SANTA MARIA IN VAL PORCLANETA

Introduzione

La chiesa di Santa Maria in Val Porclaneta è uno dei più interessanti esempi di arte romanica abruzzese, in cui confluiscono influenze arabo-ispaniche, bizantine e longobarde. E' situata alle pendici del Monte Velino a m. 1022 di altezza, raggiungibile percorrendo una caratteristica mulattiera che la collega al vicino paese di Rosciolo, frazione di Magliano de' Marsi.

La chiesa di Santa Maria in Val Porclaneta fu eretta nella prima metà dell'XI secolo. Accanto alla dedicazione alla Vergine il tempio conserva il nome antico della valle, "Porclaneta", la cui origine è variamente interpretata: termine in uso nella lingua ebraica, con significato di "baratro"; dal greco "poru clanidos" (manto di tufo); culto locale della divinità pagana di "Porcifer" (o "Purcefer"). La chiesa, inclusa in un più ampio complesso conventuale, era posta sopra il castello di Rosciolo, feudo dei Conti dei Marsi. Nel 1080 il conte Berardo figlio di Berardo, conte dei Marsi, donò al monastero di Montecassino il monastero di Santa Maria in Valle Porclaneta. Alterne vicende interessarono la chiesa nel corso dei secoli: la distruzione avvenuta nel 1268 in concomitanza con la battaglia fra Corradino di Svevia e Carlo d’Angiò; un periodo di abbandono da parte dei monaci nel 1362; le dispute fra i Conti dei Marsi e l'abbazia di Farfa per la proprietà del cenobio; l'acquisizione del complesso da parte della famiglia Colonna e la rivendicazione regia nel 1765; la distruzione del monastero fino ai restauri piuttosto invasivi del 1931.

L'acquisizione di Santa Maria in Val Porclaneta

Ma facciamo un passo indietro: torniamo all'acquisizione della chiesa da parte di Montecassino. Subito dopo i Benedettini avviarono la ricostruzione del complesso abbaziale nelle forme che ancora oggi possiamo ammirare; a differenza della chiesa, del monastero non rimane più alcuna traccia. Nonostante l'appartenenza cassinese, la chiesa non riflette lo stile caratteristico che contraddistingue le fondazioni legate più o meno direttamente alla committenza dell'abate Desiderio di Montecassino.
La facciata a due spioventi è preceduta da un atrio coperto con unica arcata a tutto sesto e con tetto a due falde; nei pilastri laterali due iscrizioni attestano le identità del "benefattore e donatore ... Berardo figlio di Berardo" e "dell'illustre Nicolò" che dovette curare la costruzione dell'edificio. Attraverso il portico si raggiunge l'ingresso principale: un portale dalle linee piuttosto semplici in cui spicca la presenza di una graziosa lunetta ogivale, affrescata nel XV secolo con una raffigurazione della Madonna col Bambino tra due Angeli adoranti. Degna di nota è poi la decorazione esterna dell'abside, riedificata in forma poligonale nel Duecento ed ornata da semicolonne disposte in tre ordini; delimitano i registri due cornici, lavorate a foglie di acanto e palmette dritte nel primo registro, con semplici modanature nel secondo. Chiude la composizione una teoria di archetti ciechi, alternativamente a pieno centro e trilobi. I capitelli delle semicolonne sono decorati da raffinati motivi vegetali di tipo borgognone; nel secondo ordine fungono da base alle semicolonne dei leoni stilofori.

Descrizione

La chiesa presenta una pianta di tipo basilicale, suddivisa in tre navate da massicci pilastri quadrati e terminante con un'abside semicircolare; tre scalette immettono nel presbiterio, rialzato per via della cripta rettangolare che si sviluppa nello spazio sottostante. A destra dell'ingresso è posto il sepolcro del maestro Nicolò, con la lapide scolpita dallo stesso artista. Di grande valore artistico sono poi l'ambone, il ciborio e l'iconostasi. L'ambone di Rosciolo è uno dei più begli esempi di scultura medievale abruzzese, scolpito con influenze orientali e bizantine, dai maestri Nicodemo e Roberto di Ruggero nel 1150. L'ambone è scolpito in pietra rivestita di stucco, con cassa quadrata che poggia su piedritti ottagonali. La decorazione presenta dei bassorilievi che ritraggono scene del vecchio testamento. Il ciborio, con intarsi di derivazione moresca e una rara iconostasi in legno sorretta da quattro colonnine con capitelli decorati e fusti tortili, è attribuibile sempre a Roberto ed esser datato, in riferimento all'ambone, in prossimità del 1150. Molti dei motivi decorativi presenti nell'ambone sono riproposti nel ciborio. L'elemento di arredo liturgico più antico tra quelli presenti nella chiesa è la bellissima iconostasi, realizzata con buona probabilità alcuni anni prima dell'arrivo di Roberto e Nicodemo per l'ambone ed il ciborio. All'interno della chiesa di S. Maria in Valle Porclaneta si conservano interessanti affreschi, opera di artisti locali, che raffigurano diversi soggetti sacri, spesso ripetuti. Il gruppo più numeroso di essi si data al XV secolo e comprende, tra le altre, ben sette rappresentazioni della Madonna con Bambino in trono, dislocate sui pilastri delle navate, nonché sulle pareti del transetto e del presbiterio: di queste, due conservano iscrizioni che permettono di assegnar loro una data di esecuzione più precisa (1444 e 1461). Allo stesso lasso di tempo si possono datare anche un Cristo crocifisso con S. Giovanni Evangelista e la Madonna sorretta delle pie donne posto nella parete sinistra della navata centrale. Due immagini di S. Antonio Abate si trovano nella navata centrale (secondo pilastro) e nel transetto: la prima presenta in alto un'iscrizione che permette di identificare correttamente il santo raffigurato, il quale, in questo caso, ancora non presenta la tipica iconografia che troviamo invece nel secondo dipinto, forse di poco posteriore. Infine, ascrivibile allo stesso secolo è una rappresentazione di S. Sebastiano presente nel presbiterio. Al secolo precedente si può far risalire un altro affresco, raffigurato sul quarto pilastro della navata centrale, che raffigura S. Lucia, resa identificabile dall'iscrizione posta nella parte superiore del dipinto stesso. Al XIII secolo è databile una Crocifissione di Cristo conservata nel presbiterio.


CHIESA DI SANT'ADRIANO A SAN DEMETRIO CORONE

A cura di Antonio Marchianò

Introduzione

La fondazione della chiesa di Sant'Adriano è legata alla figura di S. Nilo di Rossano, uno dei maggiori protagonisti del monachesimo greco dell’Italia meridionale del X secolo. Nel 955 S. Nilo dopo un periodo di duro ascetismo nella valle del Mercurion si trasferì a San Demetrio e su un terreno di proprietà della famiglia fondò il suo ascetario, divenuto poi un cenobio, accanto a un piccolo oratorio già esistente dedicato ai santi martiri Adriano e Natalia. S. Nilo rimase qui fino al 980.

Fig. 1- Chiesa di Sant’Adriano a San Demetrio Corone.

Dopo la sua partenza la chiesa fu distrutta durante un’invasione saracena. Successivamente fu ricostruita da S. Vitale da Castronuovo anche se molti sostengono che questa è un’ipotesi sbagliata. Nel 1088 il duca normanno Ruggero Borsa figlio di Roberto il Guiscardo donò il monastero, con tutti i suoi edifici, alla abbazia benedettina di Cava dei Tirreni. Questa dipendenza fu importante per la storia edilizia della chiesa, durò per diciotto anni. Nel 1106 lo stesso Ruggero Borsa sottrasse il monastero alla Badia di Cava dei Tirreni e lo restituì ai basiliani.  In epoca normanna, tra la metà del XII secolo e la prima metà del XIII secolo, il monastero raggiunse uno stato patrimoniale di floridezza economica e fu ricostruito ex novo. In questo periodo venne costruito il pavimento in opus sectile. Si presume che l’intera pavimentazione fosse decorata in origine con disegni geometrici, di cui oggi solo la metà è giunta a noi, mentre il rimanente è rivestita con mattonelle, frutto dei restauri del XX secolo. Oltre al pavimento in opus sectile troviamo quattro lastre figurative medievali: un leone e un serpente che si contendono una preda irriconoscibile(fig.3), un serpente che si avvolge in tre spire, un felino(fig.2) non si sa se una pantera o un gatto), un serpente avvolto nelle spire. Paolo Orsi sostiene che i materiali utilizzati nel pavimento forse sono provenienti dall'antica città di Copia non lontano da San Demetrio Corone.

All'interno della chiesa di Sant'Adriano non solo il pavimento presenta delle decorazioni, ma anche le pareti. In origine gli affreschi decoravano tutte le pareti della chiesa, ma solo una parte è giunta fino a noi; furono scoperti fortuitamente nel 1939, durante gli interventi di restauro di Dillon. Lo studioso li rinvenne al di sotto di uno strato di calce apposto probabilmente dagli stessi monaci del monastero alla fine del Settecento, forse per cancellare ogni traccia dell’antica presenza bizantina. Gli affreschi sono stati datati fine dell’XI secolo inizi del XII secolo. Il ciclo si svolge lungo la navata centrale, nei sottarchi e nei muri circostanti agli archi delle navate minori. Il programma figurativo è prevalentemente iconico e attinge al repertorio agiografico dell’Italia meridionale. Negli intradossi degli archi vi sono raffigurati santi stanti e isolati. Purtroppo le figure non hanno iscrizioni e questo rende assai difficile la loro esatta identificazione.

La chiesa di Sant'Adriano presenta quattro archi per ogni lato. Al di sotto di ogni arco sono inserite due figure di santi separate da un clipeo con motivo floreale (fig.4), per un totale di sedici santi, di cui solo dodici esistenti per intero, due frammentari e due totalmente scomparsi. Altri affreschi si trovano nel muro interno della navata nord dove troviamo una serie di santi, tutti di sesso maschile, mentre nella navata sud troviamo figure di sante, le uniche identificate: S. Giuditta, S. Anastasia e S. Irene

Fig. 4- Chiesa di Sant’Adriano, santi separati da un clipeo con motivo floreale.

In questa navata troviamo anche una scena narrativa: la presentazione della Vergine al tempio (fig. 5). La scena è composta da numerose figure, la Vergine condotta al tempio dai Gioachino e S. Anna affidata al sacerdote Zaccaria vicino ad un ciborio, una processione composta da sette fanciulle con lampade accese. L’altare maggiore della chiesa è datata 1731, attribuito a Domenico Costa. Sopra campeggia una tela del martirio di Sant'Adriano probabilmente opera del pittore Francesco Saverio Ricci. Nelle due nicchie ai fianchi della tela, sono collocati due busti lignei del 1600 raffiguranti Sant'Adriano e Santa Natalia. Nell'altare a sinistra è raffigurata la Madonna con San Nilo e San Vito, mentre in quello di destra è raffigurato San Basilio.

Fig. 5- Chiesa di Sant’Adriano, presentazione della Vergine al tempio.

Nella chiesa di Sant'Adriano sono presenti anche delle sculture: un capitello bizantino del X secolo adattato ad acquasantiera, una conca ottagonale presumibilmente d’epoca normanna e un coperchio del X secolo. Si tratta di opere di botteghe locali, facente parti di quell'arte che l’Orsi definisce basiliano calabrese, in quanto influenzata dalla cultura bizantina al tempo dei normanni. La chiesa ha subito nei secoli varie perdite e rifacimenti, ma nel complesso non ha perso del tutto la sua bellezza al suo interno di elementi bizantini e normanni.

 

Bibliografia

Cuteri, A., Percorsi della Calabria bizantina e normanna, itinerari d’arte e architettura nelle provincie calabresi, Roma, 2008.

Dillon, A., La Badia greca di S. Adriano. Nuove indagini sul monumento e notizie della scoperta di un ciclo di pitture bizantine, Reggio Calabria 1948, pp. 7-27.

Garzya Romano, C., La Basilicata, La Calabria, in Italia romanica, IX, Milano1988, pp. 101-108.

Lavermicocca, N., San Demetrio Corone (Rossano): la chiesa di S. Adriano e i suoi affreschi, in “Rivista di studi bizantini e slavi”, III, (1983), p. 262.

Orsi, P., Le chiese basiliane della Calabria, Firenze, 1929, pp. 155-158.

Pace V., Pittura bizantina in Italia meridionale (sec. XI-XIV), in “I bizantini in Italia”, 1982, pp.427-494.

Pensabene, P., Il riuso in Calabria, in i normanni in finibus Calabriae, a cura di Cuteri, F. A.,  Soveria Mannelli 2003, pp. 77-94.

<h3><strong>GALLERIA FOTOGRAFICA</strong></h3>

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LA CAPPELLA DEL TESORO DI SAN GENNARO

A cura di Stefania Melito

Introduzione

È risaputo: la devozione del popolo napoletano per San Gennaro è talmente grande da eclissare qualsiasi altro “rapporto” che si possa avere con gli altri 51 patroni della città; San Gennaro è amato, insultato, invocato, “vissuto” quasi nel quotidiano come se fosse una persona reale sempre al proprio fianco. Ed ovviamente le vicende che riguardano i monumenti e le testimonianze artistiche legate al santo sono le più strane ed avvincenti, al confine fra realtà e leggenda. Esempio perfetto sono le vicende della costruzione della Cappella del Tesoro di San Gennaro all’interno del Duomo di Napoli.

La Cappella del Tesoro di San Gennaro

A seguito di guerre e pestilenze i napoletani fecero infatti un voto a San Gennaro, promettendo che se il santo avesse allontanato dalla città le eruzioni del Vesuvio, le pestilenze, i terremoti e le guerre la città lo avrebbe “ricompensato” costruendo una nuova e più bella Cappella del Tesoro all’interno del Duomo; per solennizzare questa promessa, essa fu redatta davanti ad un notaio il 13 gennaio 1527 dalla “deputazione”, una sorta di commissione creata ad hoc. Nel 1608 la costruzione della Cappella fu affidata all’architetto Francesco Grimaldi, già attivo a Napoli per altri incarichi; i problemi più grandi si ebbero però al momento della decorazione, in quanto il ciclo pittorico fu voluto affidare a pittori non napoletani, in un tentativo di accaparrarsi le migliori maestranze europee. Tale idea suscitò però le ire dei pittori napoletani ed un insieme di sabotaggi ai danni degli artisti chiamati: il cavalier d'Arpino rinunciò, Guido Reni lasciò Napoli dopo l'accoltellamento di un suo aiutante, Francesco Gessi scappò. Arrivò il Domenichino, cominciò a lavorare ma, dopo una lettera di minacce, fuggì anche lui. Tornò più tardi e completò alcune opere, ma il 6 aprile 1641 improvvisamente morì, avvelenato secondo alcuni. Altri artisti chiamati furono Giovanni Lanfranco, minacciato, e i napoletani Luca Giordano, Massimo Stanzione e Giuseppe Ribera, detto "Spagnoletto". Tra varie vicende, la Cappella fu completata ed inaugurata nel 1646.

Descrizione

Essa è a croce greca, in stile barocco, separata dal resto del Duomo dal cancello in bronzo dorato di Cosimo Fanzago, costruito in circa 40 anni, particolarissimo in quanto è un vero e proprio strumento musicale (se si batte con una moneta il cancello si sentono le note musicali) e da una fascia marmorea sul pavimento, che ribadisce un’altra particolarità della Cappella, ossia la sua appartenenza alla città di Napoli e non alla Curia.

Di IlSistemone - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=21878993

Vi sono sette altari: uno maggiore (opera del Solimena) situato al centro e che racchiude al proprio interno le ampolle con il sangue del Santo, due laterali e quattro minori, posti alla base degli archi che reggono la cupola.

Di © José Luiz Bernardes Ribeiro, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=39192953

Tutt’intorno vi sono diciotto sculture bronzee di Santi posti intorno alla scultura di San Gennaro sull’altare maggiore, mentre in totale, compresa sacrestia e cappella della Concezione, vi sono 54 busti reliquari in argento, raffiguranti i santi patroni della città e sempre di scuola napoletana, tra i quali spiccano le attribuzioni a Lorenzo Vaccaro, Giuseppe Sanmartino e Andrea Falcone. Il ciclo di affreschi, come detto, è opera prevalentemente del Domenichino (i pennacchi della cupola e tutta la fascia superiore della cupola), esclusa la parte centrale della cupola, opera di Giovanni Lanfranco, e la pala d'altare di destra (il San Gennaro esce illeso dalla fornace) opera del Ribera.

Di ErwinMeier - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=74706408

Dall’altare di destra parte un corridoio, affrescato a trompe-l'œil, che conduce alla sacrestia della Cappella e alla cappella della Conciliazione: la sacrestia, arredata con armadi seicenteschi lignei contenenti i paramenti sacri e sormontati da dipinti su rame, presenta una decorazione candida in stucco con putti e figure che culminano in un affresco ovale di Luca Giordano.

Di IlSistemone - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=45064266

La cappella della Concezione invece presenta una decorazione a marmi e stucchi, con un altro dipinto ovale sulla volta opera del Farelli. Sull’altare maggiore vi è un’opera di Stanzione, che sostituì quella che avrebbe dovuto fare il Domenichino ma che non riuscì a portare a termine a causa della sua morte.

Di IlSistemone - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=45064267

http://www.museosangennaro.it/it/35/gli-affreschi

http://www.museosangennaro.it/it/34/la-cappella

http://www.cappellasangennaro.it/

 


LA CATTOLICA DI STILO, REGGIO CALABRIA

A cura di Felicia Villella

Introduzione: descrizione dell'edificio

La Cattolica di Stilo, una cittadina in provincia di Reggio Calabria, è un edificio risalente al X secolo a pianta centrale, approssimativamente quadrata, con croce inscritta del tipo “puro”, cioè priva del prolungamento ad oriente, per la profondità del bema, e a occidente, per il nartece; modello planimetrico tipico del periodo medio-bizantino, attestato anche a Costantinopoli. La croce è evidenziata all’esterno dalle falde del tetto ed è centrata grazie alla presenza di cinque cupole di uguale diametro, di cui solo la centrale si differenzia per un leggero scarto in altezza.

Lo schema architettonico a cinque cupole, diffuso nella Grecia continentale e insulare, così come nelle province orientali dell’Asia Minore, si può considerare una soluzione regionale del caratteristico impianto medio bizantino originatosi a Costantinopoli. La soluzione adottata nella Cattolica e a Rossano, con ogni probabilità, fu introdotta in Italia dal Peloponneso o dall’Epiro, dove simili tipologie sono numerose soprattutto lungo la costa.

La Cattolica di Stilo: l'interno

Quattro colonne sono poste all’interno, di cui tre in marmo: due in cipollino, una in lumense e l’altra in granito. Sulla prima a sinistra è presente l’iscrizione: “Non c’è Dio all’infuori di Dio solo”, essa poggia su una base ionica capovolta, innestata su di un capitello corinzio in pietra calcarea del III-IV sec. d.C.; la prima a destra poggia, invece, su di un capitello ionico capovolto.

I capitelli delle quattro colonne di tipo paleo-bizantino a piramide tronca, con sagoma rigonfia, costole e nervature a rilievo, rimandano ai capitelli di molte basiliche d’Oriente. Secondo la storiografia potrebbero provenire o dalle rovine romane dell’antica Stilide, nei pressi di Stilo, o tale reimpiego testimonia altri esempi diffusi in molte costruzioni dei secc. X-XI in Grecia quale la Kapnikarea di Atene.

Internamente la suddivisione in nove spazi simili e la particolarità dello sviluppo verso l’alto creano uno spazio moltiplicato, tipica espressione di questo edificio che lo accosta ad analoghi esempi della Grecia insulare, facendo propendere per una loro datazione attorno agli ultimi anni del X secolo. 

La datazione della Cattolica di Stilo non è però del tutto chiara, difatti la storiografia avanza proposte contraddittorie che oscillano dal sec. X-XI al XIII inoltrato. Particolare dovuto agli affreschi riaffiorati fra gli strati palinsesti dell’intonaco interno, che testimonierebbero come l’interno venne decorato interamente per ben due volte se non addirittura tre; la prima tra la fine del sec. X e gli inizi del XI; la seconda alla fine del sec. XII e gli inizi del successivo e nel sec. XIII maturo o agli inizi del XIV secolo.  

Gli affreschi della Cattolica di Stilo

Al primo strato risalente al secolo X, inizi dell’XI, corrisponderebbero le figure di una santa martire nello sguancio destro della prothesis (absidi: la centrale, corrispondente al bema, era destinata ad accogliere l’altare; l’abside a sud, diakonikon, custodiva gli arredi sacri, le vesti dei sacerdoti e dei diaconi; l’abside a nord, prothesis, il rito preparatorio del pane del vino) e di due santi sulla parete occidentale, uno dei quali regge un cartiglio con iscrizione greca, che sono stati accolti come santi guerrieri riguardanti una crocifissione. 

Se così fosse, tale programma iconografico rivelerebbe la presenza di una scena cristologica che è ben attestata nell’ecumene bizantina comparendo anche a Hosios Lucas, in Grecia, sia nella cripta che nel Katholikon; mentre nell’Italia meridionale appare segnalata a partire dal X secolo a Grottaglie, Sanarica, Casarello e Ugento. 

È da notare che le figure appaiono dipinte al limite della goffaggine e non recano segni di delimitazione di campi, quindi sembra di trovarsi davanti a una pagina miniata, tale da ipotizzare che il pittore fosse un miniaturista. 

Tra le raffigurazioni, l’Ascensione presente nella volta del bema ne nasconde una più antica. La progettazione compositiva denota un’evidente incoerenza del gioco degli sguardo fra gli apostoli, alcuni rivolti con la testa all’annuncio proclamato dalla coppia di angeli sottostanti la mandorla, a sua volta sorretta da altri quattro angeli in volo. All’interno di essa, il Cristo seduto su di un segmento che appiattisce la porzione di circonferenza del globo ha una posa che echeggia l’Omologo di Santa Sofia a Salonicco, dal volto nobile e sereno.

Gli angeli dalle ali saettanti, hanno un tono più dimesso e lasciano ipotizzare l’affresco ad opera di una maestranza italo-greca. Gli apostoli, collocati sui margini laterali, e solo parzialmente conservati, conservano preziose tracce della sottostante sinopia.

Gli studi storico-artistici pertinenti agli strati palinsesti d’affresco, hanno rilevato come l’ultima decorazione realizzata nell’edificio risalga al Quattrocento, probabilmente attorno alla metà, ponendosi tra le rare testimonianze pittoriche della cultura tardogotica di matrice catalaneggiante, per altri versi testimoniata nella Regione attraverso tavole dipinte e oreficerie. Purtroppo non si conosce il nome del suo autore, la cui formazione artistica, comunque, è stata ipotizzata di scuola locale.

La definizione cronologica – anche degli altri affreschi – della Cattolica è, quindi, alquanto problematica perché va studiata esclusivamente su confronti stilistici, inoltre, nulla si conosce sull’origine dell’edificio, la committenza e le funzioni da esso svolto.

Si è proposto che fosse il Katholicon di “monastero in grotta”, oppure la Katholikè di Stilo, la Cattedrale, qualora il centro reggino fosse stato sede episcopale, o la chiesa matrice. È da rilevare, inoltre, che nel XVII secolo la Cattolica viene designata tra le parrocchie della città, per passare poi sotto la giurisdizione della chiesa matrice.

Per Paolo Orsi il nome indica “…una chiesa eremitica, officiata da monaci basiliani, che qui vivevano in preghiera e morivano in povertà e qui si facevano seppellire.”; per altri storici ancora, il nome equivale ad universale, titolo che si dava alle chiese matrici parrocchiali munite di fonte battesimale.

Biografia
Appunti personali lezione di Storia dell’Arte Calabrese


LA CHIESA DI PIEDIGROTTA A PIZZO CALABRO

A cura di Felicia Villella

Introduzione

In provincia di Vibo Valentia si erge la piccola chiesa di Piedigrotta a pizzo Calabro, scavata nella roccia sedimentaria, la cui origine si divide tra storia e leggenda. La tradizione narra che un veliero composto da un equipaggio napoletano in viaggio a metà del 600 nel Golfo di Sant’Eufemia, fu sorpreso da una tempesta che lo fece naufragare distruggendo l’imbarcazione contro gli scogli; l’intera ciurma, però, riuscì a raggiungere a nuoto le rive di Pizzo, portando in salvo anche l’effige della Madonna presente sulla nave ed oggi conservata all’interno della chiesetta. Come voto della scampata morte, i marinai eressero la piccola chiesa scavandola nella roccia e collocando al suo interno il piccolo quadro.

Secondo i documenti storici, invece, verso la fine dell’800, un artista locale, Angelo Barone, iniziò a scolpire nella roccia le navate che compongono la chiesetta sfruttando una precedente costruzione, secondo quanto scrive il canonico Ilario Tranquillo nel 1725, riempiendo gli ambienti con statue che riprendono scene bibliche; alla sua morte, il figlio Alfonso ne proseguì l’opera, completandola con bassorilievi ed affreschi. Purtroppo, negli anni ‘60, una serie di atti vandalici, la ridussero ad un cumulo di macerie, finché, Giorgio Barone, nipote dei due precedenti artisti e rinomato scultore, prese a cuore la ristrutturazione del monumento, terminata nel ‘68. Ad oggi, la chiesetta di Piedigrotta è il secondo monumento più visitato della Calabria dopo i Bronzi di Riace.

La chiesa di Piedigrotta a Pizzo Calabro: descrizione

Da un punto di vista architettonico, la facciata della chiesetta si presenta semplice e lineare la cui sommità è sormontata da una croce metallica e da una statua di Madonna con Bambino, il piccolo campanile laterale è adorno della campana proveniente, secondo la leggenda, dal veliero vittima di naufragio e datata 1632.

L’ambiente interno si divide in tre grotte: l’ingresso è circondato da quattro angeli che sorreggono le acquasantiere dalle basi leonine; a sinistra si trova la raffigurazione della celebrazione di una funzione religiosa con fedeli e sacerdote ad adorazione della Madonna di Pompei, l’arco di ingresso presenta due evangelisti e un grande pesce, tipico della simbologia cristiana.

A seguire, è rappresentato il miracolo di San Francesco di Paola che attraversa lo stretto di Messina sul suo mantello, frontalmente è presente Sant’Antonio di Padova fra gli orfanelli.
La grotta più grande è occupata da un presepe, la cui scena centrale è impegnata dalla natività e sullo sfondo è presente un paesaggio arabo che ospita le statue dei re Magi, questo ambiente è preceduto da due medaglioni posti frontalmente che rappresentano il Cuore di Gesù e di Maria.

A sinistra dell’altare maggiore, infine è scolpita la parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci e due medaglioni raffiguranti Papa Giovanni XXIII e Kennedy, realizzati durante il restauro terminato nel ’68. Un’ultima grotta contiene la statua della Madonna di Lourdes, probabilmente ritrovata in bosco negli anni ’50 e qui collocata.

La chiesa ospita anche la statua del protettore della citta di Pizzo, San Giorgio che uccide il drago oltre a Santa Rita incoronata dall’Angelo della morte. L’altare principale ospita una copia del quadro della Madonna di Piedigrotta, l’originale è stato oggetto di un lungo restauro ed attualmente si trova nel Santuario di San Francesco di Paola in attesa di una definitiva collocazione.

Le volte sono interamente affrescate, ma le condizioni di conservazione sono veramente pessime, si distinguono un pellegrinaggio di fedeli a Lourdes, lo sposalizio della Madonna, il naufragio del veliero napoletano e la battaglia di Lepanto.

Dei cinque medaglioni affrescati, soltanto uno risulta ancora leggibile in cui è raffigurato l’Ascensione al cielo.

Bibliografia

  • Sacro e profano in coabitazione. Santi e meno santi nella chiesetta di Piedigrotta a Pizzo, "Bell'Italia", suppl. al n. 120, speciale Calabria, n. 22, aprile 1996;
  • Malferà Carmensissi, Le verità di Piedigrotta, Hodigitria, Pizzo Calabro (VV), 2008.

Sitografia

 


L'ABBAZIA BENEDETTINA DI LAMEZIA TERME

A cura di Felicia Villella

Introduzione

L’Abbazia benedettina di Lamezia Terme, o abbazia di Santa Maria, costruita a Sant’Eufemia Vetere di Lamezia Terme, fu fondata nella seconda metà dell’anno 1000 da Roberto il Guiscardo sui resti di un monastero bizantino intitolato a Hagìa Euphémia di Nèokastronprima testimonianza di una fondazione religiosa degli Altavilla in Calabria.

La sua realizzazione rientrava nel programma di latinizzazione del territorio, un chiaro rimando al potere religioso della Santa Sede che, con il rito latino, esercitava un forte controllo economico e politico sulla zona. La costruzione fu affidata all’abate Robert de Grandmesnil, così come tramanda il diploma di fondazione che Roberto il Guiscardo concesse, acquisendone anche il controllo.

Colpita da un violento terremoto nel 1638, i ruderi attualmente visibili hanno comunque permesso di cogliere i dettagli architettonici che hanno segnato l’edificio. La chiesa è una costruzione che rispecchia i tipici schemi architettonici normanni in voga nell’Italia Meridionale; ad oggi sono ancora visibili il prospetto principale con i resti delle due torri campanarie, le tre navate, con la centrale di maggiori dimensioni separate da una serie di pilastri e quelle laterali illuminate da una serie di finestre ad arco. Inoltre, è visibile la zona presbiteriale accessibile grazie ad una scalinata ad est, definita dai transetti e dalle tre absidi, quella centrale di maggiori dimensioni rispetto le altre due.

https://lameziaterme.italiani.it/scopricitta/giornate-fai-riapre-l-abbazia-benedettina-di-sant-eufemia/

L'Abbazia benedettina di Lamezia Terme

Il presbiterio è stato scavato successivamente, riportando alla luce blocchi marmorei policromi che portavano all’altare posto, come di norma, nell’abside maggiore, dove ai lati erano presenti delle colonne di ripiego appoggiate su elementi architettonici di età romana. In questa zona è stata portata alla luce una pavimentazione realizzata in tessere marmoree policrome, opus sectile, ricavate da marmi antichi, il cui utilizzo è tipico della tradizione normanna e ha lo scopo di sottolineare l’imponenza del potere al pari dell’Impero Romano.

La chiesa era a pianta basilicale, quindi, a tre navate, triabsidata con coro gradonato e transetto sporgente. Nel versane ovest, la presenza di mura spesse 3.30 mt, fa presumere l’esistenza di matronei accessibili attraverso scale o intercapedini; le supposizioni sono dovute al fatto che i resti sono riconducibili solo alla parte superiore della chiesa, infine la facciata sud è scandita da una serie di contrafforti e monofore a tutto sesto.

Per quanto riguarda le torri, è possibile riscontrare i marcatori riconducibili all’architettura normanna, tra cui i cantonali in granito squadrati e le feritoie in pietra. Anche il monastero riprende il motivo delle finestre presenti nella chiesa, la cui muratura è composta da ciottoli di fiume di medie e grandi dimensioni legate da malta la cui composizione non è riconducibile al periodo bizantino, ma bensì al periodo di costruzione sotto il Guiscardo.

L’Abbazia benedettina di Lamezia Terme è un monumento a cielo aperto, immerso tra le terre colmi di ulivi e poco distante dal sito archeologico di Terina, una colonia greca insediatasi nel VI secolo e da cui provengono i materiali di riuso utilizzati nella costruzione dell’edificio. L’intera zona ospita nel periodo estivo spettacoli teatrali calati in una suggestiva cornice storica.

Bibliografia

  • P. Giuliani, Memorie storiche della città di Nicastro, p. 24 – 39, A. Forni Editore, 1893.
  • P. Ardito, Spigolature storiche sulla città di Nicastro, p. 61- 109, La Modernissima, Lamezia Terme, 1989.
  • R. Spadea, Luoghi e materiali al Museo Archeologico Lametino – Guida al percorso, p. 21 - 27 - 31, Nuova Lito, Carpenendolo (BS), Edizione ET, 2011.
  • G. De Sensi Sestito, Lamezia Terme tra arte e storia – Guida ai monumenti, p. 8 - 20, stampa a cura del Comune di Lamezia Terme, 2008.
  • G. De Sensi Sestito, F. Burgarella, Tra l’Amato ed il Savuto. Tomo II, p. 381- 406, Ed. Rubbettino, 2008.
  • K. Massara, I possedimenti dei Cavalieri di Malta nella piana lametina in una platea del ‘600, p. 407-452, Ed. Rubbetino, 2005.
  • E. Pontieri, L’Abbazia benedettina di Santa Eufemia in Calabria e l’Abate Roberto De Grantimesnil - i Normanni nell’Italia Meridionale, Archivio storico per la Sicilia Orientale, 1964.
  • S. Mancuso, G. De Sensi Sestito, I segni della storia - Lamezia terme, La Modernissima, 2008.
  • I. Ingrassia, F. Lombardo, L’abbazia di S. Maria di S. Vetere, pp. 66 – 67, Daidalos, 2002.

 


LA CHIESA DI SAN TOMMASO A CAVEDAGO

A cura di Alessia Zeni

Introduzione: la chiesa di San Tommaso a Cavedago tra i monti del Gruppo Brenta e la valle di Non

Alle soglie del paese di Cavedago, sulla statale che sale dal bivio del ponte Rocchetta all'altipiano della Paganella, su un panoramico rilievo aperto verso la valle di Non e coronato dai monti del Gruppo Brenta si innalza la piccola chiesa cimiteriale di San Tommaso. Questa chiesa è stata oggetto di un importante campagna di restauro e di un inedito lavoro di ricerca storico - artistica condotto per una tesi di laurea specialistica.

Le recenti ricerche hanno confermato che questa piccola chiesa venne fondata su una strada di origine romana, tra il XIII e il XIV secolo, ad uso di viandanti e pellegrini che percorrevano questo antico percorso. La chiesa venne poi ampliata tra il 1546 e il 1547 in seguito all’accrescimento della popolazione del paese di Cavedago che si era sviluppato nei dintorni della chiesetta in età basso medioevale. La chiesa venne ampliata nelle forme in cui appare oggi, cioè in stile "gotico clesiano": stile di transizione dal gotico al rinascimento che si diffuse in Trentino durante l'episcopato del principe vescovo di Trento, Bernardo Clesio (1485-1539).La chiesa è infatti un piccolo edificio che presenta elementi architettonici derivati dallo stile gotico e dallo stile rinascimentale.

La chiesa di San Tommaso a Cavedago è caratterizzata da una struttura molto semplice, ma esemplificativa dello stile architettonico che si diffuse nelle chiesette alpine trentine tra il XV e il XVII secolo. La chiesa è caratterizzata da un ambiente ad unica navata scandita da campate coperte da volte costolonate in stile gotico, abside poligonale e presbiterio leggermente rialzato, campanile costituito da un tetto a piramide dalle forme slanciate tipicamente gotiche ed è circondata sul lato sud-est dal cimitero. La facciata della chiesa è articolata da una tettoia sorretta da pilastri in pietra e da un portale rinascimentale in pietra bianca finemente lavorato che porta incisa sull'architrave la data 1546.

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All’esterno, anticamente privo dell’attuale tettoia sopra l’ingresso, corrono lungo la facciata una serie di riquadri affrescati, che raffigurano, da sinistra a destra: San Michele arcangelo provvisto di bilancia per pesare le anime e di una lancia con la quale probabilmente trafigge la figura del diavolo ormai scomparsa. San Michele è raffigurato in coppia con un santo - vescovo benedicente, identificato con San Vigilio, santo patrono della chiesa trentina. Al centro sono invece affrescati una coppia di Santi, di cui sono rimaste solo parte della testa e del collo.

Infine a destra, spicca un grande riquadro contenente un gigantesco San Cristoforo, raffigurato con il piccolo Gesù sulla spalla e il bastone rifiorito in mano; secondo la tradizione devozionale, preservava da morte improvvisa chi si fosse fermato a guardarlo e a recitare una preghiera in un suo onore.

All’interno della chiesa, sulla parete meridionale, sono raffigurate le immagini di San Nicola da Bari e di San Vigilo, invece sulla parete settentrionale è dipinta una Crocifissione tra Maria, San Giovanni evangelista, e le figure di una santa, forse la Maddalena. Il Cristo è rappresentato con corpo piuttosto tozzo e con i piedi fissati alla croce con doppio chiodo, come nella tradizione romanica; invece le figure vicine sono ritratte nell’atteggiamento convenzionale per esprimere il dolore, con il volto lievemente reclinato sulla mano.

Nella fascia al di sotto della crocifissione sono presenti tre altri riquadri molto frammentari: quello centrale lascia appena intravedere una figura di orante; in quello di destra si scorge una mezza figura in posizione frontale danneggiata dall’antico collocamento dell’altare laterale; e in quello a sinistra, in migliori condizioni conservative, eseguito contemporaneamente alla crocifissione, è raffigurata una singolare figura di Fabbro con copricapo a punta, in procinto di modellare sull’incudine un ferro di cavallo che, ancora caldo, tiene in mano con una lunga pinza.

La campagna di restauro e le ricerche hanno stabilito che gli affreschi che oggi decorano la piccola chiesetta risalgono al XIV secolo e sono stati realizzati in tre fasi pittoriche differenti e da diverse botteghe, provenienti dal veronese e dal bergamasco. Il San Vigilio e il Santo vescovo Nicola, affrescati in coppia sulla parete interna della navata di San Tommaso sono stati attribuiti alla corrente pittorica veronese dei primi decenni del trecento che applica modi figurativi ritardatari; mentre i santi rappresentati sulla facciata della chiesa di San Tommaso sono stati attribuiti a personalità di impronta giottesca formatesi nell'ambiente veronese.

Quest'ultima inedita attribuzione è stata determinata dall'elevata esecuzione pittorica degli affreschi della facciata di San Tommaso, che ricordagli affreschi dipinti dai seguaci del Giotto padovano nelle chiese veronesi di San Fermo e di San Zeno. Infine il gigantesco San Cristoforo raffigurato sulla facciata della chiesa di Cavedago è opera del cosiddetto Maestro di Sommacampagna, pittore itinerante di origine lombarda, attivo negli anni centrali del Trecento in valle di Non, ma non solo.

Conclude la decorazione della piccola e suggestiva chiesetta alpina, una seicentesca pala d'altare in legno dorato e policromato opera dello scultore trentino Cristoforo Bezzi da Cusiano (val di Sole) che porta al centro il recente bassorilievo con l'Incredulità di San Tommaso, opera dello scultore Egidio Petri di Segonzano.

Dietro l'altare è infine collocata un'iscrizione con la data di ampliamento della chiesa e del maestro muratore che ha eseguito i lavori: "1547 ROCHO MURARO DE LAINO".I recenti studi hanno posto l'attenzione su questo maestro muratore, Rocco de Redis, originario di Laino nella valle d'Intelvi (Como), ma residente a Tassullo, in valle di Non. Secondo quanto emerso costui ha contribuito a diffondere negli anni centrali del Cinquecento il cosiddetto stile architettonico "gotico clesiano", attraverso l'ampliamento di molte chiese della val di Non e della valle di Sole.

La recente ricerca condotta per la piccola chiesetta di San Tommaso a Cavedago ha quindi posto l'attenzione su un edificio religioso modesto nelle sue forme, ma importante nella sua storia, poiché è esemplificativa delle vicende artistiche e architettoniche che hanno vissutole piccole chiesette delle valli trentine negli anni tra il XIV e il XVII secolo.

Bibliografia di riferimento:

  • GIRARDI Silvio, “In contrada Cavedagum…”. Dai masi alla comunità, Trento, Artigianelli, 2000
  • MICHELI Pietro, Sulle sponde dello Sporeggio, Trento, Argentarium, 1977
  • REICH Desiderio, I castelli di Sporo e Belforte, Trento, Scotoni e Vitti, 1901
  • VIOLA Enrico, La chiesetta di San Tomaso a Cavedago: un atto di rispetto, 2002
  • ZENI ALESSIA, Il magister Rocco de Redis da Laino d’Intelvi nei documenti dell’Archivio di Stato di Trento, in “Studi Trentini. Arte”, 94, 2015, 1, pp. 87-96
  • ZENI Alessia, La chiesa di San Tommaso a Cavedago tra Storia, Arte e Architettura, Trento, Nuove Arti Grafiche, 2015

 


LA PIETA' DEL BATTISTELLO A BARANELLO

Introduzione

Il piccolo comune molisano di Baranello, in provincia di Campobasso, ospita la Parrocchiale di San Michele Arcangelo che domina su Largo Conte Zurlo. La chiesa più antica, databile intorno al XIII secolo d.C., viene distrutta nel 1805 da un forte terremoto, i cui effetti devastanti sull’edificio sacro impongono la stesura di un progetto di ricostruzione, affidato all’architetto Musenga, autore tra l’altro del progetto per la cattedrale del capoluogo della regione.

La nuova chiesa, consacrata tredici anni dopo il progetto, presenta una candida facciata di impianto neoclassico, tripartita da quattro colonne in ordine tuscanico, dal modulo gigante. Tre portali gemelli identificano la ripartizione interna della pianta in tre navate, distinte da colonne e paraste di ordine ionico. La pianta basilicale è inoltre priva di transetto.

Gli interni dell’edificio sacro custodiscono capolavori come le due tele seicentesche attribuite al pittore Francesco Inchingolo, la Strage degli Innocenti e l’Adorazione dei Magi, l’Ecce Homo, di un anonimo maestro di formazione napoletana, accanto ad una serie di dipinti attribuiti all’artista Trivisonno, di epoca recente. La navatella destra della chiesa conserva invece un piccolo gioiello, un olio su tela noto come la Pietà del Battistello.

La Pietà del Battistello

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La tradizione storica e artistica vuole che quest’ultima opera sia ricondotta all’artista caravaggista Giovanni Battista Caracciolo (1578 – 1635) più noto come il Battistello. La paternità dell’opera è suggerita dalle diverse corrispondenze formali, cromatiche e compositive che si riscontrano in altre opere dello stesso autore.

Nota anche come Deposizione la scena è tuttavia priva di croce, elemento imprescindibile per quel soggetto; dunque si tratta di un Compianto o di una Pietà: il corpo esanime del Cristo è steso su di un lenzuolo, con la testa reclinata e le braccia abbandonate. Lo circondano nel dolore la Vergine, San Giovanni e la Maddalena, inseriti nella scena come se emergessero dalle tenebre.

L’artista, interpretando la lezione del luminismo caravaggesco, isola le figure su di uno sfondo scurissimo, l’oscurità le fa risaltare e i protagonisti vengono rivelati dagli squarci di luce: se però in Caravaggio la luce è una componente essenziale della materia stessa delle cose, in Battistello questa diventa uno strumento per vitalizzare le forme plastiche costruite con un disegno energico, preciso e accurato.
L’essenzialità della composizione, dal numero esiguo di personaggi, è però impreziosita dalla gamma cromatica, in cui il grigio-bianco delle maniche della Maddalena, il rosso smaltato del manto di San Giovanni, l’azzurrite della veste della Vergine, emergono dal vasto sfondo scuro.

In assenza di notizie certe sulla provenienza della Pietà del Battistello, le fonti letterarie fissano la datazione dell’opera intorno al primo ventennio del XVII secolo. Altri lavori ad essa contemporanei e dello stesso artista, presentano analogie nella composizione (pochi personaggi), nelle scelte formali (l’uso attento del chiaroscuro) e poetiche (realismo seicentesco), di chiaro gusto antiaccademico: si pensi all’olio su tela Cristo e la samaritana al pozzo, 1620 circa, conservato nella Pinacoteca di Brera a Milano o alla Liberazione di San Pietro, 1615, conservato nel Museo Pio Monte della Misericordia a Napoli, per citarne solo alcuni.

Bibliografia

  • ROBERTO LONGHI, Disegno della pittura italiana. 2 – Da Leonardo al Canaletto, a cura di Carlo Volpe, Scansioni, Firenze, 1979
  • LUISA MORTARI, Molise. Appunti per una storia dell’arte, De Luca editore, Roma, 1984
  • FRANCESCA CAPPELLETTI, Caravaggio e i caravaggeschi, a cura di Laura Bartoni e Francesca Cappelletti, Il Sole 24 ore, Milano, 2007, pp. 275-276
  • ALESSANDRO CIMMINO, Un capolavoro sconosciuto, Il Ponte, 20, n.5 (2008), pp. 40-41
  • VIVIANA FARINA, Intorno a Ribera. Nuove riflessioni su Giovanni Ricca e Hendrick van Somer e alcune aggiunte ai giovani Ribera e Luca Giordano, Rivista di Storia Finanziaria, Università degli Studi Federico II di Napoli, luglio-dicembre 2011, n.27, pp. 155-194

 


IL DUOMO DI TERMOLI

Introduzione

È un magnifico tempio quello della Cattedrale. In mezzo alle case basse della vecchia Termoli si eleva come un gigante ad attestare la fede e la religione delle passate generazioni, e il genio che, nel secolo XII, nel nostro Paese, si librava a voli altissimi e si manifestava in forme architettoniche, così come Dante nel Trecento si esprimeva in nuove forme linguistiche.

Il Duomo di Termoli occupa una posizione predominante nel tessuto urbano del borgo antico: rivolta ad oriente, secondo le antiche consuetudini e con un significato teologico molto preciso, la maestosità della fabbrica domina e determina tutta la struttura urbanistica. La piazza antistante, gli assi viari che tagliano il brano edilizio del borgo, le vicine piazzette, sono in funzione del tempio, centro propulsore della vita religiosa e civile.

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Nel corso della quarta crociata in Terra Santa (1202 – 1204), le reliquie di San Timoteo (discepolo di Paolo) vengono trafugate a Costantinopoli e trasferite nella cittadina termolese: il conseguente prestigio religioso della città attira l’attenzione dei pellegrini diretti ai santuari del Gargano e ai porti di imbarco delle crociate. Si rende allora necessaria la realizzazione di un imponente edificio di culto che potesse conservare la reliquia, assieme a quella del patrono della città, San Basso, già presente nel XII secolo e, allo stesso tempo, accogliere i fedeli in sosta dal pellegrinaggio.

A quel tempo, l’influenza della cultura orientale è riccamente testimoniata in tutto il meridione: se la dominazione bizantina sulle coste pugliesi e quella mussulmana in Sicilia hanno fortemente segnato la storia di quei luoghi, dall’altra parte si assiste ad una graduale commistione delle culture straniere con il patrimonio di conoscenze artistiche locali. Non è estraneo alle esperienze artistiche delle altre regioni meridionali, il cantiere della Cattedrale, di stampo federiciano, contrassegnato, inoltre, da una graduale acclimatazione delle novità gotiche.

Un altro elemento che favorisce lo scambio culturale, anche con l’importazione di opere d’arte e maestranze dell’oriente, è costituito dalla presenza nel territorio di numerose colonie ravellesi, che di fatto costituiscono una vera e propria aristocrazia di grandi commercianti, promotori di iniziative dal carattere religioso ed artistico. Documenti affidabili testimoniano la presenza di una colonia ravellese nella città di Termoli, intorno al XII – XIII secolo; sono due nobili famiglie in particolare a finanziare la costruzione della nuova cattedrale, i Grimaldi e i De Afflitto, i cui nomi sono riportanti in iscrizioni incise sulla base delle statue, collocate sulla facciata della fabbrica sacra.

Il Duomo di Termoli: l'esterno

Ed è proprio la facciata principale a mostrare questo connubio di esperienze artistiche di diversa provenienza: una polifonia, in cui mantengono la propria individualità, le mani di tre maestri: il magister bizantino che si attiene ai canoni estetici bizantini, pur perseguendo alcune novità gotiche; il magister francese che ha portato le novità del gotico dell’Ile de France ed è l’autore delle statue a tutto tondo sulle mensole e dei capitelli dei montanti del portale d’ingresso, nonché delle decorazioni delle bifore centrali e probabilmente del rosone originale, andato in seguito distrutto e, in ultimo, il magister romano dei cui lavori è rimasto ben poco, ovvero le tarsie marmoree.

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Un particolare che accomuna l’architettura religiosa termolese e quelle abruzzesi e pugliesi, è il tralcio cosiddetto “gerosolimitano”, costituito da foglie di palma bombate, fortemente a rilievo in cui è evidente il dettaglio naturalistico del vegetale. Assume la funzione di elemento guida della decorazione architettonica in molteplici variazioni, sui capitelli delle paraste, sulla fascia orizzontale che marca il davanzale delle finestre, sul portale principale e intorno alla mostra di alcune bifore esterne. Quando invece percorre le cornici dei davanzali delle bifore e i capitelli delle paraste, è orlato da un bordo di palmette o da una fascia di ovuli.

Altra testimonianza degli influssi orientali nel cantiere è il fulgore cromatico degli elementi di facciata: applicando una tecnica simile all’incastonatura delle pietre preziose, di cui gli orientali erano esperti, sono ottenuti i meravigliosi rosoncini incastonati tra le ghiere esterne delle bifore, i marmi policromi negli archi del portale e della bifora di destra, le tarsie colorate triangolari, in terracotta invetriata, che profilano le ghiere degli archi delle bifore e il piombo applicato nelle incisioni.

Da ricordare infine sono la perfetta simmetria e la corrispondenza tra le parti dell’apparato scultoreo della facciata, chiavi interpretative singolari nella cultura araba e bizantina. Si osservino le sei bifore laterali al portale, dalla corrispondenza perfetta sia nei motivi decorativi che iconografici: le due bifore più esterne ad esempio sono caratterizzate oltre che dalle due paraste angolari più ampie, dalla stessa cornice con il tralcio sopra citato e dalla presenza di sculture a tutto tondo, leoni stilofori sovrastati da grifi. Le due bifore centrali erano probabilmente a giorno, per l’illuminazione degli interni, mentre le due adiacenti al portale presentano le ghiere degli archi privi di decorazione che poggiano su preziosi capitelli sorretti da eleganti colonnine tortili e poligonali.

Il tema religioso illustrato in facciata è il ciclo del mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, che si ritrova puntualmente in tanti altri edifici coevi e che dimostra come l’iconografia bizantina sia fortemente debitrice dei vangeli apocrifi. Del ciclo sono sopravvissute solo due scene, probabilmente di mano del magister bizantino, l’Annunciazione, nella prima bifora a sinistra e la Presentazione al Tempio di Gesù, nella lunetta del portale. Nella prima, la Vergine, seduta su un trono senza schienale, sostiene due fusi, uno per ogni mano e collegati dal dettaglio naturalistico del filo, mentre l’Arcangelo Gabriele, con le ali spiegate, ha in mano uno scettro fiorito quale simbolo di pace.

Nella seconda, lo schema iconografico ricalca quello diffuso a seguito di quanti si muovevano nella cerchia artistica di Bisanzio ed è impostato sulla simmetria: intorno al Cristo sono disposti da un lato Simeone ed Anna, dall’altro Maria e Giuseppe. Di questa purtroppo, molto deteriorata e di difficile lettura, restano solo frammenti di immagini che hanno perso l’originario rilievo.

Il terremoto del dicembre 1456 ha provocato il crollo dell’intero ordine superiore dell’edificio sacro e per la ricostruzione, in epoca aragonese, sono stati utilizzati conci di misura inferiore e di materiale differente dall’originale. La differenza stilistica e di materiale dei due ordini è tanto evidente che un articolo degli anni trenta riporta: “mentre la zona inferiore è costituita da grossi conci quadrati di bianca pietra calcarea senza malta, in quella superiore sono conci più piccoli di pietra bruna con grosso strato intermedio di malta”. Oggi la differenza è attenuata dagli effetti del tempo sui materiali di costruzione.

Il Duomo di Termoli: l'interno

L’interno conserva le tracce dell’edificio religioso preesistente, probabilmente risalente alla prima metà del IX secolo, di cui sono testimonianze evidenti il giro di tre absidi e brani di mosaico pavimentale, collocati ad un livello inferiore rispetto la chiesa attuale, comunemente chiamato cripta.

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Le rappresentazioni dei mosaici, ridotti ormai a due frammenti, riprendono tematiche molto note al Medioevo, diffuse attraverso i Bestiari, che non solo manifestano la concezione cristiana del mondo come foresta di simboli, ma si propongono come guide alla comprensione delle numerose immagini zoologiche presenti nei testi sacri. Il primo occupa l’abside sinistra dell’antica chiesa: un motivo geometrico a scacchiera, con andamento indipendente rispetto il profilo absidale, inquadra la parte figurata; nella parte mediana, sul fondo bianco, è presentato un gruppo di animali stretti in un vitalissimo intreccio.

La figura maggiore è un quadrupede, forse un cervo, con le gambe divaricate in atteggiamento di corsa, la testa rivolta, dalla cui bocca fuoriesce la coda sinuosa e anguiforme di un uccello mostruoso che si riflette ad arco, ingoiando a sua volta l’estremità della coda del cervo. Il secondo mosaico, più esteso, è nella navata mediana; raccoglie in libero accostamento più figure di animali: due quadrupedi simmetrici ai lati dell’albero della vita; una sirena bicaudata circondata da pesci, un leone che ingoia un minuscolo animale, un quadrupede alato.

Dai rilievi effettuati durante il restauro degli anni trenta si deduce come la pianta della costruzione abbia conservato nelle linee generali l’impostazione originaria: priva di transetto e divisa in tre navate, scandite da una doppia serie di pilastri cruciformi e terminanti con tre absidi semicircolari. Si nota un evidente contrasto tra le conformazioni delle due absidi minori; quella meridionale, accostata ad altre costruzioni, risulta fortemente manomessa, tanto da uscire fuori dal perimetro dell’edificio, mentre l’abside settentrionale sembra aver mantenuto la primitiva conformazione.

La parete meridionale, inglobata nel palazzo vescovile, adiacente l’edificio sacro, ha subito notevoli trasformazioni ed è considerata alla stregua di un semplice muro divisorio, da cui accedere alla cappella del S.S. Sacramento, incorporata nell'attuale palazzo, mentre, in prossimità della terza campata, su entrambi i lati, sono situate le scale di accesso alla cripta (o chiesa inferiore). Proseguendo, dopo la terza campata, a sinistra, s'innalza la torre campanaria a base quadrata, su di una volta a botte e con copertura a cella ottogonale cuspidata; a questa segue la sagrestia. Se la navata centrale, più larga, è coperta a capriate, le due navate laterali sono sormontate da volte a crociera, con chiave leggermente rialzata.

Bibliografia

  • LUIGI RAGNI, Il Duomo di Termoli, Stab. Tipografico Sorrentino, Napoli, 1907
  • a cura di MARIA STELLA CALÒ MARIANI, Due Cattedrali del Molise, Termoli e Larino, Cassa di Risparmio Molisana, 1979
  • MARCELLO PARADISO, La fede sullo scoglio. La Cattedrale di Termoli e i suoi santi, Termoli, 1993
  • NICOLA DI PIETRANTONIO, Segni d’Oriente. La Cattedrale di Termoli. Influssi, maestranze e crociati sulla via del pellegrinaggio, Ediduomo, Termoli, 2002
  • GABRIELE PALMA, La Cattedrale di Termoli: studi di estetica medievale, Tipografica Adriatica Edizioni, Termoli, 2004

Sitografia

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Duomo di Amalfi

La cattedrale di Sant’Andrea, o Duomo, è sicuramente uno dei monumenti più caratteristici della costiera amalfitana e di Amalfi stessa: la facciata su più livelli, l’imponente scalinata e il bianco – nero che contrasta armoniosamente con i colori della facciata la rendono, infatti, immediatamente riconoscibile. La chiesa fu fondata nel IX secolo, quando Amalfi era una delle repubbliche marinare, e rimaneggiata nel 1200 con lo stile arabo-normanno allora tanto di moda. Ebbe altri due restauri, uno nella seconda metà del 1500 ed un altro nell’800 a seguito di un crollo. A fianco il campanile, rivestito di maioliche.

Caratteristico è il portico, con l’intreccio di arcate a trifora tipicamente arabo e la facciata a salienti, che conduce l’occhio direttamente al timpano, ove campeggia un mosaico raffigurante Cristo in trono in mezzo agli Evangelisti; oltrepassato il portico, si incontra la porta in bronzo proveniente da Costantinopoli, dono di un ricco amalfitano,il ricco mercante Pantaleone di Mauro.

L’interno è barocco, a tre navate riccamente decorate e sormontate da un soffitto a cassettoni ligneo e dorato con quattro affreschi. Spettacolare la vista prospettica sul settecentescoaltare maggiore e l’abside, in cui è collocata la tela raffigurante il Martirio di Sant’Andrea, patrono dei pescatori, cui la chiesa è consacrata. Sotto l’altare maggiore, infatti, vi sono le reliquie del santo, trasportate nel 1208 dal cardinale Pietro Capuano, reduce dalla Terra Santa. La leggenda racconta che le ossa di S. Andrea, racchiuse tra lastre istoriate, emanino una sostanza straordinaria, la Manna, raccolta da un’ampollina posta sulla tomba del santo.

Nella navata sinistra vi è la Croce di Madreperla, portata dalla Terra Santa da Monsignor Ercolano Marini, originario delle Marche, che fu benefattore amatissimo dalla gente amalfitana, che lo ricorda per le sue doti di umiltà e amore verso il prossimo, nonché come fine teologo. Le sue spoglie riposano ancora all’interno della cattedrale, ed in suo onore è stato eretto un orfanotrofio. Di fianco alla navata il Battistero, in porfido rosso egiziano, proveniente da Paestum.

Il Duomo è un insieme di elementi antichi e meno antichi: tra i più antichi spicca sicuramente la Basilica del SS. Crocefisso, edificata nell’anno 883, con matroneo e colonne originali, in cui sono stati collocati dei sarcofagi di età romana, mentre il resto delle decorazioni è stata spostata nel Museo Diocesano allocato di fianco al Duomo stesso.

L’elemento più spettacolare è sicuramente, però, il Chiostro del Paradiso, contiguo alla Basilica del SS. Crocefisso, un vero e proprio tuffo nell’Oriente: è un chiostro circondato da colonnette intrecciate e doppie a sesto acuto, fatto edificare tra il 1266 e il 1268 dall’arcivescovo Filippo Augustariccio come cimitero per i ricchi patrizi; ai lati si aprono sei cappelle affrescate del Trecento. L’intero portico è stato restaurato ed aperto al pubblico nel 1908.

Sitografia

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