A cura di Stefania Melito
Solofra: alle origini di una chiesa
Solofra, in provincia di Avellino, nacque come un piccolo agglomerato in una valle interna e montuosa di piccole case. Già in epoca bizantina era tributaria del comune di Salerno, e man mano tutto l’abitato si raccolse intorno ad una piccola chiesetta rurale, ove si svolgevano le feste più importanti della comunità. Questa chiesetta, detta pieve, era sorta sulla riva destra del fiume Flubio, oggi torrente Solofrana, ed era una delle più importanti del circondario: essa infatti possedeva alcuni campi adatti alla coltivazione, i magazzini dove venivano conservati i generi alimentari e inoltre poteva annoverare anche alcune abitazioni ove accogliere i pellegrini.
La pieve del locum Solofra era intitolata a San Angelo, culto introdotto dai Longobardi, e a Santa Maria, culto di origine bizantina, ma alla fine il primo culto prevalse sul secondo. Quando la pieve nel 1042 divenne parrocchia, ossia sotto i Normanni, Adelferio, abate della chiesa di S. Massimo a Salerno, cedette la chiesa al prete di Solofra Truppoaldo. Insieme alla chiesa Adelferio cedette: “libri sacri, suppellettili, un salterio, una campana, un incensiere di bronzo, una sindone con sedici funicelle, un velo per il tabernacolo”. E ancora “…due pianete, una stola, una cotta, una veste sacra, un calice e un vaso di stagno”. Insieme a tutto ciò, nell’atto di cessione si può anche leggere la fornitura di “una botte grande per il vino, due carri, quattro tini, un torchio, tre case, una madia ed un forno” (http://www.solofrastorica.it/documentopieve.htm). Attraverso il vescovo di Salerno, a Solofra fu inoltre introdotta l’arte della concia delle pelli, che divenne una specificità solofrana e che rese possibile la nascita della figura del battiloro. Il battiloro era quell’artigiano che, con un martello, riusciva a rendere sottilissima qualsiasi lamina di oro o d’argento, riducendola in foglia e agevolandone così l’uso decorativo su stucchi e altre superfici. Tale arte si rivelò immediatamente utile nella costruzione della nuova chiesa.
Grazie infatti ai commerci con Salerno la comunità si arricchì rapidamente e si espanse, rendendo necessario il rifacimento della piccola pieve, divenuta ormai troppo piccola. Per questo si scelse di abbatterla e, al suo posto, si costruì la Collegiata quale emblema della ricchezza cittadina. La nuova chiesa fu costruita utilizzando parte del materiale recuperato dall’antica pieve, quasi un segno di continuità con il passato.
La Collegiata di San Michele Arcangelo
La Collegiata sorse sullo spiazzo antistante la vecchia chiesa, nel pieno centro cittadino, e la sua costruzione si può definire una sorta di collage: infatti le maestranze realizzarono in maniera indipendente i vari pezzi per le varie parti della chiesa, che poi furono raccordate tra loro. Ad esempio, fu realizzata prima una delle cappelle della navata sinistra che la navata vera e propria. Il prospetto principale è opera di Dionisio Lazzari, esponente del Barocco napoletano ed autore della cappella reale all’interno di Palazzo Reale a Napoli. La facciata, a salienti, è caratterizzata dalla presenza di un’imponente architettura che sovrasta il portone principale e che la movimenta, ripresa in piccolo nelle due porte laterali. Al di sopra del portone principale, al posto del rosone, vi è una nicchia a finta finestra che ospita la statua di san Michele e che inonda di luce l’interno, mentre ai lati vi sono due colonne con lo stemma solofrano, un sole raggiante. La porta centrale della chiesa, divisa in formelle, è antecedente alla facciata: fu affidata nel 1583 ad Antonio Sclavo, intagliatore napoletano, che tre anni prima aveva realizzato l’organo. Tuttavia la porta fu completata da Francesco Catorano, altro artista napoletano, per contrasti sorti con lo stesso Sclavo, nel 1614, come riporta la data sul portale.
Lo stesso dicasi per il campanile, commissionato nel 1566 ad alcuni scalpellini di Calvanico ma terminato da altri nel 1572.
La Collegiata di San Michele Arcangelo: storie di un matrimonio.
È l’interno, però, che descrive maggiormente l’acquisita ricchezza della comunità solofrana, e che rimanda a una curiosa storia riguardante un matrimonio fra committenti e maestranze. Infatti la bottega che lavorò in Collegiata fu quella di Tommaso Guarini, noto incisore solofrano del ‘500, figlio del pittore Felice e imparentato con la famiglia Troisi, che fornì le travi di legno per la copertura della chiesa. Proprio le travi furono le “artefici” di un matrimonio alquanto interessante: Tommaso Guarini, autore delle tele del soffitto, sposò infatti Giulia Vigilante, imparentata con la bottega dei Vigilante, i battiloro che fornirono l’oro per le dorature delle cornici e dell’organo. I Vigilante, anch’essi imparentati con i Troisi, erano anche i committenti dei lavori della Collegiata, e ciò garantì a Tommaso prima, e al figlio Francesco poi, la sicura prosecuzione dei lavori della bottega.
La Collegiata: l’interno
la Collegiata è un edificio a tre navate a croce latina, separato da archi a tutto sesto che reggono volte sormontate da cupolette. Oltrepassata la porta centrale, quel che si nota immediatamente sono i massicci pilastri quadrangolari con paraste su ogni lato, sormontate da capitelli barocchi fito e antropomorfi. Lo sguardo sale su, verso la piccola balaustra lignea impreziosita da un minuscolo cassettonato inferiore, che corre graziosamente lungo tutto il perimetro della navata e che fa da spartiacque fra la massiccia presenza dei pilastri e i finestroni a nicchia intervallati da medaglioni.
Al di sopra dei medaglioni, imponente, vi è il soffitto cassettonato opera di Tommaso Guarini.
Secondo alcuni la composizione del soffitto richiama quello di Palazzo Vecchio a Firenze opera del Vasari, particolarmente evidente nell’alternanza di tele quadrate e tele rotonde. Si compone di ventuno quadri con soggetti tratti dal Vecchio Testamento, incastonati in preziose cornici dorate. Il tutto è inserito in un cassettonato movimentato sia nelle grandezze sia nella profondità dei cassettoni. La tela centrale, che rappresenta il Paradiso, ospita anche il monogramma con cui si firma il pittore (GT) ed ha influenze senesi, presenti nelle tre fasce in cui è divisa e in una certa abbondanza di toni cupi, da cui spiccano per contrasto alcune vesti e panneggi.
I personaggi non hanno particolare possanza fisica, anzi sono piuttosto snelli, ma sono caratterizzati dall’eleganza del gesto e della composizione figurativa, unita ad una certa dinamicità. Predominano i rossi e i bruni, e tutto l’insieme dà una forte impressione di maestosità e ricchezza.
Proseguendo lungo la navata centrale, in direzione dell’altare maggiore, sulla destra spicca l’imponente organo ligneo, completamente ricoperto d’oro, su cui sono raffigurate scene del Vecchio Testamento. Risale ad un lasso di tempo compreso fra il 1579 e il 1583, ed è opera del napoletano Giovanni Antonio Sclavo. La cantoria, ossia il luogo destinato ad accogliere i musicisti, è cinta da un parapetto scandito da nicchie, in cui trovano posto storie della vita di Davide. Ogni nicchia è intervallata da una piccola scultura. Le storie di Davide coprono tutto il parapetto, che purtroppo manca di un pannello sul lato sinistro. L’impostazione dell’organo è preziosa, barocca, sormontata da un’imponente trabeazione spezzata che ospita l’Arcangelo Michele vittorioso. Tra le canne e i riquadri dello strumento trovano posto preziosi putti sia dipinti che lignei, cornucopie, figure che sembrano sirene, elementi musicali e naturalistici. Quasi ogni superficie è ricoperta d’oro proveniente dalla bottega dei Vigilante.
Dalla navata centrale si accede all’area del transetto oltrepassando un arco trionfale; anche qui è presente un soffitto cassettonato prezioso, simile a quello della navata centrale, opera di Francesco Guarini, figlio e allievo di Tommaso Guarini. Francesco Guarini è stato sicuramente un esponente di spicco della pittura seicentesca, capace nel tempo di sviluppare una originale visione artistica che lo portò a distaccarsi dai grandi maestri dell’epoca. I suoi mutamenti pittorici infatti lo portarono man mano all’elaborazione di una vera e propria “pittura guariniana”, in cui riuscì a fondere elementi di naturalismo con la potenza espressiva, non tralasciando il grande uso della luce e del colore.
Il soffitto cassettonato del transetto, come quello della navata centrale, ospita ventuno tele inserite in cornici dorate dai motivi fitoformi, con la differenza che qui sono raffigurate storie del Nuovo Testamento. Il pittore ebbe 18 mesi per realizzarli, ma accumulò quattro anni di ritardo. Lo stile ricorda alcuni toni caravaggeschi nell’uso dei chiaroscuri e nella potenza delle figure: si può dire che qui a dominare sia uno stile più “classico”, meno barocco. L’uso della luce, che dà potenza e respiro alla figurazione e che stilisticamente si distacca nettamente dall’impostazione del cassettonato nella navata centrale, è immediatamente evidente. La costruzione e l’impostazione delle tele ricalcano l’evoluzione pittorica dell’artista: dai primi quadri, in cui è evidente l’influsso della pittura napoletana nell’affollamento dei soggetti e nel risalto dato alla fase matura della vita, la cosiddetta senescenza, si passa a uno stile più sobrio, più scarno, fatto di pochi ma potenti personaggi che risentono del background solofrano di vita vissuta.
In particolare il ritratto di popolana che allatta, posto in basso a destra nella tela della scarcerazione di S. Pietro, echeggia figure reali certamente incontrate dall’artista.
Le altre tele presenti nel soffitto seguono lo schema riportato di seguito.
Cristo tra gli angeli nel deserto | Annuncio a Maria della resurrezione | Vergine assunta | Battesimo di Cristo | Adorazione dei pastori | Liberazione di S. Pietro | Anna Gioacchino e l’Angelo |
Disputa di Gesù coi dottori | L’Annuncio ai pastori | Sogno di Giuseppe | Annunciazione | Annuncio a Giuseppe della fuga in Egitto | Visione di Zaccaria | Gesù tra i dottori |
L’Angelo e le tre Marie | Cristo nell’orto | Circoncisione | Annuncio ad Anna e Gioacchino | Riposo in Egitto | Presentazione della Vergine al tempio | Cena di Giuseppe |
Oltrepassando il transetto, si arriva all’altare maggiore policromo in marmo, datato 1746, sormontato dalla pala dell’Incoronazione della Vergine (1594), opera del sodalizio pittorico fra Giovanni Bernardo Lama e Silvestro Buono, in cui è incastonata una piccola statua di San Michele arcangelo completamente in oro. La bottega napoletana dei due pittori è molto attiva sulla scena artistica irpina, e gli stili tendono a fondersi l’uno nell’altro. Tra i due infatti vi fu prima una profonda amicizia, e poi una collaborazione professionale che, rifacendosi agli stilemi tipici del Manierismo internazionale, diede vita a figure “elegantissime e irreali”, che si imposero con “sofisticatissima grazia” all’interno del panorama austero della Controriforma.
La tela è caratterizzata dalla presenza in alto delle due figure centrali, che mettono in luce l’eleganza più che la possanza; elegante è il gesto dell’incoronazione, grazioso il capo chinato della Vergine. Tutt’intorno una teoria di angeli, che ricalca quella più grande dei personaggi posti in basso e separati dalle nubi su cui sono assisi i protagonisti. La tela è inserita all’interno di una preziosa cornice cinquecentesca, a sua volta compresa in un architrave che nel timpano spezzato della sommità, con al centro un medaglione, ricalca quello presente sull’organo. Ai lati della tela sono collocate due tele: a sinistra, “Tobiolo e l’Angelo” e, a destra, “Abramo visitato dagli angeli”, entrambe di Tommaso Guarini.
Completano la chiesa le due navate laterali. Particolare, nella navata sinistra, la cappella dedicata all’Immacolata, da cui parte la processione del Venerdì Santo, che presenta un piccolo altare su cui in origine era posto il capolavoro di Francesco Guarini, la Sine Macula del 1642, attualmente rimossa e sostituita da una tela dedicata alla Vergine.
Sempre nella navata sinistra è presente il cosiddetto Cappellone dei morti, o di San Giuseppe, dal nome della tela sull’abside, opera di Francesco Guarini, intitolata “Il transito di San Giuseppe”.
Di impostazione barocca, la cappella espone sull’altare maggiore una tela oblunga, di autore ignoto, che rappresenta la cacciata di Adamo e Eva dal Paradiso Terrestre. Cupa, potente, domina la scena e contrasta fortemente con la luminosità della raffigurazione pittorica posta dietro di essa. Al centro del pavimento è presente un’epigrafe funeraria con le sette spade che trafiggono il cuore, rappresentazione simbolica tipica dell’Addolorata, che qui per traslato sta ad indicare le preghiere da rivolgere ai defunti. Sulla volta, una graziosa Annunciazione.
La navata sinistra si conclude con un altare marmoreo che racchiude le ossa di Santa Dorotea in un’urna d’argento.
Nella navata di destra, infine, sono presenti sei altari sormontati da tele, tra cui bisogna ricordare la Pentecoste di Angelo Solimena.
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
- Abbate, “Storia dell’arte nell’Italia meridionale”, Volume 3, pagg. 207-208
Touring Club Italiano, “Napoli e la Campania: Capri, la Reggia di Caserta, Pompei, Amalfi, Paestum”, pag. 211
- Abbate, “Storia dell’arte nell’Italia meridionale: Il secolo d’oro”, pag. 58
http://www.solofrastorica.it/Collegiata1.htm
http://www.campaniabellezzedelcreato.it
http://www.solofrastorica.it/GuariniFrancesco.htm
http://www.solofrastorica.it/collorgano.htm
http://www.solofrastorica.it/battiloro.htm
http://www.solofrastorica.it/campaniledoc.htm
http://www.solofrastorica.it/documentopieve.htm
https://www.corriereirpinia.it/landolfi-nella-bottega-di-buono-e-lama/
https://ilsolofrano.blogspot.com/2019/11/solofra-il-touring-club-alla-scoperta.html
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