DALLA SIRENA PARTENOPE A CASTEL DELL’OVO

A cura di Ornella Amato

 

Una leggenda napoletana

 

Fig.1 - Napoli, Castel dell’Ovo visto dal Lungomare di Mergellina. Credits: Matulus - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?.curid=83268554.

 

In un paese che non vi dico

Addormentata in riva al mare

Col vulcano che la sta a guardare

C′è da sempre una Sirena

Una fattura l'incatena

E nessuno la può svegliare…

Cit.: “Sole Sole", Eugenio Bennato[1]

 

La nascita della città di Napoli: tra storia e leggenda

Il 21 dicembre dell’anno 475 a.C. veniva fondata Napoli, o meglio ancora, Neapolis, la Città Nuova, appellativo utilizzato per distinguerla dal precedente insediamento denominato Palepolis, ovvero la città vecchia, che oggi viene individuato nell’attuale centro storico.

In realtà la data suddetta è assolutamente simbolica perché se da un lato gli storici sono concordi sull’anno di fondazione, per quel che concerne il giorno si è scelto quello in cui solitamente cade il solstizio d’inverno dato che era tradizione delle popolazioni antiche gettare le basi delle nuove città durante questo periodo; sta di fatto che la sua fondazione resta avvolta nel mistero.

Indiscutibili sono l'origine greca e il mito fantastico della sirena Partenope, che accompagna da sempre la storia della nascita di Napoli.

Chi era realmente Partenope e se sia effettivamente esistita è impossibile dirlo. Secondo alcune correnti di pensiero sarebbe stata una principessa greca morta quando una nave che trasportava i coloni aveva raggiunto le coste, ma non è mai stata ritrovata una sua tomba né un’immagine ad essa riconducibile. Eppure, Partenope esiste in ogni napoletano che si dichiara suo figlio, in ogni napoletano che si dichiara “partenopeo”.

La leggenda vuole che Partenope in realtà sia una sirena, la cui immagine segue l'iconografia tradizionale di queste creature: donne che dalla vita in giù, al posto del bacino e delle gambe, hanno la coda di un pesce, anche se in tempi antichi erano presentate anche come degli uccelli e quindi con le ali.

Le Sirene raccontate nella mitologia classica

Lunghi capelli, corpo sinuoso e viso splendido, code lunghe con squame dai colori sorprendenti, dal verde smeraldo al blu cobalto passando per l'argento: così è rappresentata la sirena a cui oggi siamo abituati, ma sin dai tempi più remoti e soprattutto nell’età classica era vista quasi come un’arpia, una figura ibrida tra donna e rapace che catturava le sue prede ammaliandole con un canto capace di stregare gli uomini. Nessuno poteva resistere.

Ne parla anche Omero nel canto XII dell’Odissea:

[…] Dapprima arriverai dalle Sirene, che incantano

gli uomini che arrivano presso di loro.

Chi senza saperlo si accosta e ascolta la voce

delle Sirene, non lo accoglieranno mai più la moglie e i figli

al suo ritorno a casa, ma le Sirene

sedute sul prato lo stregano con il loro canto

armonioso; tutta la riva intorno

è piena di cadaveri putrefatti, le carni marciscono […]. [2]

 

Raccontando il viaggio di ritorno di Ulisse ad Itaca dopo la guerra di Troia, l’eroe, il suo equipaggio e la sua nave riescono a sopravvivere al canto ammaliatore delle sirene poiché, messi in guardia da Circe, scelgono di attuare uno stratagemma: Ulisse si fa legare all'albero maestro della nave ed impone all'equipaggio di tapparsi le orecchie con la cera per evitare di naufragare sugli scogli dove le sirene avrebbero potuto condurli.

 

Fig. 2 - Adolfo De Carolis, illustrazione da Odissea, Vol. I e II, trad. Ettore Romagnoli, Zanichelli, 1927. Credits: By Adolfo de Carolis - This file was derived from: Omero - L'Odissea (Romagnoli) I.djvu, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=50486624.

 

 

La Sirena Partenope: dall’isolotto di Megaride al Golfo di Napoli

 

Fig. 3 - Napoli - La fontana della Sirena Partenope in Piazza Sannazzaro.

 

Leucosia, Ligeia e Partenope erano tre sorelle, ma soprattutto tre sirene.

Consapevoli del potere del loro canto fascinoso, tentarono di attirare l’attenzione di Ulisse del quale Partenope si innamorò perdutamente, ma il rifiuto dell’uomo fu devastante e la sirena si lasciò trascinare dalle acque del Mar Tirreno fino a lasciarsi morire sull’isolotto di Megaride. Da qui nascerebbe la leggenda di Napoli e di Partenope.

Il corpo della sirena non fu mai ritrovato. A questo punto sarebbe più corretto parlare del mito di Partenope, piuttosto che di leggenda. Ma una spiegazione i napoletani a questo mancato ritrovamento l’hanno anche data: il corpo si sarebbe dissolto a partire dall’Isolotto di Megaride, su cui secondo il mito la sirena aveva appoggiato la sua testa, mentre la restante parte si sarebbe adagiata lungo quella che era la costa del tempo dando vita al Golfo di Napoli che nella forma ricorderebbe, quindi, la curva della coda della sirena stessa.

Stando a questa mitologica ricostruzione, la sirena, il cui fianco sinistro era rivolto verso il mare, col suo fianco destro avrebbe dato vita allo sviluppo della città di Napoli, dal basso verso l’alto, comprese le sue undici colline.

E se Partenope non fosse morta? Lo sosteneva Matilde Serao:

Ebbene, io vi dico che non è vero. Parthenope non ha tomba, Parthenope non è morta. Ella vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni. Ella corre ancora sui poggi, ella erra sulla spiaggia, ella si affaccia al vulcano, ella si smarrisce nelle vallate. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori: è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene; è lei che rende irresistibile il profumo dell’arancio; è lei che fa fosforeggiare il mare.[3]

Ma per i napoletani Partenope ha scelto la morte. Una morte causata dal rifiuto di un amore, ma che ha dato vita alla sua città, Napoli, che oggi è per tutti “la Città di Partenope”. E non sarebbero mancati omaggi. Infatti, è a lei che si devono sette doni preziosi: grano, estratto di fiori d'arancio, cannella, cedro, ricotta, uova e zucchero, ovvero i 7 ingredienti fondamentali per la pastiera napoletana, dolce tipico del periodo pasquale e che mai deve mancare sulle tavole partenopee.

Partenope è là che in eterno riposa sull'isolotto di Megaride, oggi Borgo Marinari, ai piedi del Castel dell’Ovo, il castello più antico della città, che conserva e nasconde un magico uovo d’oro lì riposto dal poeta Virgilio: un uovo deposto dalle sirene, che protegge il castello e la città.

La fortezza in realtà ha avuto origine dai resti di una villa luculliana e risale al I sec. d.C circa. Avrebbe visto diversi eventi svolgersi tra le sue mura: qui fu esiliato Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma, dal barbaro Odoacre e venne decapitato Corradino di Svevia, ma soprattutto fu il luogo che vide la regina Giovanna d’Angiò dichiarare pubblicamente che, a seguito di  un rovinoso incendio che aveva distrutto una parte della struttura, l’uovo d’oro che tutt’oggi conserva era rimasto intatto: una dichiarazione resasi necessaria per placare l’animo dei napoletani, preoccupati per le sciagure che si sarebbero abbattute sulla città qualora l’uovo fosse andato distrutto.

Per quanto riguarda il corpo della sirena, per secoli i napoletani lo hanno cercato, ovviamente senza mai trovarlo.

 

 

Ai napoletani interessa la certezza della protezione dalle avversità, che offre soprattutto il patrono San Gennaro attraverso il miracolo della liquefazione del Sangue, ma che è anche garantita dell’uovo d’oro e dalla sirena.

 

Fig. 6 - Veduta di Napoli da Via Partenope, antistante il Castel dell’Ovo.

 

Partenope è là che dorme accarezzata dalle onde del mare che s’infrangono sugli scogli dolcemente per non disturbarla, perché sanno che mentre riposa nel sonno eterno veglia sulla sua creatura.

 

E chi a guarda s’annammora

E tutt′o munno a sta a guardare

E nisciuno ′a po’ scetare. [4]

 

Fig. 7 - Napoli, il Lungomare visto dal Castel dell’Ovo.

 

 

Le immagini inserite in questo elaborato dalla 3 alla 8 sono state realizzate dall’autrice dell'articolo.

 

Note

[1] Citazione liberamente tratta dalla prima strofa della canzone “Sole Sole” di E. Bennato. Testo consultabile su www.testiecanzoni.mtv.it

[2] Odissea, libro XII, vv. 39-46. Trad. di G. Paduano. Consultabile online: https://ime.mondadorieducation.it/extra/978888332768/extra/978888332730_leggo_perche_epica/02_laboratorio/le-sirenebr-odissea/

[3] La citazione è liberamente tratta da altritaliani.net che la riprende testualmente da “Matilde Serao – Leggende napoletane “del 1881.

[4] “e chi la guarda se ne innamora e tutto il mondo sta a guardare e nessuno la può svegliare”. Citazione liberamente tratta da “Sole Sole” di E. Bennato. Testo consultabile su www.testiecanzoni.mtv.it

 

Sitografia

comune.napoli.it

testiecanzoni.mtv.it

napolike.it

fanpage.it

altritaliani.net


SANTA LUCIELLA AI LIBRAI

A cura di Ornella Amato

Chiusa nel silenzio per decenni a partire dagli anni ‘80 del XX sec., Santa Luciella ai Librai sarebbe stata forse tristemente destinata all'oblio e alla dimenticanza se non fosse stata salvata dalla forte volontà dell’Associazione “Respiriamo arte” che l’ha trasformata in un sito museale: oggi si presenta splendidamente a chiunque voglia conoscere i suoi segreti e quanto di straordinario essa custodisce.

Sebbene Santa Luciella ai Librai sia tra le chiese storiche di Napoli, non distante dalla Chiesa dell’Arte della Seta (nota anche come “dei Santi Filippo e Giacomo”) ed alle spalle della Chiesa di San Gregorio Armeno, resta sconosciuta al grande pubblico, che tendenzialmente si riversa verso le grandi basiliche del centro storico partenopeo. Si trova nell'omonima via, Vico Santa Luciella, una piccola strada a gomito tra le ben più note Via San Gregorio Armeno e Via San Biagio dei Librai.

Fig. 1 - Targa stradale marmorea.

La sua denominazione merita una riflessione: l’appellativo “Luciella” le fu dato per distinguerla dalla Chiesa di Santa Lucia a mare (attualmente Basilica Pontificia Minore, dedicata alla Santa protettrice degli occhi e della vista che fu martirizzata sotto l’imperatore Diocleziano), che sorgeva sulla spiaggia dell’attuale Borgo Marinari, dalla quale gli artigiani della pietra magmatica non furono accolti. La denominazione “ai Librai” si rifà invece all'esistenza proprio in quell'area della Corporazione dei Maestri Librai.

Santa Luciella ai Librai: l'esterno

L’esterno della chiesa si presenta con un portale in piperno sormontato a sua volta da una lunetta realizzata con lo stesso materiale, e un grande finestrone a disegno gotico; sempre sul portale è visibile lo stemma della corporazione dei maestri pipernieri. Al di sopra dell'ingresso secondario vi è un piccolo campanile.

Fig. 2 - Portale della Chiesa in piperno.

Per quel che concerne la storia dell'edificio, purtroppo non vi sono molte informazioni.

La Chiesa di Santa Luciella ai Librai fu fondata da Bartolomeo Di Capua, consigliere presso la corte angioina, e fu in un primo tempo dedicata al culto mariano; invero l’altare maggiore è consacrato proprio alla Vergine. Stando alle poche fonti disponibili, solo nel corso del XVII sec. fu concessa alla Corporazione dei Pipernieri, Frabbicatori e Tagliamonti, che a Santa Lucia affidavano la protezione della vista, messa a rischio dal proprio mestiere; è infatti attestata come Cappella dell’Arte dei Mulinari, e quindi successivamente affidata proprio alla potente Corporazione dei maestri pipernieri che nella città partenopea godeva di alto prestigio e alla quale erano stati affidati anche grandi lavori.

Fig. 3 - Altare Maggiore policoromo.

Nel 1724 la chiesa fu oggetto di un sostanziale rimaneggiamento che le conferì l’attuale impianto barocco, con l’altare maggiore caratterizzato da decorazioni in marmo policromo, e il pavimento maiolicato che può sembrare quasi intatto.

Nel 1748 Santa Luciella ai Librai diventò sede dell'Arciconfraternita dell'Immacolata Concezione, San Gioacchino e San Carlo Borromeo dei Pipernieri, come una targa ricorda. Probabilmente è proprio allora che divenne quel gioiellino dell’arte barocca, nel quale silenziosamente si entra in punta di piedi e che si può apprezzare nello splendore di una “seconda vita”. La chiesa si mostra oggi al mondo non solo nella bellezza della navata, in cui forte è il richiamo iconografico legato al martirio della Santa siracusana, ma anche nella suggestione dell’ipogeo, a cui si accede attraverso una scala accanto alla Sagrestia, e dove non solo sono presenti i tipici scolatoi, ma soprattutto è conservato l’unico esempio al mondo di “teschio con le orecchie”.

La scienza insegna che in un teschio il naso e le orecchie si riducono a semplici fori nelle ossa, poiché sono composti di cartilagine che, dopo il decesso, tende a deteriorarsi e a scomparire. Il teschio rinvenuto nell’ipogeo della Chiesa di Santa Luciella, invece, si presenta con protuberanze ai lati simili in tutto e per tutto a padiglioni auricolari. Si tratta di un caso rarissimo, probabilmente unico al mondo, in cui le cartilagini delle orecchie si sono mummificate.

"O teschio che ‘recchie" come lo chiamano gli abitanti del centro storico e dal quale si recavano in molti, perché ascoltasse le loro preghiere e le riferisse, essendo considerato, per la sua particolarità, un tramite privilegiato tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Un rapporto strano quello dei napoletani con la morte, legato al “refrisco delle anime del Purgatorio” ovvero ad un alleviamento della pena, una sorta di “benedizione” ad un’anima, una preghiera popolare che non solo ne attenui la pena, ma ne faciliti e velocizzi l’ascesa al Paradiso.

Come se in questa chiesa, loro malgrado, si siano affrontate morte e vita in un duello in cui le armi usate sono state l’abbandono da un lato, la cultura dall'altro; ma la cultura non teme affronti, e il recupero di Santa Luciella ai Librai lo ha dimostrato.

Un immenso e doveroso Ringraziamento

all'Associazione ‘Respiriamo Arte’

Per la Preziosa collaborazione.

Sitografia

Respiriamoarte.it

Artwave.it

Osservatoreitalia.eu

Cosedinapoli.com

Napolitoday.com

Enciclopedia Treccani.it

Bibliografia

Maura Piccialuti Dizionario Biografico degli Italiani Vol 6


IL COMPLESSO DI SAN GREGORIO ARMENO

A cura di Ornella Amato

Solitamente il nome "San Gregorio Armeno" evoca immediatamente atmosfere invernali e natalizie, in quanto tale strada viene spesso descritta come "la strada del Natale permanente”, grazie alle sue botteghe e alla sua tradizione secolare di arti e mestieri dediti alla costruzione di pastori.

Invece il nome deriva dalla chiesa, o complesso monumentale di San Gregorio Armeno, che in essa è situato e che si apre sull'immediata sinistra, preceduto da un cancello in ferro.

La Chiesa barocca di San Gregorio Armeno, assieme al Complesso Monastico, rappresenta uno degli edifici religiosi più antichi della città oltre che tra  i più importanti, ed è popolarmente nota come la “chiesa di Santa Patrizia”.

La data precisa di fondazione della chiesa non è nota ma, superando l’atrio, si notano ai lati della porta le iscrizioni che ne riportano l’anno di consacrazione  nel 1579 e la dedicazione al santo armeno. Quel che è noto era la presenza di tre chiesette intorno ad una piccola chiesa dedicata a San Gregorio e che sarebbero state inglobate nella nuova costruzione in ossequio ai dettami del Concilio di Trento: stessa sorte sarebbe toccata al nuovo chiostro, inizialmente adibito parzialmente ad orto e – stando sempre ai dettami tridentini – esterno al convento; per realizzarlo, fu abbattuta una delle tre chiese preesistenti.

La chiesa venne edificata per accogliere le reliquie di San Liguoro – italianizzato in Gregorio – portate dalle suore basiliane in fuga da Costantinopoli, ma è conosciuta anche come chiesa di Santa Patrizia, compatrona della città insieme a San Gennaro e ad altri 50 santi. L’urna che contiene il corpo della Santa,e l'ampolla che ne contiene il sangue che si scioglie più volte l’anno, è meta di numerosi pellegrinaggi.

La facciata si presenta con quattro lesene toscane e finestroni, inseriti per l’illuminazione del coro delle monache, che danno alla struttura esterna una forma armoniosa, mentre il portale principale risale al Cinquecento ed è un’opera marmorea a due colonne laterali ed un timpano nel quale è inserito il busto marmoreo di San Gregorio Armeno.

L’interno della chiesa si presenta al visitatore con lo splendore che solo il luccichio dell’oro riesce a dare.

È a navata unica, secondo i dettami della Controriforma tridentina, con dieci cappelle laterali, divise a cinque per ogni lato.

Interno chiesa. Fonte immagine e copyright Wikipedia.
  1. Porticato d'ingresso (al piano superiore è il coro delle monache)
  2. Navata
  3. Cappella dell'Immacolata
  4. Cappella del Presepe
  5. Cappella del Crocifisso
  6. Cappella di San Giovanni Battista
  7. Cappella di San Benedetto
  8. Cappella con accesso laterale
  9. Organo di sinistra
  10. Sacrestia
  11. Presbiterio e cupola
  12. Organo di destra
  13. Cappella delle reliquie
  14. Cappella del Rosario
  15. Cappella di San Gregorio Armeno
  16. Cappella di Sant'Antonio da Padova
  17. Cappella dell'Annunciazione
  18. Cappella di San Francesco

Il soffitto cassettonato, opera del fiammingo Dirci Hendricksz, è considerato uno dei capolavori presenti nella chiesa ed è stato realizzato tra il 1580 e il 1584 su commissione della Badessa Beatrice Carafa, sebbene sia stato completato solo agli inizi del secolo successivo.

All'altezza del presbiterio si eleva la cupola decorata da Luca Giordano a cui lavorò dal 1671 e fino al 1681, mentre negli anni immediatamente successivi si dedicò al ciclo di affreschi in tre scomparti della controfacciata.

Il complesso monumentale di San Gregorio Armeno

L’altare maggiore, posto sulla parete di fondo del presbiterio, è sovrastato dalla tavola dell'Ascensione del 1574 di Giovan Bernardo Lama, più in alto vi è la grata che rappresenta l’affaccio della zona dell’abside sulla chiesa.

si compone di due cori: uno dietro l’abside decorato dal Giordano tra il 1679 e il 1681 ed un secondo invece si trova dietro la controfacciata; la chiesa comprende anche ben cinque organi.

La cappella che però è la più amata dal popolo napoletano – e che è valso alla chiesa il contro nome di chiesa di Santa Patrizia - è l’ultima cappella a destra, dove sono custodite le spoglie ed altre reliquie della Santa compatrona, estremamente cara ai napoletani.

Dal 1864, dopo l’unità di Italia, furono traslate nella chiesa le spoglie della Santa, provenienti dalla chiesa dei santi Nicandro e Marciano e, da allora, è qui che ogni martedì e ogni 25 Agosto si ripete il prodigio dello scioglimento del sangue. Come infatti il patrono San Gennaro lascia che il suo sangue, conservato in delle ampolle, si sciolga per  tre volte l’anno (il primo sabato di maggio, il 19 settembre e il 16 dicembre), lo stesso avviene per Santa Patrizia, ma se il sangue del patrono fu raccolto dalla sua nutrice pochi istanti dopo il martirio avvenuto per decollazione, per la Santa le cose andarono diversamente.

Si racconta che un cavaliere, afflitto da grandi sofferenze, pregasse la Santa incessantemente e senza mai muoversi dal luogo ove erano conservate le reliquie: in uno slancio di fervore religioso decise di aprire l'urna contenente il corpo della Santa e di staccarle un dente, e con sua grande meraviglia dalla gengiva fuoriuscì del sangue, come se si fosse trattato di un corpo vivo, sebbene la Santa fosse morta secoli prima. Tale sangue fu raccolto in due ampolle, ed è lo stesso che più volte l'anno si scioglie.

Il complesso monumentale di San Gregorio Armeno è uno dei più grandi della città, infatti oltre la chiesa si compone anche del monastero e del chiostro.

Tra l’altro, è estremamente interessante il campanile eretto tra il '500 e il ‘600 poiché è realizzato sopra un cavalcavia che collegava il convento stesso con quello di San Pantaleone.

È scandito in tre ordini con aperture di finestre su entrambi i lati della strada e termina, al vertice superiore, con una cuspide.

Oggi quel campanile sul cavalcavia è il simbolo di via San Gregorio Armeno, e sotto di esso si incrociano botteghe, pastori, presepi, vicoli: le viscere di Napoli, quelle profonde, lontane dai riflettori che da sempre la zona stessa, con i suoi luoghi caratteristici, richiama. Eppure c’è ancora tanto da scoprire, come il Salotto della Badessa che, collocato ad oriente del Chiostro, è l’unico ambiente superstite dell'appartamento della superiora. Si  presenta con l'arredo originale, decorazioni a trompe-d'oeil alle pareti e gusto rococò sulla volta.

 

Uscendo dalla chiesa, svoltando a sinistra, come a voler percorrere via San Gregorio e a salire verso il campanile, si accede al convento e al chiostro. Entrambe le parti portano la firma del Cavagna e del Della Monaca.

Il complesso monumentale di San Gregorio Armeno: convento e chiostro

L’antico chiostro venne completamente ristrutturato e furono creati ben cinque belvedere per rendere la clausura meno dura. Infatti due sono vicino la cupola, offrendo un panorama verso il mare e verso la cupola di San Lorenzo Maggiore, ed ancora ve ne sono uno vicino al campanile, uno vicino al muro di clausura ed infine una terrazza con circa cinque arcate per lato.

Attualmente ne sono rimasti solo tre, poiché due furono eliminati nel corso del tempo. L’ingresso si trova da un portale, al quale si accede da uno scalone monumentale caratterizzato da gradini in piperno e pareti laterali affrescate. Sulla destra si trovano gli ex parlatori, e sulla cima si trova un grande portale in legno incorniciato da un arco marmoreo con intorno affreschi raffiguranti la Gloria di San Benedetto.

Pianta Monastero e Chiostro. Fonte immagine e copyright Wikipedia.
  1. Ingresso al monastero
  2. Portale d'ingresso dopo lo scalone monumentale
  3. Chiostro monumentale
  4. Fontana monumentale
  5. Sala della badessa
  6. Coro delle monache (primo piano dell'atrio)
  7. Coro d'inverno (secondo piano dell'atrio)
  8. Chiesa
  9. Coro dell'abside (o cappellone)
  10. Corridoio delle monache
  11. Vestibolo e cappella del Presepe
  12. Cappella delle reliquie
  13. Chiostrino
  14. Farmacia
  15. Refettorio delle fanciulle
  16. Cisterna
  17. Cappella anonima
  18. Cappella della Madonna dell'Idra
  19. Refettorio delle monache
  20. Cucine
  21. Campanile

Varcato l’ingresso, si mostra al mondo, in tutta la sua fierezza e riservatezza, il magnifico chiostro.

Si presenta imponente, fiero e maestoso, ciononostante mantiene la riservatezza della clausura, poiché è su di esso che si affacciano gli alloggi a terrazzo delle monache, tutte al primo piano e terrazzati con una balaustra in piperno.

Al centro si erige la fontana marmorea seicentesca del Lamberti, al centro di quattro aiuole con alberi di arance e affiancata dalle due statue settecentesche del Cristo e la Samaritana del Bottiglieri.

Misteri del chiostro napoletano

Non è un caso la rappresentazione di questo incontro così particolare, narrato all'interno del Vangelo di Giovanni: la Samaritana è “la donna dai sei mariti” di cui racconta l’Evangelista, e la sua collocazione all'interno di un chiostro di un convento di clausura è molto particolare. Stando a diverse interpretazioni delle pagine del Vangelo di Giovanni, la donna faceva ampio uso della sua libertà, eppure diventava sempre più vuota; allora è lecito pensare che, in quella donna, si sia voluto rappresentare il ricordo del tormento vissuto da molte suore, le loro storie personali e, perché no, i loro drammi esistenziali, celati tra le mura della clausura, per molte suore che erano lì e per quelle che in futuro vi sarebbero giunte, come vi giunse nel 1814 la nobildonna Enrichetta Caracciolo, monaca ribelle, che, in un libro scandalo, che pubblicherà nel 1864, rivelò al mondo la durezza della vita monastica.

Enrichetta sognava una vita normale, un matrimonio, dei figli, ma la famiglia la costrinse a farsi suora nel convento di San Gregorio di cui poteva vantare di essere la nipote della Badessa.

Ma quel luogo la sconvolse: non trovò donne dedite a Dio e alla preghiera, ma piuttosto donne divorate da isterismi e invidie. Enrichetta racconta che nel convento si nascondevano e si tacevano torture fisiche e psicologiche ai danni di ragazze fattesi suore non per loro volontà, e spesso suicidatesi pur di sfuggire a quella vita. Lei stessa, decisa ad abbandonare la vita monastica, dopo diverse peripezie ed un tentativo di suicidio, riuscì ad abbandonare la vita monastica.

La pubblicazione di quanto da lei raccontato “Misteri del Chiostro napoletano” , le costò la scomunica.

Al di là di quanto potesse essere veritiero o meno il suo racconto, il convento era celebre per altro, ossia la famosa pastiera, dolce tipico della Pasqua partenopea, che la leggenda vuole sia nata dalle mani della stessa sirena Partenope e che, nel corso del Settecento, le suore presenti in San Gregorio preparavano per donare alle famiglie aristocratiche per la tavola della Pasqua.

Si racconta che le suore di San Gregorio fossero delle vere e proprie maestre nella sua preparazione e che a loro pare si debba la ricetta che ancora oggi utilizziamo: uova, simbolo di vita e fecondità e, in questo caso, di Resurrezione, ricotta, che pare derivi dall'abbondanza dei pascoli e, infine il grano, simbolo sacro per eccellenza, ma soprattutto l’inconfondibile profumo di fiori d’arancio, probabilmente all'epoca proprio estratto dei fiori d’arancio del giardino del convento.

Sta di fatto che, al di là dei mestieri e dei misteri, ma anche dei segreti che le celle e le mura possono aver custodito e, perché no, tutt'oggi custodire, il complesso monumentale di San Gregorio Armeno resta un punto fermo della “Napoli turistica”.

 

Sitografia

Wikipedia – enciclopedia Libera

Napoli-turistica.com

incampania.com

cosedinapoli.com

suorecrocifisseadoratrici.org

lavocedinapoli.it

ilmattino.it

Taccuinigastrosofici.it

 

Immagini : Fonte e copyright

Wikipedia - enciclopedia libera


LA CAPPELLA SANSEVERO DI NAPOLI

A cura di Ornella Amato

BAROCCO, ESOTERISMO, ALCHIMIA, ESALTAZIONE DINASTICA

La cappella è glaciale.

Pavimento di marmo, marmo alle pareti,

tombe di marmo, statue di marmo”.

E ancora:

 “Non ornamenti di oro, non candelabri, non lampade votive, non fiori,

 tutto vi è gelido, tranquillo, sepolcrale“ - Matilde Serao

Napoli - Decumano Inferiore -  Via Francesco de Sanctis 19/21:una segnalazione stradale turistica indica che si è giunti alla “Cappella Sansevero di Raimondo di Sangro”.

Il committente e l'origine della cappella Sansevero

Raimondo di Sangro, ottavo duca di Torremaggiore, settimo principe dei Sansevero, committente, mecenate generoso ma estremamente esigente, intellettuale, alchimista, esoterico, Gran Maestro massone, uomo carismatico per eccellenza, inventore, progettista,  gentiluomo di camera al servizio di Sua Maestà il Re Carlo di Borbone, Cavaliere dell’Ordine di San Gennaro.

La Cappella oggi è un museo privato tra i più noti e visitati della città di Napoli  (nel 2019 le presenze sono state ben 750.000), ma soprattutto è un tempio carico di simbologia. Eppure l’origine stessa della Cappella ha la dolcezza della chiesetta gentilizia che fu edificata  per voto e  successivamente per accogliere le tombe di famiglia. I lavori edili per la costruzione della chiesa  iniziarono nel 1593: si narra  che un uomo innocente, incatenato e trascinato lungo San Domenico Maggiore, vide crollare una parte del muro di cinta del giardino dei Di Sangro e lì vi vide apparire un’immagine della Madonna, alla quale fece voto di donarle una lampada d’argento e un’iscrizione qualora fosse stato scarcerato e dimostrata la sua innocenza e così fu: l’uomo tenne fede al voto fatto.

Molte altre grazie furono elargite dall'immagine sacra e ne fu testimone anche il Duca di Torremaggiore Giovan Francesco di Sangro che, gravemente ammalato, fu miracolato dalla Madonna, dalla quale ottenne la totale guarigione: per gratitudine fece innalzare  la cappella  proprio dove era apparsa la Vergine e fu denominata “Santa Maria della Pietà” o “Pietatella”, ma successivamente, suo figlio Alessandro di Sansevero, Patriarca di Alessandria e Arcivescovo di Benevento, decise di ampliare la preesistente e piccola costruzione, per renderla degna di accogliere le spoglie di tutti componenti della famiglia di Sangro, come testimoniato dalla lapide marmorea datata 1613 posta sopra l'ingresso principale dell'edificio:

“ALEXANDER DE SANGRO PATRIARCHA ALEXANDIAE TEMPLVM HOC A FUNDAMENTIS EXTRVCTVM BEATAE VIRGINI SIBI AC SVIS SEPOLCRUM ANNO DOMINI MDCXIII “

Ovvero:

“ALESSANDRO DI SANGRO PATRIARCA DI ALESSANDRIA DESTINO’ QUESTO TEMPIO, INNALZATO DALLE FONDAMENTA ALLA BEATA VERGINE, A SEPOLCRO PER SE E PER I SUOI NELL'ANNO DEL SIGNORE 1613”.

Della fase Seicentesca della Cappella non resta quasi nulla, poiché il suo assetto attuale e le opere presenti sono il frutto dei lavori che volle realizzare Raimondo di Sangro.

Raimondo di Sangro nacque il 30 Gennaio 1710 a Torremaggiore in Puglia da Cecilia Gaetani dell’Aquila di Aragona e da Antonio di Sangro, duca di Torremaggiore. A causa della prematura scomparsa della madre e degli impegni del padre, fu ben presto trasferito dalla Puglia a Napoli nel palazzo di famiglia in largo San Domenico Maggiore, dove poi si stabilirà definitivamente nel 1737 a seguito della morte del padre.

La cappella Sansevero: descrizione interna

Il principe diede ben presto prova del suo intelletto e delle sue invenzioni, per le quali suscitò anche l’ammirazione degli ingegneri dello Zar di Russia Pietro il Grande, fu insignito delle cariche più elevate del regno di Napoli guidato da Carlo di Borbone, ma soprattutto, ampliò e arricchì la “Cappella di famiglia” che, a grandi linee, mantenne la struttura seicentesca con un’unica navata a pianta longitudinale e quattro archi a tutto sesto, al di sopra dei quali corre un cornicione, costruito con un mastice di invenzione del Principe, ed una volta a botte interrotta da sei finestre che illuminano l’intera Cappella ed una finta cupoletta all'altezza dell’abside, opera di Francesco Maria Russo di cui è certa la paternità anche della volta.

Francesco M. Russo - dettaglio dell’affresco dell’abside - copyright museosansevero.it.

La volta della Cappella è stata infatti firmata da Francesco Maria Russo e datata dallo stesso al 1749 ed è un affresco noto come la “Gloria del Paradiso” o “Paradiso dei di Sangro” . E’ caratterizzato da squarci di angeli e figura varie che tendono a convergere verso il centro dove esplode la luce della colomba dello Spirito Santo.

Francesco M. Russo, 1749 - Affresco della Volta - Gloria del Paradiso - copyright museosansevero.it.

Lungo il perimetro si trovano le finestre che rischiarano l’affresco e sono intervallate dai medaglioni nei quali sono raffigurati i Santi del Casato.

La pavimentazione settecentesca della cappella è estremamente complessa: anch'essa inventata dal Principe, presentava un motivo labirintico (da qui la denominazione corrente di “pavimento labirintico”) che è andato quasi completamente perduto nella notte tra il 22 ed il 23 settembre 1889, quando un’infiltrazione d’acqua provocò il crollo del ponte che collegava la Cappella al Palazzo stesso dei Sansevero.

I restauratori chiamati al ripristino della pavimentazione originale non riuscirono a risolvere e, nel 1901, si videro costretti a sostituire il preesistente pavimento con uno in cotto napoletano, realizzando al centro lo Stemma dei di Sangro in smalto giallo ed oro, riprendendo i colori della casata.

Del pavimento labirintico originale è possibile vederne i resti  nel passetto antistante la tomba di Raimondo. Il pavimento labirintico, probabilmente, doveva rappresentare le  difficoltà che s’incontrano sul cammino della conoscenza e di certo era parte integrante del “percorso” che all'interno della Cappella si snoda attraverso le statue presenti, che seguono un progetto iconografico voluto proprio da Raimondo di Sangro, di cui elementi fondamentali sono le 10 Virtù, di cui 9 di esse sono dedicate alle mogli degli esponenti della famiglia di Sangro e addossate a 9 pilastri, mentre la decima, il Disinganno, è dedicata al padre.

I monumenti funebri del casato, alla cui accoglienza la Cappella era da sempre destinata,  si trovano invece all'interno delle cappelle laterali e tra le statue delle Virtù, nelle quali è anche possibile notare una serie di significati allegorici riferiti al mondo della massoneria, a cui il principe apparteneva in qualità di Gran Maestro.

Di tutte le sculture presenti, di certo  la “triade d’eccellenza “ è rappresentata dal “Cristo Velato” che troneggia al centro della navata della Cappella,  dalla “Pudicizia” alla sua  sinistra e il “Disinganno” alla sua destra, tutte e tre che precedono l’Altare maggiore con l'altorilievo marmoreo della “Deposizione” di Francesco Celebrano.

L'opera raffigura l'episodio della Deposizione di Cristo dalla croce e, tra le figure, spiccano Maria e la Maddalena che assistono alla scena mentre sotto di loro si trovano due putti che sorreggono il sudario sul quale risalta un'immagine metallica del volto di Cristo.

Al di sotto del piano dell'altare altri due putti scoperchiano una bara, ormai vuota. La composizione dell'altare è completata lateralmente da due angeli in stile barocco realizzati da Paolo Persico, autore anche della cornice di angeli in stucco che circonda il dipinto della Pietà.

La datazione e l'autore del dipinto sono ignoti: probabilmente fu realizzata da un manierista napoletano prima del 1590 poiché a quella data risale infatti la prima testimonianza della sua esistenza, con il miracolo della sua apparizione all'uomo erroneamente arrestato ed alla cui storia è legata poi l’origine della cappella, sicché si tratta di un quadro a cui si è legati soprattutto per il significato intrinseco che esso stesso ha, piuttosto che per la qualità artistica.

Il Cristo velato: il capolavoro centrale della cappella Sansevero

Il Cristo Velato di Giuseppe Sammartino, datato 1753, è tra le opere più studiate, più controverse della storia dell’arte.

Il corpo esanime del Cristo è disteso su di un materasso marmoreo che diventa il giaciglio non  solo  del corpo senza vita del Redentore ma anche delle sofferenze patite nelle ore della Passione, e soprattutto di tutte le sofferenze dell’umanità intera, che  Cristo ha salvato, nel momento in cui ha esalato l’ultimo respiro; il peso del corpo morto è delicatamente ricoperto dal velo.

Il velo, appunto, discusso e controverso. La diceria più famosa afferma che il velo fosse in origine in vero tessuto  che sia stato trasformato il marmo attraverso un misterioso processo alchemico, con speciali prodotti, la cui formula sarebbe tutt'oggi segreta, un velo che conferisce leggerezza, una leggerezza che, in concreto, non ha.

E’ poggiato su un basamento su cui poggia un primo velo marmoreo su sui risalta il merletto lungo tutto il perimetro e sul quale, ai piedi del Cristo, sono poggiati la corona di spine e le tenaglie con le quali erano stati tolti i chiodi. Il capolavoro del Sammartino ha alimentato anche diverse dicerie, non solo legate al modo di realizzazione, ma si racconta che il Principe, dopo la realizzazione dell’opera, accecò il Sammartino per evitare che potesse realizzare opere di valore pari o addirittura superiori.

La sua imponente maestosità è tutta nelle parole di Antonio Canova quando, dopo averla vista, dichiarò che “…avrebbe rinunciato a ben 10 anni di vita, per averla tutta per sé…”.

In un primo momento pare che la statua fosse destinata ad essere collocata nella cavea sotterranea  e sarebbe dovuto essere illuminato da una lampada di luce perpetua, ma l’imponente peso ne rese impossibile lo spostamento, sta di fatto che non sempre è stata al centro della navata, poiché, come dimostra uno scatto ottocentesco del fotografo tedesco Giorgio Sommer, era posta ai piedi della statua della Pudicizia.

G. Sommer – interno della Cappella Sansevero - copyright Wikipedia.

Le statue laterali

Alla sinistra del Cristo Velato, maestosa, s’innalza la statua della Pudicizia, dedicata alla madre del Principe Raimondo di Sangro, una delle dieci Virtù rappresentate.

La Pudicizia – copyright Wikipedia.

E’ considerata il capolavoro di Antonio Corradini e raffigura un nudo di donna ricoperto da un velo trasparente, il cui straordinario virtuosismo tecnico inaugura il genere delle “statue velate”; è datata 1752. La scultura raffigura una donna completamente coperta da un velo semitrasparente, cinta in vita da una ghirlanda di rose che le scende lungo il fianco destro, sfiorato dalla mano e, nella parte alta, il velo avvolge il capo lasciando intravedere le forme e i tratti del viso.

La Pudicizia – dettaglio – copyright museosansevero on Twitter.

La composizione è carica di significati: la lapide spezzata sulla quale la figura appoggia il braccio sinistro, come  - stando a diverse letture fatte da più critici – se fosse avvenuta una scossa di terremoto, magistralmente realizzata dallo scultore, lo sguardo come perso nel vuoto e l'albero della vita che nasce dal marmo ai piedi della statua simboleggiano la morte prematura della principessa Cecilia.

Di fronte ad essa, invece, si eleva la statua del Disinganno, realizzata da Francesco Queirolo.

Il Disinganno – copyright Wikipedia.

E’ un corpo di uomo avvolto in una rete. Ma è semplicemente così? O forse è molto di più?

Il Disinganno – dettaglio - copyright museosansevero on Twitter.

La scultura è opera del Queirolo è dedicata ad Antonio di Sangro, padre del principe Raimondo e raffigura sì un uomo che si libera da una rete, ma nella lettura più accettata vuole simboleggiare il peccato da cui era oppresso: in seguito alla morte della giovane moglie, il duca iniziò a condurre una vita disordinata e dedita ai vizi e ai viaggi, mentre il giovane Raimondo era stato affidato al nonno.

Ormai anziano, Antonio di Sangro tornò però a Napoli e, pentito dei peccati commessi, abbracciò la fede e si dedicò a una vita sacerdotale.

L’opera è di una straordinarietà disarmante. I nodi della corda con cui è fatta la rete, gli stessi nodi che la reggono, le dita delle mani infilate all'interno dei vuoti tra un nodo e l’altro rendono il tutto di un realismo stupefacente. Si dice che nessun aiutante dello scultore avesse il coraggio di dare le ultime rifiniture ai nodi della rete per paura di romperli.

La cappella Sansevero, però, è soprattutto il luogo in cui  si trovano le tombe degli esponenti del casato e, ovviamente, tra di esse, si trova  anche la tomba di Raimondo di Sangro, eretta quando lo stesso committente era ancora in vita e realizzata da Francesco Maria Russo nel 1759.

Tomba di Raimondo di Sangro – copyright museosansevero.it.

L’aspetto è semplice e sobrio, è composta da una  grande lapide in marmo rosa sulla quale è scritto l’elogio funebre del Principe: le lettere bianche che lo compongono non sono incise, ma sarebbero state realizzate con un composto di solventi chimici di invenzione del Principe che, probabilmente, dovevano risaltare sul fondo rosa.

Sovrasta l’elogio un ritratto in età avanzata dello stesso di Sangro, raffigurato con indosso una corazza e all'interno di una cornice di marmo, mentre il tutto è sormontato da un grande arco decorato con armi, libri, strumenti scientifici, emblemi commemorativi e militari che celebrano le glorie del Principe.

Interessante è poi la presenza dell’Altare di Santa Rosalia, che sebbene la tradizione la voglia patrona della città di Palermo per aver  salvato la città dalla peste, è “presente” nella Cappella di famiglia, in quanto apparteneva proprio alla nobile famiglia dei di Sangro, poiché figlia di Sinibaldo, conte dei Marsi e di Sangro.

Sotto la cappella Sansevero si trova la Cavea sotterranea dove sono conservati, all'interno di due teche, la cosiddette “Macchine Anatomiche”, ovvero gli scheletri di un uomo e di una donna in posizione eretta con il sistema arteo-venoso perfettamente integro.

Macchine anatomiche - cavea sotterranea copyright Wikipedia.

Per quel che concerne tali strutture, molto si è detto e ancora si dirà e si scriverà, poiché leggende, studi ed oscurità ruotano intorno a questi due scheletri.

La storia ufficiale racconta che sono state realizzate dal medico palermitano Giuseppe Salerno e sarebbero state acquistate nel 1756 dal Principe a seguito di una esibizione pubblica dello scheletro maschile che l’anatomopatologo palermitano tenne e Napoli e, a seguito di questo acquisto, gli fu commissionato la realizzazione di quello femminile e lo scopo era legato a studi di anatomia e per questo era stato riprodotto un sistema arto venoso con diversi materiali, in particolare la cera d’api colorata.

Sta di fatto che leggende popolari giunte fino a noi raccontano – e lo stesso Benedetto Croce riferisce di tali credenze popolari – che non si tratti di “macchine anatomiche ” ma di veri e propri corpi di essere umani, in particolari di due servi del Principe che il di Sangro “fece uccidere e imbalsamarne stranamente i corpi in modo che mostrassero nel loro interno tutti i visceri, le arterie, le vene”; si racconta addirittura che i due poveri sventurati, ancora in vita abbiano subito un’iniezione contenente particolari antidoti che avrebbero indurito i vasi capillari, il ché avrebbe anche consentito lo studio anatomico su scheletri veri. A conferma di tale teoria, sarebbe il segno profondo di una corda su uno dei due scheletri, quasi a voler bloccare un uomo in fuga da morte certa.

La storia delle “macchine anatomiche” non fa altro che aggiungere altro mistero ad un luogo già di per sé particolare, che attira sempre più turisti e visitatori, tanto da raggiungerne la quota dei 750.000 , divenendo il museo più visitato di Napoli.

L’ultima parte della cappella Sansevero, posta alla fine dell’intero percorso espositivo, è la Sagrestia, oggi bookshop del museo.

Ad essa si accede attraverso un passaggio, posto accanto alla nicchia all'interno della quale è collocata la tomba dello stesso Raimondo.

Completamente  rinnovato nel 2017, con arredi ultramoderni e dal layout funzionale, ma ispirati all'originale pavimento labirintico di cui in essa sono conservate grandi lastre di marmo.

Sagrestia – copyright museosansevero.it.

Ospita non solo due monumenti funebri anch'essi dedicati a membri della famiglia, ma espone nelle vetrine strumenti di laboratorio probabilmente appartenuti allo stesso principe, oltre che conservare grandi lastre di marmo dell’originario pavimento labirintico.

Dal 2005 conserva la “Madonna col Bambino “ che fu commissionata dal di Sangro per farne dono a Re Carlo di Borbone.

Madonna col Bambino – copyright Wikipedia.

Nella Sagrestia è in fase di collocazione il Ritratto di Raimondo di Sangro principe di Sansevero del pittore napoletano Francesco De Mura, che recentemente è entrato a far parte della collezione permanente delle opere esposte nel museo e che è stato presentato al pubblico ed alla stampa il 28 Gennaio 2020, in concomitanza del compleanno del principe che ricorre il 30 Gennaio.

F. De Mura “Ritratto di Raimondo di Sansevero”
Copyright museosansevero on Instagram.

L'opera, acquisita nel settembre 2019 dall'istituzione museale, proviene dal mercato antiquario madrileno, è databile intorno all'anno 1750, è stato acquistato dal museo Sansevero dalla Galleria Porcini di Napoli.

La nostra “visita” alla Cappella Sansevero, che era nata ed era stata concepita anzitutto come “cappella di famiglia”, e che oggi è un polo museale noto all'intero mondo dell’arte per essere divenuta  lo scrigno di inestimabili capolavori, finisce qui.

Uscendo fuori dalla Cappella, volgendo lo sguardo al cielo – direbbe Dante – “per riveder le stelle” ci si sente arricchiti dentro, ma delle domande restano :

“Chi era realmente Raimondo di Sangro?”

“La mano dell’uomo, dell’artista che magistralmente muove e guida lo scalpellino, come ha potuto realizzare tutto ciò?”

“La mano dell’artista e quella dello scultore sono realmente guidate da Dio?”

Ai posteri l’ardua sentenza.

 

Sitografia:

museosansevero.it

ilmattino.it

repubblica.it

repubblica.napoli.it

napolimagazine.com

napolike.it

wikipedia.it

10cose.it

Vesuviolive.it

 

Social Network di riferimento:

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Bibliografia:

F. Negri Arnoldi “Storia dell’Arte Vol. III” Fabbri Editori – Milano 1997


IL SACRO MONTE DI PIETÀ A NAPOLI

…nel luogo dove nacque la lotta all’usura

 e la pietà prevalse…

“GRATUITAE PIETATIS AERARIUM IN ASILUM EGESTATIS PRAEFECTIS CURANTIBUS »

« Ai prefetti

che si adoperano

con disinteressata pietà

 dell’erario e dell’ospizio ai poveri »

Percorrendo in lungo ed in largo i decumani, ed in particolare il Decumano inferiore, in una passeggiata alla scoperta di tesori d’arte tra vicoli nascosti e palazzi appartenenti ai secoli più diversi, attraverso Via San Biagio dei Librai, al civico 114, ci si imbatte nel cortile del palazzo di Girolamo Carafa dei Duchi d’Andria, antica sede del Sacro Monte di Pietà, meglio conosciuto come “Banco dei Pegni”, sebbene oggi il palazzo sia prevalentemente utilizzato per uffici ed agenzia del Banco di Napoli.

L’accesso al palazzo è segnato da un imponente portale, da qui, attraverso un atrio porticato scandito da piloni, coperto da volte a vela, ci si immette in un cortile  con due scaloni monumentali che conducono ai piani superiori. Sul lato opposto al portone, al piano terra, c’è la Cappella del Sacro Monte di Pietà.

Il Sacro Monte di Pietà fu fondato nel 1539 su iniziativa dei frati dell’ordine francescano e dei nobili napoletani Leonardo de Palma e Aurelio Paparo dopo un decreto di Carlo V , per combattere l’usura dei banchi ebraici che si erano sviluppati tra il Duecento e il Trecento e col fine di contrastare lo strozzinaggio che danneggiava gravemente il popolo che, in più occasioni, si trovava costretto a ricorrere a prestiti per arginare il più possibile i propri problemi economici. L’erogazione finanziaria avveniva in cambio di un pegno: i clienti, a garanzia del prestito, dovevano presentare un pegno che valesse almeno un terzo in più della somma che si voleva fosse concessa in prestito. La durata del prestito, di solito, era di circa un anno; trascorso questo periodo, se la somma non era restituita, il pegno veniva venduto all’asta.

In realtà, i documenti dell'archivio storico del Banco di Napoli segnalano che le attività del Monte di Pietà andrebbe retrodatata al 1538 e che il rapporto con la cacciata della comunità ebraica da Napoli, avvenuta nel 1539, sarebbe solo apparente.

Il palazzo del Banco del Monte di Pietà si eleva su un basamento in piperno con fascia decorata ed è diviso in tre settori: quello centrale, più largo, dove, imponente,  si apre l'ingresso principale, e i due laterali, che, rispetto all’altro, si presentano più stretti.

Il portale, con elementi a bugne, è di ordine dorico.

L'atrio, a sei campate sostenute da pilastri rivestiti di piperno, consente l'ingresso al cortile.

Il cortile è caratterizzato dalla  controfacciata del palazzo che si presenta come un arco di trionfo a tre fornici e dalla facciata della Cappella.

La prima pietra della cappella venne posata il 20 settembre 1598.

La facciata s'ispira alla facciata della chiesa di Sant'Andrea sulla Flaminia a Roma di Jacopo Barozzi da Vignola; ai lati del portale d'ingresso, tra due coppie di lesene ioniche si aprono due nicchie con le statue di Pietro Bernini che rappresentano la Carità e la Sicurezza datate tra il 1600 e il 1601 . Nel timpano la Pietà di Michelangelo Naccherino con due angeli di Tommaso Montani

La cappella, completamente affrescata e decorata con stucchi dorati, è uno splendido esempio di eleganza manieristica: presenta interni decorato a stucco dorato. La volta fu affrescata dal pittore  Belisario Corenzio e qui sono collocate: a destra una tela di Ippolito Borghese, a sinistra una tela iniziata da Girolamo Imparato e compiuta da Fabrizio Santafede, nonché al centro, dietro all'altare maggiore, la Deposizione del Santafede.

L’interno della cappella, si presenta a navata unica e negli ambienti laterali, presenta una Sagrestia e la Sala Cantoniere.

La Cappella presenta anche un’interessante antisagrestia, dove si trova il sepolcro del Cardinale Acquaviva, opera di Cosimo Fanzago, datato 1617, ma il suo gioiello resta certamente la Sagrestia, decorata nella prima metà del XVIII secolo con allegorie su decorazioni in oro e l’ affresco di Giuseppe Bonito sulla volta.

Sulla destra si accede alla Sala Cantoniere, un altro esempio di arte settecentesca, con pavimento maiolicato e affreschi; qui sono da notare i ritratti di Carlo III di Borbone e di Maria Amalia. Inoltre nella sala è conservata anche una Pietà lignea di ignoto maestro napoletano del tardo Seicento.

Il palazzo e la stessa cappella appartengono al Gruppo Bancario Intesa – Banco di Napoli, partecipa pertanto alla Collezione d’Arte dello Storico Istituto Bancario partenopeo.

 

Sitografia:

inaples.it

Repubblica.it

Wikipedia.it

Napolike.it

Napoli-turistica.com

Bibliografia

VV. Dizionario biografico degli italiani

Anna Coliva, a cura di - La collezione d’arte del San Paolo – Banco di Napoli -  San Paolo Editore 2004

Copyright photo:

Wikipedia.it


CREDI RELIGIOSI E PAGANI NEL CUORE DI NAPOLI

Credi religiosi e pagani di Napoli: da Piazzetta Nilo al "Corpo di Napoli"

Passeggiando lungo il Corso Umberto I, meglio noto come “Rettifilo”, salendo via Mezzocannone, sede storica di diverse facoltà dell’Università di Napoli, ci si imbatte in una cappella storica, le cui forme architettoniche fanno da angolo di strada tra via Mezzocannone e Piazzetta Nilo. Più che di chiesa, sarebbe però corretto parlare di Cappella; la Chiesa di Sant’Angelo a Nilo, infatti è la Cappella Brancacci, tempio di origine medievale, ampiamente rimaneggiato agli inizi del Settecento, fino ad assumere le forme tardobarocche come lo vediamo oggi. Un tempio che fa cominciare questo viaggio fra i credi religiosi e pagani di Napoli.

Fig. 1 - copyright : wikipedia

La facciata della Chiesa si presenta su Via Mezzocannone, mentre sulla citata piazzetta, si apre un varco laterale.

L’ingresso principale è dotato di un architrave con figure in mezzorilievo di angeli e santi con l’affresco nella lunetta soprastante che raffigura la Vergine e i Santi Michele e Baculo che presentano il cardinale Brancaccio, databile al secolo XV che per via delle scarse condizioni di conservazione in cui ha versato, fu per un periodo staccato e conservato in sacrestia, per poi esser ripristinato nella sua ubicazione originale. Alla stessa datazione risale inoltre il portone ligneo con sei figure intagliate in altrettanti riquadri (tre per lato) di San PietroSan LorenzoSant'Antonio da PadovaSan PaoloSan Giovanni Evangelista e San Domenico; mentre il portale laterale presentava invece nella lunetta una raffigurazione scultorea di San Michele, poi trasferita all'interno della chiesa.

La chiesa è a navata unica, di forma rettangolare, senza transetto e con due sole cappelle e una sacrestia, tutte sul lato destro.

L'interno presenta un arredo marmoreo databile tra il  Seicento ed il Settecento, non presenta panche al centro della navata, ma semplici sedie di legno.

Immediatamente sul lato destro della navata, invece, si apre la cappella di Santa Candida iuniore delimitata da una bella cancellata settecentesca di ottone e ferro battuto, dove sono conservate le reliquie della matrona Candida "la Giovane", risalenti al VI secolo, che è stata erroneamente venerata come santa sino agli ultimi decenni del Novecento.

Fig. 2 - copyright : wikipedia

Alla destra dell'altare vi è la cappella che custodisce nella parete frontale il sepolcro del cardinale Rinaldo Brancacci,  una delle più importanti opere scultoree presenti nella città di Napoli.

Fig. 3 - copyright : wikipedia

Il Monumento Brancacci è opera di Michelozzo  e di Donatello. E’ in marmo di Carrara, alto 11 m, fu scolpita a Pisa tra l 1426 ed il 1428 e giunse in città via mare. Donatello di certo  scolpì una Assunzione della Vergine sul rilievo del sarcofano, mentre il resto dell’opera scultorea è di Michelozzo; sue sono anche le Virtù che reggono il sarcofago stesso, rappresentate da tre figure femminili, che fanno da cariatidi, è inoltre decorata con gli stemmi del cardinale.

L’impianto è di ordine rinascimentale con un grande arco su colonne che urtano  con le pendenti cortine, tipiche dei sepolcri gotici e che pende dall’alto,  che interrompono il giro dell’arcata; La struttura è completata da un alto frontone mistilineo a cuspide, al centro del quale osserviamo la raffigurazione del Padreterno affiancato da due conchiglie, e ai cui lati troviamo due angeli che suonano la tromba.

Nella restante ornamentazione plastica, ben si manifesta lo stile di Michelozzo, caratterizzato dalla fermezza e dalla solidità dell’impianto strutturale delle figure e dal largo modellato plastico, in cui si esplica la semplificazione e quasi la geometrizzazione degli elementi.

l’Assunzione non sarebbe, però, l’unica opera di Donatello presente a Napoli, infatti esiste una testa di cavallo destinata, con ogni probabilità, a un (incompiuto) monumento ad Alfonso V d’Aragona e che attualmente si trova al Museo Archeologico Nazionale della città.

Quello che è certo, è che il monumento è il primo dell’età rinascimentale realizzato in città.

Fig. 4 - copyright : wikipedia

Altra opera degna di nota, è sicuramente la tela raffigurante “San Michele Arcangelo “ di Marco Pino.

Uscendo dalla chiesa, volgendo lo sguardo verso l’alto, come se si volesse dare un’ultima fugace veduta ad un piccolo scrigno, sulla controfacciata, lo sguardo, inevitabilmente cade sull’organo…racchiuso entro una cassa lignea riccamente intagliata e decorata, è a canne barocco, costruito nel XVIII secolo da un organaro ignoto.

Lasciata la chiesa, un piccolo scrigno di arte e di silenzio, il visitatore si ritrova immerso, suo malgrado, non solo nel  pullulare di vita colorata e bancarelle della Napoli dei giorni nostri, facendo un (quasi violento!) salto nel tempo e nello spazio, ma a pochissimi metri dall’Egitto…Si passa, così, dai credi religiosi ai credi pagani di Napoli.

Esatto! Proprio in Egitto…eppure è a Napoli…nel “largo Corpo di Napoli”, all'ingresso di Spaccanapoli, nel cuore della città, dove, fiera, troneggia la Statua marmorea del Dio Nilo….

Fig. 5 - copyright : wikipedia

Ai tempi della Napoli greco – romana, infatti, qui si stabilirono numerosi egiziani provenienti da Alessandria d’Egitto,i quali decisero di erigere una statua che ricordasse  il fiume Nilo, elevato ai ranghi di divinità portatrice di prosperità e ricchezza.

La statua è in marmo e risale al II / III sec. d.C., ma nei secoli successivi, visse momenti e secoli  di abbandono, tanto da cadere in un vero e proprio oblio, fu quindi ritrovata acefala verso la metà del XII secolo.

La scultura raffigura il Dio Nilo come un vecchio barbuto e seminudo disteso sulle onde del fiume, con i piedi posti vicino alla testa (non più visibile) di un coccodrillo, simbolo dell'Egitto, e che si appoggia col braccio sinistro su una sfinge, mantenendo con la mano destra una cornucopia.

Al petto cerca di arrampicarsi invece l'unico putto superstite dell'originaria composizione, probabilmente raffigurante un affluente del fiume.

Il putto che si arrampica ha portato a diverse interpretazioni, come ad una mamma che allatta il suo bambino e da qui la denominazione di “corpo di Napoli” o meglio “cuorp ‘e Napul”, denominazione che tutt’oggi mantiene  e che è stata data anche allo slargo che ospita il gruppo scultoreo.

La statua poggia su un basamento in piperno realizzato nel 1657. Su lato principale del basamento è posta una targa in marmo fatta per i lavori di restauro del 1734. Sulla targa è incisa in latino la storia e le peripezie della plurimillenaria scultura, che fedelmente, riporto per intero:

Vetustissimam Nili Statuam Ab Alexandrinis Olim Ut Fama Est In Proximo Habitantibus Velut Patrio Numini Positam Deinde Temporum Injuria Corruptam Capiteque Truncatam Aediles Quidem Anni MDCLXVII Ne Quae Huic Regioni Celebre Nomen Fecit Sine Honore Jaceret Restituendam Conlocandamque Aediles Vero Anni MDCCXXXIV Fulciendam Novoque Pigrammate Ornandum Curavere Placido Princ. Dentice Praef. Ferdinandus Sanfelicius Marcellus Caracciolus Petrus Princeps De Cardanas Princ. Cassan. Dux Carinar. Augustinus Viventius Antonius Gratiosus. Agnell. Vassallus Sec.»

Ovvero:

Gli edili dell'anno 1667 provvidero a restaurare e ad installare l'antichissima statua del Nilo, già eretta (secondo la tradizione) dagli Alessandrini residenti nel circondario come ad onorare una divinità patria, poi successivamente rovinata dalle ingiurie del tempo e decapitata, affinché non restasse nell'abbandono una statua che ha dato la fama a questo quartiere. Gli edili dell'anno 1734 provvidero invece a consolidarla e a corredarla di una nuova epigrafe, sotto il patronato del principe Placido Dentice».

La statua del Dio Nilo è una scultura che ha attraversato per intero la storia della città, anche nel momento in cui è caduta nell'oblio e poi è stata successivamente recuperata; sembra quasi portare su di se tutte le vicende della città di Partenope…dalle origini gloriose, alle cadute, ma soprattutto al suo rialzarsi…

Dai credi religiosi ai credi pagani di Napoli...che salto!

Il “Corpo di Napoli” è proprio il corpo della città che, vive, batte e pulsa…perché..

Napul’è…mill culur…(P.Daniele).

 

Sitografia

Wikipedia.it

Italianways.com

Napolibandb.it

Bibliografia

F.NegriArnoldi “Storia dell’arte” Vol II – Fabbri ed.

Gennaro Ruggiero, Le piazze di Napoli, Roma, Tascabili Economici Newton, 1998


SAN DOMENICO MAGGIORE A NAPOLI

…NEL CUORE DEL CENTRO DI NAPOLI:

Un caffè a Piazza San Domenico Maggiore a Napoli

Nel cuore del centro storico di Napoli, ai margini tra i decumani e la città greca, maestosamente si apre Piazza San Domenico Maggiore.

Su di essa si affacciano la Basilica di San Domenico Maggiore, da cui prende il nome, e la guglia di San Domenico,   e le fanno  da contorno  imponenti palazzi nobiliari.

Area pedonale, crocevia di studenti e turisti, poco distante dagli altri luoghi simbolo della città, inglobata nel tessuto urbano senza mai perdere la propria identità che affonda le sue radici storiche, artistiche e culturali nel periodo aragonese vissuto dalla città a partire dal 26 febbraio 1443, giorno in cui Alfonso I il Magnanimo, fa il suo ingresso in città.

La piazza fu voluta dagli aragonesi che, da semplice slargo, ne resero il luogo favorito della nobiltà tanto che i più vi edificarono i loro palazzi non solo nell’età aragonese ma anche nei secoli successivi. Infatti l’occhio del visitatore è rapito dalla convivenza dei diversi stili architettonici che sono in essa presenti senza contrapporsi ma in maniera armoniosa, nonostante la diversità di stili ed epoche di appartenenza, poiché la piazza divenne una sorta di “salotto mondano” anche nei secoli successivi la dominazione aragonese.

Nel corso dei secoli successivi, e con i sovrani che succedettero agli Aragonesi, la cura ed il mantenimento decoroso della piazza restano infatti una priorità, tanto da indurre il re Ferdinando IV a  murare nel 1764 nelle pareti della chiesa una lapide in cui si vietava espressamente di “giocare a carte, palle o schiassare” e anche di “farvi vendita di frutti, melloni, deporvi sfrattature o immondezze, mettervi posti d’affittare sedie o banchi di cambiavalute”.

fonte wikipedia
fonte wikipedia

Al centro di essa, a forma piramidale, si innalza l’obelisco di San Domenico.

copyright : fotoeweb
  fonte wikipedia

L’obelisco di San Domenico, secondo dei tre obelischi della città (gli altri sono quello di San Gennaro e quello dell’Immacolata) viene eretto per espresso desiderio del popolo napoletano, pagato con somme di denaro stanziate dallo stesso e alle quali contribuirono anche i padri domenicani nel 1656; è un’opera scultorea di età barocca realizzata per ex – voto a San Domenico a seguito della pestilenza che colpì la città in quell’anno. I domenicani ne commissionarono l’opera a Cosimo Fanzago che era già impegnato nella realizzazione di un’opera simile, la guglia di San Gennaro iniziata nel 1636, tenendone il progetto fino al 1658 quando passò a Francesco Antonio Picchiatti che ne mantenne il cantiere fino al 1666.

Sin da subito, i lavori procedettero a rilento tanto da riprendere poi solo nel 1737 da Antonio Vaccaro, che seguì la sua realizzazione fino al completamento della stessa avvenuta in quello stesso anno sebbene ancora priva della statua del Santo, di cui il Vaccaro ne fece il bozzetto.

L’opera è di forma piramidali  e si innalza al cielo per circa 26 metri. Il primo ordine è in piperno e su di esso si alternano  due iscrizioni a  due busti raffiguranti la sirena Partenope. Il second’ordine è invece caratterizzato dalla presenza di stemmi, in particolare ritroviamo quello di Napoli – ovviamente contemporanea alla realizzazione dell’opera – dell’ordine dei domenicani, dei Re di Spagna e dei Viceré d’Aragona.

Al terzo ordine sono di risalto i medaglioni coi Santi domenicani che sono opere del Vaccaro; su suo modello è stata eseguita la statua bronzea di San Domenico, che però risulta essere di un ignoto autore settecentesco…è posta lì proprio ad esaltare l’ordine domenicano, fu collocata al vertice dove tutt’ora si trova, nel 1747, due anni dopo la morte del Vaccaro stesso.

Alle spalle della guglia, si alza maestoso il Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore di Napoli, noto anche come “Museo Doma”.

La  fondazione della Basilica  risale al 1283, quando Carlo I d’Angiò ne finanziò l’edificazione e affidò l’edificio, che fu completato nel 1324, ai frati domenicani.

In realtà sulla piazza si affaccia l’abside che, per le sue aperture, sembra avere “gli occhi, il naso, la bocca”  e quindi non la facciata principale che invece si trova nel giardino del convento; ciononostante, dalla piazza, è possibile accedere alla Chiesa attraverso una scala che fu voluta da Alfonso I d’Aragona per la chiesetta romanica di San Michele Arcangelo a Morfisa, chiesa probabilmente eretta intorno al X sec. e successivamente inglobata nella struttura basilicale di cui oggi è al transetto destro.

fonte wikipedia

Nel 1255 Papa Alessandro IV dedicò la chiesa a San Domenico sotto il cui patronato aveva posto anche il convento; successivamente, Carlo II – nel 1283 – volle ingrandire la chiesa, senza però distruggere la precedente, incorporandola così nella nuova.

La Basilica è a croce latina, e fu eretta secondo i canoni del gotico, con tre navate e cappelle laterali con ampio transetto ed abside poligonale, per questo si trova rivolto con verso la piazza, mentre all’ingresso principale si accede attraverso un ampio cortile, raggiungibile da Vico San Domenico, stradina adiacente la piazza. Inizialmente prevedeva tre ingressi: uno per ciascuna navata, ma le due laterali furono chiuse nel corso del XVI sec. per far spazio alle cappelle che, in totale, sono ben 36. Accanto al portone d’ingresso è posto il campanile settecentesco.

fonte wikipedia

L’interno, sebbene sia estremamente vasto, conserva circa 800 anni di storia e storia dell’arte e presenta una prospettiva architettonica pressoché perfetta, dimostrando che i numerosi interventi cui è stata soggetta non ne hanno alterato l’armonia.

copyright : sandomenicomaggiore.it

Nella controfacciata della chiesa, vi è il tondo raffigurante San Domenico. Il soffitto  non è quello originale, poiché fu sostituito nel 1670 da quello attuale a cassettoni con stucchi e dorature e con al centro lo stemma domenicano e, ai lati, quelli vicereali.

Lungo le navate laterali si  trovano 14 delle 36 cappelle, 7 per ciascun lato: si ricordano quella dei Brancaccio con gli affreschi di Pietro Cavalini, oppure la cappella dedicata a San Carlo dove si conservano due tele di Mattia Preti, quella dei De Franchis, detta di “Zì Andrea”   che prende il nome dell’opera lignea “Madonna di Zì Andrea” posta sull’altare, che ha sostituito la “ Flagellazione” del Caravaggio, oggi conservata al Museo di Capodimonte, commissionata proprio dalla famiglia de Franchis al Merisi, per adornare la Cappella.

Altre cappelle sono ospitate anche nei transetti laterali, sia di destra che di sinistra.

La zona absidale vede, alle spalle dell’altare maggiore, la cassa barocca dell’organo, che si trova in uno spazio inizialmente occupato dalle prime sepolture aragonesi, qualcuna andata distrutta nell’incendio del 1506.

L’altare maggiore e la balaustra marmorea sono opera del Fanzago, ma hanno comunque subito diversi lavori a causa di incendi e terremoti. Oltre la chiesa, elevata al rango di Basilica minore nel 1921 da Papa Benedetto XV, scrigno d’arte e capolavoro del barocco napoletano, è sicuramente la Sagrestia.

Sagrestia   copyright : sandomenicomaggiore.it

La Sagrestia della Basilica di San Domenico Maggiore è a pianta rettangolare decorata in stile barocco con stalli lignei alle pareti e, sulla volta, presenta il capolavoro assoluto di Francesco Solimena, l’affresco raffigurante “Il Trionfo della Fede sull’eresia ad opera dei Domenicani” eseguito tra il 1701 ed il 1707.

L’opera è un turbinio di personaggi sacri che si sviluppano centralmente, sebbene la scena sembri essere quasi caotica: nella parte superiore è Dio, il Crocifisso, la Colomba dello Spirito Santo,la Vergine e San Tommaso col sole in petto, e, nella parte più centrale, si riconoscono San Pietro Martire, Santa Caterina da Siena e Santa Caterina de’ Ricci e Santa Rosa da Lima, e sulla sinistra, San Domenico circondato dalle Virtù; infine nella parte inferiore, sono raffigurati i corpi caduti nell’eresia.

Arche Aragonesi copyright : museosandomenicomaggiore.it

F. Solimena“Il Trionfo della Fede sull’eresia ad opera dei Domenicani”  – Sagrestia della Basilica di San Domenico Maggiore – fonte wikipedia

Volgendo lo sguardo verso il basso, tra la volta e gli stalli si trova un ballatoio ligneo sul quale sono collocate le cosiddette “Arche Aragonesi”, ovvero 42 arche reali del casato d’Aragona, sarcofagi ricoperti di preziosi tessuti colorati che, fino al 1594, si trovavano all’interno dell’abside della chiesa.  Tra i corpi vi era anche quello di Alfonso I il Magnanimo, deceduto nel 1448, ma le cui spoglie furono traslate in Spagna nel 1668, la cassa pertanto è vuota ma è comunque sormontata da un ritratto del re.

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Annessa alla Basilica, è il Convento dei Padri Domenicani, il cui ingresso è da Vico San Domenico, accanto all’ingresso principale della basilica stessa. Restaurato del 2012, sebbene abbia mantenuto le forme di un primo intervento architettonico del XVII sec. , la struttura conventuale si sviluppa su tre livelli: al piano terra il chiostro, anche se in principio erano tre, la sala degli insegnamenti di San Tommaso d’Aquino che qui soggiornò; al primo piano invece sono ancora presenti la biblioteca, il refettorio, la sala del Capitolato ed alcune celle dei domenicani, compresa quella di San Tommaso, con ancora il dipinto originale della Crocefissione, noto per aver parlato al Santo; infine all’ultimo livello, gli alloggi privati dei domenicani tutt’ora presenti nel Convento.

A percorso ultimato, tornando sulla piazza, magari per un babà alla multi secolare pasticceria Scaturchio, che ha qui ha  la sua sede storica, nell’ora del tramonto non è difficile immaginare il corteo reale della Napoli Aragonese dei tempi che furono: complice anche la vicinanza della cappella e del laboratorio dei Sansevero, si materializzano davanti ai nostri occhi, il Re Alfonso I che cammina con la sua Favorita, oppure il fantasma di Maria d’Avalos e del suo amante, il duca d’Andria Fabrizio Carafa, assassinati dal marito della donna, il principe Carlo Gesualdo da Venosa. Un delitto passionale datato 18 ottobre 1590, ovvero quando Carafa, insospettito dalle dicerie su sua moglie, ritornò senza preavviso a Palazzo Sansevero ed in anticipo da una battuta di caccia compiendo l’atroce delitto.

Da allora, e per secoli, chi abitava nei pressi del Palazzo diceva di sentire ancora le urla della donna.

Una piazza intrisa di storie e di leggende di ieri e di oggi, un pullulare di anime e di corpi che hanno attraversato e che tutt’oggi attraversano la piazza, ne accarezzano con la loro anima i palazzi nobiliari da cui è circondata, volgono lo sguardo alla statua di San Domenico posta al vertice della guglia, o lanciano uno sguardo all’abside della Basilica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia:

  1. Ruggiero “Le piazze di Napoli” – collana ‘Napoli Tascabile’ – Tascabili economici Newton
  2. Salerno “Il Convento di San Domenico Maggiore in Napoli” – Napoli 1997

F.N. Arnoldi “Storia dell’arte “ Vol. III fabbri Editori.

 

Sitografia:

museosandomenicomaggiore.it

wikipedia.it

vesuviolive.it

10cose.it

napoligrafia.it.

 


LA CHIESA DEL GESÙ NUOVO A NAPOLI

La città dalle cinquecento cupole

Così è stata definita Napoli, perché il numero delle chiese presenti in città si avvicina proprio a 500. Sono quasi ovunque: nei vicoli, nelle piazze, lungo le strade; in un percorso che, nel raggio di meno di 2 chilometri, consente a chiunque lo voglia di visitare luoghi sacri che fanno da prezioso scrigno a indefinite quantità di opere d’arte, che non solo incantano turisti e napoletani, ma soprattutto raccontano la storia della città in tutti i suoi aspetti. In meno di 10 minuti, infatti, il visitatore che si trova in Piazza del Gesù  - che dopo Piazza del Plebiscito è tra le maggiori piazze partenopee visitate – raggiunge Piazza san Gaetano, che è ubicata in maniera diametralmente opposta ad essa, incontrando almeno una quindicina tra chiese, palazzi, luoghi di interesse storico – artistico e culturale.

Siamo nelle viscere della città di Napoli, nel centro storico, che dal 1995, è Patrimonio Unesco. A ricordarcelo è una targa posta proprio in Piazza del Gesù, in particolare sulla facciata della chiesa del Gesù Nuovo, da cui la piazza prende il nome, su cui è riportata la motivazione:

Si tratta di una delle più antiche città d’Europa, il cui tessuto urbano contemporaneo conserva gli elementi della sua storia ricca di avvenimenti. I tracciati delle sue strade, la ricchezza dei suoi edifici storici caratterizzanti epoche diverse conferiscono al sito un valore universale senza uguali, che ha esercitato una profonda influenza su gran parte dell’Europa e al di là dei confini di questa”.

Piazza del Gesù Nuovo è situata lungo il Decumano Inferiore, sulla via chiamata “Spaccanapoli” (poiché, guardandola dall'alto, divide la città perfettamente in due parti, come se “spaccasse Napoli” ) in un’area completamente pedonale e su di essa si affacciano maestosamente la Chiesa del Gesù Nuovo, palazzi nobiliari, l’obelisco dell’Immacolata.

La piazza nasce per volere di Carlo II d’Angiò in un’area che inizialmente era solo uno spiazzale ricavato dall'eliminazione di qualche orto ed iniziò a prendere una conformazione urbanistica solo dopo il 1470, anno in cui venne costruito palazzo Sanseverino. Successivamente furono eretti altri due palazzi nobiliari, tutt’oggi presenti : il palazzo Pignatelli di Monteleone eretto nel XVI secolo e Palazzo Pandola, eretto in epoca tardo barocca, edificato da un’ala del vicino Palazzo Pignatelli.

E’ sicuramente una della piazze più importanti della città, punto focale della Napoli greco  - romana per la sua collocazione all'inizio del Decumano inferiore, ed è tutt'oggi luogo privilegiato per l’ incontro dei giovani, che la vivono sia di giorno che di notte, soprattutto studenti e universitari, complice non solo la presenza in piazza di importanti istituti di studi superiori ma anche la presenza nell'intera area e dintorni delle più importanti facoltà universitarie e della sede centrale dell’Università di Napoli stessa.

Al centro della Piazza si erge uno dei tre grandi obelischi della città: l’obelisco dell’Immacolata (gli altri due sono quello di San Domenico  e quello di San Gennaro).

L’Obelisco dell’Immacolata si alza maestoso al centro della piazza. E’ alto circa 30 metri ed è,dei tre precedentemente citati, in ordine cronologico l’ultimo ad essere stato realizzato. Fu eretto nel 1750 per ordine dei Gesuiti a seguito di una raccolta pubblica, organizzata dal Padre gesuita Francesco Pepe nonostante le opposizioni del Principe di Pignatelli, che avendo il suo palazzo in piazza, temeva che un eventuale crollo della struttura dovuta a qualsivoglia motivo avrebbe potuto lesionare il suo palazzo. L’obelisco fu innalzato al centro di quella che era considerata l’isola gesuitica della città; ciononostante essa appartiene alla città e non al clero, come indicato dallo stemma apposto sulla cancellata che circonda l’opera. Tale decisione è frutto di un accordo avvenuto nel 1818 tra Papa Pio VII e Ferdinando di Borbone.

L’opera si presenta come una sorta di macchina da festa barocca, innalzata verso il cielo. Si presenta in quattro ordini i cui  elementi scultorei sono di Matteo Bottiglieri e Francesco Pagano: i laterali del primo ordine sono adornati da fiori come vortici, mentre al second’ordine sono presenti sui laterali coppie angeliche. Al terzo ordine, ai quattro angoli della balaustra che l’adorna, sono presenti le statue marmoree di Sant'Ignazio, San Francesco Borgia, San Francesco Saverio e San Francesco in Regis. Alle statue si alternano altorilievi raffiguranti quattro momenti della vita della Vergine : l’Annunciazione, la Natività, la Purificazione e l’Incoronazione, e, al quart’ordine,prima della sommità,sono presenti sui due lati medaglioni raffiguranti San Luigi Gonzaga da un lato e San Stanislao Kostka dall'altro.

Sulla sommità dell’obelisco, coronata di stelle, è posta la statua di rame dell’Immacolata, un rame ossidatosi col tempo tanto da perdere il suo colore originario e diventare azzurro – verde. All'obelisco dell’Immacolata l’amministrazione cittadina è da sempre particolarmente legata. Infatti è ormai diventata una tradizione – da diversi decenni  – che nel giorno dell’8 dicembre il Sindaco della città, dopo la Messa delle 12 nell'antistante Chiesa del Gesù Nuovo, renda omaggio alla Vergine con un mazzo di rose che i Vigili del Fuoco, con la scala telescopica, le depongono tra le mani.

La Napoli dei misteri

Si racconta che all'alba, o comunque prima che si svegli completamente quanto vi è intorno alla Piazza, un uomo solitario passi e gridi, in dialetto napoletano “Chest è ‘a voce ra Maronn” ( "Questa è la voce della Madonna"); in talune ore del giorno invece, in particolare all'alba e al tramonto, volgendo lo sguardo al retro della Statua della Madonna, si ha l’impressione di vedere un’immagine gobba e con uno scettro in mano: raffigurerebbe la Morte che, quasi minacciosamente, osserva i passanti.

La chiesa del Gesù Nuovo

Alle spalle della guglia, si erge l’imponente facciata della chiesa del Gesù Nuovo. La chiesa è in realtà nata dalla struttura architettonica di un precedente palazzo nobiliare: palazzo Sanseverino, del quale conserva la facciata.

Il palazzo fu edificato nel 1470 ad opera di Novello da San Lucano per espresso volere del principe di Salerno, Roberto Sanseverino, come riporta una targa posta sulla facciata stessa.

L’edificio rimase ai Sanseverino fino al 1552, anno in cui Pedro di Toledo tentò di instaurare in città l’inquisizione spagnola e Ferrante Sanseverino, messosi a capo di un’insurrezione popolare, sebbene riuscisse ad evitare il volere dei monachi, non poté evitare le conseguenze della loro ira: beni della famiglia furono confiscati e messi in vendita, mentre  lui fu condannato all'esilio.

Nel 1584, i Gesuiti acquistarono il palazzo (ma alcune fonti sostengono che in realtà il palazzo non sia stato venduto, bensì donato alla Compagnia di Gesù) e, tra il 1584 stesso ed il 1601, lo riadattarono a chiesa.

I responsabili del progetto furono gli architetti gesuiti Giuseppe Valeriano e Pietro Provedi, che sventrarono completamente la struttura originaria del palazzo, lasciando in piedi solo la facciata ed il portale di marmo.

I lavori furono finanziata dalla principessa Isabella Della Rovere, moglie dell’ultimo esponente di un ramo dei Sanseverino, principi di Bisignano ed il suo nome, insieme a quello di Roberto I di Sanseverino (che aveva fato erigere il palazzo) è ricordato nell'iscrizione racchiusa in un cartiglio marmoreo posto sull'architrave del portone principale. Sullo stello è posta la data del 1570, anno in cui la chiesa fu aperta al pubblico, anche se fu consacrata al culto solo nel 1601 ed è dedicata alla Madonna Immacolata (ma intitolata dai francescani nel 1767 alla Trinità Maggiore, fino a quando tornò ai Gesuiti nel 1804 e, ad essi in via definitiva solo nel 1900); ciononostante prese subito la denominazione popolare – che tutt’oggi mantiene – di Chiesa del Gesù Nuovo, quasi immediatamente a distinguerla dalla prima chiesa gesuita presente in città – tra l’altro a poche centinaia di metri da essa – dalla Basilica dell’Immacolata di Don Placido, che divenne da subito la chiesa del “Gesù Vecchio”.

La facciata della chiesa è di certo una delle più affascinanti facciate presenti sull'intero territorio cittadino, tanto che un dettaglio della stessa è stato riportato sul retro della banconota da 10.000 Lire emessa dal 1977 al 1984 (la cosiddetta “Machiavelli).

La facciata si presenta in bugnato rustico a punta di diamante con tre grandi portali,ognuno relativo alle tre navate interne.

Sta di fatto che tale bugnato è avvolto in un alone di mistero: infatti su di esso,  sono incisi una serie di caratteri che potevano nascondere simboli esoterici e dell’occulto, probabilmente un linguaggio segreto tra i maestri tagliapietre, o addirittura un linguaggio col potere di attirare energie positive all'interno dello stesso; sta di fatto che l’alone di mistero che ruota intorno alla facciata si esplica ulteriormente in un’altra leggenda, in ragione della quale i maestri pipernai, esperti di segreti esoterici, incaricati da Roberto Sanseverino, avrebbero erroneamente piazzato le pietre segnate in maniera opposta a quella corretta, sicché, anziché far confluire all'interno dell’edificio forze benevole, le avrebbero tirate fuori, attirando forze malevoli che sarebbero poi state all'origine di tutte le sventure abbattutesi sulla chiesa, compresi incendi, crolli, fino al miracoloso ritrovamento di una bomba inesplosa, durante il Secondo Conflitto Mondiale, conservata nelle Sale Moscati, nei locali adiacenti la chiesa.

In realtà, tali caratteri sono stati decifrati dallo storico dell’arte Vincenzo de Pasquale, che ha scoperto che in realtà si tratta dei 7 simboli dell’alfabeto aramaico, usati per rappresentare le 7 note musicali; le lettere, lette da destra verso sinistra e guardando la facciata dal basso verso l’alto, se musicate, danno vita ad una melodia della durata di circa quarantacinque minuti: la facciata della chiesa del Gesù Nuovo, pertanto, si è rivelata essere, suo malgrado, una sorta di pentagramma.

Al centro della facciata si erige maestoso il portale dell’ingresso principale. Quello centrale è in marmo ed è quello dei Sanseverino, sebbene presenti alcune modifiche; infatti i gesuiti apportarono alcune cambiamenti come l’inserimento del frontone spezzato e sormontato dallo stemma della Compagnia di Gesù con il loro emblema e la scritta IHS al centro e, al di sotto di essa, la riproduzione marmorea dei chiodi della Crocifissione, l’inserimento degli angeli, ma anche un ricordo ai Sanseverino e ai Della Rovere con i loro stemmi che, in dimensioni maggiori, sono riprodotti sulla sommità dei margini estremi dei due lati.

Anche le due porte laterali sono marmoree e risalenti al XVI  sec.e sono anch’esse inserimenti voluti dai gesuiti, così come la scritta sotto il grande finistrone centrale sulla facciata “NON EST IN ALIO ALIQUO SALUS” ovvero “NON C’E’ SALVEZZA IN NESSUN ALTRO”. La chiesa all'interno è un vero e è proprio scrigno dell’arte barocca napoletana, una sorta di vero e proprio museo che conserva opere realizzate da Cosimo Fanzago e Francesco Solimena, quest’ultimo autore del grande affresco sulla contro-facciata raffigurante l’episodio biblico della “Cacciata di Eliodoro dal Tempio”.

La pianta è a croce greca, con  braccio longitudinale leggermente allungato e la cupola in corrispondenza del centro del transetto,le cappelle laterali sono dieci di cui cinque per ciascun lato e due di esse, collocate ai lati dell’abside. La cupola che oggi vediamo non è quella originale, poiché è stata più volte ricostruita a seguito di diversi incendi e terremoti cui la basilica è stata soggetta.

In origine presentava affreschi di Giovanni Lanfranco, dei quali restano solo i Quattro Evangelisti sui pennacchi laterali. Attualmente si presenta con decorazioni in stucco che riprendono i motivi del cassettonato, consolidati da un intervento in calcestruzzo armato nel 1975.

L'altare maggiore fu ultimato solo nel 1857 e presenta numerose sculture e decorazioni che, sebbene seguano il tema dell’Eucarestia, mettono al centro la Vergine Immacolata, in marmo bianchissimo, opera di Antonio Busciolano; è posta in una nicchia caratterizzata dalla presenza di marmi policromi e sei colonne corinzie in alabastro.

La statua poggia su un globo blu in lapislazzuli, attraversato in diagonale da una fascia dorata e contornata da cherubini anch'essi di marmo. Il ciclo di affreschi sulle pareti absidali sono di Massimo Stanzione e raffigurano scene di vita della Vergine realizzati in circa un anno, tra il 1639 e il 1640.

Una particolarità che caratterizza la zona antistante l’abside, ma soprattutto la chiesa stessa, è la presenza ai laterali, in sopraelevata, di due organi, di cui quello di destra è ancora funzionante. La loro presenza in chiesa è legata ad una richiesta esplicita fatta dalla principessa Della Rovere, poiché la Compagnia di Gesù non prevedeva musica liturgica nelle loro chiese.

Oltre la navata centrale, la chiesa presenta altre due navate laterali: da sinistra, procedendo verso l’interno della chiesa, la prima cappella è quella dei Santi Martiri con  decorazioni in stucco risalenti al XVII sec. ed una Pala d’altare con la Madonna con Bambino e i Santi Martiri ed infine affreschi di Belisario Corenzio.

La seconda cappella è invece dedicata alla Natività, ma è nota anche come Cappella Fornari, dal nome di Ferrante Fornari, che ne fu il committente. Anche qui sono presenti decorazioni pittoriche realizzate della mano del Corenzio, ma il fulcro centrale è sicuramente il gruppo di undici statue tra le quali si ricorda in particolare il San Matteo e l’Angelo di Pietro Bernini.

Al centro della parete principale della navata di sinistra si erige la Cappella dedicata a Sant'Ignazio da Loyola, fondatore dell’Ordine.

Qui troviamo un vero e proprio trionfo di quanto meglio offriva l’ambiente artistico del ‘600 napoletano: le due tele sull'altare sono della mano di Jusepe de Ribera, gli affreschi sul finestrone sono del Corenzio.  Dalla  porta posta al lato destro dell’altare della cappella, inoltre si accede alla Sagrestia, che conserva mobili seicenteschi ed un affresco raffigurante “San Michele che scaccia gli angeli ribelli” di Aniello Falcone.

La penultima cappella della navata di sinistra è la cappella del Crocifisso e di San Ciro, dove, proprio sotto l’altare si trova l’antichissima tomba di San Ciro e dove si segnala il gruppo scultoreo ligneo della Crocifissione di Francesco Mollica.

La quinta, ed ultima cappella, è dedicata a San Francesco de Geronimo, ed è anche nota come Cappella Ravaschieri, dal nome della famiglia committente. Essa presenta, oltre a marmi di pregevole fattura, resti di affreschi di Francesco Solimena. Sulle pareti laterali, si trovano due grandi lipsanoteche lignee.

La navata di destra, presenta, come precedentemente segnalato, lo stesso numero di cappelle.

La prima, dedicata a San Carlo Borromeo, va segnalata in particolare per la pala d’altare raffigurante il santo, ad opera di Giovanni Azzolino. La seconda cappella, detta “della Visitazione” , presenta sull'altare un dipinto raffigurante proprio la Visitazione ad opera di Massimo Stanzione e resti di affreschi del Giordano. Tale cappella oggi è nota soprattutto per la sua dedicazione a San Giuseppe Moscati, medico napoletano, canonizzato da Giovanni Paolo II nel 1987. La presenza del Santo medico  - figura particolarmente cara al popolo napoletano – è fortemente sentita nella chiesa: qui non solo è presente una sua statua bronzea all’interno della cappella stessa, quasi a grandezza naturale, ma è vivo il suo culto,

infatti dal Cappellone di San Francesco Saverio, che affianca la cappella della Visitazione, una porta lascia accedere alle cosiddette “Sale Moscati” che sono la ricostruzione fedelissima della sala in cui il medico esercitava la sua professione e della sua stessa camera da letto  e nelle quali sono mostrati e conservati i suoi scritti. Tale ricostruzione – con la mobilia originale – è stata possibile grazie alla donazione che ne fece la sorella Nina ai Gesuiti ed in particolare alla chiesa stessa, chiesa alla quale lo stesso Moscati era molto legato, tanto da recarsi a pregare tutte le mattine. Non mancano all'interno delle sale Moscati pareti piene di ex-voto, che testimoniano la devozione verso la figura del “Santo medico”, di cui si conservano, nella chiesa, anche le spoglie.

Il cappellone di San Francesco Saverio, però, non immette solo nel mondo di San Giuseppe Moscati. E’ anch'esso uno scrigno d’arte e presenta tele di Luca Giordano, del Corenzio e di De Matteis .

L’ultima cappella è invece dedicata al Sacro Cuore. Essa conserva affreschi di Belisario Corenzio sulla volta e sulle pareti, risalenti ai primissimi anni del XVII sec.

In entrambe le navate l’ordine delle cappelle non solo è uguale, ma le ultime due di ogni lato partecipano alla struttura architettonica della chiesa, poiché – su entrambi i lati – la penultima funge da parte terminale del transetto e l’ultima da “abside laterale” all'abside stessa della chiesa. E’ un tutt'uno. Trionfo di architettura e di quanto di meglio la piazza artistica napoletana del momento poteva offrire.

 

Sitografia:

Wikipedia.it

Napolitoday.it

Napolituristica.com

Guidanapoli.com

Treccani.it

Dizionariobiograficodegliitaliani.it

 

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IL REAL TEATRO DI SAN CARLO

Storia di un simbolo: il Real Teatro di San Carlo a Napoli

Un tempio lirico nato 41 anni prima della Scala di Milano e 55 anni prima della Fenice di Venezia, ossia il Real Teatro di San Carlo.

Ogni città ha il suo simbolo che la rappresenta nel mondo… un monumento, una piazza, un pezzo di storia che la rende unica come, ad esempio, l’Arena di Verona nella città scaligera, il Colosseo a Roma, Ponte Vecchio a Firenze o il ponte di Rialto a Venezia. Napoli, generalmente, è immortalata come in una fotografia nella quale troneggiano il golfo, il lungomare di Mergellina e soprattutto il Vesuvio.

Sta di fatto che, da diversi anni a questa parte, e grazie ad una serie di interventi per la riqualificazione urbanistica da parte delle amministrazioni comunali che si sono susseguite, anche la città della sirena Partenope ha la sua “piazza simbolo”: Piazza del Plebiscito. Accanto a Piazza del Plebiscito sorge il Real Teatro, voluto da Carlo III di Borbone nel 1737 come un teatro che non solo desse lustro alla città, ma che rappresentasse il potere Regio.

Sono questi gli anni del Neoclassicismo, anni durante i quali in città ferve l’attività urbanistica ed architettonica e si operano imponenti lavori, intervenendo nella sistemazione di piazze e strade come Via Toledo (l’attuale e centralissima Via Roma) la Riviera di Chiaia, Posillipo etc. In questo contesto nasce il Real Teatro di San Carlo, il cui progetto è affidato all'architetto Giovanni Medrano, colonnello spagnolo di stanza a Napoli ed a Angelo Carasale, architetto e impresario teatrale italiano, che completa la Real Fabbrica del teatro in circa 8 mesi, con una spesa di circa 75.000 ducati.

Il Real Teatro

Il teatro prende il nome dallo stesso sovrano Carlo di Borbone. La prima opera in scena fu l’ “Achille in Sciro” di Pietro Metastasio che debuttò  il 4 novembre del 1737, nel giorno di San Carlo, onomastico del Re; la struttura architettonica, attaccata al Palazzo Reale, consentiva al Sovrano di raggiungere il palco reale direttamente attraverso una porta ed un corridoio senza dover scendere in strada.

Nel 1799, e durante i mesi della Repubblica napoletana, il San Carlo assunse il nome di Teatro Nazionale di San Carlo, denominazione che durò fino alla caduta della Repubblica stessa, tornando alla denominazione originale.

Nel 1808 ascese al trono di Napoli Gioacchino Murat per nomina di Napoleone Bonaparte, e nel 1812 nacque la Scuola di Danza più antica d’Italia: in quel momento il teatro divenne anche Teatro del Popolo, e si avviò un’importante ristrutturazione affidata, nel 1810, ad Antonio Niccolini. I lavori, avviati già nel dicembre 1809, si conclusero due anni dopo.

Il teatro: descrizione

Il portico carrozzabile è sostenuto da pilastri e si ispira al modello della Scala di Milano, ma modificato dall'inserimento, al secondo registro della facciata, della loggia ionica, che conferisce al teatro le connotazione di un Tempio. Sulla sua sommità, al centro del frontone della facciata principale, si erge tutt'oggi il gruppo scultoreo “La Triade di Partenope”, che secondo il mito era la sirena che incoronava musicisti e poeti; il 27 marzo 1969 l’opera si sgretolò a seguito delle infiltrazioni di acqua piovana e, inoltre, perché colpita da un fulmine. E' stata totalmente restaurata e ricollocata dove era in origine.

Passati gli anni della Repubblica partenopea e quelli del dominio francese, a seguito della Restaurazione operata dal Congresso di Vienna, torna sul trono di Napoli, la Casa Reale di Borbone con Ferdinando che, salito al trono, dopo soli 6 anni è costretto ad un ulteriore rifacimento del teatro, poiché nella notte tra il 12 e il 13 febbraio del 1816 un incendio lo distrusse completamente.

I lavori furono eseguiti nuovamente dall'architetto toscano Antonio Niccolini, che diede al teatro l’aspetto che attualmente detiene poiché rivide gli interni, creò ambienti di ristoro e rifece la facciata in pieno stile neoclassico, come il gusto del tempo imponeva.

…Appena parlate di Ferdinando vi dicono:  “ha ricostruito il San Carlo!”

 Stendhal,1817.

I lavori di ristrutturazione

Il rifacimento si concretizza in soli nove mesi. Il Niccolini mantiene l’impianto a ferro di cavallo e la configurazione del boccascena, che viene ornato dal bassorilievo “Il Tempo e le Ore” tutt'oggi esistente; l’acustica è perfetta, non si altera in base alla posizione degli spettatori siano essi in platea, sui pachi o nel loggioni; al centro del soffitto troneggia la tela di circa 500 metri quadrati raffiguranti “Apollo che presenta a Minerva i più grandi poeti del mondo” dipinto da Antonio, Giovanni e Giuseppe Cammarano.

Quest’ultimo si occupò anche della ridipintura del sipario, sostituito poi dall'attuale nel 1854.

La nuova inaugurazione avvenne il 12 gennaio 1817 con la rappresentazione de “Il sogno di Partenope” di Giovanni Simone Mayr, che fu un trionfo. Con l’avvento del Regno d’Italia,ed in seguito all'Unità d'Italia, lo stemma borbonico fu sostituito con quello sabaudo, ma nel 1980 fu ripristinato lo stemma del Regno delle Due Sicilie, sostituendo quello sabaudo che era stato semplicemente sovrapposto allo stemma originale, dal quale si era staccato a seguito di alcune operazioni di pulitura.

Il XX secolo è sicuramente un secolo molto importante per l’attività del teatro, sebbene segnato e danneggiato dagli eventi bellici che hanno segnato il ‘900. Nel 1937 fu creato un foyer, noto anche come “Sala degli Specchi”, sul lato che da sui giardini del Palazzo Reale; si trattava di un locale adiacente alle sale del teatro, dove gli spettatori potevano intrattenersi durante le pause dello spettacolo. Fu rifatto dopo la Seconda Guerra Mondiale, poiché fu distrutto dai bombardamenti. Il San Carlo fu il primo teatro a riaprire in Italia.

Dai primi anni del XXI sec. un nuovo foyer  ospita “l’Opera Café” , elegante salotto cittadino, divenuto uno dei simboli della città, ideale per una pausa o per un aperitivo, con accesso da Piazza Trieste e Trento, adiacente la più nota Piazza del Plebiscito.

Nel 2007 la “Triade di Partenope” è stata ulteriormente ristrutturata e restituita alla sommità dell’edificio dalla quale, fieramente, troneggia; anche la sala principale del teatro è stata ristrutturata, migliorando la visuale e l’acustica, sebbene quest’ultima sia sempre stata considerata perfetta; le poltrone della platea sono state sostituite ed è stato aggiunto un impianto di climatizzazione.

Il 1 Ottobre 2011, inoltre, è stato inaugurato il MEMUS, ovvero il Museo e Archivio Storico del San Carlo, ospitato nei locali di Palazzo Reale, che non è e non è stato pensato come un museo nell'accezione più tradizionale del termine, ma è un vero e proprio centro polifunzionale altamente tecnologico, contenente aree espositive, sale eventi, una galleria virtuale in 3D, un bookshop, ed un centro di documentazione sulla storia del San Carlo.

L’amore che lega il teatro alla città e la città al teatro è indissolubile, non c’è napoletano che non lo senta ‘suo’ e non lo ami con lo stesso amore con cui si ama un figlio o una parte della propria storia. Il San Carlo, nelle sue vicissitudini, è sempre stato accanto al suo popolo, d'altronde l’immagine stessa di Partenope sulla  sommità sembra un atto dovuto da parte della città alla Sirena che diede il nome alla città e della quale molti napoletani, ancora oggi, si sentono figli, tanto da definirsi “partenopei” piuttosto che “napoletani”.

 

“non c’è niente in Europa, non direi di simile, ma che possa anche lontanamente dare un’idea di ciò. Vedo nei palchi delle dame alle quali posso essere presentato; preferisco la mia sensazione…e resto in platea…”

Stendhal 13 Gennaio 1817.

 

SITOGRAFIA:      guidanapoli.com;

Wikipedia – enciclopedia libera;

Teatrosancarlo.it;

BIBLIOGRAFIA:   F. Negri Arnoldi – Storia dell’arte Vol. III – Fabbri Editori;

Monumenti e Miti della Campania Felix –

Volume 20 “Il San Carlo e i teatri della Campania”

in Allegato a “il Mattino” Pierro Editore.[/vc_column_text][/vc_column]

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TENUTA FILANGIERI DE CLARIO

Definita come una delle più belle dimore storiche della Campania, la tenuta Filangieri De Clario si trova a San Paolo Belsito, in provincia di Napoli.

Situata in un contesto ameno e circondata da quasi trenta ettari di boschi, la villa è stata immaginata come una sorta di fattoria che ruota intorno ad un grande cortile. Sono due infatti le aree esterne: una è un parco all'italiana di quasi sei ettari, mentre l’altra è un boschetto, che si somma ai campi coltivati ad aranceti e noccioleti.

Come in quasi tutte le costruzioni del genere, al piano terra sono situati i locali destinati alla produzione di prodotti come l’olio e le stalle degli animali. Tra questi locali degne di nota sono le cantine, ove spicca il monumentale torchio, ricavato da un unico tronco di cipresso.

Al primo piano, invece, trova posto la residenza vera e propria.

Dopo una sontuosa doppia rampa di scale si apre una serie di sale ad infilata, l’una dentro l’altra, caratterizzate da una pavimentazione simile che le unifica. Un salottino, splendidamente arredato con mobili d’epoca e una elegantissima carta da parati floreale, continua a sua volta in una sala da biliardo, ove spicca un monumentale lampadario. Tutti gli arredi sono ottocenteschi, e impreziosiscono ulteriormente la dimora.

Dalla sala del biliardo si passa ad un’altra sala, caratterizzata da una decorazione a boiserie sulle pareti e preziose porcellane sui mobili.

Alla villa appartiene anche la piccola chiesa dell’Epifania, di proprietà della famiglia marchesale dei Mastrilli, proprietari della villa.

Al suo interno è presente sull’altare maggiore un dipinto su tavola del XVI secolo attribuito a Francesco da Tolentino, mentre negli altari laterali sono dislocate altre tele raffiguranti la “Vergine del Rosario”(Giovanni De Vivo) e “L’Arcangelo Raffaele e Tobiolo”(Angelo Mozzillo).

La villa fu acquistata in un primo tempo dalla famiglia Mastrilli, che la abbellì intorno alla metà del XVII secolo.

All'inizio dell’Ottocento poi, grazie al matrimonio di Vincenza Mastrilli con il barone Francesco de Clario, la villa passò alla famiglia de Clario.

Da questa in seguito passò ai Filangieri dopo il matrimonio di Elenora de Clario e Riccardo Filangieri, avvenuto nel 1920.

www.dimorestorichecampane.it