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A cura di Mattia Tridello

Introduzione: nella Padova del Santo

Venerdì 13 Giugno 1231. Fernando da Lisbona, colto da un malore e prossimo alla morte, viene trasportato su di un carro trainato da buoi dal piccolo paesino di Camposanpiero fino alle porte di Padova, città in cui chiede di emettere l’ultimo respiro. Giunto però alla periferia nord di quest’ultima, (all’Arcella), mormorate le parole “Vedo il mio Signore”, spirò. Moriva così all’età di 36 anni il francescano che, da lì a un anno, sarebbe salito agli altari con il nome di Sant’Antonio di Padova, uno dei Santi più amati della Cristianità. Con solenni funerali il frate viene sepolto presso la chiesetta di Santa Maria Mater Domini, luogo ove amava ritirarsi spiritualmente nei periodi di intensa attività apostolica. Quella chiesa, al tempo anonima per molti, relativamente periferica in confronto al centro cittadino, sarebbe stata destinata a diventare una grandiosa basilica che ancora oggi accoglie folle di devoti e pellegrini in visita al luogo che ospita “l’Arca del Santo”, il sarcofago che contiene le spoglie mortali di Antonio. La morte e la celere canonizzazione di quest’ultimo non lasciò indifferente la città padovana che, fin dagli albori della predicazione antoniana, accolse con entusiasmo la novità comunicativa introdotta dal frate, dall’uomo capace di attirare e convertire persone con l’uso esclusivo della parola. La vicinanza del popolo dell’urbe al francescano crebbe irrefrenabilmente culminando in un’aperta devozione. Ben presto, infatti, furono registrati molti fenomeni miracolosi sulla sua tomba ed iniziarono ad arrivare pellegrini, prima dalle contrade vicine e poi anche da oltralpe. Il progressivo aumento delle persone che quotidianamente sostavano nei pressi della piccola chiesetta di S. Maria Mater Domini portò alla posa della prima pietra (1240) di un tempio più vasto e capiente, appositamente progettato per contenere l’afflusso continuo di fedeli e pellegrini.

La basilica, terminata nel 1310, rimase perlopiù immutata nella composizione spaziale originaria, mentre, per quanto riguarda quella artistica, venne notevolmente decorata, attraverso i secoli, da numerose e diverse testimonianze pittoriche, scultoree e architettoniche. Queste, seppur di stili e caratteri differenti, furono e sono tuttora unanimi nel glorificare, attraverso l’arte, la figura del Santo. Nel corso del tempo si è andata sviluppando una rappresentazione visiva mutevole che, partendo dalla morte del Santo nel XIII secolo, è sempre cambiata, si è evoluta e aggiornata in base agli stilemi artistici di ogni epoca, arricchendosi di precisi riferimenti iconografici e simbolici che ne hanno determinato il volto, il corpo e le gesta fino alla creazione dell’immaginario collettivo dei giorni nostri. Per questo è mia premura oggi cercare di ripercorrere, tramite l’agiografia antoniana, alcune tra le più importanti e preziose testimonianze artistiche riguardanti il modo di rappresentazione del frate nel corso del tempo, contenute e ospitate nel territorio dove egli soggiornò fino alla nascita celeste, più precisamente nella città che, più di tutte, gli è legata indissolubilmente.

La Pontificia Basilica minore di Sant’Antonio

Vorrei dunque iniziare questo itinerario artistico partendo dal luogo che, solitamente, viene visitato per primo da fedeli, devoti e turisti all’arrivo a Padova, non solo perché vi riposano le spoglie di Antonio ma soprattutto poiché, proprio qui, è presente la più antica immagine esistente del Santo. Molti potrebbero ritenere scontata la presenza di quest’ultima nel luogo della sepoltura, tuttavia, dal punto di vista dell’iconografia antoniana, si osserva un fenomeno veramente singolare: nel tempio che più degli altri risulta legato all’ultimo periodo di vita del Santo e dove si è sviluppata una vasta e ininterrotta venerazione popolare nei confronti di quest’ultimo, si nota l’ assenza di immagini puramente duecentesche che lo raffigurino. Mancano del tutto rappresentazioni che potremmo definire “originarie”, “antiche” che, come in altri casi, la tradizione abbia reso “esemplari”,  oggetto esse stesse di venerazione. La più accreditata ipotesi di tale avvenimento e processo storiografico potrebbe spiegarsi con l’indiscussa centralità assunta dalla tomba di Sant’Antonio nella venerazione popolare.

La tomba del Santo: la necessità di un rapporto diretto tra fedele e sarcofago

Fin dalla prima testimonianza della vita antoniana a noi pervenuta, l’Assidua (testo agiografico composto nel 1232 da un anonimo frate francescano), ciò che appare muovere la devozione pubblica è il rapporto diretto che si instaura tra il devoto e la tomba. Proprio nei pressi di quest’ultima vengono attestati miracoli e grazie concesse dal Signore per intercessione del Santo, proprio in quel luogo i fedeli sostano costantemente, giorno e notte (come si evince da una frase dell’Assidua). Di fatto, dunque, è il sarcofago a imporsi come segno visibile e letteralmente palpabile di Antonio, l’arca diventa una sorta di rappresentazione di quest’ultimo che il pellegrino cerca fin dal suo primo ingresso in basilica, diviene quindi una vera e propria immagine che si lascia toccare, in un rapporto devozionale nel quale la fisicità è una componente essenziale. Può risultare utile, per chiarire maggiormente questo aspetto, confrontare la realtà antoniana di Padova con la situazione, ben diversa, presente invece nel santuario umbro dedicato al fondatore dei minori, San Francesco. Ad Assisi, infatti, la tomba del “Santo poverello” (Fig. 1) viene sistemata sotto l’altare della basilica inferiore e fino agli inizi dell’800 (dal 1820 si procederà alla ricognizione del Corpo e alla creazione di una cripta sotterranea ove poterlo venerare) rimase nascosta, celata agli occhi dei pellegrini. La fioritura di immagini, dipinti e affreschi di Francesco, fin dai primissimi anni dalla morte, appare dunque una necessaria risposta alla richiesta di maggior contatto tra fedele e Santo. Si può dunque dedurre, sia pur con la necessaria prudenza, che a Padova, nella basilica, la necessità di un’immagine di Antonio, almeno per i primi tempi, risultasse meno impellente, meno immediatamente necessaria visto la presenza fisica e visibile della tomba (Fig. 2).

L’iconografia di Sant’Antonio

La voluta citazione di San Francesco ci permette, inoltre, di addentrarci nel pieno della rappresentazione iconografica antoniana, poiché le prime rappresentazioni che iniziarono a comparire tennero presente e vivo questo legame tra fondatore e predicatore, tra maestro e discepolo. Non a caso la più antica immagine che ritrae Antonio, citata in precedenza, presenta anche la figura di Francesco. Si tratta della lunetta che sovrasta la porta, ora murata, dell’antica sagrestia (Fig. 3). L’immagine, seppur risalente agli ultimi anni del ‘200 e quindi collocabile alla fine del lungo cantiere basilicale e conventuale, ci tramanda uno dei primi tentativi a noi conosciuti di immortalare in pittura il Santo. Al centro della raffigurazione compare e spicca, sia per dimensioni che per monumentalità, la figura a mezzo busto della Mater Domini (titolare della primitiva chiesetta sulla quale sorge la basilica) in una variante del tipo dell’eleousa affiancata da santi a figura intera di più piccole dimensioni. L’impianto compositivo semplice e immediato, probabilmente di impronta bizantina-veneziana, dà vita ad uno schema speculare nel quale Francesco, a destra dell’osservatore e Antonio, a sinistra, sono presentati in pose simili, entrambi inginocchiati devotamente, con il volto a tre quarti e le mani alzate a palme aperte (Fig. 4). Il riconoscimento dei due personaggi diviene possibile grazie alla presenza delle iscrizioni con i rispettivi nomi, tracciate a pennello sulla cornice arcuata del riquadro sovrastante.

Fig. 4 – Lunetta del portale murato della sagrestia. A – Sant’Antonio; B – San Francesco.

Il senso di lettura di questa rappresentazione cela e racchiude numerosi significati che, a primo sguardo, potrebbero passare inosservati. Sant’Antonio, ad esempio, viene collocato alla destra della Vergine e del Bambino, nella posizione d’onore riservata solitamente al fondatore dei Minori nelle immagini più antiche legate alla devozione francescana. Anche la figura mariana, a sua volta, nel contesto padovano assume risonanze specifiche poiché non solo riflette una devozione molto sentita in ambito monastico, ma è anche, come accennato, trasposizione figurativa del titolo del locus francescano della città. L’iconografia della lunetta dunque, a dispetto dell’apparente ovvietà, compendia efficacemente la sostanza identitaria della comunità antoniana dell’urbe, marca l’accesso di un luogo chiave del santuario, la sagrestia appunto, indispensabile per la preparazione dei sacerdoti alle celebrazioni liturgiche e infine introduce efficacemente un connubio che, fino al XV secolo sarà una costante sempre presente del repertorio figurativo antoniano.

Potrebbe sembrare, anzi, risulta veramente unico e singolare il fatto che, come si è già illustrato, manchino completamente ritratti contemporanei al Santo o eseguiti a pochi anni dalla morte e canonizzazione di quest’ultimo. Non stupisce quindi che, dal ‘300, iniziarono a proliferare  raffigurazioni antoniane, per forza di cose non sempre concordanti tra loro per quanto riguarda lo stile figurativo e l’apparato simbolico. La necessità di dare un volto al santo si concretizzò con la raffigurazione di elementi simbolici che riassumevano sia gli episodi salienti della sua vita che le caratteristiche che lo resero tanto amato tra la popolazione. Per tale motivo, spostandoci nell’analisi al XIV secolo, l’iconografia si arricchisce di oggetti volti a rimarcare le doti predicatorie del giovane frate. Non a caso in mano a quest’ultimo iniziarono a comparire attributi materiali come il libro (simbolo dotto e aulico di predicazione e conoscenza teologica) e fisici come le vesti francescane e la giovinezza del volto. Un esempio significativo di questa evoluzione iconografica, dal Duecento al Trecento, lo si può ritrovare in una di quelle immagini che divenne oggetto di devozione popolare all’interno della basilica.

Si tratta di uno dei primi ritratti di Antonio a figura intera con la presenza del libro (Fig. 5). L’autore ignoto, probabilmente di scuola giottesca, raffigurò il Santo con il tipico abito francescano mentre con una mano impartisce una benedizione. La resa dell’incarnato, la stesura dei colori e la somiglianza iconografica con le fonti scritte riguardanti l’aspetto di Sant’Antonio conferiscono armonia alla composizione, tanto da farla ritenere come una delle più fedeli e verosimili rappresentazioni del volto reale di quest’ultimo. L’opera venne dipinta su uno strato di intonaco nel fianco est del colossale pilastro sinistro che, insieme ad altri tre, sorregge il peso di una delle cupole del santuario. Quest’ultima, prima della risistemazione quattrocentesca del coro, non faceva parte dello spazio presbiteriale e perciò poteva essere ammirata e venerata  non solo dai sacerdoti ma anche dai laici. A testimonianza di ciò si può notare che la parte bassa risulta notevolmente danneggiata, consunta e molto più scolorita rispetto a quella superiore, probabilmente perché l’immagine era oggetto di carezze devozionali e votive. Dopo la collocazione tra i pilastri dell’abside di un apparato marmoreo ospitante il coro dei frati la visione dell’affresco, ormai inglobato, risulta molto più difficile, tanto da essere parzialmente celato al visitatore (Fig. 6a,b).

Fig. 5 – Affresco raffigurante Sant’Antonio.
Ricostruzione ipotetica della posizione dell’affresco, come appare oggi e come doveva risultare nel ‘300.

 

Tuttavia la carica di novità nella rappresentazione portata da questa raffigurazione di certo non passò inosservata ai geni assoluti del primo Rinascimento che, proprio a Padova, soggiornarono per arricchire, con le loro opere, la basilica. Tra questi vorrei ricordare in primis Donatello e Andrea Mantegna

Il Sant’Antonio di Donatello

La commissione allo scultore fiorentino di realizzare il nuovo altare maggiore della basilica venne probabilmente decisa dopo aver visto il risultato del Crocifisso bronzeo (1443-1447), oggi collocato sopra l’altare ma originariamente realizzato e ideato forse per il coro. Grazie alla generosa donazione del cittadino padovano Francesco del Tegola, datata 3 aprile 1446, poté essere progettato un complesso architettonico scultoreo innovativo, in gran parte di bronzo(Fig.7). Originariamente l’altare, una volta terminato, doveva offrire una visione imponente grazie alla policromia e all’effetto abbagliante delle dorature e argentature. Gli elementi decorativi erano impostati in ricche varianti, che andavano dalle figurette dei rilievi alla pienezza plastica delle opere a tutto tondo, dalle pose più composte a quelle più freneticamente concitate. Con la ristrutturazione del presbiterio nel 1591, l’altare venne smembrato e le varie opere divise in più punti della basilica. Una nuova fase della mensa venne toccata quando, in pieno periodo barocco, vennero reimpiegate e sistemate nella complessa struttura architettonica solo alcune statue donatelliane (Fig. 8). L’ultima travagliata fase di ricostituzione spettò a Camillo Boito nel 1851. Sebbene vennero ricollocate tutte le statue realizzate dallo scultore fiorentino, la composizione quattrocentesca venne del tutto infranta optando invece per una sistemazione più lineare e molto diversa rispetto a quella delle intenzioni donatelliane (Fig. 9). Delle sette statue che creò Donatello, tre risultano particolarmente legate al discorso iconografico che si sta trattando. Se notiamo, infatti, quest’ultime sono collocate nella parte più alta dell’altare, sotto il Crocifisso. Si tratta delle figure bronzee a tutto tondo della Vergine con Bambino, in posizione centrale, di San Francesco, a destra dell’osservatore, e di Sant’Antonio a sinistra (Fig. 10).

Fig. 10 – Dettaglio della Sacra Conversazione tra la Madonna, San Francesco a sinistra e Sant’Antonio a destra.

Nella progettazione e realizzazione dei personaggi scultorei senz’altro Donatello aveva ben presenti i modelli iconografici ritraenti il Santo presenti in Basilica. Perciò risulta molto chiaro il riferimento nella disposizione del gruppo centrale (l’unica parte della risistemazione ottocentesca fedele al progetto quattrocentesco) alla medesima “Sacra conversazione” presente nella lunetta della sagrestia precedentemente illustrata. Come in quest’ultima anche qui i due santi dell’Ordine compaiono ai lati della Madonna, anche qui Maria viene raffigurata nelle vesti di Mater Domini, anche qui è presente il parallelismo tra “Santo fondatore” e “Santo predicatore”. L’artista, mirabilmente, coglie l’insegnamento dell’affresco trecentesco presente a poca distanza dall’altare: come in quello Antonio, in piedi e vestito con il saio francescano, è intento nel contemplare la scena sacra mentre regge con il braccio sinistro l’attributo simbolico del libro, che anche qui ritroviamo insieme però a un altro elemento che, da quel momento in poi, caratterizzerà la sua figura; il giglio. Quest’ultimo, nella cultura iconografica, è simbolo di purezza e lotta contro il male. Tale immagine del Santo è indubbiamente il frutto di un anelito popolare che Donatello percepisce, perfeziona e sublima conferendo vitalità e vigore al taumaturgo poiché comprende che la giovinezza è il primo attributo del suo apostolato, la garanzia della sua azione (Fig. 11).

Fig. 11 – Dettaglio della statua di Sant’Antonio.

L’iconografia antoniana che si sviluppò nel corso del ‘400 rimase fedele agli attributi simbolici e al modo di rappresentazione inaugurato da Donatello con l’altare della basilica: ne è un esempio la lunetta del portale centrale del tempio padovano commissionata al Mantegna nel 1452 (Fig. 12). Anche in quest’ultima la rappresentazione del Santo non subisce sostanziali trasformazioni ma anticipa, nella sua fierezza, i caratteri di un nuovo impulso figurativo che avverrà con la pittura del Vecellio. Tiziano, infatti, proprio a Padova realizzò alcuni dei suoi primissimi e indipendenti capolavori.

Fig. 12 – Lunetta con Sant’Antonio a sinistra, il Trigramma di Cristo e San Bernardino da Siena.

Tiziano alla “Scoletta del Santo”

Se ci spostassimo al di fuori della basilica e sostassimo nel sagrato antistante, ci accorgeremo della presenza, sul lato destro, di alcune costruzioni che delimitano teatralmente la piazza. Si tratta dell’Oratorio di San Giorgio e della cosiddetta “Scoletta del Santo”, ovvero, la sede dell’antichissima Arciconfraternita del Santo. Quest’ultima sorse pochi anni dopo la morte di Antonio ed acquisì ben presto una viva floridezza. Nel corso del Quattrocento infatti i confratelli, vista l’assenza di un luogo definito e unico per lo svolgersi di incontri e adunanze, presero la decisione di erigere una nuova costruzione ai margini del sagrato della basilica. Così come si presenta oggi, la Scuola è formata da due ambienti sovrapposti: quello al pianterreno, ospitante la chiesa, e quello superiore, edificato nel 1504, contenente invece la sala priorale (Fig. 13).

Fig. 13 – Da sinistra a destra: Oratorio di San Giorgio, scala di collegamento, Scoletta del Santo.

Nella parte cinquecentesca, la Sala priorale contiene 18 pitture eseguite nei primi anni del Cinquecento con scene della vita e dei miracoli di S. Antonio. Grazie a questo meraviglioso ciclo pittorico si può constatare un’evoluzione nella rappresentazione iconografica antoniana. A partire dal XVI secolo, infatti, l’attenzione nella raffigurazione del Santo muta, si sposta, pone maggiormente l’attenzione non sulla rappresentazione singola del frate ma su quella collettiva, che lo vede presente in mezzo alla popolazione in occasione delle sue predicazioni o dei miracoli compiuti in vita. Perciò, in questo modo, Antonio inizia ad assumere un carattere figurativo meno distaccato e astratto, di fatto, in alcuni casi, gli elementi simbolici importati dalla tradizione scompaiono lasciando spazio alla sua figura che, come in una rappresentazione teatrale, assume il  ruolo di protagonista della vicenda. La concretizzazione la si trova narrata nei tre affreschi giovanili di Tiziano (1511): “Sant’Antonio fa parlare un neonato” (Fig. 14), “Il marito geloso che pugnala la moglie”, “Sant’Antonio riattacca il piede a un giovane”. Anche se raffiguranti scene e miracoli differenti tutti e tre sono unanimi nel mostrare Antonio in veste battagliera, instancabile, evangelizzatrice, sempre pronto ad intervenire con la sua intercessione.

Fig. 14 – Tiziano, “Sant’Antonio fa parlare un neonato”.

Sant’Antonio e il “pane”

Un altro dipinto che ci introduce a una delle più consuete e amate raffigurazioni  di Antonio è sempre custodito nella Sala Priorale. Entrando in quest’ultima, immediatamente a destra, ad altezza d’uomo, accoglie i visitatori l’affresco realizzato da Tiziano e Francesco Vecellio rappresentante il “Guardiano” della Confraternita, Nicola da Strà, che fu il committente del ciclo di affreschi all’inizio del ‘500. (Fig. 15).

Fig. 15 – Pianta della Sala Priorale, accanto all’entrata, a destra, è presente l’affresco.

Il Guardiano (oggi detto Priore), rivestito dell’allora abito confraternale molto simile al saio dei frati, è effigiato nel gesto della distribuzione delle focacce benedette al portone dell’Oratorio della Scoletta del Santo, sul quale fa mostra di se una statua argentea di Antonio recante, anche in questo caso, gli attributi del libro e del giglio. (Fig. 15) La tradizione di raffigurare il Santo mentre porge le pagnotte ai bisognosi o, come in questo affresco, accanto a coloro che distribuiscono il pane deriva direttamente da un miracolo che suscitò enorme clamore nella Padova del Duecento tanto da essere riportato dettagliatamente nell’agiografia del Santo:

“Un bimbo di venti mesi, di nome Tomasino, i cui genitori avevano l’abitazione vicino alla chiesa del beato Antonio, in Padova, fu lasciato incautamente da sua madre accanto ad un recipiente pieno d’acqua. Si mise a fare nell’acqua giochi infantili e forse, vedendoci riflessa la sua immagine e volendo inseguirla, precipitò nel recipiente testa all’ingiù e piedi in alto. Siccome era piccino e non poteva sbrogliarsi, ben presto vi rimase affogato.

Trascorso breve tempo, la madre ebbe sbrigate le sue faccende, e vedendo la lontano i piedi del bimbo emergere da quel recipiente, si precipitò urlando forte con voce di pianto e trasse fuori il piccino. Lo trovò tutto rigido e freddo, perché era morto annegato. A tale spettacolo gemendo di angoscia, mise sossopra tutto il vicinato con i suoi lamenti ad alta voce.

Molte persone accorsero sul posto, e tra queste alcuni frati minori insieme con operai, che a quel tempo lavoravano a certe riparazioni nella chiesa del beato Antonio. Quando ebbero veduto che il bambino era sicuramente morto, partecipando alla sofferenza e alle lacrime della madre, essi si ritirarono come feriti dalla spada del dispiacere. La madre tuttavia sebbene l’angoscia le straziasse il cuore, prese a riflettere sugli stupendi miracoli del beato Antonio, e ne invocò l’aiuto onde facesse rivivere il figlio morto. Aggiunse anche un voto: che darebbe ai poveri la quantità di grano corrispondente al peso del bimbo, se il beato Antonio lo avesse risuscitato. Dal tramonto fino alla mezzanotte il piccolo giacque morto, la madre continuando senza sosta ad invocare il soccorso del beato Antonio e replicando assiduamente il voto, allorché, – cosa mirabile a dirsi! – il bimbo morto riebbe vita e piena salute.” Dalla Rigaldina (11, 69-79);

Nei confronti di questa testimonianza non stupisce che proprio il pane sia diventato un simbolo frequente nell’iconografia antoniana, sia per il fenomeno miracoloso avvenuto a seguito del voto, sia per il valore simbolico che esso ha assunto. Il pane, infatti, elemento più immediato e fruibile per saziarsi e sfamarsi, assurge a rappresentazione fisica della carità, non solo quella che ha avuto il Santo in vita ma più in generale quella di tutta la Chiesa.

Fig. 16 – Affresco della distribuzione del pane benedetto.

Sant’Antonio con il Bambino

Accingendomi a terminare questo itinerario nella storia artistico-devozionale di Sant’Antonio risulta più che opportuno, anzi, necessario, analizzare la rappresentazione che forse, più di tutte, si è diffusa nell’arte dal XVII secolo fino ai giorni nostri e ha progressivamente forgiato un preciso canone iconografico che ci permette di riconoscere il Santo in qualsivoglia raffigurazione sacra. Quest’ultima, infatti, come per le altre, trova origine a seguito degli episodi agiografici di Antonio. Per poterla comprendere al meglio è necessario dunque ripercorrere uno degli ultimi episodi della vita del frate. Sembra quasi paradossale pensare che l’ultimo toccante frangente della sua permanenza terrena sia poi diventato, nel corso del tempo, una costante figurativa che comunica tenerezza e amore, che la sua visione più famosa e tarda si sia inserita nell’iconografia antoniana in un periodo cronologicamente più recente. Con il diffondersi dei nuovi canoni artistici propri del tardo Barocco e ancor di più del Rococò, infatti, anche la figura di Antonio muta, si apre alla rappresentazione con il Bambino Gesù, si uniforma a una devozione di carattere poetico e affettuoso che trova riscontro nella vastissima produzione italiana e europea settecentesca, basti pensare alle numerose versioni del medesimo tema a opera del Murillo (Fig. 17a,b). Per conoscere l’origine di tale attributo rappresentativo occorre, come detto in precedenza, ricercare le origini nell’agiografia antoniana. Era, infatti, il 1231 quando il frate, poco prima di morire, ottenne di ritirarsi in preghiera a Camposampiero, un piccolo paesino della campagna padovana, nella dimora che il signore del luogo, il conte Tiso, aveva affidato ai francescani nei pressi del suo castello.

Una sera, il conte decise di recarsi nella cella del convento nella quale soggiornava l’amico francescano. Tuttavia, giunto in prossimità della porta, notò che, dall’uscio socchiuso, si sprigionava un intenso splendore. Temendo un incendio, spinse la porta e una volta entrato rimase immobile davanti alla scena prodigiosa: Antonio stringeva fra le braccia Gesù Bambino. Terminata la visione incantevole e vista la commozione di Tiso, Antonio lo pregò di non rivelare a nessuno l’apparizione celeste. Solo dopo la morte del Santo il conte racconterà quello che, per grazia, aveva potuto vedere.

Il Santuario della Visione

Nel corso degli anni la primitiva chiesa di S. Giovanni Battista e il vicino convento ebbero vari rifacimenti e ampliamenti, ma verso il luogo della Cella ci fu sempre grande venerazione e attenzione. La costruzione, pur con qualche ritocco, mantenne sempre quelle dimensioni di stile francescano, umile, povero ed essenziale. Costruendo l’attuale chiesa (1906) (Fig. 18), la Cella fu incorporata e trasformata in cappellina su due livelli. In quello superiore i fedeli possono visitare personalmente lo stretto vano coperto con volta a schifo per raccogliersi in preghiera nel luogo della visione prodigiosa (Fig. 19a,b).

Fig. 18 – Veduta della navata centrale del Santuario.

A destra una finestrella e al centro della parete di fondo si trova la tavola di Andrea Vivarini da Murano (1486) che ritrae la figura intera di S. Antonio con i simboli consueti del giglio e del libro (Fig. 20a,b). Secondo la tradizione si tratterebbe della rozza tavola di pioppo che serviva da giaciglio al Santo durante la sua permanenza nel convento di Camposampiero. Quest’ultima è difesa da una cornice con cristallo per impedire l’indiscreta devozione dei fedeli che, in passato, asportarono molti frammenti lignei da questa “reliquia antoniana”. E’ costante tradizione che il Santo, riposando sopra di essa, vi abbia lasciata impressa la propria effigie, ripresa dal pittore Andrea da Murano al principio del XVI secolo.

Proprio nella “cella della Visione”, il 13 Giugno 1231, verso mezzogiorno, Antonio venne colto da un malore che perdurò fino alle sue ultime ore quando venne trasportato, al calar della sera, all’Arcella, alla periferia nord di Padova. Ecco dunque che siamo ritornati al punto dal quale abbiamo iniziato questo viaggio iconografico e artistico alla scoperta di tutte quelle raffigurazioni contenute a Padova e legate, per un motivo o per un altro, alla figura antoniana. Rappresentazioni a volte simili, a volte diverse e mutevoli ma che, a ben vedere, non sono mai discordanti poiché la personalità di Antonio è stata -e continua a essere -universale, eccezionalmente ricca di storia e devozione, e quindi in grado di inserirsi in dimensioni diverse ma unite dalla profonda umiltà francescana, dal rigore e dalla coerenza di una vocazione estremamente semplice e fattiva. Forse fu proprio questo l’aspetto che più fece presa tra le folle accorse, durante le sue predicazioni, per vederlo, toccarlo, perché percepivano la presenza della sua santità e scorgevano, nella sua persona, un modello umano. Una figura presente e santa dalla quale l’arte e la devozione non hanno mai smesso di attingere per l’ideazione e la creazione di assoluti capolavori che, oggi come ieri, testimoniano assiduamente la vita, le opere e i miracoli di uno dei santi più amati della cristianità.

 

Bibliografia essenziale:

Andergassen, L’iconografia di Sant’Antonio di Padova, dal XII al XVI secolo, Padova, Centro studi antoniani;

Padova e il suo territorio, rivista di storia arte e cultura, 1995;

Il cantiere di Sant’Antonio a Padova (1877-1903) nella rilettura critica delle carte conservate presso l’Archivio Storico della Veneranda Arca, La Sapienza, 2017;

Baggio, Iconografia di Sant’Antonio al santo a Padova nel XIII e XIV secolo. Scuola di dottorato, UniPd;

Libreria del Santo, La Basilica di Sant’Antonio in Padova, 2009;

Il Messaggero di Sant’Antonio, numero di approfondimento del Giugno Antoniano, 2019;

 

Sitografia:

Sito web ufficiale della Basilica di Sant’Antonio;

Sito web dell’Arciconfraternita del Santo;

Sito web dei Santuari di Camposampiero;

 

Immagini:

Immagini di dominio pubblico tratte da Goggle immagini, Google maps e dal sito web della Basilica di Sant’Antonio.

La ricostruzione della pianta dell’assetto duecentesco del presbiterio è stata realizzata da Mattia Tridello con l’ausilio del programma Autocad;

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