dell'ingresso, sorgeva un pseudo campanile addossato alla cupola angolare, che nell'intenzione del costruttore locale doveva simulare una torretta quadrata sormontata da cupola.

Fig.2 - Chiesa di San Marco, interno.

Numerose aggiunte di abbellimento furono compiute in età barocca, quali il soffitto “di tavole rusticamente a rosoni” e un nuovo altare. Nel secolo scorso la chiesa è stata utilizzata come cimitero dei colerosi. Fra il 1926 e il 1931, a cura della soprintendenza alle antichità bruzio-lucane, fu condotta una campagna di restauro grazie alla quale è emerso sul muro di sinistra, in fondo al presbiterio, un frammento di affresco raffigurante una Madonna Odigitria (fig.3). L’affresco è stato datato al XIII secolo ed è l’unico resto di una decorazione pittorica originariamente molto estesa.  Il recente restauro dell'edificio avvenuto tra il 1977 e il 1980 ha portato alla luce due fosse, una delle quali destinata alla sepoltura comune dei cadaveri, l'altra invece doveva essere una sorta di passaggio segreto che conduceva direttamente alla Cattedrale di Rossano e quindi fungeva da possibile via di fuga. Alcuni pezzi scultorei come la mensa d'altare (fig.4), dal bordo decorato a motivi geometrici  e un frammento scultoreo decorato a foglie ed un'acquasantiera con un fiorone scolpito a risparmio.

Bibliografia

Burgarella F., “La Calabria bizantina (VI-XI secolo)”. In San Nilo di Rossano e l’Abbazia greca di Grottaferrata.

Burgarella F., “Rossano in epoca bizantina”. Daidalos, 2003, Vol. III, n. 3, pp. 10-15.

Fiorenza E., “La Cattolica di Stilo”. Laruffa Editore, Reggio Calabria 2016.

Musolino G., Santi eremiti italo greci. Grotte e chiese rupestri in Calabria. Rubbettino 2002, pag. 105.

Loiacono P., Restauri a monumenti della Calabria e della Basilicata / d’Italia, Anno 25, ser. 3, n. 1 (lug. 1931), p. 43-47.

Kruautheimer R., Architettura paleocristiana e bizantina, Torino 1986, p. 380.

Roma G., “Monasteri bizantini fortificati sul territorio della Calabria settentrionale. Problemi archeologici e Lettura.”. In Histoire et culture dans l’Italie byzantine: Ecole Française de Rome, 2006, Collection de L’Ecole Française de Rome Vol. 363, pp. 505-514.


CATTEDRALE DI MARIA SANTISSIMA DI ROMANIA A TROPEA

A cura di Antonio Marchiano

La facciata della cattedrale di Maria Santissima di Romania

La Cattedrale di Maria Santissima di Romania venne edificata a Tropea tra la fine del XII e l’inizio XIII secolo ad opera dei Normanni. Si tratta di un impianto a tre navate divise da pilastri ottagonali sormontati da archi a sesto acuto con doppia ghiera; tre absidi semicircolari concludono le navate. All'esterno risalta in maniera evidente la parete nord caratterizzata da un basamento in cui trova posto una serie di archi sormontata da un ordine di finestre e pseudo finestre caratterizzate da conci calcarei alternati a mattoni e conci di pietra lavica. La parete stessa è interrotta dall'ingresso settentrionale evidenziato da un portale settecentesco in marmo in cui trova posto un rilievo marmoreo riproducente l’icona della Beata Vergine Maria di Romania. La facciata principale è caratterizzata da un grande rosone del XVI secolo, dal portone dell’ingresso principale e da una piccola porta che immette nella navata sinistra. In alto, nel portone più grande, è collocata una scultura marmorea raffigurante la Madonna con il Bambino. Le absidi, interamente ricostruite sulle fondazioni originarie, riprendono il partito decorativo del fianco settentrionale.

Fig. 1 - Cattedrale di Maria Santissima di Romania a Tropea.

Nella prima cappella di destra troviamo alcune sepolture della famiglia Galluppi, risalenti al 1598 e al 1651, e la tomba del filosofo Pasquale Galluppi. Nella seconda cappella è collocato un grande Crocifisso ligneo del XVI secolo. Andando avanti segue l’ingresso laterale meridionale e la tomba della famiglia Gazzetta (1530). Da qui si accede alla sagrestia e alla sala capitolare che ospita i ritratti dei Vescovi della Diocesi e arredi lignei settecenteschi. Ritornando alla navata destra si prosegue e si giunge alla cappella del SS Sacramento e di S. Domenico, che ospita pregevoli altari in marmo policromi e decorazioni del 1740; lateralmente è l’altare di S. Domenico e di S. Francesco di Paola. I pennacchi della volta e delle lunette ospitano tele di Giuseppe Grimaldi raffiguranti il martirio di Santa Domenica. Uscendo dalla cappella, in fondo all'abside della navata destra, vi sono l’organo e l’altare con la Madonna del Popolo, opera di Fra Agnolo Montorsoli (fig.2), seguace del Buonarroti, scolpita nel 1555.

Fig. 2 - Cattedrale di Maria Santissima di Romania, scultura di Fra Agnolo Montorsoli.

Sulla parete dell’abside maggiore è collocata l’icona della Beata Vergine Maria di Romania (fig.3), opera di scuola giottesca attribuita a Lippo Beninvieni (metà del XIV). Il quadro di scuola giottesca, eseguito su tavola di cedro, è stato ritoccato più volte nel tempo con l'aggiunta di quattro angioletti ai lati, e reso rettangolare nella parte superiore, originariamente circolare. La pietà popolare le attribuisce numerosi miracoli che protessero la città da terremoti, pestilenze e dalla distruzione bellica.

Fig. 3 - Cattedrale di Maria Santissima di Romania, Icona.

L'icona miracolosa della Madonna di Romania

La leggenda dice che al tempo delle lotte iconoclaste l’icona fu trafugata da marinai tropeani ad una imbarcazione proveniente dall’Oriente-bizantino sospinta da una tempesta nel porto di Tropea: per questo venne denominata Madonna della Romania. Riparate le avarie, il capitano cercò di ripartire ma la nave rimaneva ferma in rada. Nella stessa notte il Vescovo della città sognò la Madonna che gli chiedeva di rimanere a Tropea e diventarne la Protettrice. Il sogno si ripeté per varie notti. Alla fine il Vescovo, convocati gli alti funzionari e i cittadini, si recò al porto a prendere il quadro della Madonna. Non appena il quadro fu portato a terra la nave ripartì.  Successivamente la Madonna venne ancora in sogno ad un altro vescovo, avvertendolo di un terremoto che avrebbe devastato la Calabria. Questi il 27 Marzo 1638 istituì una processione di penitenza, che coinvolse tutto il popolo tropeano. Durante la processione si scatenò il terremoto che non procurò alcun danno ai tropeani.  Da un altro terremoto, molto più forte e più tragico, furono salvati successivamente i tropeani: quello del 1783 che investì la Calabria intera, ridisegnandone il volto geo-fisico visibile ancora oggi. Da questo avvenimento si rafforzò la devozione di Tropea per questa Madonna a cui i tropeani, riconoscendone l'intercessione benefica, diedero il titolo di Protettrice, e tutt'oggi i tropeani ricordano quel 27 di marzo 1638. Attribuite alla Madonna di Romania furono anche la salvezza dall'epidemia di peste che nel 1660 si espanse a Tropea e in tutto il regno di Napoli e che portò migliaia di vittime e poi, durante la seconda guerra mondiale, la non esplosione di due grandi ordigni bellici, anch'essi custoditi nella cattedrale di Tropea a ricordo di quella tragedia evitata.

Nella navata maggiore troviamo il pulpito settecentesco sotto il quale è collocato un bassorilievo della Natività, opera di Pietro Barbalonga (1598) facente parte, in origine, della cappella Galzerano. Passando dalla navata sinistra, nell'abside troviamo l’altare della Madonna della Libertà in marmo carrarese (statua del XVII) con un pregevole tabernacolo marmoreo di scuola toscana del XV secolo, commissionato dal Vescovo Pietro Balbo, di origine Toscane. Sull'uscita laterale verso il nord, un bassorilievo raffigurante la Resurrezione, attribuito al Gagini (metà del XVI secolo) e due tondi raffiguranti l’Annunciazione, dello stesso periodo. Purtroppo la chiesa ha subito numerosi rimaneggiamenti nei secoli a causa di terremoti ed incendi, fu riportato al suo stile architettonico originario con gli interventi di restauro del 1927-1931 che cancellarono quasi ogni traccia in stile Barocco e Neoclassico.

 

Bibliografia

De Sensi G., Sestito e Antonio Zumbo, Il Territorio in età antica, in Tropea - Storia, Cultura, Economia, a cura di Fulvio Mazza, Soveria Mannelli 2000.

Foti G., Attività della Soprintendenza archeologica della Calabria nel 1980, Atti XX CSMG, Istituto per la storia e l'archeologia della Magna Grecia, Taranto 1981.

Leone G., La Calabria dell’arte,: Città Calabria Edizioni, gruppo Rubbettino, 2008, pp. 31-32.

Pugliese F., Guida artistica, in Tropea, a cura di Pasquale Russo Vibo Valentia 2002.


IL DUOMO DI SALERNO E LA CRIPTA

A cura di Stefania Melito

INTRODUZIONE

La cattedrale primaziale metropolitana di Santa Maria degli Angeli, San Matteo e San Gregorio Magno, altresì detta Duomo di Salerno, o Cattedrale di San Matteo, o semplicemente San Matteo per i salernitani, è la chiesa principale della città. Il suo titolo di cattedrale è in realtà solo onorifico, in quanto essa è una basilica minore, ma si fregia del titolo di cattedrale in quanto riveste particolare importanza per il suo territorio e per la Chiesa.

Fig. 1: Di Berthold Werner, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=32936645

LA STORIA DEL DUOMO DI SALERNO: ROBERTO IL GUISCARDO

Costruito tra il 1076 e il 1084 quando era arcivescovo Alfano I, il duomo di Salerno fu voluto da Roberto il Guiscardo, personaggio fondamentale per la storia di Salerno. Sposo in seconde nozze della principessa longobarda Sichelgaita di Salerno, principessa guerriera che secondo la leggenda lo accompagnava in battaglia cavalcando al suo fianco, unì normanni e longobardi sotto un'unica bandiera formando di fatto un impero che si estendeva dalla Sicilia a Malta e comprendeva tutta l'Italia Meridionale. Strinse un patto d'alleanza con il papa Gregorio VII, dopo averlo salvato dall'assedio delle truppe imperiali di Carlo IV a Castel Sant'Angelo nel 1084 e aver saccheggiato Roma; il pontefice quindi si trasferì a Salerno sotto la protezione del duca.

A questo si aggiunse un altro episodio, a metà tra mito e leggenda, che concorse alla fondazione della chiesa, ossia la traslazione delle spoglie di San Matteo. Il santo infatti morì in Etiopia e fu sepolto a Velia, ove rimase per circa 500 anni. Da lì, nel 954, apparve in sogno ad una donna del posto, Pelagia, e a suo figlio, il monaco Atanasio, pregandoli di disseppellirlo: il monaco voleva condurre la salma a Costantinopoli, ma non riuscì a partire dal porto di Amalfi. Allora nascose la salma in una chiesa nei pressi di Casal Velino, dove il vescovo della diocesi di Paestum Giovanni la prelevò per condurlo a Capaccio. Dalla Cattedrale di Capaccio le spoglie furono poi portate a Salerno, ove giunsero il 6 Maggio del 954 d.C. e deposte nell'aula Sanctae Dei Genitricis, ossia il luogo che sarebbe poi diventato il duomo.

DESCRIZIONE DEL DUOMO: LA PORTA DEI LEONI

Il Duomo di Salerno presenta una prima facciata, ciò che resta della chiesa originale, con una porta fiancheggiata da due statue: una di un leone, simbolo della potenza della Chiesa, e una di una leonessa con il cucciolo, simbolo della Carità, a cui si accede tramite una doppia scala settecentesca di marmo che è andata a sostituire quella originale in pietra. Sul portone, un cartiglio che ricorda l’alleanza fra Salerno e Capua e decorazioni fitomorfe che alludono alla Passione di Cristo, nonché altre due rappresentazioni di animali: una scimmia, simbolo dell'eresia scacciata, e una colomba che mangia dei datteri, simbolo dell'anima che gode dei piaceri ultraterreni.

Fig. 2: la porta dei leoni

Dalla facciata si passa ad un quadri-portico, in cui è molto evidente il retaggio delle dominazioni arabe e normanne nonchè la predominanza dello stile romanico: tale portico è infatti uno degli unici esemplari di porticato romanico in Italia. Esso è composto da una fila inferiore di colonne di recupero, provenienti da Paestum e necropoli vicine, sormontate da dischi policromi, e da una fila superiore di colonnine raggruppate a gruppi di cinque (pentafore); in tutta la decorazione emergono stilemi arabeggianti. Il centro del cortile è occupato da una fontana, un vecchio fonte battesimale, mentre tutt’intorno al colonnato sono stati posizionati nel corso degli anni sarcofagi romani, quasi a voler comporre una specie di “album” delle famiglie illustri della città.

Fig. 3: Di Bellsalerno - Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=42852236. Particolare del colonnato interno.

Al lato del quadriportico si eleva il campanile arabo-normanno, risalente alla metà del XII secolo. Esso si eleva per un'altezza di 52 metri, ed è formato da quattro blocchi, tre cubici sormontati da un tiburio a cupola, tutti con bifore di alleggerimento ai quattro lati: la cupola finale è in stile amalfitano. Il campanile, che ospita ben otto campane, presenta sulla faccia meridionale una lapide che recita: "«TEMP(O)R(E) MAGNIFICI REG(IS) ROG(ERI) W(ULIELMUS) EP(ISCOPUS) A(POSTOLO) M(ATTHEO) ET PLEBI DEI», che tradotto significa «Al tempo del Magnifico Re Ruggiero il vescovo Guglielmo (dedicò) all'Apostolo Matteo e al Popolo di Dio».

Fig. 4: Di Bellsalerno - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=62662905

Alla cattedrale si accede mediante un portone di bronzo del 1099, proveniente da Costantinopoli, che presenta formelle in oro e in argento (ormai diventate verdastre) raffiguranti San Matteo e animali allegorici.

Fig. 5: https://www.salernodavedere.it/il-duomo-di-salerno-la-cattedrale-di-san-matteo/. Porta d'ingresso.

L'interno della chiesa presenta una struttura a tre navate con volta a botte, molto simile a quella dell'abbazia di Montecassino, che termina in un transetto triabsidato: la decorazione all'interno, risalente al Seicento, molto probabilmente fu eseguita al di sopra di affreschi precedenti di scuola giottesca, come dimostrano alcuni lacerti ritrovati in una delle cappelle laterali.

Fig. 6: pianta del duomo

 

Fig. 7: gli affreschi ritrovati

In generale l'impianto originario della cattedrale è stato stravolto dagli interventi seicenteschi di Carlo Buratti: di originale restano soltanto il pavimento musivo nei pressi della zona absidale e gli amboni, anch'essi rimaneggiati ma sufficientemente leggibili nella loro conformazione originale. Collocati subito prima dell'iconostasi, ossia della divisione che un tempo si ergeva fra la zona absidale e la zona ove si radunava il popolo, i due amboni sono l'ambone Guarna del 1180, chiamato così perchè donato dall'arcivescovo Romualdo Guarna alla cattedrale di Salerno, e l'ambone D'Ajello, del 1195, donato dalla famiglia dell'arcivescovo D'Ajello. L'ambone a sinistra, l'ambone Guarna, è più piccolo ed è di forma quadrangolare con un piccolo terrazzino sporgente: la sua tipologia di costruzione è detta "a cornu evangeli"; l'ambone di destra, l'ambone D'Ajello, molto più grande e detto "a cornu epistulae", è una cassa quadrata sorretta da dodici colonnine. Entrambi gli amboni presentano lastre intarsiate a motivi arabeggianti.

 

Di tutta la chiesa, quel che sorprende per la sua magnificenza è la cripta sottostante, alla quale si accede tramite una scalinata. È un ambiente riccamente affrescato, barocco, risalente al 1081 circa ma oggetto di rifacimento da parte degli architetti Domenico e Giulio Cesare Fontana nel ‘600. La decorazione policroma del pavimento, un alternarsi di piccole formelle nere su fondo bianco, esplode sul fusto delle colonne che reggono la volta e si inserisce perfettamente tra gli affreschi del soffitto racchiusi da cornici. Il soggetto raffigurato è il miracolo di San Matteo: leggenda vuole che in occasione dell’assedio di Salerno, avvenuto nel 1544 da parte di Ariadeno Barbarossa, si scatenasse una grande tempesta che allontanò e distrusse la flotta nemica. La tradizione attribuì questo evento ad un miracolo di San Matteo, eleggendo quindi il Santo a patrono della città; ancora oggi, durante la festa di San Matteo (21 settembre), viene innalzata un’immagine del Santo dipinta su un telo con la scritta “Salerno è mia, io la difendo”. Altri affreschi della volta rappresentano S. Grammazio, il Miracolo della liberazione di un indemoniato, la guarigione di un malato e la Sapienza, la Fortezza e la Giustizia. Al centro della cripta, circondato da una balaustra, vi è un altare a fossa che contiene le spoglie di san Matteo e la tradizionale statua bifronte del Santo. La tradizione vuole che il Santo sia raffigurato così affinché possa essere visto in volto da qualsiasi punto della cripta.

Fig. 10: Di MarcoGasparro - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=74974600

SITOGRAFIA

http://www.agirenotizie.it/2015/09/il-duomo-e-san-matteo-con-due-facce/

http://www.cattedraledisalerno.it/visita-virtuale/14-visita-vituale.html

http://www.cattedraledisalerno.it/visita-virtuale/la-cripta.html

http://www.lacittadisalerno.it/cronaca/il-santo-che-protegge-la-citt%C3%A0-salerno-%C3%A8-mia-io-la-difendo-1.1555848

https://www.costieraamalfitana.com/duomo-di-salerno/

www.salernonews24.com

www.medioevo.org


LA CHIESA DI SAN DONATO AL PANTANO

A cura di Antonio Marchianò

La chiesa di San Donato al Pantano si trova a San Donato di Ninea, in provincia di Cosenza: si presenta a navata unica, ma in età posteriore è stata addossata alla parete sinistra una navatella di dimensioni minori. L'edificio ha una copertura a spioventi, e vi si accede attraverso due ingressi di età moderna. L’entrata principale è preceduta da una scala a gradini semicircolari in cemento, mentre l’entrata laterale è disposta sulla parete sud-est.

Fig. 1 - Chiesa di San Donato.

All'interno la chiesa a navata unica presenta una ricca decorazione pittorica solo parzialmente conservata in contro-facciata, sulla parete destra e su quella sinistra all'altezza del presbiterio. Gli affreschi presenti nella chiesa sono una tra le novità più significative della pittura monumentale bizantina in Calabria: non è facile la lettura stratigrafica delle pitture, sia per i margini piuttosto incerti di alcuni riquadri sia per la deliberata scelta di rinnovare singole porzioni dei dipinti murali “lasciando a vista” parti già esistenti. Il precario stato di conservazione lascia scorgere almeno sei figure stanti, di cui tre sono meglio visibili a lato della porta e sono identificabili, per le vesti liturgiche, con santi vescovi. Nell'ultima sagoma sulla sinistra, che dà inizio al santorale conservato, ossia alla successione delle figure dei santi sulle pareti, potrebbe essere individuata una figura di arcangelo. Accanto ad essa si dispongono due dei tre santi vescovi e uno di essi è identificato come S. Basilio, grazie all'iscrizione oggi leggibile. Questi sono stretti l’uno accanto all'altro e si toccano lasciando solo lo spazio sufficiente per le lettere greche.

I santi vescovi (fig.2) indossano il phelonion e reggono al petto con la mano sinistra un libro, mentre con la destra benedicono alla greca. L’altro santo vescovo, identificato grazie alla presenza di un’iscrizione “О АГΙОС ΝΙΚΟΛ АОС” ,è S. Nicola e indossa uno sticharion (tunica) azzurra, un phelonion rosso, che lascia intravedere l’epimanichion (il polsino) ocra della mano destra benedicente alla greca, il largo epitrachelion (la stola), anch'esso ocra e l’enchirion (il fazzoletto liturgico appeso alla vita) bianco e nero, che presenta il medesimo decoro della parte terminale dell’omophorion (il pallio) bianco, ornato da due grandi poloi sulle spalle. Nella figura di S. Nicola possiamo rintracciare dei confronti stilistici con le pitture absidali della vicina chiesa dello Spedale di Scalea. I santi vescovi di primo strato sono oggi visibili al di sotto di alcuni pannelli seriori pertinenti a una fase decorativa molto più estesa che riguarda l’intero edificio. La stratigrafia non è del tutto chiara e quindi non è possibile dire con certezza se il Cristo assiso in trono, appartenga al secondo o terzo strato. Alla fase pittorica del Cristo appartengono anche l’Arcangelo e la Vergine posti a sinistra e da esso separati da una testa coronata pertinente ad uno strato inferiore, ma comunque posto al di sopra dei santi vescovi. Il Cristo (fig.3) siede su un trono con spalliera perlata e schienale decorato e regge qualcosa (forse un libro) con la mano sinistra.  In alto troviamo un’iscrizione “Gesù Cristo” in greco “ΙС ХС”, mentre sul lato sinistro compare un’altra iscrizione “МΝΗСΤΗ” “ricordati di”.

Sulla parete destra d’ingresso a San Donato al Pantano sono raffigurati santi monaci, più grandi del naturale, fortemente compromessi dalla caduta dell’intonaco. A sinistra, per l’attributo delle catene, è forse possibile identificare la figura di S. Leonardo con il pastorale dal riccio zoomorfo, mentre sulla destra l’altra figura è ancora senza nome. Entrambe sono identificate come monaci dal koukoullion a punta, che nel S. Leonardo si prolunga nell’anabolos e sul quale, invece, il santo anonimo indossa il mantello bruno.

Fig. 4 - Parete destra, Koimesis.

Nella chiesa di San Donato al Pantano è presente una scena: la koimesis la terza di simile soggetto presente in Calabria dopo quella individuata nella chiesa del Campo a S. Andrea Apostolo dello Ionio e quella più tarda nella Cattolica di Stilo. La scena è composta da ventuno figure: al centro, su un catafalco perlato, è distesa la Vergine, intorno alla quale si dispongono gli Apostoli che vestono tuniche e mantelli di semplice foggia e che stringono nella mano destra un rotolo, tranne nei casi del santo, che abbraccia i piedi della Madonna e di quello chino su di lei. Poco più in alto, circondato da due angeli in volo dalle mani velate, compare un cristo che sorregge e quasi offre a loro l’animula della Vergine. Alla scena partecipano due donne aureolate in alto a sinistra e due vescovi, identificabili dai paramenti sacri (phelonion e omopholrion), che, con il libro al petto, si dispongono ai lati degli angeli e quindi del Cristo, quasi a rafforzare il valore liturgico della scena. La campagna pittorica di questa chiesa fu affidata a pittori diversi: al più dotato si devono gli splendidi santi monaci a dimensione più grande del vero e la figura del Cristo assiso in Trono. Lo dimostra la perizia nell'uso della linea per disegnare i volti e nel restituire consistenza e vitalità attraverso sapienti tocchi cromatici, oggi in buona parte perduti perché condotti a secco. Le pitture presenti nella chiesa avanzano datazioni diversificate e poco coerenti tra loro che spaziano dall’XI secolo del Cristo in trono fine XII secolo della Koemesis e alla metà del XIII secolo per i santi monaci.

 

Bibliografia

Falla Castelfranchi, M., I ritratti dei monaci italo-greci nella pittura bizantina dell’Italia meridionale, in “Rivista di Studi bizantini e neoellenici”, 39, 2002, pp.145-155.

Leone, G. Primi appunti per una ricerca sull’iconografia dei santi calobrogreci. I tre San Fantino, in chiesa e società nel mezzogiorno. Studi in onore di Maria Mariotti, II, a cura di P. Borzomati et alii, Soveria Manelli 1998, pp. 1309-1353.

Martucci, A., Archeologia e topografia nella valle dell’Esaro e dell’Occido /Martucci A. Martucci G., 2006, p.136.

Kitzinger, K.,  I Mosaici del periodo normanno in Sicilia, 3, Il Duomo di Monreale: i mosaici dell’abside, della solea e delle cappelle laterali, Palermo 1994, fig.53.

Pace, V., Riflessi di Bisanzio nella Calabria medievale, in Calabria bizantina, a cura di V. Pace, Roma 2003, p.107.

Riccardi, L., Le pitture murali della chiesa di S. Donato al Pantano di San Donato di Ninea (Cs): note preliminari, in “Calabria letteraria”, 59,(2011), 4-6, pp.50-60.


IL DUOMO DI MESSINA

A cura di Felicia Villella
Di Abxbay - Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11473455

La cattedrale di Messina si fa risalire al 1150, si tratta dunque di un edificio normanno, ma fu consacrata sotto gli Svevi nel settembre del 1197 alla presenza dell’imperatore Enrico VI, figlio di Federico detto Barbarossa e Costanza d’Altavilla. Da quel momento il duomo è stato oggetto di continue modifiche, fino al massimo rifacimento avvenuto sotto il dominio spagnolo, in pieno barocco. Solo nei primi anni del 900, a seguito del violento terremoto del 1908, fu restituita al monumento l’originale sobrietà tipica delle cattedrali normanni, a discapito dei pesanti stucchi e decori barocchi. Le vicissitudini, però, non finirono lì. Il duomo di Messina fu bombardato dagli americani durante la Seconda Guerra Mondiale e fu devastato anche da un incendio: ne seguì un rapido intervento di restauro che seguì i dettami di quello avvenuto precedentemente, tale da essere riaperto molto velocemente al pubblico ed elevato al rango di Basilica da Pio XII sotto l’Arcivescovo Angelo Paino.

Da un punto di vista architettonico, la facciata presenta tre portali tardo gotici originali, il più importante è sicuramente quello centrale, ricco di decori che rimandano al sacro e al profano, datato tra il 300 e il 500. Sono presenti anche due ingressi laterali della prima metà del 500. Bisogna soffermarsi sull'imponente campanile dotato di un sofisticato orologio meccanico e astronomico progettato dalla ditta Ungerer di Strasburgo e inaugurato nel 1933; a mezzogiorno il complesso sistema meccanico permette alle statue di bronzo dorato di muoversi. Sono presenti il carosello dei giorni della settimana, composto da divinità pagane portate su un carro trainato da diversi animali: ogni carro cambia alla mezzanotte (Apollo guidato da un cavallo, Diana da una cerva, Marte da un cavallo, Mercurio da una pantera, Giove da una chimera, Venere da una colomba e infine anche Saturno da una chimera). Segue il carosello delle età, composto da quattro statue che rappresentano le fasi della vita ( infanzia-bambino, giovinezza-giovane, maturità-guerriero, vecchiaia-vecchio, morte-scheletro). Dopo di che è rappresentata la chiesa di Montalto, luogo in cui secondo la tradizione apparve la Madonna in sogno a fra’ Nicola chiedendo la costruzione della chiesa. Si prosegue con una serie di scene bibliche, che variano in base al calendario liturgico, tra cui l’adorazione dei pastori e dei re Magi, la risurrezione di Gesù e la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. Terminate le scene bibliche il posto è ceduto alla patrona di Messina, la Madonna della Lettera. La parte relativa all'orologio è il luogo di un’altra coppia di statue, Dina e Clarenza, che battono le ore e i quarti, due eroine che difesero la città dall'assalto delle truppe Angioine. Il gallo, alto 2.20 metri rappresenta il risveglio che a seguito dei tre ruggiti del leone, alto 4 metri e simbolo della provincia di Messina, di mezzogiorno, batte le ali e solleva la testa cantando il classico chicchirichì per tre volte. Infine sono presenti anche i quadranti delle ore, il calendario perpetuo, il planetario e la luna.

L’interno ripropone la tripartizione già visibile esternamente, le tre navate sono scandita da una doppia fila di 13 colonne che sorreggono archi a sesto acuto, dettagli che danno un senso verticistico all'edificio. Nell'abside centrale è proposto un Cristo Pantocratore, riproduzione di quello trecentesco. Le 12 cappelle sono occupate dalle statue degli apostoli, copie delle originali andate perse durante i bombardamenti. Tra le particolarità spicca sicuramente l’organo polifonico a cinque tastiere, secondo, in Italia, solo a quello del duomo di Milano. L’altare maggiore è dedicato alla patrona di Messina, la Madonna della Lettera, un’opera maestosa a cui contribuirono Juvarra e Guarini.

Bibliografia e sitografia

  • La Farina, Messina e i suoi monumenti, Messina, Stamperia G. Fiumara, 1840.
  • di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI; memorie storiche e documenti, Conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana Lazelada di Bereguardo, Volume I e II, Palermo, Stamperia del Giornale di Sicilia.

CHIESA DEL CAMPO A SANT'ANDREA

A cura di Antonio Marchianò

Sul versante jonico della Calabria troviamo la chiesa del Campo a Sant'Andrea Apostolo dello Jonio. Secondo la tradizione fu costruita sul luogo in cui fu trovato un quadro della Vergine. E’ di difficile la datazione ma dovrebbe risalire al IX- X secolo. Il nome iniziale era quello di chiesa di S. Martino ed in secondo tempo venne chiamata con il nome di Santa Maria di Campo. La chiesa presenta una struttura molto semplice, a forma quadrangolare di metri 10x13.

Fig. 1 - Chiesa del Campo, interno.

La chiesa, nei primi decenni del XII secolo passò ai Certosini della Certosa di Serra San Bruno. Il terremoto del 1783 la distrusse in gran parte. Nei primi dell'Ottocento il barone Pier Nicola Scoppa entrò in possesso della chiesa quando acquistò la Grancia dei Certosini in seguito alla soppressione dei beni degli ordini religiosi nel 1808, per volontà di Gioacchino Murat re di Napoli. Il barone fece ricostruire la chiesa e fece dipingere, o rinnovare, il quadro dell'Assunta. La baronessa Scoppa, in seguito, concesse in donazione i terreni di San Martino e la chiesetta del Campo al Collegio dei Padri Redentoristi, da lei fondato nel 1898. I Padri Redentoristi fecero restaurare la chiesa nel 1964, rifacendo fare il quadro della Vergine e rimodernando l'altare con marmi portati da altra chiesa. Nel 1985 nel corso dei lavori di restauro, sono stati rinvenuti degli affreschi bizantini, presumibilmente del X e XIII secolo.

Al suo interno troviamo un programma iconografico che si mostra in linea con quanto di norma è stato rilevato nell'Italia meridionale, in Puglia in particolare, tra il XII e XIII secolo. Il rinvenimento delle pitture bizantine è stato segnalato per la prima volta da Giorgio Leone, con una datazione approssimativa alla fine XII secolo, se non all'inizio del secolo successivo. Successivamente sono stati letti vari frammenti del ciclo e precisata la datazione alla prima metà del secolo XIII. Le pitture di S. Andrea Apostolo sono state inserite nella diffusione della cultura siciliana in Calabria secondo la Di Dario Guida. In questi affreschi si riscontra la presenza della Deesis nell'invaso del catino absidale dei santi padri della chiesa greca accompagnati da due santi diaconi, nel rispettivo semicilindro, dell’annunciazione, al lato fuori dell’abside; la koimesis, sulla parete opposta; un corteo di santi e probabilmente una raffigurazione della Madonna in trono sulla parete destra guardando l’abside e a sinistra rispetto all'antica entrata laterale presente sulla stessa parete e alla cui destra rimangono consistenti frammenti di un affresco esemplato sul modello di un’ icona agiografica rappresentante S. Marina e sulle cui scene ci sono giunte a noi iscrizioni in greco. Sulla parete a sinistra, guardando l’abside, ci sono dei piccoli frammenti emersi (fig.2-3). E’ possibile che vi fossero altri santi in fila, cosi come altri erano dipinti sui pilastri.

Il programma iconografico di riferimento costituisce un esempio della pittura bizantina nel XII secolo. La figura di S. Stefano (fig. 4) Protomartire, la quale si presenta bella e riccioluta, è l’unica figura superstite dove è possibile ammirare il viso.

In relazione alla perfetta adesione della cultura figurativa regionale alle istanze artistiche tardo comnene come si evince da un confronto, tra le pitture presenti a S. Andrea Apostolo sullo Jonio ed un’icona custodita nel Monastero di S. Caterina sul Monte Sinai attribuita da Kurt Weitzmann a un pittore dell’Italia meridionale, presumibilmente calabrese. Qualora l’assegnazione di questa icona risultasse vera, si potrebbe argomentare non solo su quanto delle situazioni stilistiche greche finora evidenziate sia veramente passato nella cultura artistica della Calabria medievale, ma anche su come tali trapassi furono elaborati dai pittori locali.

Fig. 4 - Chiesa del Campo, Santo Stefano Diacono.

 

Bibliografia

Cuteri, A., Percorsi della Calabria bizantina e normanna, itinerari d’arte e architettura nelle provincie calabresi, Roma, 2008.

Di Dario Guida M. P., Icone di Calabria e altre icone meridionali, Soveria Mannelli 1992, pp. 43-54.

Falla Castelfranchi, M., Disiecta membra. La pittura bizantina in Calabria (secoli X-XIV), in Calabria bizantina. Testimonianze d’arte e strutture di territorio. VIII Incontro di studi bizantini (Reggio Calabria- Vibo Valentia-Tropea, maggio 1985), Soveria Mannelli 1991, pp. 21-61.

Falla Castelfranchi, M., Del ruolo dei programmi iconografici absidali nella pittura bizantina dell’Italia meridionale e di un’immagine desueta e colta nella cripta della Candelora a Massafra, in Il popolamento rupestre dell’area mediterranea: la tipologia delle fonti. Gli insediamenti rupestri della Sardegna, a cura di C. D. Fonseca, Galatina 1988, pp. 187-208.

Leone, G., Fragmenta picta. Per una storiografia della pittura calabrese in età normanna tra fonti, archeologia e restauri, in I Normanni in finibus calabriae, a cura di Cuteri, Soveria Mannelli 2003, pp. 143-171.

Weitzmann, Kurt, Mosaies in: Sinai treasures of the monastery of saint Catherine, ed K. A. Manafis, Athens, 1990, pp.61-67.


MONASTERO DI SANTA CHIARA

A cura di Stefania Melito

Introduzione e storia dell'edificio

Protagonista di una delle canzoni napoletane più famose di sempre (Munasterio ‘e Santa Chiara), il monastero di Santa Chiara di Napoli è una vera e propria oasi di pace all'interno del tessuto urbano napoletano, e rappresenta uno dei complessi monastici più grandiosi ed importanti della città partenopea.

Fig. 1: https://www.wga.hu/html_m/g/gagliard/index.html. Esterno Santa Chiara

Voluto da Roberto D’Angiò e dalla sua seconda moglie Sancia Maiorca come omaggio a San Francesco e Santa Chiara, santi ai quali i due sovrani erano devotissimi, il complesso fu costruito tra il 1310 e il 1328. I lavori furono eseguiti da Gagliardo Primario, architetto particolarmente attivo a Napoli in quel periodo, che immaginò l'aspetto dell'edificio sacro come la rappresentazione terrena della filosofia francescana improntata alla semplicità. In realtà, più che come una semplice chiesa, tale complesso fu immaginato come una sorta di cittadella francescana con l’aggiunta sia di un monastero femminile, destinato ad accogliere le Clarisse, sia di un convento maschile, ospitante i Frati Minori francescani. Il francescanesimo e la sua semplicità influenzarono anche lo stile gotico scelto per la costruzione: l'architetto infatti impostò la facciata con un aspetto simile ad una fortezza, in cui nel massiccio dell'architettura viene avanti in aggetto un corpo composto da tre archi gotici, due più piccoli ai lati e il terzo più grande centrale; sulla facciata a cuspide spicca un rosone traforato contornato da un motivo lineare. I fianchi del complesso riprendono ancora l'immagine della fortezza: possono essere orizzontalmente divisi in due parti, la prima, superiore, caratterizzata da fianchi massicci in cui sono evidenti robusti contrafforti intervallati da finestroni alti e stretti, e la seconda, in cui una fuga di archi gotici alleggerisce l'impianto e contorna l'entrata secondaria. Dal pronao si accede, tramite un portale strombato, all'interno della chiesa.

Fig. 2: Luca Aless / CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0). Interno

Qui ci si trova dinanzi ad una navata unica, lunga 82 metri, larga 13 e alta 46, con dieci cappelle per lato e con un aspetto austero, conforme allo spirito che anima anche la facciata, di cui viene ripreso lo schema compositivo a due blocchi. Dal soffitto a capriate lignee infatti l'occhio è attratto dalla fila di finestre che fanno penetrare una luce quasi ascetica, che si frange sul parapetto che corre lungo tutti gli archi strombati sorretti da pilastri circolari a fascio. Un tempo, secondo il Vasari, la chiesa era totalmente rivestita dagli affreschi di Giotto e della sua bottega napoletana, e addirittura sembra che in una di queste cappelle vi fosse ritratta l'Apocalisse secondo uno schema compositivo ideato da Dante. Nel 1340 la chiesa fu aperta al culto. L’aspetto rimase immutato fino al 1742, quando furono chiamati ad adeguarla al gusto mutato della nuova epoca Ferdinando Sanfelice e Domenico Vaccaro. Costoro, con un vasto gruppo di decoratori e architetti, distrussero trifore e bifore, la pavimentazione e gli altari e riempirono l’interno di ornamenti barocchi che sconvolsero l’aspetto della chiesa. Durante la seconda guerra mondiale un bombardamento provocò un incendio che distrusse in parte alcuni interni della chiesa, perdendo così tutti gli affreschi, sia le aggiunte posteriori sia quelli originali, di cui si sono salvati solo pochi frammenti. In seguito, i lavori di restauro si concentrarono sull'architettura medievale rimasta intatta ai bombardamenti, riportando la basilica all'aspetto originario trecentesco e omettendo il ripristino delle aggiunte settecentesche. I lavori terminarono definitivamente nel 1953 e la chiesa fu riaperta al pubblico. Le opere scultoree sopravvissute furono spostate nelle sale del monastero, che oggi accoglie il cosiddetto “Museo dell'Opera del Monastero”, mentre i sepolcri monumentali sono rimasti all'interno. Fra questi, degni di nota sono la sepoltura di Roberto D'Angiò realizzata dai fratelli Giovanni e Pacio Bertini, situato in fondo alla navata centrale, e le tombe di Carlo di Calabria e Maria di Valois opera di Timo da Camaino, scultore senese facente parte della bottega di Giovanni Pisano che concluse la sua carriera proprio a Napoli sotto i D'Angiò, progettando tra le altre cose Castel Sant'Elmo e la Certosa di San Martino.

La parte più famosa del Monastero è sicuramente il chiostro maiolicato, che ha conservato l’originario colonnato con 66 archi a sesto acuto, mentre l’aspetto attuale del giardino è opera del Vaccaro su commissione della badessa Ippolita da Carmignano.

Fig. 6: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Naples_santa_chiara_cloitre_trav%C3%A9e_centrale.JPG#globalusage

L’architetto infatti ristrutturò il Chiostro dividendo la parte centrale del cortile in quattro grandi aiuole, suddivise a loro volta da vialetti interni, e innalzò 64 piccoli pilastri in piperno impreziositi da maioliche disegnate da lui stesso: la celebre decorazione fu opera però degli artigiani Donato e Giuseppe Massa, che realizzarono e dipinsero a mano le maioliche policrome con scene di vita quotidiana di allora, motivi marinareschi, scene di vita agreste, miti e rappresentazioni allegoriche dei quattro elementi. Le "riggiole", ossia le mattonelle utilizzate, sono circa 30.000.

https://lartediguardarelarte.altervista.org/la-poetica-bellezza-napoletana-il-chiostro-maiolicato-del-monastero-di-santa-chiara/museo-santa-chiara-napoli/

Alcuni sedili collegano i pilastri maiolicati tra di loro: la particolarità consiste nell'aver raccordato cromaticamente tutto il chiostro, adattando la decorazione agli affreschi del '700 che ricoprono le pareti e che rappresentano allegorie, scene dell’Antico Testamento e santi.

Fig. 9: https://lartediguardarelarte.altervista.org/la-poetica-bellezza-napoletana-il-chiostro-maiolicato-del-monastero-di-santa-chiara/museo-santa-chiara-napoli/

A differenza della chiesa, il chiostro è scampato quasi miracolosamente ai bombardamenti del 1943.

https://www.touringclub.it/evento/napoli-monastero-di-santa-chiara

https://www.10cose.it/napoli/chiesa-chiostro-monastero-santa-chiara-napoli

http://www.napolike.it/complesso-di-santa-chiara-napoli

www.museosantachiaranapoli.it

 


LA CHIESA DELLA PANAGHIA A ROSSANO CALABRO

A cura di Antonio Marchianò

La chiesa della Panaghia è un edificio religioso di epoca bizantina situato nel centro storico di Rossano Calabro. Il nome “Panaghia” significa “la santissima” ed è dedicato alla Madonna. La chiesa, di dimensioni davvero piccole, fu edificata nel XI secolo. Si tratta di un impianto a navata unica rettangolare coperta da capriate lignee, è coronata da un'abside semicircolare con semicatino superiore.

Fig. 1 - Chiesa della Panaghia a Rossano.

La costruzione, in muratura ordinaria, è rivolta ad est, seguendo l’andamento tipico delle chiese bizantine. All'esterno, semplice e scarna è la facciata, più volte rifatta; solo sei finestre e nessuna decorazione sui fianchi. Le finestre, monofore, terminanti ad archetti in mattoni, sono leggermente incassate rispetto ai pilastrini in calcare locale. Un’altra finestra, bifora questa volta, in cui archi in mattoni sono sostenuti da una colonnina centrale con pulvino, è inserita nell'abside semicircolare.

All'esterno della chiesa si nota la decorazione in cotto dell’abside (fig.2), composta da una duplice fascia di mattoni. La parte superiore è disposta a spina di pesce, mentre nella parte inferiore i mattoni sono disposti a forma di triangolo isoscele. Proprio questo tipo di decorazione, tipica della seconda età aurea bizantina, ci consente di datare l’edificio al X XI secolo. Sul lato sinistro dell'aula vi è una piccola cappella anch'essa absidata pavimentata in cotto e con un solaio in legno. La copertura è a capanna in corrispondenza dell'aula, mentre ad una falda in corrispondenza della cappella.

Fig. 2 - Chiesa della Panaghia.

All'estremità destra della parte inferiore dell’abside, delimitata da un rettangolo di colore bruno, si conserva gran parte di un affresco raffigurante l’immagine di S. Giovanni Crisostomo(fig.3). Il volto del santo presenta una barba corta a punta che spicca contro la grande aureola dorata circondata da una corona di perle. L’iscrizione a sinistra e a destra dice, in caratteri greci: Ο АГ[ΙΟС] ΙΩ [АΝΝΗС] Ο Х [Р] УСΟСΤОМОС (O AGHIOS IOANNES CRISOSTOMO, San Giovanni Crisostomo). Gli occhi spalancati, e rivolti verso chi guarda, invitano a leggere il testo del rotolo che entrambe le mani del santo stanno svolgendo. Si tratta di alcune parole della preghiera che ricorre nella liturgia a lui dedicata, più precisamente all'inizio dell’invocazione che il sacerdote preannuncia: ΟУ [Д] ДΙС ДΞΙОС ΤΩΝ С[АРΚ] Ι [ ΔΕ] ΔΕМΕΝΩΝ ΤАΙС СА [Р] ΚΙΚАΙС ΕПΙѲУМΙАΙС ΚАΙ [ΗΔ] ΩΝАΙС “nessuno di coloro che sono ancora schiavi dei desideri e delle voglie della carne, è degno di accostarsi a me”.

Fig. 3 - Chiesa della Panaghia, San Giovanni Crisostomo.

Un altro affresco presente nella chiesa della Panaghia è il volto di un santo con aureola che rappresenta con molta sicurezza S. Basilio di Cesarea (fig4).

In considerazione del fatto che nel 1363 nella diocesi di Rossano fu introdotto il rito latino, gli affreschi della Panaghia non possono essere in nessun caso posteriori a questa data. Falla Castelfranchi ha datato questi affreschi fine XIII-XIV secolo, mentre Di Dario Guida li considera appartenenti al XIV secolo.

Nel 1933-34 si ebbe un radicale restauro della chiesa. Nel corso del restauro vennero alla luce alcuni frammenti di parti architettoniche e decorative, sezioni di pilastri, di capitelli e di un arco ornato, usate in epoca imprecisata per colmare una lesione del muro, e che ora si trovano nel museo Nazionale di Reggio Calabria. Lo studioso Lipisky ha esaminato questi frammenti, li ha descritti singolarmente e ha cercato di spiegare la loro collocazione originaria. Lepisky sostiene due possibilità: o si tratta di resti di una iconostasi, o un tramezzo del coro aperto, oppure di un baldacchino che si levava sull’altare. Egli considera quest’ultima ipotesi come la più vicina al vero.

Fig. 4 - Chiesa della Panaghia, San Basilio.

 

Bibliografia

Willemsen, C. A., Odenthal, D., CalabriaDestino di una terra di transito, Bari 1967, p.59.

Falla Castelfranchi, M., Disiecta membra. La pittura bizantina in Calabria (secoli X-XIV), in “Calabria bizantina”. Testimonianze d’arte e strutture di territorio. VIII Incontro di studi bizantini (Reggio Calabria- Vibo Valentia-Tropea, maggio 1985), Soveria Mannelli 1991, pp. 21-61

Di Dario Guida, M. P., Cultura artistica della Calabria medievale. Contributi e i primi orientamenti, Cava dei Tirreni 1978,p.89.

Sitografia

http://www.artesacrarossano.it/scheda_chiesa.php?IDc=15


LA CAPPELLA DEI BIANCHI DELLA GIUSTIZIA

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Napoli, cortile dell’Ospedale degli Incurabili, una scala a tenaglia. Ed ecco che improvvisamente ci si ritrova in uno scrigno d’arte appartenuto a chi faceva del conforto ai condannati a morte la propria missione di vita. Stiamo parlando della Confraternita dei Bianchi della Giustizia e della loro Cappella, tradizionalmente aperta solo due volte all'anno, ossia a Pasqua e all'Assunta.

Fig. 1: Di Baku - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=7158704

La cappella dei Bianchi della Giustizia: la storia

Recentemente riaperta grazie all'Associazione “Il faro di Ippocrate” e alla Curia, la cappella dei Bianchi della Giustizia deve il suo nome all'abito indossato dagli uomini dell’omonima confraternita, una sorta di saio bianco con cappuccio; presenti in molte raffigurazioni, soprattutto del periodo risorgimentale, costoro avevano il compito di assistere spiritualmente tutti i condannati a morte nel loro ultimo viaggio, accompagnandoli fisicamente al patibolo e facendosi carico delle spese dei funerali e delle messe a suffragio, nonché del conforto dei parenti del condannato. Si deve a San Giacomo della Marca nel 400 l’istituzione di questo “pio ufficio” e anche il nome latino della confraternita, Succurre Miseris, che sarà attivo per circa quattro secoli. I Bianchi della Giustizia, costituiti da una miscellanea di uomini appartenenti a varie classi sociali e spesso tacciati di tramare alle spalle del potere, nel corso della loro esistenza, oltre all'assistenza spirituale, formarono un vero e proprio archivio in cui raccolsero nomi, cognomi e testimonianze di circa quattromila condannati a morte in circa quattro secoli. Uomini e donne uccisi per i motivi più disparati, a volte senza un motivo, solo perché ritenuti “pericolosi” o perché sfortunati. È il caso dei soldati uccisi per rappresaglia con il “metodo della decima”, ossia il decimo soldato della fila veniva fucilato, per non parlare dei tanti patrioti napoletani uccisi solo perché portatori di idee nuove. Oltre a questo, raccoglievano anche gli oggetti appartenuti al defunto e, soprattutto, le corde utilizzate per impiccarli, affinché non venissero vendute dai boia come portafortuna contro il malocchio. Erano una confraternita potentissima, temuta da Filippo II che ne ordinò lo scioglimento, ma che sopravvisse fondando anche, tra le altre cose, il Pio Monte della Misericordia.

Descrizione della Cappella

La Cappella dei Bianchi della Giustizia, situata sul lato nord dell’Ospedale degli Incurabili, si compone di vari ambienti riccamente adornati: dallo scalone a tenaglia realizzato in piperno si accede alla barocca Cappella di Santa Maria Succurre Miseris, con pavimento a scacchi in cui è inserita una lapide. La volta, a botte, presenta affreschi di Giovanni Balducci, Giovan Battista Benaschi e Giacomo Sansi, mentre sull'altare, opera di Dioniso Lazzari in marmo policromo e decorato con stucchi dorati, vi è una statua della Vergine di Giovanni di Nola.

Sui tre lati intorno all’altare corrono stalli lignei, opera di Giuseppe Lubrano, culminanti in uno stallo difronte all'altare sormontato da una cimasa lignea e un baldacchino in tessuto rosso.  Da questo ambiente si passa alla “Cappella dei Giustiziati”, un piccolo ambiente barocco caratterizzato da un pavimento a scacchi con un motivo che ricorre in molti ambienti monastici campani, un intarsio marmoreo quasi tridimensionale che suggerisce l’idea di una scala, simbolo dell’ascesa al Signore propria delle comunità religiose. Il soffitto è decorato con stucchi dorati, mentre il piccolo altare marmoreo presenta un medaglione con una raffigurazione della Madonna con Bambino.

https://www.ilmattino.it/napoli/cultura/napoli_riapre_dopo_anni_la_cappella_dei_bianchi_della_giustizia-2554511.html

Il terzo ambiente è la Sacrestia, che custodisce affreschi di Paolo De Matteis con i ritratti di importanti membri della confraternita.

Oltre a questi vi è anche una selezione di oggetti appartenuti ai condannati a morte nel corso dei secoli, nonché la cosiddetta “Scandalosa”: un mezzobusto agghiacciante che mostra gli effetti provocati dalla sifilide sul corpo di una giovane e bella donna, un terribile monito per le tante ragazze che, spinte dalla fame e dalla miseria, si dedicavano alla prostituzione e rischiavano di finire vittime dalla terribile malattia che fece strage per diversi secoli.

https://www.ilmattino.it/napoli/cultura/napoli_riapre_dopo_anni_la_cappella_dei_bianchi_della_giustizia-2554511.html

https://www.ilmattino.it/napoli/cultura/napoli_riapre_dopo_anni_la_cappella_dei_bianchi_della_giustizia-2554511.html

http://www.napoligrafia.it/monumenti/chiese/congreghe/mariaBianchi/mariaBianchi01.htm

https://napolipiu.com/napoli-la-cappella-dei-giustiziati-o-compagnia-dei-bianchi-della-giustizia/

https://www.napoli-turistica.com/cappella-dei-bianchi-della-giustizia-napoli/

http://www.ecampania.it/napoli/cultura/visita-guidata-alla-cappella-bianchi-della-giustizia

 


LA STAUROTECA DI COSENZA

A cura di Felicia Villella

Introduzione

Secondo la tradizione, Federico II di Svevia giunto a Cosenza per la consacrazione della Cattedrale, ricostruita dopo il terremoto del 1184, donò al Capitolo “una reliquia della Croce custodita in una croce aurea gemmata”, probabilmente la stauroteca giunta fino ai giorni nostri. A supporto di questa teoria Luca Campano ne attesta l’uso per la liturgia del Venerdì Santo nel “Liber usuum Ecclesiae Cusentinae” del 1213, anche se non è da escludere la possibilità che fosse un altro reliquiario presente tra i suppellettili della Cattedrale.

La documentazione sulla stauroteca di Cosenza

I primi documenti attendibili custoditi presso l’archivio diocesano e quello di Stato della città risalgono alla prima metà del 1500, in essi si parla di una “cruce d’oro con lo pede d’avorio, nella quale ci è lo lignu Crucis, in la quale ci sono vintunu buttuncini d’oro”. Gli studiosi, inoltre, identificano la stauroteca con la croce d’oro che Carlo V baciò quando, nel 1535, entrò nella città. Da un punto di vista crono-stilistico, è importante soffermarsi sul piedistallo in argento dorato in stile tardo barocco. Lo stesso è stato sicuramente realizzato contemporaneamente al reliquiario, come dimostra la presenza di un incastro che sporge dalla base del fusto che si accorda perfettamente al piedistallo: dunque non si tratta di un supporto realizzato per un altro oggetto, come per esempio un ostensorio, ma appositamente realizzato per sorreggere la stauroteca.

Diverse sono le ipotesi riguardo la committenza, seppure si faccia risalire con certezza al periodo aragonese ad opera di un argentiere iberico; da un lato si rimanda al Cardinal Niccolò o Taddeo Gaddi, facendo riferimento allo stemma contenente la croce gigliata, o più realisticamente primitivo emblema dell’ordine dei Predicatori diffuso in Spagna; dall'altra si ritrovano rimandi al Cardinale Torquemada giunto a Cosenza al seguito di Carlo V in  base al blasone cardinalizio in cui è presente una torre che brucia, anche se potrebbe trattarsi di otto torri intorno ad una luna crescente e al cui centro è posto uno scudo incorniciato da un clipeo irradiato dalle fiamme, simboli che potrebbero indicare la famiglia dei De Luna o De Luny. Le informazioni attendibili sono, quindi, molto scarse. Certo è che la stauroteca venne scoperta in occasione della mostra di Orvieto nel 1896, e posta all'attenzione della critica come importante testimonianza di arte bizantina nel meridione. Datata al XII secolo, è il risultato magistrale delle officine del Tiraz reale, alcuni la fanno risalire al regno di Ruggero II (1130-1154), un’altra corrente di pensiero la rimanda al regno di Guglielmo II (1166-1189) a causa del realismo dei volti tipici delle miniature siciliane.

Per una dettagliata descrizione tecnico-stilistica è necessario parlare di un recto e di un verso del reliquiario. Da un punto di vista orafo, la lavorazione è sicuramente occidentale, come dimostra la filigrana a vermicelli e l’incastonatura a castello delle gemme, tipica dell’oreficeria medio bizantina; un tempo, inoltre, l’intero perimetro del manufatto e le placche interne erano contornate da un filo di perle scaramazze. La struttura in legno è rivestita in lamine d’oro e placche assemblate secondo un sistema di incastri, privo di perni e saldature. La morfologia è quella tipica della croce latina con bracci potenziati, avvallando la teoria della manifattura siciliana.

Recto della stauroteca di Cosenza

L’iconografia dei medaglioni smaltati e il ricco decoro dell’intera opera è riconducibile al concetto cristiano di albero della vita, mentre i granati incastonati rappresentano la valenza salvifica del sangue di Cristo. Gli ovali presentano i quattro evangelisti, Giovanni e Marco, in alto e a destra, Luca e Matteo in basso e a sinistra. Al centro è raffigurato Cristo sul trono.

Tra i quattro evangelisti, solo Luca sembra essere colto in un’azione più complessa rispetto agli altri. Nello specifico è ritratto con un rotolo di pergamena sulle ginocchia e uno sul leggio mentre intinge lo stiletto non nel calamaio, ma in una vaschetta divisa in più sezioni, probabilmente perché ripreso nell'atto di miniare immagini, proprio perché patrono dei miniatori e pittore di santi.

Verso della stauroteca di Cosenza

Sulla croce poggia il corpo del Cristo nella tradizionale rappresentazione bizantina col corpo ricurvo. Le estremità del reliquiario riportano un Arcangelo discoforo, forse San Michele, in alto e in successione le allegoria della Passione, della Resurrezione e dell’Eucarestia, e a destra San Giovanni Battista. Questo lato della Stauroteca racchiude in sé una duplice interpretazione. Se da un lato presenta Cristo nel suo aspetto umano, tesi determinata dal concilio di Costantinopoli del 692, sintetizzando simbolicamente il concetto di Crocifissione, dall'altro lato l’interpretazione rimanda al concetto Eucaristico da un punto di vista liturgico, in cui l’altare riunisce il sacrificio di Cristo Re.

 

Riferimenti bibliografici

Appunti e immagini del corso di Storia dell’arte calabrese aa 2008-09 Università della Calabria – Scienze e tecniche per il restauro e la conservazione dei BB CC.