LE CANTINE DELLA CERTOSA DI PADULA
A cura di Stefania Melito
Introduzione
Uscendo dalla cucina della Certosa di San Lorenzo a Padula e oltrepassando un ambiente con camino attiguo ad essa ci si affaccia su un corridoio che, a mo’ di asse prospettico, taglia tutta la Certosa nel senso della lunghezza raccordando vari locali: è lo stesso corridoio su cui insiste un lato del Chiostro della Foresteria, la prima sala che si incontra entrando nella casa alta. Tale ampio spazio consente, tra gli altri, l’ingresso alle cantine della Certosa, un’imponente stanza che viene aperta solo in occasioni speciali: si tratta di un ampio vano, situato in una zona un po’ appartata del monastero, un tempo destinato ad accogliere le derrate alimentari e la produzione vitivinicola del convento.
Le cantine della Certosa di Padula
Esse sono collocate in posizione defilata rispetto al suddetto corridoio, e vi si accede in due modi: attraverso due porte situate in cucina ai lati della cappa, che mediante una scaletta introducono direttamente nelle cantine (accesso oggi chiuso), oppure da un piccolo spiazzo scoperto, che si raggiunge uscendo dalla cucina, attraversando un ambiente, arrivando sul corridoio e girando a sinistra; ci si ritrova in una piccola area esterna, in cui in un angolo è collocata una stretta scala, e subito dopo un piccolo e stretto spazio di raccordo. Improvvisamente, al di là di un’apertura ad arco, si spalancano le cantine, la cui grandezza veramente impressionante è messa ancora più in risalto dalla piccolezza degli luoghi che si sono attraversati per raggiungerle.
Il locale è diviso in due bracci: il primo è completamente vuoto, mentre il secondo ospita una riproduzione delle enormi botti che un tempo erano qui conservate, e che vi furono poste nel 1967 in occasione del film “C’era una volta” di Francesco Rosi, che vide protagonisti Sophia Loren e Omar Sharif.
Molte scene del film furono girate in Certosa, in particolare nelle cantine, nella cucina, nel chiostro grande e in altre sale, e la troupe e gli attori soggiornarono a Padula il tempo necessario alle riprese: resta ancora traccia di ciò nella memoria popolare, che racconta come Sophia Loren si fosse perfettamente integrata con la popolazione a tal punto da sgridare una bambina perché “troppo piccola per poter portare lo smalto”[1]. Un’affermazione che nel 2021 può sembrare banale, ma che allora, alla fine degli anni ’60, dimostrava la semplicità e la spontaneità di un’attrice già Premio Oscar (vinto nel 1960 con La Ciociara).
Il secondo ambiente delle cantine della Certosa: il torchio
Nel secondo ambiente, situato dopo una svolta, oltre alle botti si trova un torchio, datato 1785, dalle dimensioni maestose, ricavato da un unico tronco di quercia di dodici o quindici metri incastrato con una sorta di forcella in una enorme vite. Questo tronco, posto al di sotto di due archi quadrati lignei, serviva a pressare l’uva posta in un catino e collocata nella grande vasca di pietra posta al di sotto del torchio, che una volta spremuta rilasciava il succo che veniva canalizzato sotto la vasca mediante un’apertura.
Le dimensioni gigantesche suggeriscono che il suo utilizzo non dovesse essere limitato alla produzione di vino solo per i monaci residenti in Certosa, ma che molto probabilmente servisse a soddisfare il fabbisogno dell’intero paese, se non del circondario. Alla sua base è murata una lapide dedicata al dio pagano Attis, probabilmente proveniente dall’antica Cosilinum, ossia l’area archeologica di Padula, su cui sono incise queste parole: “Sanctum/ mundum/ Attinis p(ro) r(editu)/ a fundament(is)/ Helviae Abascante/ et Capitolina f(ilia), d(ecreto) d(ecurionum), p(ecunia) s(ua) f(ecerunt)”.
Recentemente un’associazione locale, “Certosa Estesa”, ha provveduto ad eseguire una scansione 3D del torchio, rendendone quindi di immediata comprensione l’utilizzo, abbinandola ad un’interessante giornata dedicata appunto alle cantine.[2]
Il chiostro dei Procuratori
Uscendo dalle cantine e ritornando sul corridoio principale, fatti pochi passi verso l’entrata ci si ritrova, a sinistra, davanti all’ingresso del chiostro dei Procuratori, sormontato da un corridoio finestrato.
Il cosiddetto procuratore era un monaco deputato all’amministrazione economica del monastero: era colui che coordinava le attività dei conversi, gestiva e sovrintendeva le elemosine e il patrimonio certosino, manteneva rapporti con l’esterno; una volta all’anno riferiva l’andamento del suo operato al Priore. Solitamente ce n’era uno solo per certosa, ma la Certosa di San Lorenzo faceva eccezione, in quanto per la vastità dei suoi possedimenti (il feudo di Padula in primis, ma anche possedimenti a Brindisi, Taranto, oltre che a Montesano e Buonabitacolo) essa ne contava più di uno. Gli alloggi riservati ai procuratori erano appunto quelli del corridoio finestrato posto al di sopra del chiostro.
Il chiostro vero e proprio presenta invece dei fasci di pilastri, con una parasta scanalata verticalmente nella parte centrale, che scandiscono le arcate; al di sopra del capitello fitomorfo posto sulla parasta corrono tutto intorno una fascia liscia e una cornice marcapiano piuttosto aggettante e movimentata da rientranze e sporgenze, al di sopra della quale si slanciano in altezza altre paraste, poste in corrispondenza di quelle inferiori, e che vanno a delimitare le finestre del corridoio.
Il chiostro, che presenta una pavimentazione a spina di pesce, è diviso in due modi: alla divisione centrale a croce si affiancano infatti altre quattro divisioni dei quattro angoli, anch’essi a croce; nel mezzo del chiostro si trova una fontana lapidea quadrilobata con angoli, con al centro quel che sembra un delfino e ai lati quattro animali marini, mentre nelle altre quattro divisioni vi sono quattro basi onorarie.
Lungo tutto il porticato, che funge da Lapidario, sono disposti alcuni rocchi di colonne, epigrafi, capitelli ed altro materiale frutto delle campagne archeologiche che fra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 interessarono Padula e l’intero comprensorio valdianese; il resto del materiale è nell’attiguo Museo Archeologico Provinciale della Lucania Occidentale, di cui si parlerà nel prossimo approfondimento.
Si ringrazia l’associazione “Certosa Estesa” per avermi autorizzato a pubblicare due loro fotografie
Note
[1] Ciò mi è stato riferito dal figlio di quella signora.
[2] https://www.italia2tv.it/2020/02/03/nel-ventre-della-certosa-per-scoprire-i-segreti-del-monumento-di-padula-la-splendida-iniziativa-dellassociazione-certosa-estesa/
Bibliografia
“Vecchi scavi, nuovi studi. Museo Archeologico Provinciale della Lucania Occidentale nella Certosa di San Lorenzo a Padula”, a cura di Matilde Romito, Salerno, 2006.
“Padula nel Rapporto di Robert Mallet e l’intervento attuale di restauro della Certosa di S.Lorenzo” di G. Miccio, in "Viaggio nelle aree del terremoto del 16 dicembre 1857. L’opera di Robert Mallet nel contesto scientifico e ambientale attuale del Vallo di Diano e della Val d’Agri", a cura di G.Ferrari, vol.1, Bologna 2004.
Sitografia
http://www.ariap.it/news/STORIA%20Certosa%20di%20San%20Lorenzo%20o%20Certosa%20di%20Padula.pdf
https://storico.beniculturali.it/mibac/opencms/MiBAC/sito-MiBAC/Luogo/MibacUnif/Luoghi-della-Cultura/visualizza_asset.html?id=155601&pagename=157031
https://www.touringclub.it/destinazione/localita/chiesa/170900/certosa-di-s-lorenzo-padula
LA CUCINA DELLA CERTOSA DI PADULA
A cura di Stefania Melito
La cucina della Certosa di Padula
L’ultimo ambiente che affaccia sul chiostrino del cimitero antico è la cucina della Certosa di Padula, forse uno degli ambienti più famosi e particolari del complesso di San Lorenzo.
Tecnologie trecentesche
La cucina della Certosa di Padula è un’unica grande sala voltata a botte, che presenta al suo interno diversi elementi interessanti. Il primo, quello che colpisce l’occhio entrando, è sicuramente la mastodontica cappa che sovrasta i fuochi: è una sorta di “baldacchino” lapideo, un tempo completamente affrescato, con tre archi e tre oculi, che ospita al di sotto di esso i fuochi alimentati dalle cosiddette “fornacelle”, ossia dei piccoli vani di metallo chiusi da uno sportellino in cui si ponevano i carboni per produrre il calore. Il calore veniva poi convogliato in un’apertura posta al di sopra, dove veniva appoggiato lo strumento (pentola, griglia etc) per cuocere le pietanze. I fuochi sono inseriti in un corpo riccamente decorato a maioliche, che si estende su di un lato: al centro, fra i fuochi, vi è un grosso bollitore.
Il colore non manca di certo in questo ambiente, in quanto spicca sulle pareti una successione di piastrelle gialle e verdi, probabilmente frutto di riutilizzo: ciò è dimostrato da due fattori. Il primo è che sono presenti poche piastrelle azzurre, e non verdi, poste sulla parte sinistra dei piani di lavoro, segno che le verdi erano finite; il secondo fattore è la disposizione delle piastrelle stesse, che non è uguale nell’ambiente. Se si prende come riferimento la parete di fondo, si nota la seguente disposizione: partendo dall’alto si ha una prima fila gialla, una seconda verde, due file con piastrelle alternate giallo-verdi, una fila tutta verde, altre due alternate e un’ultima tutta gialla. Tale schema non si ripete però sulle altre pareti, a dimostrazione del fatto che la decorazione fu “adattata” alla disponibilità del materiale. Quel che è certo è che esse erano poste in corrispondenza dei tavoli a parete utilizzati come appoggio per un motivo ben preciso: pare infatti che tale combinazione di colori attirasse le mosche e gli insetti, che vi si posavano sopra evitando quindi di posarsi sul cibo e di contaminarlo.
Questa protezione colorata ante litteram funge quasi da zoccolatura ad un grande affresco, posizionato su una delle pareti di fondo, raffigurante una Deposizione del Cristo circondato da monaci certosini. È questo un tema o un argomento certamente insolito per una cucina, ma bisogna considerare il fatto che in realtà solo in un secondo momento questo ambiente, grazie agli stravolgimenti settecenteschi, fu adibito a cucina: fino ad allora, infatti, le ipotesi dicono venisse utilizzato come refettorio, il che spiegherebbe la presenza, e la successiva scialbatura (imbiancata data con una mano di calce spenta), dell’affresco, fatta eseguire probabilmente per preservarlo dai fumi e dai grassi della cucina.
All’adattamento dell’ambiente al nuovo utilizzo può essere imputato anche lo stato di conservazione della decorazione parietale e del soffitto, diviso da essa in spicchi e riquadri, ma è di difficile lettura, e si conclude con un altro affresco sulla parete dirimpetto, reso purtroppo mutilo da una grande finestra.
La cappa citata in apertura di articolo contribuisce anche a suddividere idealmente l’ambiente in due vani: il primo vano, dominato dall’affresco della Deposizione, presenta anche un tavolo di pietra al centro, un po’ come le moderne isole che si vedono nelle cucine.
Nel secondo vano, al di sotto della finestra, sono dislocati altri due tavoli in pietra, questa volta posti lungo le pareti e situati in prossimità di una piccola pendenza del suolo che conduce ad una piccola intercapedine nella parete. È questa forse la particolarità più eclatante di quest’ambiente: il tavolo alla sinistra di questa pendenza, quello posto esattamente al di sotto della finestra, si dice servisse a pulire e sfilettare il pesce, e ciò si evince da un piccolo solco, presente solo in questo tavolo, scavato nella pietra del piano, che convogliava interiora e sangue in un minuscolo canale che conduceva all’intercapedine. La vicinanza di una fonte di luce avrebbe consentito di effettuare tali operazioni con maggiore precisione, e la prossimità di un piccolo lavabo e alcune vaschette avrebbe fatto il resto.
Nella cucina della Certosa di Padula si dice sia stata preparata una gigantesca frittata di mille uova in onore dell’imperatore Carlo V, fermatosi a Padula di ritorno dalla battaglia di Tunisi.
Sitografia
https://altritaliani.net/article-la-certosa-di-san-lorenzo-a-padula/
http://www.ambientesa.beniculturali.it/BAP/?q=luoghi&luogo=Monumenti&provincia=Salerno&comune=Padula&src=&ID=43
https://travel.fanpage.it/lincredibile-bellezza-della-certosa-di-padula/
https://storico.beniculturali.it/mibac/opencms/MiBAC/sito-MiBAC/Luogo/MibacUnif/Luoghi-della-Cultura/visualizza_asset.html?id=155601&pagename=157031
https://storico.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Eventi/visualizza_asset.html_2146601842.html
CERTOSA DI PADULA: IL CHIOSTRINO DEL CIMITERO
A cura di Stefania Melito
Introduzione: il chiostrino del Cimitero
Proseguendo nell'immaginario percorso interno alla Certosa di Padula, dopo aver trattato del Vestibolo delle Campane e della particolarissima tavola del Sacrista, ci si sofferma sugli ambienti attigui ed immediatamente successivi che affacciano sul chiostrino del Cimitero antico.
Il chiostrino del Cimitero Antico
Uscendo dal Vestibolo delle campane ci si immette in un piccolo chiostrino interno della Certosa di Padula, detto chiostrino del Cimitero antico, in quanto era lì che venivano sepolti i monaci prima che lo spazio a disposizione si esaurisse obbligando la comunità monastica a ricercare un nuovo luogo per accogliere i confratelli morti. Tale destinazione d’uso fu in vigore, più o meno, fino alla metà del ‘500.
La questione della sepoltura è stata fin dall’inizio piuttosto spinosa per l’Ordine, in quanto i certosini all’inizio si configuravano come un Ordine piuttosto povero, i cui “avamposti” religiosi erano spesso collocati in luoghi difficili da raggiungere. A questo si aggiungeva il fatto che le Regole dell’Ordine stabilivano che vi fosse un unico cimitero nelle certose, ove dovevano essere sepolti non solo i monaci, ma anche i conversi, i parenti di costoro, e finanche i pellegrini che trovandosi in Certosa per visite devozionali morivano improvvisamente. Si capisce bene che in questo modo spesso si venivano a creare situazioni di “sovraffollamento”, soprattutto in periodi di carestie o pestilenze, che unite al divieto di seppellire insieme monaci e laici obbligavano i conversi a trasportare fuori dai confini dei territori della Certosa i laici morti per poterli seppellire. Visto che i possedimenti delle certose erano piuttosto estesi, al converso non restava altro che affrontare un viaggio anche piuttosto lungo per poter dare degna sepoltura al cadavere. Questa situazione piuttosto difficile fu risolta, dopo accorate suppliche da parte dei monaci della Certosa di Trisulti, nel 1300 da Bonifacio VIII con la Laudabilis vestrae religionis honestas, che permetteva nelle certose la realizzazione di due cimiteri, uno per i monaci e uno per i laici che vi morivano[1]. Come consuetudine dell’Ordine, la sepoltura del monaco avveniva nella nuda terra, con solo una piccola croce di legno sopra senza nome. Il corpo così si decomponeva facilmente, permettendo così il riutilizzo dello stesso spazio per un altro confratello, ai piedi del quale venivano poste le ossa del precedente.
Il piccolo spazio del cimitero antico venne utilizzato come luogo di sepoltura fino a quando fu possibile, ossia come detto fin verso la metà del ‘500, quando al suo posto venne commissionato il cimitero nuovo nel Chiostro grande, la cui committenza si dice fosse affidata a Cosimo Fanzago. In seguito poi, visto anche il suo ruolo di ambiente di raccordo fra la chiesa, il refettorio e le cucine che su di esso affacciano, il cimitero antico fu trasformato nel corso degli ammodernamenti settecenteschi in un semplice chiostro interno: i lavori furono affidati a Domenico Vaccaro, nome di spicco dell’epoca, il che dimostra la floridezza economica che godeva l’Ordine.
Il chiostrino interno oggi consta di un piccolo spazio centrale quadrato diviso in quattro spicchi, con al centro un obelisco sormontato da una croce. Tutt’intorno corre il porticato, formato da grandi archi chiusi in basso da una balaustra decorata e traforata. Gli archi sono intervallati da quattro aperture basse, affiancate da due paraste lisce con capitelli sostituiti da mascheroni e doccioni, che presentano al disopra dell’architrave una nicchia, oggi purtroppo vuota. Le aperture sono una in corrispondenza delle cucine, una in corrispondenza del refettorio e le altre negli altri due lati. Molto particolari sono i motivi che ornano le balaustre, tutti direttamente o meno riconducibili al tema della morte: clessidre, ossa, falci.
La Cappella del Fondatore
In posizione un po’ defilata, quasi alla fine di un piccolo corridoio, detto corridoio dei monaci, che veniva utilizzato dai religiosi per raggiungere la chiesa dalle loro celle e che affaccia sul chiostrino del cimitero, dirimpetto alla Sala del Capitolo vi è la Cappella del Fondatore, dedicata a Tommaso Sanseverino, il fondatore appunto della Certosa. La cappella fu costruita quasi cento anni dopo la morte del Sanseverino, intorno alla metà del XV secolo, e consta di un piccolo vano quadrato di spartana eleganza, che fu poi successivamente arricchito con un altare dal paliotto a scagliola. A destra dell’altare vi è il monumento funebre al Sanseverino.
Si tratta di una sorta di piccola arca in pietra di Padula minimamente decorata su cui è ritratto Tommaso Sanseverino semisdraiato, in posizione di riposo, vestito con l’armatura e con la spada al suo fianco. Sembra quasi che si sia appoggiato un momento a terra prima di cominciare un’altra battaglia.
L’espressione serena, quasi rilassata, e lo sguardo perso lontano ben si accordano all’altorilievo de La Madonna con Bambino che lo sovrasta, opera probabilmente di Domenico Napoletano, scultore e <<plasticatore[2]>> molto attivo nel cantiere di San Lorenzo Maggiore a Napoli, anche se in un primo tempo era stata attribuita a Diego de Siloè[3], scultore catalano cinquecentesco attivo a Burgos e, per un breve periodo, a Napoli e a Maiori. L’altorilievo è inserito in una cornice architettonica con due paraste decorate ai lati. Sulla sommità vi è lo stemma della famiglia Sanseverino, un elmo che sovrasta uno scudo attraversato orizzontalmente da una banda rossa e circondato da giragli fitomorfi.
La Certosa di Padula: il Refettorio
Ritornando nel chiostrino interno e proseguendo verso le cucine si apre lo scenografico ingresso del refettorio, ambiente aggiunto successivamente. Esso era utilizzato prevalentemente nei giorni festivi e durante la Quaresima, quando nell’enorme ambiente i monaci si riunivano per mangiare in rigoroso silenzio, mentre un confratello dall’alto di un pulpito recitava le letture.
Il pavimento riprende lo stesso schema tridimensionale degli altri ambienti della Certosa di Padula, ma è interrotto al centro da un grande intarsio lapideo, che divide in due la stanza, intorno alla quale corrono gli stalli lignei, ben 61, davanti ai quali erano collocati i tavoli ove mangiavano i religiosi. Ai due lati si aprono due porte, sormontate da una ricca architrave: l’una, quella di sinistra, conduce in un piccolo chiostrino interno, di dimensioni ridotte, che conserva in un angolo un mosaico di piastrelle raffigurante Esculapio e il serpente. Probabilmente proviene da un altro ambiente della Certosa che nel corso dei vari ammodernamenti è andato perduto, ma quello che colpisce è la ripetizione del tema. Infatti già sulla cinquecentesca fontana collocata all’esterno della Certosa, nella corte esterna, è presente il caduceo, ossia il bastone con i due serpenti aggrovigliati intorno, ancora oggi simbolo della medicina, e qui si ritrova una raffigurazione del dio stesso della medicina. Evidentemente il richiamo all’immortalità, o semplicemente alla capacità di guarigione, magari anche in chiave metaforica oltre che fisica, era un tema decorativo abbastanza diffuso, tale da farlo prediligere ad altri soggetti di matrice religiosa.
L’altra porta dirimpetto a questa conduce al pulpito, ove come detto si recava un confratello durante i giorni festivi o la Quaresima per effettuare le letture a voce alta. Esso, sorretto da un’aquila, presenta una forma rotondeggiante piuttosto morbida, movimentata lungo tutta la superficie; in alto una sorta di cortina marmorea chiude un arco su cui campeggia un angelo sormontato da un architrave.
Il refettorio della Certosa di Padula presenta una volta a botte arricchita da stucchi di chiara matrice settecentesca e da cornici, purtroppo oggi vuote, che racchiudevano affreschi e dipinti spogliati durante le razzie napoleoniche. L’unico superstite è il grande olio su muro della parete di fondo raffigurante Le nozze di Canaan, eseguito da Alessio D’Elia, allievo del Solimena, nel 1749, in cui compare la sua firma, costituita dalle sue iniziali intrecciate, in basso a sinistra[4].
Note
[1] De Leo P., “L'Ordine certosino e il papato dalla fondazione allo scisma d'Occidente”, Rubbettino 2003, pag. 143.
[2] https://www.treccani.it/enciclopedia/domenico-napoletano_(Dizionario-Biografico)/
[3] http://www.culturaitalia.it/opencms/it/contenuti/percorsi/percorso139/index.html
[4] https://www.treccani.it/enciclopedia/alessio-d-elia_%28Dizionario-Biografico%29/
Bibliografia
De Leo P., “L'Ordine certosino e il papato dalla fondazione allo scisma d'Occidente”, Rubbettino 2003
Allegro, “La Reggia del silenzio”, Roma 1941.
Pica, “La certosa di Padula”, Salerno 1969.
Sitografia
Wikimedia Commons
https://www.treccani.it/enciclopedia/alessio-d-elia_%28Dizionario-Biografico%29/
https://www.treccani.it/enciclopedia/domenico-napoletano_(Dizionario-Biografico)/
http://www.culturaitalia.it/opencms/it/contenuti/percorsi/percorso139/index.html
http://www.polomusealecampania.beniculturali.it/index.php/gli-ambienti-padula/35-certosa-di-san-lorenzo-padula-gli-ambienti/160-refettorio-cucine-cantine
http://www.italiavirtualtour.it/dettaglio_member.php?id=97917&sid=97921
LA CASINA VANVITELLIANA DI BACOLI
A cura di Stefania Melito
Collegata alla terraferma da una romanticissima passerella, sulle acque del Lago Fusaro nel comune di Bacoli in provincia di Napoli, è ubicata la Casina Vanvitelliana, un piccolo capanno di caccia dei Borbone.
Situato ad ovest dei Campi Flegrei, il lago Fusaro o Acherusio faceva in origine parte del golfo su cui affacciava quella parte del territorio campano, tant’è che in epoca greca e romana il luogo era sfruttato commercialmente per l’allevamento delle ostriche; in seguito, più o meno nel I secolo d.C., a causa delle scarse maree si formò una sottile lingua di sabbia, che a mano a mano isolò il lago dal mare, formando dapprima una laguna e poi questo lago.
Il nome Fusaro deriva dalla parola latina “infusarium”, ossia bagnare. Dopo i greci furono gli Angioini a sfruttare questo luogo, bonificandolo dapprima grazie alla costruzione di un canale che rimettesse in circolo le acque collegandole a quelle marine, evitandone la stagnazione, e poi utilizzando lo specchio d’acqua per mettere a macerare la canapa. Questo luogo quindi si trasformò da palude Acherusia, com’era conosciuto per la somiglianza delle sue acque con la porta dell’inferno, a infusarium, a lago Fusaro. Le mutate condizioni climatiche e la presenza costante di acqua stagnante favorirono inoltre la rapida espansione della vegetazione, formando una fitta boscaglia intorno alle sponde lacustri e configurandolo come un piccolo paradiso, avvolto da un’atmosfera sognante. Di questo luogo e della sua atmosfera si innamorò perdutamente Carlo di Borbone, che lo acquistò intorno alla metà del ‘700 con l’idea di costruirvi un Casino di caccia e pesca sul modello di Stupinigi, opera di Juvarra e solo di qualche decennio precedente.
Sfruttando una sorta di naturale “base” di granito posta al centro del lago, Luigi Vanvitelli, al quale venne affidato il progetto, immaginò una vera e propria riserva personale di caccia, di cui la Casina fosse il naturale completamento. L’incarico fu però portato a termine sotto Ferdinando IV di Borbone dal figlio di Vanvitelli, Carlo, nel 1782, che si ispirò alla palazzina di caccia piemontese per la costruzione dei volumi alleggeriti da grandi superfici vetrate.
La struttura è costituita da un porticato che gira intorno ad una villa circolare, immaginata come un insieme di tre grandi corpi ottagonali che si intersecano tra di loro per poi restringersi in una forma a pagoda e culminare nella sala circolare centrale, che poggia sui tre corpi sottostanti e che prende luce da due serie di finestre. Intorno alla struttura, un’articolata serie di terrazze che ricalca l’andamento dei corpi di fabbrica.
Gli ospiti approdavano con piccole imbarcazioni davanti alla Casina: all’interno spiccava la grande Sala Circolare del pianterreno, utilizzata per le feste e i banchetti ed impreziosita da un grande tavolo a forma di conchiglia; salendo al primo piano, invece, luogo riservato ai sovrani o agli ospiti di prestigio, si incontrava la cosiddetta Sala delle Meraviglie, ossia la grande sala del primo piano impreziosita dal Ciclo delle Stagioni di Philiph Hackert, di cui restano soltanto i bozzetti, che rappresentano per ognuna delle stagioni una località campana: la Primavera con il pascolo nella valle del Volturno, con veduta del Matese; l’Estate con la mietitura a S. Leucio; l’Autunno con la vendemmia a Sorrento, e l’Inverno con un campo di caccia a Persano. Il ciclo pittorico, che ornava il primo piano, fu immaginato per attuare un “gioco prospettico”, ossia l’alternanza fra i paesaggi dipinti e le vedute reali che si potevano contemplare dalle grandi finestre, che erano intervallate appunto da questi grandi quadri, purtroppo non più in loco in quanto rubati nel 1799. Completava il ciclo dei dipinti un ritratto di Ferdinando IV a caccia, oggi conservato a Capodimonte. Le pareti erano inoltre tappezzate da raffinata seta di S. Leucio. Nel corso dei secoli la Casina ha avuto vari ospiti illustri: Mozart, Gioacchino Rossini, lo Zar di Russia, Francesco II d’Austria e, negli anni ’50, l’allora Presidente della Repubblica Luigi Einaudi.
Oggi l’interno della Casina è sicuramente più semplice di come era stato immaginato un tempo, anche se non manca di suggestione: il piccolo studio interno con le riproduzioni di costumi d’epoca, il salotto con il camino in marmo, il lampadario d’epoca e le fotografie di chi, nel corso degli anni, ha voluto immortalare la bellezza di questo piccolo gioiello. È stato utilizzato per matrimoni, feste e convegni in generale ma versa, nonostante un restauro compiuto nel 2000, in cattive condizioni, in quanto alcuni intonaci, sia esterni che interni, sono scrostati. È solo grazie all’opera di alcuni volontari che è possibile ammirare ancora questa costruzione.
Sulla casina circola una leggenda metropolitana, ossia che sia stata utilizzata per girare alcune scene del film “Pinocchio” di Comencini del 1972; è una notizia falsa, in quanto la location del film fu il lago di Martignano in provincia di Roma, ma dimostra quanta suggestione questa casina, collegata alla riva da un pontile in legno, riesca a trasmettere.
Sitografia
http://napoli.fanpage.it/la-casina-vanvitelliana-lago-del-fusaro-bacoli/
https://internettuale.wordpress.com/2016/08/05/la-casetta-di-pinocchio-a-bacoli-capolavoro-tardobarocco-di-vanvitelli/
http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Eventi/visualizza_asset.html_1794108899.html
LA CERTOSA DI SAN LORENZO A PADULA PARTE IV
A cura di Stefania Melito
Introduzione
Il precedente articolo si era soffermato sulla chiesa, cuore dell’attività spirituale della Certosa di San Lorenzo in Padula. Proseguendo nella trattazione si affronteranno invece le sale immediatamente attigue ad essa, ossia la Sala del Tesoro e la Sala del Capitolo, introdotte dal Vestibolo delle Campane.
Il Vestibolo delle campane e la tavola del sacrista
Uscendo dalla chiesa si percorre uno stretto passaggio tra l’ultimo stallo del coro dei Padri e il muro perimetrale dell’aula ecclesiastica, ove spicca uno degli elementi forse più suggestivi di tutta la Certosa di San Lorenzo a Padula, ossia una sorta di schema riassuntivo dell’attività giornaliera di ogni singolo monaco, rimasto intatto dall’ultimo giorno di permanenza dei monaci dopo il 1866.
Tale manufatto, detto la tavola del sacrista e oggi inserito in una bacheca di vetro, era in pratica un rettangolo che riproduceva la pianta del Chiostro grande, del Refettorio e della chiesa, su cui era segnato sia il nome del monaco che in quella giornata avrebbe dovuto recitare la predica nel Refettorio sia i nomi di coloro che avrebbero recitato il Sacro Ufficio in solitudine nelle proprie celle.
Tramite dei chiodi in legno sulla cui testa era incisa una lettera, infatti, veniva segnata la posizione di ogni religioso, che semplicemente guardando quello schema e senza alcun bisogno di infrangere la clausura, avrebbe conosciuto i “compiti del giorno”.
Superato ciò si arriva in una stanza quadrata, la cosiddetta “Sala o Vestibolo delle campane”, sul cui soffitto sono ancora visibili i fori da cui pendevano le grosse corde che azionavano le campane[1], mentre lungo le pareti corrono alcuni stalli. Questa sala, detta anche Colloquio, era uno dei pochi ambienti ove i monaci potessero parlare una volta alla settimana.
Sul pavimento, che presenta lo stesso motivo a gradini tridimensionali della chiesa, spicca però una cosa, ossia una lastra di pietra che ricorda una famiglia illustre, la famiglia Bigotti di Sala Consilina, paese vicino Padula.
Circondata dalla scritta HOC OPUS F.F.D. ANTONI ARCHIPSBIT. TERE SALE PANDOLPH IOHES ANTONI E IOHES D BIGOCTIS, tale lastra tombale tramanda il nome di questa famiglia e di coloro che furono dei benefattori per la Certosa, tanto da meritarsi il privilegio di essere sepolti al suo interno. Non a caso si parla di privilegio, perché oltre al fondatore (Tommaso Sanseverino) ed alla menzione di una delle famiglie nobili di Padula (i Cardona) nessun’altra sepoltura di famiglia è presente in Certosa. Tale privilegio, il cosiddetto “Jus Sepeliendi”, venne probabilmente accordato in quanto i Bigotti, strettamente legati ai certosini di Padula, donarono dei terreni su cui venne poi edificata parte della Certosa di San Lorenzo[2]. Originariamente pare che questa lastra facesse parte di una cappella databile più o meno intorno al ‘400, detta di San Lorenzo, di proprietà della famiglia; in seguito poi agli ampliamenti settecenteschi tale cappella fu distrutta, ma i certosini conservarono la lastra tombale inserendola nella nuova pavimentazione.[3]
Lo stemma presente sulla lastra riporta uno scudo centrale su cui nella parte superiore è raffigurato un levriero (segno o di nobiltà della famiglia-i levrieri erano le “razze nobili” per eccellenza- o un riferimento al detto latino “cave canem”, ossia attenti al cane, riportato su molti mosaici parietali di Pompei) mentre nella parte inferiore compaiono tre bande trasversali. Com’era comune in questo tipo di rappresentazioni, al di sotto dello scudo gentilizio compaiono due cherubini.
Ritornando alla Sala delle Campane, la particolarità di quest’ambiente risiede nel fatto che esso è un crocevia, uno slargo da cui è possibile accedere a tre differenti ambienti: da sinistra a destra si aprono infatti la Sala del Tesoro, la Sala del Capitolo e l’ingresso al chiostrino del Cimitero antico.
La Sala del Tesoro
La Sala del Tesoro è un’aula unica rettangolare, con due file di armadi in noce decorati in radica di ulivo, i cui riquadri sono intervallati da paraste lignee scanalate con capitello corinzieggiante che ne movimentano la superficie; essi corrono su quasi tutto il perimetro della Sala e un tempo erano destinati ad accogliere e custodire gli arredi sacri e le preziose suppellettili della Certosa.
Nel libro di Thomas Salmon del 1763, Lo stato presente di tutti i Paesi, e Popoli del Mondo naturale, politico e morale, con nuove osservazioni, e correzioni degli antichi, e moderni viaggiatori, volume 23, sono descritti minuziosamente alcuni di questi preziosi arredi, tra cui si annoveravano “…un Paliotto per il Maggior Altare con de’ rilievi, disegno particolare del Solimeno, due vasi con fiori, pure di argento che non si conoscono gli eguali in Europa, e due Croci l’una d’argento e l’altra d’avorio, entrambe di rarissimo disegno, e lavoro”[4].. Menzione a parte merita il Crocifisso d’avorio, opera di piccole dimensioni che la leggenda vuole essere opera di Michelangelo (come il ciborio nella sacrestia) e che scampò alle razzie dei francesi, fortuna che non toccò purtroppo agli affreschi e alle decorazioni parietali, come suggeriscono malinconicamente le cornici vuote sulle pareti. Il crocifisso, dopo l’eversione ecclesiastica del 1866, fu donato alla Chiesa Madre di Padula, venendo però rubato dopo poco tempo.
Sulla volta dell’aula compare una cornice in stucco che ne percorre sinuosamente tutta la superficie e la scandisce in due grandi riquadri, separati da conchiglie allungate; restano le tracce, in uno di questi, di un grande affresco raffigurante La caduta degli angeli ribelli, definito sempre dal Salmon <<a fresco di buon pennello>>.
La decorazione continua ricoprendo interamente il soffitto a crociera, inglobando altri due riquadri presenti sulle pareti laterali e fondendosi con l’altare.
Preceduto da tre gradini che lo sopraelevano rispetto al pavimento a gradini tridimensionali, esso presenta al centro un paliotto in scagliola, mentre al di sopra si ergono due colonne che reggono una trabeazione: al centro, subito sopra l’altare, un riquadro bianco che doveva contenere un affresco o un dipinto su tela, che secondo il Salmon era una tavola del De Matteis, pittore cilentano di grande bravura[5]. Ai lati, in due nicchie, vi sono due statue, probabilmente due santi o due magistrati romani secondo alcune interpretazioni. Al sommo della cornice architettonica vi è probabilmente un Cristo in gloria preceduto da angeli, mentre seduti ai due lati della cornice vi sono due angioletti. Un tempo si accedeva a questa Sala mediante una porta situata alle spalle dell’altare maggiore della chiesa.
La Sala del Capitolo
Adiacente alla Sala del Tesoro è la Sala del Capitolo dei padri, un luogo che aveva una doppia funzione. La prima era connessa alla burocrazia, in quanto il Capitolo era il luogo ove i monaci si occupavano delle questioni inerenti all’amministrazione della Certosa di San Lorenzo: se la chiesa era il fulcro spirituale di tutto il complesso certosino, questa sala ne era il fulcro burocratico. Qui si eleggeva ad esempio il Priore, si ammettevano nuovi monaci all’Ordine e sempre qui si discutevano gli atti e gli adempimenti burocratici; non tutti i monaci potevano partecipare a queste riunioni, e sembra che il modo di dire “non avere voce in capitolo” derivi proprio da queste pratiche.
La seconda funzione era quella salvifica: qui infatti si potevano pubblicamente confessare i propri peccati, e ricevere la conseguente punizione in nome della capacità di redenzione propria della regola certosina: proprio per sottolineare questo concetto fu immaginato il programma decorativo sulla volta, che comprende La guarigione di un paralitico, La resurrezione di Lazzaro e La guarigione di un cieco.
Nell’ambiente, ad aula unica rettangolare absidata circondata da stalli lignei, spicca l’altare in pietra di Padula attribuito a Andrea Carrara, scultore padulese settecentesco di grande abilità che operò in Certosa sia come capomastro sia come professionalità singola, scolpendo anche alcuni elementi della facciata e alcune metope del Chiostro Grande. Interessante è su questo altare, che è situato su una sopraelevazione rispetto al pavimento della Sala e che ha ulteriori tre gradini al di sotto, la lavorazione della pietra, volutamente lasciata quasi grezza, che “costringe” ad avvicinarsi per svelare il motivo floreale che cela e che contrasta con le volute più lisce poste ai lati.
L’altare è sormontato dal dipinto Madonna con San Bruno e San Lorenzo, ascrivibile al XVIII secolo ed inserito in una cornice a stucco a dettagli dorati, uno dei pochi ad essere scampato alle razzie francesi.
Ai due lati dell’altare sono inseriti due medaglioni in stucco, l’uno raffigurante una donna in abiti religiosi con in mano una rosa, con molta probabilità Santa Rita, mentre l’altro, che ritrae una donna in lacrime su un teschio, potrebbe essere una rappresentazione della Maddalena penitente: tale doppia rappresentazione potrebbe alludere al perdono (Santa Rita viene anche chiamata la Santa del perdono) e al pentimento (la Maddalena). I due medaglioni sovrastano due porte: quella al di sotto della Vergine conduceva dirimpetto alla Cappella del Fondatore situata nel cimitero antico, mentre l’altra dirimpetto o era finta, quindi messa lì per motivi di simmetria con la precedente, o conduceva in un altro ambiente attiguo alla Sala del tesoro.
Sempre nello stesso ambiente, arricchito da stucchi settecenteschi e cornici purtroppo vuote, vi sono quattro statue (San Giuseppe, San Lorenzo, Tobia e l’angelo e San Giovanni) attribuite a Domenico Lemnico, scultore napoletano che operò moltissimo in ambito certosino fino al punto di prendere i voti, e che era allievo del Vaccaro.
Al di sopra dell’altare una cupola, inserita su una fascia marcapiano aggettante, dà slancio verticale a tutta la sala, ed inonda di luce naturale in maniera opportuna e scenografica l’altare.
Note
[1] Secondo alcuni, i monaci preannunciavano il loro ingresso in chiesa proprio attraverso i rintocchi delle campane.
[2] Dalle ricerche di Michele Cartusciello, direttore del Museo del Cognome di Padula. http://museodelcognome.it/
[3] Cfr. M.T. D’Alessio, "La sepoltura della famiglia Bigotti nella Certosa di Padula".
[4] G. Lapadula, “La Certosa di San Lorenzo”, Matonti editore, 2009, pag. 50
[5] Paolo De Matteis (Piano Vetrale, 9 febbraio 1662 – Napoli, 26 luglio 1728) è stato un pittore italiano allievo di Luca Giordano, attivo in particolare nel Regno di Napoli tra la fine del Seicento e l'inizio del Settecento. https://www.museionline.info/pittori/paolo-de-matteis
Bibliografia
M.T. D’Alessio, La sepoltura della famiglia Bigotti nella Certosa di Padula.
M.T. D’Alessio, La Certosa di San Lorenzo a Padula, Naus, 2018.
Salmon, Lo stato presente di tutti i Paesi, e Popoli del Mondo naturale, politico e morale, con nuove osservazioni, e correzioni degli antichi, e moderni viaggiatori, volume 23, Albrizzi, Venezia 1763.
Lapadula, La Certosa di San Lorenzo, Matonti editore, 2009.
Strocchia, Le carte dell'Archivio della Certosa di Padula: inventario analitico delle carte del Fondo Corporazioni religiose soppresse nell'Archivio di Stato di Napoli, Laveglia Carlone, 2009.
M.C. Gallo, Tipi e forme degli ammodernamenti barocchi nel Salernitano, Laveglia, 2004.
Sitografia
https://www.museionline.info/pittori/paolo-de-matteis
http://www.polomusealecampania.beniculturali.it/index.php/la-certosa-padula
Fotografie proprie
LA CERTOSA DI PADULA PARTE III: LA CHIESA
A cura di Stefania Melito
Introduzione
Nei precedenti articoli sulla certosa di Padula si sono tratteggiati la corte esterna, ossia il primo luogo che si offre allo sguardo del visitatore, e il Chiostro della Foresteria, uno dei primi ambienti da cui parte il percorso all’interno del monumento, ovvero un insieme di chiostro e soprastante loggiato con funzioni di accoglienza di ospiti illustri e rappresentanza del potere certosino. Nel corso del presente articolo si parlerà invece del fulcro spirituale del complesso cenobitico: la chiesa.
La porta della chiesa
Come detto in precedenza, la porta della chiesa affaccia sul Chiostro della Foresteria, ed è una delle pochissime parti originali trecentesche giunte fino a noi. Si tratta di un ampio portone a due battenti realizzato in cedro del Libano, legno molto utilizzato per il suo significato biblico di maestà e bellezza, datato 1374 e decorato da un complesso sistema di formelle, con cornici a rilievo, che corrono lungo tutta la superficie; le scene al loro interno spesso presentano motivi fitoformi, che continuano in maniera ininterrotta da una formella all’altra. All’interno delle cornici sono presenti delle lettere gotiche, che su di un battente compongono la scritta Ave Maria Gratia Plena, mentre sull’altro Cartusiensis Ordinis. Alle lettere sono abbinate le rappresentazioni di episodi mariani ed episodi della vita e del martirio di San Lorenzo. La porta secondo alcuni è opera di Antonio Baboccio da Piperno, abate scultore e orafo attivo nel Meridione in quel periodo, anche se la prima opera certamente attribuibile a lui è datata 1407 ed è il portale maggiore della cattedrale di Napoli. La porta è inserita in un portale marmoreo che reca gli stemmi della famiglia Sanseverino, databile tra la fine del ‘400 e i primi del ‘500, e che ai lati presenta una decorazione a candelabri mentre alla sommità una scritta recita “GLORIA IN EXCELSIS DEO ET IN TERRA PAX HMNB”. Tale portale si inserisce nel clima generale di rinnovamento artistico che investe Napoli e che, grazie ai rapporti di potere dei certosini con il mondo esterno, arriva fino a Padula: la realizzazione del portale infatti sembrerebbe opera della bottega di Tommaso Malvito, scultore comasco allievo del Laurana attivo dal 1484 a Napoli e autore di varie opere nella capitale partenopea, oltre che direttore dei lavori della cappella Carafa del duomo napoletano, la più importante di tutte in quanto destinata ad accogliere le reliquie di San Gennaro. La decorazione a candelabre presente nella cappella sembra infatti stilisticamente affine a quella del portale certosino.
La chiesa
Una forte scenografia barocca su un impianto gotico è la prima cosa che si nota entrando in chiesa, insieme alla presenza di un muro esattamente di fronte all’ingresso, con al centro una porta-grata, che divide in due l’aula e separa il primo ambiente da un altro situato al di là di essa.
La costruzione della chiesa della Certosa prende avvio dopo il 1321, anno in cui il nipote del fondatore della Certosa, Tommaso III, scrive al priore della Certosa, donandogli 12 once d’oro per la realizzazione della nuova chiesa in memoria del padre e del nonno. Sempre Tommaso III sarà colui che fonderà la chiesa di San Francesco a Padula nel 1380. Sono anni in cui si assiste, nel Vallo di Diano e nella vicina Napoli, ad una fiorente attività culturale testimoniata dalla circolazione di artisti tra province richiamati da committenze prestigiose; Tommaso Malvito citato in precedenza ne è un esempio, ma in questi anni il “nome di grido” è quello di Tino da Camaino, uno dei massimo scultori senesi, allievo di Giovanni Pisano e ideatore del progetto della Certosa di S. Martino e Castel Sant’Elmo, la cui attività è documentata a Napoli a partire dal 1323. Nel 1336 è autore, su commissione diretta dei Sanseverino, della tomba di Enrico Sanseverino (figlio del fondatore della Certosa Tommaso) a Teggiano, poco distante da Padula: è lecito quindi supporre una sua presenza anche nel vicino cantiere della Certosa, altro feudo dei Sanseverino, dove proprio in quegli anni si stava costruendo o terminando la chiesa. Cosa certa è che grazie a questa committenza illustre anche nel Vallo di Diano arriva il gotico, così fortemente voluto da Roberto D’Angiò, che prenderà appunto il nome di gotico angioino.
L’impianto della chiesa della Certosa di San Lorenzo è ad aula unica rettangolare con volte a crociera (un’altra delle rare testimonianze originali della struttura trecentesca giunte fino a noi) costolonate che si appoggiano su robusti pilastri laterali, mentre sul lato destro si aprono quattro cappelle a infilata. Il muro centrale succitato, coronato da una statua di San Lorenzo in gloria, divide l’ambiente in due zone: la prima, entrando, più piccola, che era riservata ai conversi, ossia coloro che si incamminavano sul sentiero della clausura, mentre la seconda, molto più grande, era riservata ai Padri, ossia i monaci a tutti gli effetti.
L’ultima parte è quella contenente l’altare, quindi si può dire che tutto l’ambiente sia suddiviso in tre aree quadrate.
Sulla struttura gotica si innesta un ammodernamento barocco che si esplica in precise scelte decorative: un ciclo veterotestamentario nel primo ambiente, caratterizzato da scene di Profeti e santi che si affidano a Dio o muoiono per Lui, contrappunta il ciclo del Nuovo Testamento nella parte riservata ai Padri, laddove emergono con chiarezza la bontà e la misericordia divine. Il ciclo pittorico è opera del palermitano Michele Ragolìa, pittore tardo cinquecentista attivo in costiera amalfitana, a Napoli e nel salernitano, come provano le 40 tele dipinte per il convento di Sant’Antonio a Polla, distante pochi chilometri da Padula.
Tale scelta iconografica deriva dalla volontà di rappresentare lo status delle due condizioni: quella dei conversi, ai quali bisogna rammentare che soltanto affidandosi pienamente a Dio saranno degni della loro scelta, e quella dei Padri, che a scelta compiuta godono della pienezza dell’amore divino. Ad ulteriore sottolineatura di questo concetto concorrono le scene raffigurate sui cori lignei dei due ambienti, databili ai primi anni del Cinquecento, rispettivamente 1503 quello dei Padri e 1507 quello dei conversi, fatti eseguire probabilmente sotto il priorato di Pietro Paolo Lumbolo da Gaeta (1493-1507) da tale Giovanni Gallo, artista interno all’ordine certosino. Sul coro dei Padri, formato da 36 stalli e dal programma iconografico più articolato, sono presenti infatti scene tratte dal Nuovo Testamento raffiguranti episodi della vita di Cristo dall’Annunciazione alla Pentecoste (sui dossali), scene di martirio di santi e apostoli (sugli inginocchiatoi) e le vite dei padri del deserto (sulla fascia mediana dei dossali), il tutto intervallato da iscrizioni, mentre sul coro dei conversi, più semplice, sono presenti scene di Santi, ritratti all’interno di architetture o paesaggi, e figure di Padri della Chiesa.
Nella parte della Chiesa riservata ai conversi trovano posto anche due altari addossati al muro divisorio (una simile scelta compositiva si ritrova nella Reale Certosa dell’Assunzione a Granada) sormontati da due busti di santi.
Questi due altari sono simili a quello, molto più imponente e maestoso, a doppia faccia con putti ed animali aggettanti alle estremità, che si trova nella parte riservata ai Padri, opera di Gian Domenico Vinaccia della seconda metà del 600. Gli altari sono stati eseguiti con la tecnica della scagliola, ossia un impasto di gesso unito a pigmenti naturali che imitava il marmo: la particolarità di questi altari, che ne testimonia la preziosità, risiede invece nell’utilizzo di pietre dure e madreperla al posto dei coloranti naturali, che danno vita a preziosi effetti virtuosistici di grande impatto.
Il pavimento presenta un motivo tridimensionale sui toni del bianco, del grigio e del nero tranne che nella parte riservata ai Padri, ove trova posto un ammattonato maiolicato settecentesco della bottega dei Massa, gli stessi che hanno realizzato le maioliche del chiostro di Santa Chiara a Napoli. Secondo Giovan Battista Pacichelli sul fondo della chiesa si trovavano un’ancona dipinta da Luca Giordano e vari dipinti del Farelli, oggi purtroppo andati perduti a causa delle spoliazioni napoleoniche, come si nota dai grandi riquadri tristemente bianchi delle pareti. Ai lati dell’altare due dipinti ottocenteschi rappresentano uno La morte di San Brunone e l’altro Il martirio di San Lorenzo, mentre dietro l’altare trova posto la tela con San Lorenzo e San Bruno ai piedi della Vergine con Bambino.
Accanto alla chiesa vi sono quattro cappelle laterali: il capitolo dei conversi, la cappella dell’Ecce Homo, la cappella del Crocifisso e la cappella delle reliquie, che conserva al suo interno un reliquiario a parete ove il Pacichelli attesta la presenza di “[…] un braccio di San Lorenzo, una spina della Corona del Redentore, la camicia intiera di San Carlo Borromeo e altre”. Sempre in questa cappella è presente un affresco a figura intera di San Giovanni Battista che però, a causa delle trasformazioni della chiesa successive al Trecento che hanno portato all’ampliamento della finestra posta in essa, risulta oggi letteralmente decapitato.
Dietro l’altare maggiore si colloca infine la Sacrestia, caratterizzata da grandi armadi in legno di noce e acero, che contenevano sia i paramenti sacri e sia le sculture di San Bruno, San Lorenzo, di San Michele Arcangelo e di una Madonna con Bambino, tutte opere di un certo Fra Stefano, converso della Certosa di Trisulti che pare le abbia realizzate nel 1686. La Sacrestia contiene un maestoso ciborio in bronzo, opera di Jacopo o Giacomo del Duca, che inizialmente si credeva fosse stato eseguito su disegno di Michelangelo Buonarroti, mentre studi successivi hanno smentito questa ipotesi. Il ciborio è situato su un altare che presenta un paliotto finemente decorato a scagliola.
Bibliografia
Braca A., Storia, arte e medicina nella Certosa di Padula: 1306-2006, pag. 155, in C. Carlone, Atti del convegno di studi, Padula, Monte San Giacomo, 28-29/01/ 2006
D’Anzilio M, Il monumento funebre Sanseverino nella pieve di Santa Maria Maggiore di Diano: alcune considerazioni, pp. 201-216, in Le Diocesi dell'Italia meridionale nel Medioevo. Ricerche di storia, archeologia, storia dell'arte, in Atti del Convegno, Benevento, Cerro al Volturno, Volturnia Edizioni 2019
Capano A, Il desertum vitae. Tra spiritualità, economia e ricerca della bellezza, pag. 189, in A. Baldini e A. La Greca, Uno scrigno per l’UNESCO. I siti, la cultura immateriale e le aree di interesse comunitario nel Cilento e nel Vallo di Diano. aspetti storico-antropologici, Torre Orsaia 2019
Restaino C, Le tarsie lignee della Certosa di Padula. Rapporti tra immagini e testi nel coro dei padri
ll Regno di Napoli in prospettiva, Volume 1, Arnaldo Forni editore
Redin G., Jacopo Del Duca, Il Ciborio Della Certosa Di Padula El Il Ciborio Di Michelangelo Per Santa Maria Degli Angeli
Sitografia
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http://www.polomusealecampania.beniculturali.it/index.php/amministrazione/amministrazione-trasparente/35-certosa-di-san-lorenzo-padula-gli-ambienti
http://www.culturaitalia.it/opencms/it/contenuti/percorsi/percorso139/index.html
http://www.academia.eu
LA CERTOSA DI PADULA PARTE II
A cura di Stefania Melito
Nel precedente articolo sulla Certosa di Padula si è descritta la cosiddetta corte esterna e la “Casa Bassa”, ossia quell’insieme di luoghi ove potevano accedere anche i laici; varcando la soglia del monumento, invece, ci si addentrerà maggiormente verso gli ambienti prettamente riservati alla clausura, trattando però quelle zone che fungevano da “cuscinetto” fra il mondo esterno e la zona cenobitica vera e propria.
La facciata della Certosa
La facciata, probabilmente tardo-cinquecentesca ma con rifacimenti barocchi, si presenta ripartita in due ordini.
Quello più in basso, scandito da massicce colonne doriche che danno vita a tre architravi che movimentano la fascia marcapiano fortemente aggettante, alterna quattro statue di santi a tutto tondo, allocate in nicchie, a finestre; le statue, opera di Domenico Antonio Vaccaro, rappresentano San Bruno, (il primo a destra guardando la facciata) nella sua qualità di fondatore dell’ordine dei certosini, San Paolo, San Pietro e San Lorenzo, il santo a cui è dedicata la Certosa. Al centro, preceduto da una scalinata affiancata da una balaustra con massicci pinnacoli, si trova l’ingresso al monastero vero e proprio. L’ordine superiore invece, più basso rispetto al primo, riporta lo stesso schema ma senza statue: sono presenti sulle finestre dei busti che rappresentano i quattro evangelisti, la Madonna e Sant’Anna, mentre sulla finestra centrale vi è una conchiglia. La facciata è coronata da una balaustra su cui si ergono dei pinnacoli: al centro svetta la statua della Madonna fra due angeli, inserita in una struttura architettonica ad arco coronata da una croce e introdotta, in basso, da un cartiglio recante la scritta “Felix coeli porta” e una data, 1723, mentre ai lati, collocati ad una certa distanza, sono presenti i busti della Religione e della Perseveranza.
Varcando l’ingresso vero e proprio al monumento si staglia in controluce una porta, coronata da una lunetta, che dà accesso al primo dei chiostri della Certosa, ossia il Chiostro della Foresteria. Ultimamente il percorso, a causa dell'epidemia da Covid-19, ha subito delle variazioni e non attraversa più la sala riccamente affrescata che un tempo era adibita a biglietteria.
Il Chiostro della Foresteria
Come dice il nome, si tratta di un chiostro sormontato da un ambiente al piano superiore in cui venivano accolti i pochi e sceltissimi “ospiti” della Certosa: il chiostro, tardo manierista, presenta al centro una fontana in pietra, montata su base ottagonale, che rappresenta un bambino che tiene in mano un delfino; è circondato da un portico con cinque archi per lato, affiancati da robuste colonne doriche, che in alcuni tratti mantiene l’originaria decorazione a putti. Su di esso affacciano la porta della Chiesa e la porta della Cappella dei Morti, mentre un corridoio laterale conduce in un altro ambiente.
Il pavimento, a spina di pesce, presenta un motivo ornamentale che ricalca gli angoli e la forma della fontana.
Una fascia marcapiano aggettante separa il primo ordine dal secondo, costituito da un loggiato con balaustra su cui si innestano le arcate, anche qui cinque: sono presenti, sulla parte esterna delle arcate, lacerti di affreschi che in alcuni casi hanno addirittura lasciato a nudo gli schizzi preparatori, mentre la parte interna si presenta decisamente in migliori condizioni. Tutto il loggiato infatti, caratterizzato da un soffitto cassettonato che corre lungo tutti e quattro i lati, è interamente affrescato a trompe l’oeil con scene di paesaggi silvestri e marini inseriti in finte quinte architettoniche, probabilmente seicenteschi, che rimandano ai paesaggisti napoletani e alla scuola di Domenico Gargiulo.
Sul loggiato si aprono le stanze che un tempo venivano destinate agli illustri ospiti, e una cappella privata, la cappella di Sant’Anna, un tripudio di stucchi e decorazioni settecentesche.
Al di sopra si eleva la torre campanaria con un orologio, e un tempo vi era anche un piccolo campanile a vela, che però crollò durante il terremoto del 1857 sfondando parte del tetto del corridoio del chiostro della foresteria.
L’orologio della torre campanaria ha una storia curiosa: viene descritto da Mallet nel 1857 come un “vecchio orologio inglese costruito 140 anni prima”, che segnava un’ora totalmente sbagliata; fu proprio l’ingegnere irlandese inoltre a regolarlo sull’ora corretta, essendo l’unico orologio presente in Certosa. Tale orologio fu poi rifatto intorno al 1930 da un artigiano di Lagonegro in Basilicata, ma fu eseguito di dimensioni spropositate rispetto al luogo ove doveva essere installato ed andò a sovrapporsi alla meridiana preesistente.
Come si può ben capire questi ambienti della Certosa di Padula assicuravano sia una sistemazione degna di un sovrano, sia addirittura una sorta di privacy, in quanto le funzioni religiose potevano essere officiate alla bisogna e seguite dagli ospiti senza doversi mischiare ai monaci e ai conversi che utilizzavano la sottostante chiesa per le funzioni. Non a caso si è parlato di sovrani: si narra infatti che Carlo V, di ritorno dalla battaglia di Tunisi in cui aveva sconfitto l’usurpatore Khayr al-Din detto il “Barbarossa”, decidesse di trasformare il viaggio di ritorno in una sorta di “passerella” trionfale o propaganda politica per la Penisola della durata di undici mesi, e così fece; toccò la Sicilia, e da lì risalì verso Napoli in direzione dei feudi dei principi a lui fedeli, tra cui i Ruffo, i Pignatelli, i Caracciolo e i Sanseverino (http://dprs.uniroma1.it/sites/default/files/337.html). A Padula sostò in Certosa, ove fu ricevuto con grandi onori e dove, narra la leggenda, volle condividere il modo di vivere e di mangiare tipico dei monaci: pare infatti che l’imperatore desse ordine di non preparare nulla di diverso dai pasti abituali, e così fu. Per il sovrano e il suo esercito fu allestito quindi un pantagruelico banchetto a base non di cacciagione o pietanze prelibate, ma basato su una semplice frittata, straordinaria solo nel numero di uova utilizzate per prepararla, ben mille. Da allora tutti gli anni, il 10 agosto, si ricorda questo aneddoto e si ripete la preparazione di quella frittata, in una gigantesca padella fatta costruire appositamente per contenere un numero così elevato di uova.
Bibliografia
Miccio G., Padula nel Rapporto di Robert Mallet e l’intervento attuale di restauro della Certosa di S.Lorenzo, in "Viaggio nelle aree del terremoto del 16 dicembre 1857. L’opera di Robert Mallet nel contesto scientifico e ambientale attuale del Vallo di Diano e della Val d’Agri", a cura di G.Ferrari, vol.1, (pp.313-330. Bologna 2004
Sitografia
http://dprs.uniroma1.it/sites/default/files/337.html
FOGLIANISE TRA DEVOZIONE E FOLKLORE
A cura di Stefania Melito
Introduzione
In provincia di Benevento, nel Parco Regionale del Taburno-Camposauro, esiste un piccolo paese chiamato Foglianise, che conta circa 3000 abitanti. Situato in collina, come tutti i paesi dell’entroterra beneventano offre una vista spettacolare su distese di ulivi secolari e sul monte Caruso, alto circa 600 metri e brullo in buona parte. La particolarità del luogo risiede nella presenza di un monumento fisico al suo interno, ossia un interessante eremo di formazione longobarda dedicato a San Michele Arcangelo, e nella tradizionale e singolare festa religiosa detta “Festa del grano”.
L’eremo di San Michele
L’eremo di San Michele è situato circa a metà del monte Caruso, ed è costruito aggrappato alla nuda roccia. Posizionato a ridosso di una naturale rientranza del monte e nelle vicinanze di una sorgente, si compone di una struttura a tre piani, di cui uno interrato, collegati tra di loro da una ripida scala a cui si ha accesso dopo una pronunciata salita.
L’eremo fu costruito dai Longobardi dopo che costoro si convertirono al cristianesimo grazie a San Barbato, ed aveva al suo interno una piccola chiesa, probabilmente a navata unica, il cui altare maggiore, in pietra del Gargano, era appunto dedicato a San Michele. Al di sotto della chiesa vi era una piccola cella in muratura che ospitava l’eremita o l’anacoreta che avevano il compito di custodire e sorvegliare la costruzione. La chiesa presentava degli affreschi di un ciclo cristologico opera probabilmente del Piperno, ma non si hanno notizie certe al riguardo. Quello che invece è noto è il fatto che tale eremo fosse meta di numerosi pellegrinaggi, tant’è che veniva concessa l’indulgenza plenaria a tutti coloro che lo visitavano.
L’eremo di San Michele a Foglianise ricalca la struttura compositiva dei santuari micaelici: è infatti un santuario rupestre situato nei pressi di una grotta o di una cavità, nelle vicinanze di una sorgente d’acqua e in un luogo elevato. È interessante notare come San Michele sia una figura abbastanza presente e “trasversale” nelle varie culture, in quanto di volta in volta veniva identificato in maniera diversa pur conservando gli stessi attributi iconografici, spada o lancia. È infatti il dio Odino della tradizione nordica, signore della guerra; è il dio Mitra, culto romano ed elitario precedente al Cristianesimo; è identificato con il dio Hermes, il messaggero degli dei nella mitologia greca; è inoltre presente sia nell’Ebraismo che nell’Islam come principe degli arcangeli.
L’eremo è stato in funzione fino al 1949, quando i bombardamenti alleati lo colpirono, devastandolo e rendendolo inagibile. Da allora fu chiuso al culto, fino a quando recenti lavori generali di restauro ne hanno permesso la riapertura.
La "Festa del Grano" si svolge tutti gli anni dall’8 al 18 agosto ed è una festa dedicata a San Rocco, patrono del paese. Fin qui nulla di speciale, se non fosse per il fatto che a Foglianise esiste un’antichissima tradizione, quella dell’intreccio della paglia, che ha raggiunto un tale livello di virtuosismo da consentire l’utilizzo di questi fusti di cereali per un qualcosa di totalmente incredibile.
La festa ha come particolarità infatti la sfilata dei monumenti, cioè la ricostruzione, fatta solo ed esclusivamente con paglia inumidita, dei monumenti d’Italia, perfetti in ogni dettaglio; ogni edizione è dedicata ad una Regione d’Italia. E così di volta in volta si è avuto l’omaggio alla Puglia con la ricostruzione delle chiese barocche pugliesi (ed. 2016), l’omaggio all’Italia intera con i Tesori d’Italia (ed. 2015) che sono stati esposti anche all’Expo, alla Regione Lombardia (ed. 2014), alla Calabria (ed. 2013) etc. Alla Campania è stata dedicata l’edizione 2012.
I “monumenti” sui “Carri di grano”, vere e proprie opere d’arte, sono costituiti da steli di grano e paglia inumiditi ed intrecciati in vario modo, in maniera tale sia da sostenere la struttura sia da poter riprodurre con una fedeltà sbalorditiva le caratteristiche dei monumenti della regione protagonista dell’edizione. Nelle contrade Prato, Barassano, Leschito, Palazzo, Frasci, Utile, Iannilli e Cienzi lavorano i cosiddetti “artisti della paglia”, i veri artefici della festa, che tramandano i segreti dell’intreccio. La tradizione vuole che la prima costruzione sia stata alta 25 metri, ma adesso le dimensioni si aggirano intorno ai 4/6 metri. Le strutture sono poste su delle piattaforme o dei carri e vengono trainate con cautela per tutto il paese, seguite sia dal resto della processione che dalla statua del Santo.
Sitografia
http://www.camministorici.it/it/user/11/punti-di-interesse/eremo-di-san-michele-arcangelo
https://sannio.guideslow.it/poi/eremo-san-michele-arcangelo/
LA CERTOSA DI SAN LORENZO A PADULA
A cura di Stefania Melito
Introduzione
Fondata nel 1306 da Tommaso Sanseverino conte di Marsico, la Certosa di San Lorenzo è chiamata così in onore del santo martirizzato sulla graticola, e la tradizione orale vuole che essa stessa sia stata costruita a forma di graticola; sorge in un’area a sud della provincia di Salerno, Padula, vicinissima alla Basilicata e alla Calabria. È frutto di continui rimaneggiamenti che ne hanno notevolmente ampliato e arricchito la struttura originale; il suo chiostro centrale, che copre un’estensione pari a due campi di calcio, è il più grande d’Europa. Nel 1998 l’UNESCO l’ha inserita tra i 55 siti italiani Patrimonio dell’Umanità.
L’articolo che segue è il primo di una serie dedicata a questo splendido monumento: in particolare, in esso si tratteggerà il contesto in cui la Certosa di San Lorenzo fu immaginata e posizionata e il primo ambiente che si incontra entrando, ossia la cosiddetta casa bassa o domus inferior.
Il contesto
La Certosa di San Lorenzo a Padula è ubicata nel Vallo di Diano, un piccolo altopiano campano situato ai piedi del monte Cervati che funge da zona di transizione fra la Campania e la Basilicata; in epoca preistorica tale conca era in realtà un mare, come dimostrano i sedimenti marini ritrovati sulle alture circostanti. Successivamente, nel Pleistocene, il mare divenne un lago per poi prosciugarsi completamente, facendo emergere le colline su cui sono stati fondati i 15 paesi che lo compongono. Il Vallo, per la sua posizione strategica, è stato inglobato al centro di un complesso sistema di vie di comunicazione: già in epoca romana, infatti, la zona era attraversata da un’importante via consolare, la “Regio-Capua”, che collegava appunto Capua con Reggio Calabria. Su questa strada, in pratica una diramazione dell’Appia, transitarono molte personalità illustri, come ad esempio Cicerone, che aveva una villa nei dintorni. Dall’epoca romana si succedettero poi una serie di dominazioni ed invasioni fino ad arrivare al 1100, quando sul luogo dove poi sarebbe sorta la Certosa fu costruito dai monaci benedettini un piccolo cenobio dedicato a San Lorenzo. Il motivo è semplice: così come succedeva in altre parti della Campania, anche qui si tentava di porre un argine alla diffusione dei monaci basiliani attraverso la costruzione di chiese e monasteri di rito latino, che si opponeva al rito greco praticato dai basiliani. Questi ultimi erano malvisti dai benedettini che, invece, potevano contare sul sostegno della casata francese dei D’Angiò, che favorì anche la nascita e la diffusione di altri ordini monastici come ad esempio i certosini, maestri nel bonificare zone paludose come all’epoca era Padula. Questo intreccio religioso si rispecchiava nella politica: i Sanseverino, ossia i maggiori feudatari del territorio valdianese, scelsero di fondare la Certosa di San Lorenzo proprio per ingraziarsi gli Angioini, approfittando di varie condizioni favorevoli quali, ad esempio, l’acquisto o la proprietà di vasti latifondi nei pressi del sito prescelto per la costruzione, che potessero garantire quindi il sostentamento dei monaci.
Nel 1306 Tommaso Sanseverino, conte di Marsico, diede avvio ai lavori di costruzione della Certosa. Due anni dopo fu nominato Gran Contestabile del Regno da Carlo lo Zoppo; la lungimiranza politica aveva dato i suoi frutti.
La Certosa di San Lorenzo: l'impianto
Tutte le Certose hanno il medesimo impianto compositivo: sono divise infatti in casa bassa o domus inferior, l’ambiente ove possono accedere anche i laici, e la casa alta o domus superior, riservata ai religiosi. Può essere vieppiù suddivisa in altre tre zone:
- la prima zona che si incontra, ossia la corte esterna, ove avvenivano gli scambi commerciali con il mondo circostante e che si presenta ruotata rispetto all’asse principale che collega prospetticamente tutti gli ingressi del monumento;
- una zona “di transizione”, che fungeva da cuscinetto fra il mondo esterno e la zona eremitica e che comprende sia gli ambienti ove i monaci potevano incontrarsi, come la chiesa o il refettorio, sia alcune zone ove anche i laici erano ammessi, come ad esempio la foresteria;
- la zona eremitica vera e propria, ove potevano accedere solo i monaci e che era consacrata al silenzio, alla solitudine e alla meditazione personale.
Le tre corti esterne (della spezieria, centrale e dei mulini, situate a destra nella pianta in alto) rappresentano il primo ambiente che si incontra appena varcato il sontuoso portone d’ingresso, che dà accesso ad una piccola galleria voltata a botte con lacerti di grottesche.
Questa sorta di corridoio, da cui poi si spalanca l’immensità della corte esterna chiusa in fondo dalla facciata barocca della Certosa a guisa di quinta scenica, presenta due ambienti ben distinti, ossia la spezieria (a sinistra) e l’alloggio per il custode (a destra). Un enorme portone veniva chiuso ogni sera dai padri certosini (un particolare del chiavistello è raffigurato nell'immagine sottostante), e gli armigeri lo sorvegliavano da una vicina torre.
La Spezieria
Oltrepassando la lunga facciata della Certosa in cui si apre il succitato portone e la facciata della piccola chiesa di San Lorenzo,
il primo ambiente che si incontra è la Spezieria, ossia il luogo ove i monaci della Certosa preparavano medicine ed unguenti che potevano essere somministrati, dietro modesta elemosina, anche a coloro che non facevano parte dell’ordine monastico, come ad esempio fornitori, esterni o ospiti. Una sorta di farmacia ante litteram. L’ambiente si compone di una stanza a pianterreno, oggigiorno adibita a bookshop, introdotto da un’anticamera stretta e lunga con un bell’affresco sul soffitto, probabilmente raffigurante Cristo che guarisce gli infermi. Ai due lati dell’affresco vi sono due scene in bianco e nero di attribuzione e soggetti ignoti, inseriti in un sistema di decorazioni a giragli fitomorfi.
La Spezieria vera e propria presenta invece, lungo tutte le pareti, delle scaffalature ove un tempo si sarebbero potuti osservare vasi di varie dimensioni (ne sono stati calcolati circa 45) contenenti medicamenti e unguenti, alcuni più semplici altri più complessi; il soffitto conserva tracce di affreschi con paesaggi.
Dalla stanza in questione si accede ad una loggia esterna con un piccolo porticato, ove spicca una fontana a conchiglia appoggiata ad una tartaruga, simbolo di longevità; una scala laterale conduce nell’appartamento dello speziale al piano superiore, purtroppo non visitabile, che dovrebbe conservare ancora tracce di decorazioni originali. Recentemente sono stati inoltre recuperati gli archivi contenenti l’inventario degli “ingredienti” utilizzati per comporre le medicine. Si trova di tutto, sia ingredienti tradizionali sia ingredienti “mitici”, come la polvere di smeraldo per curare gli occhi o la canfora usata come anafrodisiaco, ossia per tenere lontane le tentazioni della carne. Negli ingredienti tradizionali vi sono invece le piante e le essenze naturali, coltivate dai monaci stessi nel cosiddetto “Orto dei Semplici”: al momento della raccolta, tramite vari procedimenti, venivano poi estratti i principi attivi utilizzati nella preparazione di decotti e medicamenti, utili per curare patologie come l’artrite, la gotta etc.
Dalla Spezieria si accede ad una piccola corte esterna a forma di rettangolo, parallela alla principale.
Qui si trovavano i fienili e, disposte ad angolo retto, le stalle per gli animali da soma, la cui particolarità è il pavimento zigrinato per impedire che gli zoccoli degli animali scivolassero.
Al centro di questo ambiente è possibile notare come il pavimento sia lievemente riabbassato di pochi cm formando una sorta di piccola vasca. Una ipotesi sul suo scopo è che in tale “vaschetta” scorresse un piccolo rivolo d’acqua corrente che lavasse via gli escrementi degli animali, quasi “parcheggiati” sui lati dell’ambiente e intenti a mangiare. Tale supposizione è suffragata dalla presenza da una parte di una sorta di imbocco per un tubo e, dalla parte opposta, di quello che sembra un foro di scarico. Proseguendo oltre, nella piccola corte rettangolare si affacciano anche la fonderia delle campane e la peschiera, ossia uno spazio riempito di acqua dolce destinato ad allevare i pesci che poi finivano sulla tavola dei monaci.
Il secondo ambiente, situato esattamente difronte alla Spezieria, era l’alloggio per il custode; l’impianto attuale purtroppo non permette di capire quale fosse la sua disposizione originaria.
La corte centrale
Parallela a questa prima corte è la cosiddetta corte esterna, ossia un rettangolo fiancheggiato da corpi di fabbrica ai due lati lunghi, di cui quello di destra aggiunto successivamente rispetto all'altro. Sulla parte sinistra vi erano gli alloggi dei conversi, mentre sulla parte destra altri ambienti commerciali quali magazzini e fienili.
La corte è attraversata dall’acciottolato originale, scandito al centro da una sorta di viale che visivamente collega il portale l’ingresso alla corte esterna alla porta d’accesso al monumento vero e proprio e che indirizza l’occhio di chi guarda verso un ideale punto di fuga, costituito dalla porta d’ingresso al monumento. Solo di recente la pavimentazione originale è stata ripristinata, in quanto fino agli anni ’90 i detriti provenienti dalle ripetute inondazioni del torrente Fabbricato che scorre lì vicino avevano raggiunto un’altezza di due metri, coprendo completamente il pavimento della corte esterna e parzialmente gli edifici che in essa affacciano. Grazie ad un intervento sull’alveo del fiume si è inoltre scongiurato il pericolo di ulteriori tracimazioni di un torrente non particolarmente grande, ma che durante le piogge veniva ingrossato dalle acque e dai rivoli che scendevano dal paese soprastante.
Sul lato destro della corte esterna si trova una straordinaria fontana: non si sa chi sia l’autore, ma sicuramente era perfettamente a conoscenza della tipologia della grotta artificiale di cui l’espressione massima si trova nel Giardino di Boboli a Firenze.
Si tratta infatti di una complessa macchina scenografica: la fontana in questione si sviluppa in altezza ed è costituita da una cassa rettangolare chiusa da una spalliera e sormontata da una sorta di struttura a pigna, metà in pietra e metà in breccia, inserita in una nicchia profonda anch’essa in brecciolino dove ancora sono evidenti tracce di decorazione ottenuta con i gusci vuoti di molluschi quali le cozze.
La fontana si trova inserita in un arco a tutto sesto ai cui lati vi è una coppia di paraste lisce affiancate che si riuniscono alla base in un piedistallo da cui emergono due fontanelle con mascheroni. L’arco è inserito in una struttura coronata da una balaustra lapidea con ai lati esterni due pinnacoli conici, la raffigurazione di due conversi, altri due pinnacoli e San Lorenzo al centro, come dimostra l’attributo della graticola presente al suo fianco.
Sulla spalliera vi è la raffigurazione di due leoni posti dorso a dorso intenti a sbranare l’uno un vitello, l’altro un toro, iconografia molto diffusa (i leoni) anche se inconsueta (non si capisce bene il motivo della presenza del toro);
vicino al leone di destra vi sono due serpenti di fronte, probabile riferimento all'arte medica di cui i certosini erano maestri. Un’ipotesi sulla loro presenza riguarda infatti l’allusione ai due serpenti che si intrecciano sul caduceo, il bastone che è il simbolo di Esculapio, dio greco della medicina.
Al centro della spalliera vi è una formella piuttosto abrasa, che indica la presenza di una decorazione fitomorfa, forse un fiore.
L’ultima corte, quella più a destra, era la cosiddetta corte dei mulini, su cui affacciavano altre attività produttive. Attualmente non è visitabile in quanto ospita parte degli uffici della Comunità Montana, ma ricalca in pieno le altre due corti. L’unica differenza è che dalla pianta si evince che sia quadrata anziché rettangolare.
Nelle prossime uscite si tratteranno gli ambienti interni che conducono alla zona eremitica vera e propria.
BIBLIOGRAFIA
Terre Lucane. Frammenti di storia e di civiltà lucana osservati nel più ampio quadro storico meridionale e nazionale, Booksprint edizioni, 2016
G. Alliegro, La reggia del silenzio: cenni storici ed artistici della Certosa di San Lorenzo in Padula, A.G.A.R., 1963
SITOGRAFIA
https://cartusialover.wordpress.com/tag/spezieria/
http://www.polomusealecampania.beniculturali.it/index.php/la-certosa-padula
IL DUOMO DI AVELLINO
A cura di Stefania Melito
Introduzione
La Cattedrale dedicata all'Assunta e ai Santi Modestino, Fiorentino e Flaviano è altresì nota come Duomo di Avellino. E' uno degli edifici religiosi più importanti di Avellino e della sua provincia, e sorge nel punto più alto della città; la sua costruzione risale al 1132, anche se i lavori furono completati nel 1166. La committenza del Duomo di Avellino ha una storia particolare. Innanzi tutto si tratta di un edificio che ha subito numerosi rimaneggiamenti nel corso dei secoli, che ne hanno profondamente stravolto l'impianto originario, a cominciare dall'orientamento della chiesa, la cui facciata un tempo, come di consuetudine, era rivolta ad est mentre ora è rivolta ad ovest. Prima della sua costruzione, infatti, c'era un'altra chiesa, la chiesa madre di Santa Maria, sede vescovile, voluta come avamposto cattolico dall'imperatore germanico Ottone e dal papa Giovanni XIII per contrastare la crescita del clero bizantino, che in città aveva una sua chiesa, quella di San Nicola dei Greci. La chiesa madre di Santa Maria fu usata come chiesa matrice fino al XII secolo, quando fu abbattuta a causa delle sue modeste dimensioni e sulle sue macerie fu edificato il Duomo. Dell'antica struttura resta soltanto la parte al di sotto della navata centrale, l'attuale cripta.
I vescovi che si successero prima di quella data promossero alcuni lavori di consolidamento della struttura, che si rese protagonista in occasione del famoso incontro di Avellino del 27 settembre 1130 fra Ruggero II d'Altavilla e l'antipapa Anacleto II, che sancì un'alleanza fra i due e l'incoronazione per Ruggero II a signore dell'Italia Meridionale con queste parole: <<Concedimus coronam regni Siciliae, et Calabriae et Apuliae et Siciliam caput regni constituimus>>. Cinque anni dopo la chiesa risulta dagli atti non più esistente, anzi distrutta, e fu quindi riedificata. La nuova chiesa fu dedicata a San Modestino, patrono di Avellino, e si racconta che le spese della costruzione del Duomo furono addebitate ai cittadini, che fecero venire le più grandi maestranze dell’epoca. Si utilizzarono alcuni pezzi della cattedrale che era stata abbattuta, e ancora oggi, alla base del campanile, è possibile ammirare qualche blocco di pietra della costruzione precedente. Nel 1166 furono, secondo la tradizione, ritrovati i resti dei santi Modestino, Fiorentino e Flaviano, poi traslati nella Cattedrale.
L’esterno del Duomo di Avellino: la facciata
Fino al Seicento la Cattedrale mantenne sostanzialmente un impianto romanico, con facciata in muratura ricoperta da intonaco.Successivamente fu arricchita con decorazioni in stile barocco tra '600 e '700, mentre la Cattedrale odierna è il frutto dei rifacimenti successivi del XIX secolo, ed è opera dell'architetto Pasquale Cardola. Costruita fra il 1850 e il 1868, presenta un aspetto in stile neoclassico, ha una facciata a salienti ed è in marmo bianco e grigio, con una fascia marcapiano robusta ed aggettante che divide in due il prospetto. Ai lati del portale centrale, sormontato da un arco a tutto sesto, vi sono due nicchie contenenti San Modestino e San Guglielmo, patrono dell’Irpinia. Le tre porte di accesso sono in bronzo cesellato, opera dello scultore avellinese Giovanni Sica, e sulla porta centrale sono rappresentati episodi della città di Avellino e dei suoi vescovi. L'ordine inferiore presenta agli angoli due paraste con capitelli corinzi e quattro colonne a tutto tondo con capitelli in egual stile, impostazione ripresa anche nel registro superiore con le quattro colonne che reggono la trabeazione. Alla sommità della facciata, nel timpano, è presente un triangolo in cui è inscritto un cerchio raggiante, simbolo dell'occhio di Dio, o della Divina Provvidenza, che tutto guarda e tutto sa. Accanto alla chiesa è posto il campanile, che è la risultante di lavori eseguiti in epoche e materiali diversi. Sono infatti presenti marmi e pietre provenienti da edifici romani del I secolo.
L’interno del Duomo di Avellino: l’impianto
L’interno del Duomo è prettamente barocco: la chiesa, a croce latina, si divide in tre navate, e quelle laterali contengono in totale dieci cappelle.
Nella contro-facciata è posto l’organo, mentre particolarmente degno di nota è il meraviglioso soffitto ligneo cassettonato, settecentesco, opera di Michele Ricciardi, che raffigura l’Assunzione in Cielo della Beata Vergine Maria circondata da simboli prettamente mariani. Inquadra scenograficamente e accompagna l'occhio alla ricerca della profondità prospettica lungo tutta la navata centrale.
Le navate laterali sono separate tra di loro da archi a tutto sesto, e contengono cappelle di varia fattura e committenza. La decorazione pittorica racconta scene della vita di Cristo e della Vergine, opera di Achille Iovine, che ha inoltre affrescato tutte le cupolette che ricoprono le cappelle laterali e che forniscono luce agli spazi, con episodi della vita della Vergine, gli archi fra una cappella e l’altra, e ha inoltre dipinto gli apostoli Pietro e Paolo nell'arco che dà sul transetto.
Navata di destra
Nella navata di destra è presente la lapide che ricorda i lavori di riparazione dei danni causati dal terremoto del 23 novembre 1980, voluti dal Vescovo Pasquale Venezia, che recita pressappoco così: "[questo] antico tempio squassato nel corso dei secoli da terribili terremoti e da atroci fatti di guerra, colpito ma non abbattuto [venne] riconsegnato alla pietà del popolo di Dio il 6 ottobre 1985 e restituito all'antico splendore per miracolo di fede e volontà tenace di uomini". Ogni navata presente cinque cappelle: in questa vi sono la raffigurazione della posa della prima pietra, opera di Achille Iovine rifatta da Ovidio De Martino a causa dell'umidità e gli altari dedicati a san Gerardo Maiella, all'Adorazione dei Magi, a sant'Antonio di Padova e alla Crocifissione. Quest’ultima cappella, forse la più preziosa, contiene un reliquiario con una della Sacre Spine della corona di Gesù, dono di Carlo I d’Angiò.
Navata di sinistra, transetto e abside
Nella navata di sinistra, invece, vi sono le cappelle dedicate alla Vergine dei Sette Dolori, abbigliata secondo la moda spagnola, all'Annunciazione, ove un tempo era collocato il battistero, e alla Madonna dell'Assunta, che contiene la statua lignea dell’Immacolata, opera di Niccolò Fumo. Tale statua esce dalla chiesa solo il 15 agosto, durante la processione per la festa dell'Assunzione. Le altre due cappelle contengono la Madonna del Rosario ed infine un altare, che un tempo era dedicato a sant’Alfonso Maria de’ Liguori, in quanto si riteneva che lì il santo avesse celebrato la Messa. Ora l’altare è dedicato invece al Sacro Cuore di Gesù.
Al centro del transetto, piuttosto profondo e sopraelevato di due scalini, vi è un altare in marmo bianco, che conserva le reliquie di San Modestino e dei suoi compagni di tortura (San Fiorentino e San Flaviano), mentre a sinistra dell’altare vi è la cappella del tesoro di San Modestino, che ospita il busto in argento del santo. A destra dell'altare vi è la cappella della SS. Trinità, con l’antico altare del ‘500.
Alla fine dell’abside sono situati, invece, il coro cinquecentesco, opera di Clemente Tortelli, e lo splendido altare in marmo policromo di Cosimo Fanzago. L'altare è sormontato da un tabernacolo proveniente dall'eremo dei Camaldoli a Summonte.
Infine, in corrispondenza del transetto, in basso, vi è la cripta romanica. Essa è ciò che resta dell’antica chiesa Madre di S. Maria, detta anche S. Maria dei Sette Dolori, ossia la chiesa che fu abbattuta per fare posto al Duomo. E' a tre navate, con colonne di pietra sormontate da capitelli ottenuti da materiale di altri edifici paleocristiani, ed è affrescata con opere settecentesche del Ricciardi. Qui prima del 1980 aveva sede la Confraternita dell'Addolorata. Sul fondo, un bell'altare in marmo bianco; la cripta contiene le reliquie del vescovo Pasquale Venezia, che fu il primo ad ordinare un restauro completo del Duomo.
BIBLIOGRAFIA
“Avellino illustrato da santi e santuari”, P. Francesco de Franchi, Napoli 1709
"Italia del Sud", Touring Club Italiano, 2004
SITOGRAFIA
www.ecampania.it
www.sguardisullirpinia.it
www.grandecampania.it/duomodiavellino
www.viaggi.fidelityhouse.eu
www.irpinia.info