LA COLLEGIATA DI SAN MICHELE ARCANGELO A SOLOFRA

A cura di Stefania Melito

Solofra: alle origini di una chiesa

Solofra, in provincia di Avellino, nacque come un piccolo agglomerato in una valle interna e montuosa di piccole case. Già in epoca bizantina era tributaria del comune di Salerno, e man mano tutto l’abitato si raccolse intorno ad una piccola chiesetta rurale, ove si svolgevano le feste più importanti della comunità. Questa chiesetta, detta pieve, era sorta sulla riva destra del fiume Flubio, oggi torrente Solofrana, ed era una delle più importanti del circondario: essa infatti possedeva alcuni campi adatti alla coltivazione, i magazzini dove venivano conservati i generi alimentari e inoltre poteva annoverare anche alcune abitazioni ove accogliere i pellegrini.

La pieve del locum Solofra era intitolata a San Angelo, culto introdotto dai Longobardi, e a Santa Maria, culto di origine bizantina, ma alla fine il primo culto prevalse sul secondo. Quando la pieve nel 1042 divenne parrocchia, ossia sotto i Normanni, Adelferio, abate della chiesa di S. Massimo a Salerno, cedette la chiesa al prete di Solofra Truppoaldo. Insieme alla chiesa Adelferio cedette: “libri sacri, suppellettili, un salterio, una campana, un incensiere di bronzo, una sindone con sedici funicelle, un velo per il tabernacolo”. E ancora “...due pianete, una stola, una cotta, una veste sacra, un calice e un vaso di stagno”. Insieme a tutto ciò, nell'atto di cessione si può anche leggere la fornitura di “una botte grande per il vino, due carri, quattro tini, un torchio, tre case, una madia ed un forno” (http://www.solofrastorica.it/documentopieve.htm). Attraverso il vescovo di Salerno, a Solofra fu inoltre introdotta l’arte della concia delle pelli, che divenne una specificità solofrana e che rese possibile la nascita della figura del battiloro. Il battiloro era quell'artigiano che, con un martello, riusciva a rendere sottilissima qualsiasi lamina di oro o d’argento, riducendola in foglia e agevolandone così l’uso decorativo su stucchi e altre superfici. Tale arte si rivelò immediatamente utile nella costruzione della nuova chiesa.

Grazie infatti ai commerci con Salerno la comunità si arricchì rapidamente e si espanse, rendendo necessario il rifacimento della piccola pieve, divenuta ormai troppo piccola. Per questo si scelse di abbatterla e, al suo posto, si costruì la Collegiata quale emblema della ricchezza cittadina. La nuova chiesa fu costruita utilizzando parte del materiale recuperato dall'antica pieve, quasi un segno di continuità con il passato.

Fig. 1: Di Deangelisnic - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=66157258. Prospetto

La Collegiata di San Michele Arcangelo

La Collegiata sorse sullo spiazzo antistante la vecchia chiesa, nel pieno centro cittadino, e la sua costruzione si può definire una sorta di collage: infatti le maestranze realizzarono in maniera indipendente i vari pezzi per le varie parti della chiesa, che poi furono raccordate tra loro. Ad esempio, fu realizzata prima una delle cappelle della navata sinistra che la navata vera e propria. Il prospetto principale è opera di Dionisio Lazzari, esponente del Barocco napoletano ed autore della cappella reale all'interno di Palazzo Reale a Napoli. La facciata, a salienti, è caratterizzata dalla presenza di un’imponente architettura che sovrasta il portone principale e che la movimenta, ripresa in piccolo nelle due porte laterali. Al di sopra del portone principale, al posto del rosone, vi è una nicchia a finta finestra che ospita la statua di san Michele e che inonda di luce l’interno, mentre ai lati vi sono due colonne con lo stemma solofrano, un sole raggiante. La porta centrale della chiesa, divisa in formelle, è antecedente alla facciata: fu affidata nel 1583 ad Antonio Sclavo, intagliatore napoletano, che tre anni prima aveva realizzato l’organo. Tuttavia la porta fu completata da Francesco Catorano, altro artista napoletano, per contrasti sorti con lo stesso Sclavo, nel 1614, come riporta la data sul portale.

Figura 2: https://www.wikiwand.com/it/Collegiata_di_San_Michele_Arcangelo_(Solofra)#/Galleria_d'immagini

Lo stesso dicasi per il campanile, commissionato nel 1566 ad alcuni scalpellini di Calvanico ma terminato da altri nel 1572.

La Collegiata di San Michele Arcangelo: storie di un matrimonio.

È l’interno, però, che descrive maggiormente l’acquisita ricchezza della comunità solofrana, e che rimanda a una curiosa storia riguardante un matrimonio fra committenti e maestranze. Infatti la bottega che lavorò in Collegiata fu quella di Tommaso Guarini, noto incisore solofrano del ‘500, figlio del pittore Felice e imparentato con la famiglia Troisi, che fornì le travi di legno per la copertura della chiesa. Proprio le travi furono le “artefici” di un matrimonio alquanto interessante: Tommaso Guarini, autore delle tele del soffitto, sposò infatti Giulia Vigilante, imparentata con la bottega dei Vigilante, i battiloro che fornirono l’oro per le dorature delle cornici e dell’organo. I Vigilante, anch'essi imparentati con i Troisi, erano anche i committenti dei lavori della Collegiata, e ciò garantì a Tommaso prima, e al figlio Francesco poi, la sicura prosecuzione dei lavori della bottega.

Figura 3: Di A.S.Be.Cu.So. - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=65795127. Interno

La Collegiata: l’interno

la Collegiata è un edificio a tre navate a croce latina, separato da archi a tutto sesto che reggono volte sormontate da cupolette. Oltrepassata la porta centrale, quel che si nota immediatamente sono i massicci pilastri quadrangolari con paraste su ogni lato, sormontate da capitelli barocchi fito e antropomorfi. Lo sguardo sale su, verso la piccola balaustra lignea impreziosita da un minuscolo cassettonato inferiore, che corre graziosamente lungo tutto il perimetro della navata e che fa da spartiacque fra la massiccia presenza dei pilastri e i finestroni a nicchia intervallati da medaglioni.

Figura 4: https://www.sguardisullirpinia.it/guide-turistiche-360/solofra/monumenti-solofra/collegiata-san-michele-arcangelo.html

Al di sopra dei medaglioni, imponente, vi è il soffitto cassettonato opera di Tommaso Guarini.

Figura 5: Di Pasquale Di Lorenzo - Sguardi sull'Irpinia, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=65528247. Soffitto cassettonato della navata centrale.

Secondo alcuni la composizione del soffitto richiama quello di Palazzo Vecchio a Firenze opera del Vasari, particolarmente evidente nell’alternanza di tele quadrate e tele rotonde. Si compone di ventuno quadri con soggetti tratti dal Vecchio Testamento, incastonati in preziose cornici dorate. Il tutto è inserito in un cassettonato movimentato sia nelle grandezze sia nella profondità dei cassettoni. La tela centrale, che rappresenta il Paradiso, ospita anche il monogramma con cui si firma il pittore (GT) ed ha influenze senesi, presenti nelle tre fasce in cui è divisa e in una certa abbondanza di toni cupi, da cui spiccano per contrasto alcune vesti e panneggi.

Figura 6: https://www.wikiwand.com/it/Collegiata_di_San_Michele_Arcangelo_(Solofra)#/Galleria_d'immagini

I personaggi non hanno particolare possanza fisica, anzi sono piuttosto snelli, ma sono caratterizzati dall'eleganza del gesto e della composizione figurativa, unita ad una certa dinamicità. Predominano i rossi e i bruni, e tutto l’insieme dà una forte impressione di maestosità e ricchezza.

Figura 7: https://www.wikiwand.com/it/Collegiata_di_San_Michele_Arcangelo_(Solofra)#/Galleria_d'immagini

Proseguendo lungo la navata centrale, in direzione dell’altare maggiore, sulla destra spicca l’imponente organo ligneo, completamente ricoperto d’oro, su cui sono raffigurate scene del Vecchio Testamento. Risale ad un lasso di tempo compreso fra il 1579 e il 1583, ed è opera del napoletano Giovanni Antonio Sclavo. La cantoria, ossia il luogo destinato ad accogliere i musicisti, è cinta da un parapetto scandito da nicchie, in cui trovano posto storie della vita di Davide. Ogni nicchia è intervallata da una piccola scultura. Le storie di Davide coprono tutto il parapetto, che purtroppo manca di un pannello sul lato sinistro. L’impostazione dell’organo è preziosa, barocca, sormontata da un’imponente trabeazione spezzata che ospita l’Arcangelo Michele vittorioso. Tra le canne e i riquadri dello strumento trovano posto preziosi putti sia dipinti che lignei, cornucopie, figure che sembrano sirene, elementi musicali e naturalistici. Quasi ogni superficie è ricoperta d’oro proveniente dalla bottega dei Vigilante.

Fig. 8: https://www.wikiwand.com/it/Collegiata_di_San_Michele_Arcangelo_(Solofra)#/Galleria_d'immagini

Dalla navata centrale si accede all'area del transetto oltrepassando un arco trionfale; anche qui è presente un soffitto cassettonato prezioso, simile a quello della navata centrale, opera di Francesco Guarini, figlio e allievo di Tommaso Guarini. Francesco Guarini è stato sicuramente un esponente di spicco della pittura seicentesca, capace nel tempo di sviluppare una originale visione artistica che lo portò a distaccarsi dai grandi maestri dell’epoca. I suoi mutamenti pittorici infatti lo portarono man mano all’elaborazione di una vera e propria “pittura guariniana”, in cui riuscì a fondere elementi di naturalismo con la potenza espressiva, non tralasciando il grande uso della luce e del colore.

Fig. 9: https://www.wikiwand.com/it/Collegiata_di_San_Michele_Arcangelo_(Solofra)#/Galleria_d'immagini

Il soffitto cassettonato del transetto, come quello della navata centrale, ospita ventuno tele inserite in cornici dorate dai motivi fitoformi, con la differenza che qui sono raffigurate storie del Nuovo Testamento. Il pittore ebbe 18 mesi per realizzarli, ma accumulò quattro anni di ritardo. Lo stile ricorda alcuni toni caravaggeschi nell'uso dei chiaroscuri e nella potenza delle figure: si può dire che qui a dominare sia uno stile più “classico”, meno barocco. L’uso della luce, che dà potenza e respiro alla figurazione e che stilisticamente si distacca nettamente dall'impostazione del cassettonato nella navata centrale, è immediatamente evidente. La costruzione e l’impostazione delle tele ricalcano l’evoluzione pittorica dell’artista: dai primi quadri, in cui è evidente l’influsso della pittura napoletana nell'affollamento dei soggetti e nel risalto dato alla fase matura della vita, la cosiddetta senescenza, si passa a uno stile più sobrio, più scarno, fatto di pochi ma potenti personaggi che risentono del background solofrano di vita vissuta.

Figura 10: https://www.wikiwand.com/it/Collegiata_di_San_Michele_Arcangelo_(Solofra)#/Galleria_d'immagini

In particolare il ritratto di popolana che allatta, posto in basso a destra nella tela della scarcerazione di S. Pietro, echeggia figure reali certamente incontrate dall'artista.

Figura 11: http://www.solofrastorica.it/GuariniFrancesco.htm

Le altre tele presenti nel soffitto seguono lo schema riportato di seguito.

Cristo tra gli angeli nel deserto Annuncio a Maria della resurrezione Vergine assunta Battesimo di Cristo Adorazione dei pastori Liberazione di S. Pietro Anna Gioacchino e l’Angelo
Disputa di Gesù coi dottori L’Annuncio ai pastori Sogno di Giuseppe Annunciazione Annuncio a Giuseppe della fuga in Egitto Visione di Zaccaria Gesù tra i dottori
L’Angelo e le tre Marie Cristo nell’orto Circoncisione Annuncio ad Anna e Gioacchino Riposo in Egitto Presentazione della Vergine al tempio Cena di Giuseppe

 

Oltrepassando il transetto, si arriva all'altare maggiore policromo in marmo, datato 1746, sormontato dalla pala dell’Incoronazione della Vergine (1594), opera del sodalizio pittorico fra Giovanni Bernardo Lama e Silvestro Buono, in cui è incastonata una piccola statua di San Michele arcangelo completamente in oro. La bottega napoletana dei due pittori è molto attiva sulla scena artistica irpina, e gli stili tendono a fondersi l’uno nell'altro. Tra i due infatti vi fu prima una profonda amicizia, e poi una collaborazione professionale che, rifacendosi agli stilemi tipici del Manierismo internazionale, diede vita a figure “elegantissime e irreali”, che si imposero con “sofisticatissima grazia” all'interno del panorama austero della Controriforma.

Figura 12: http://www.campaniabellezzadelcreato.it/index.php/cammini-di-fede?altare-della-collegiata-di-san-michele-arcangelo---solofra-av

La tela è caratterizzata dalla presenza in alto delle due figure centrali, che mettono in luce l’eleganza più che la possanza; elegante è il gesto dell’incoronazione, grazioso il capo chinato della Vergine. Tutt’intorno una teoria di angeli, che ricalca quella più grande dei personaggi posti in basso e separati dalle nubi su cui sono assisi i protagonisti. La tela è inserita all’interno di una preziosa cornice cinquecentesca, a sua volta compresa in un architrave che nel timpano spezzato della sommità, con al centro un medaglione, ricalca quello presente sull’organo. Ai lati della tela sono collocate due tele: a sinistra, “Tobiolo e l’Angelo” e, a destra, “Abramo visitato dagli angeli”, entrambe di Tommaso Guarini.

Completano la chiesa le due navate laterali. Particolare, nella navata sinistra, la cappella dedicata all’Immacolata, da cui parte la processione del Venerdì Santo, che presenta un piccolo altare su cui in origine era posto il capolavoro di Francesco Guarini, la Sine Macula del 1642, attualmente rimossa e sostituita da una tela dedicata alla Vergine.

Figura 13: https://www.sguardisullirpinia.it/guide-turistiche-360/solofra/monumenti-solofra/collegiata-san-michele-arcangelo.html

Sempre nella navata sinistra è presente il cosiddetto Cappellone dei morti, o di San Giuseppe, dal nome della tela sull’abside, opera di Francesco Guarini, intitolata “Il transito di San Giuseppe”.

Figura 14: https://www.sguardisullirpinia.it/guide-turistiche-360/solofra/monumenti-solofra/collegiata-san-michele-arcangelo.html

Di impostazione barocca, la cappella espone sull’altare maggiore una tela oblunga, di autore ignoto, che rappresenta la cacciata di Adamo e Eva dal Paradiso Terrestre. Cupa, potente, domina la scena e contrasta fortemente con la luminosità della raffigurazione pittorica posta dietro di essa. Al centro del pavimento è presente un’epigrafe funeraria con le sette spade che trafiggono il cuore, rappresentazione simbolica tipica dell’Addolorata, che qui per traslato sta ad indicare le preghiere da rivolgere ai defunti. Sulla volta, una graziosa Annunciazione.

Figura 15: https://www.sguardisullirpinia.it/guide-turistiche-360/solofra/monumenti-solofra/collegiata-san-michele-arcangelo.html

La navata sinistra si conclude con un altare marmoreo che racchiude le ossa di Santa Dorotea in un’urna d’argento.

Nella navata di destra, infine, sono presenti sei altari sormontati da tele, tra cui bisogna ricordare la Pentecoste di Angelo Solimena.

 

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

  1. Abbate, “Storia dell'arte nell'Italia meridionale”, Volume 3, pagg. 207-208

Touring Club Italiano, “Napoli e la Campania: Capri, la Reggia di Caserta, Pompei, Amalfi, Paestum”, pag. 211

  1. Abbate, “Storia dell'arte nell'Italia meridionale: Il secolo d'oro”, pag. 58

http://www.solofrastorica.it/Collegiata1.htm

https://www.sguardisullirpinia.it/guide-turistiche-360/solofra/monumenti-solofra/collegiata-san-michele-arcangelo.html

http://www.campaniabellezzedelcreato.it

http://www.solofrastorica.it/GuariniFrancesco.htm

http://www.solofrastorica.it/collorgano.htm

http://www.solofrastorica.it/battiloro.htm

http://www.solofrastorica.it/campaniledoc.htm

http://www.solofrastorica.it/documentopieve.htm

https://www.corriereirpinia.it/landolfi-nella-bottega-di-buono-e-lama/

https://ilsolofrano.blogspot.com/2019/11/solofra-il-touring-club-alla-scoperta.html


L’ABBAZIA DEL GOLETO

A cura di Stefania Melito

L'ORIGINE DI UN NOME: IL GOLETO

L’abbazia del Goleto, o cittadella monastica del Santissimo Salvatore al Goleto, è un complesso spettacolare di ruderi che si trova a S. Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino; fu fondato nel 1133 da S. Guglielmo di Vercelli su un terreno che gli era stato donato dal re normanno Ruggero, signore di Monticchio. Bisogna ricordare che pochi anni prima, precisamente nel 1126, il santo aveva fondato anche il monastero maschile di Montevergine, legando quindi idealmente i due luoghi che erano considerati dei veri e propri baluardi della fede.

L’etimologia del nome Goleto deriva da <<...una specie di giunco palustre che ivi abbonda, e che nel dialetto del luogo si chiama guglia o goglia, onde guglieto, goglieto, ed indi goleto>>

Il complesso del Goleto è abbastanza grande, immaginato come un monastero misto di monache e monaci, con una precisa ripartizione dei ruoli: alla Badessa era conferito il potere assoluto, mentre i monaci dovevano occuparsi degli aspetti liturgici e amministrativi. Vi erano due monasteri distinti: uno più grande, destinato ad accogliere le monache e situato accanto all'abside della chiesa del Santissimo Salvatore, e uno più piccolo per i monaci, situato dinanzi alla facciata della medesima chiesa.

Fig. 1: veduta dall'alto

Il “motore” del complesso era la Badessa, alla quale spettava anche il compito di incentivare le nuove costruzioni attirando ricchezze e maestranze, ed alcune badesse nel corso del tempo promossero importanti lavori. Una delle prime opere ad essere realizzate fu la torre, in stile romanico, fatta edificare nel 1152 dalla badessa Febronia: originariamente doveva essere a due piani, ma oggi ne è rimasto in piedi soltanto il tronco inferiore. Nella sua edificazione furono anche recuperati e riutilizzati materiali lapidei di un vicino mausoleo romano, quello di Marco Paccio Marcello, ancora oggi riconoscibilissimi grazie ad alcuni bassorilievi incisi su di essi.

Fig. 4: veduta della torre dal chiostro

La torre fu costruita a scopo difensivo: il monastero è situato in un luogo isolato, e le monache erano quasi tutte rampolle di famiglie aristocratiche; la solitudine del luogo poteva quindi accendere strani pensieri in qualche malintenzionato. Addirittura esiste un Diploma di re Ruggero, datato 1140, con cui il sovrano ordinava <<...che non fosse molestato da alcuno il monastero di S. Salvatore del Goleto e le sue possessioni, chiese, obbedienze, ecc., e che nessuno, - non eccettuati gli stessi vescovi -, poteva esigere alcunché dai beni di quella chiesa>>.

La badessa Febronia ottenne anche dal figlio di Ruggero, Simeone signore di Monticchio, la possibilità di far pascolare le greggi della Badia del Goleto nei suoi territori, versandogli in cambio 1800 ducati. Si capisce quindi come il monastero traesse sostentamento anche dal pascolo degli animali e dalla cura dei terreni.

L'ABBAZIA DEL GOLETO: GLI AMBIENTI

Al centro dei ruderi si trova la cosiddetta Cappella o Atrio inferiore, in stile romanico, ossia una cappella funeraria a due navate risalente al 1200, in cui è conservata la pregevole scultura di una matrona risalente al periodo augusteo. Tale cappella conservò le spoglie del fondatore, San Guglielmo, fino al 1800 circa, quando poi furono traslate a Montevergine.

L’ambiente è caratterizzato da colonne basse su cui poggia la volta a crociera, mentre all'ingresso sono posizionate due colonne monolitiche sormontate da capitelli bassi. L’area sepolcrale, in pietra rossa locale, e una porta che conduceva alla chiesa del Salvatore, completano l’ambiente.

Fig. 5: il sarcofago in pietra rossa

C’è da dire che, oltre a svolgere il suo ruolo di conservazione delle spoglie umane, la cappella veniva anche utilizzata come una sorta di “incrocio”, tipico dei monasteri benedettini, che serviva a smistare le persone verso i vari ambienti; a conferma di ciò vi sono cinque porte, che immettono in luoghi diversi del monastero.

Fig. 6: l'interno della Cappella inferiore

Uno di questi luoghi è il piccolo cimitero delle monache: era concepito come una successione di sedili in pietra, il cosiddetto “scolatoio” o putridarium, costituito da sedute con un foro centrale al di sotto del quale era collocato un recipiente. I corpi delle defunte, decomponendosi lentamente, si depositavano nel recipiente, e costituivano un potente simbolo sia della caducità delle cose terrene, sia delle diverse fasi di sofferenza che l’anima doveva attraversare per liberarsi dal suo involucro mortale.

Un altro ambiente a cui si accede attraverso un arco a sesto acuto è la cosiddetta chiesa Superiore, o cappella di San Luca. Costruita circa cinquanta anni dopo quella inferiore per accogliere le reliquie di San Luca, può essere definita come uno degli ambienti più originali dell’intero complesso.

Fig. 7: la Chiesa superiore

La sua costruzione fu voluta dalla badessa Marina II nel 1255, ed è caratterizzata da una facciata che presenta un arco a sesto acuto contenente una croce ancorata posta al disotto di un rosone a sei petali, il cosiddetto esagramma, che allude al Sigillo di Salomone.

Fig. 8: la facciata della chiesa superiore

Nell'interno è possibile ammirare le due navate, che reggono volte a crociera ogivali. La struttura, a pianta quadrata, poggia su semi-colonne incassate nei muri perimetrali e su due colonne centrali sormontate da capitelli a doppia fila asimmetrica di foglie ricurve. La base ottagonale delle colonne e i capitelli richiamano lo stile di Castel del Monte, e quindi è possibile ipotizzare qui la presenza di maestranze che avevano lavorato nella residenza federiciana pugliese.

Fig. 11: dalla chiesa superiore verso l'esterno

Pregevoli sono i due altari: quello maggiore, destinato ad accogliere l’ulna del Santo, è caratterizzato da una forma a cassa atta ad accogliere la preziosa reliquia, mentre il secondo altare, molto più semplice, è costituito da una lastra appoggiata a quattro colonnine angolari. Entrambi sono marmorei. Evidente è il passaggio dall'arte romanica, che caratterizza la cappella inferiore, all'arte gotica, che permea la cappella superiore.

Degli affreschi interni non si è salvato quasi niente, se non degli stralci della vita di San Guglielmo e degli ovali che ritraggono due Badesse.

Fig. 12: lacerti di affreschi

Particolare la scala esterna che dà accesso alla chiesa, costituita da un corrimano a forma di serpente con una mela in bocca.

Fig. 13: la scala esterna e il corrimano a forma di serpente

Questo simbolo può essere interpretato come un elemento che richiami la tentazione di Adamo ed Eva, ma non bisogna dimenticare che nell'esoterismo il serpente rappresenta la Conoscenza: una delle immagini presenti nelle culture di tutto il mondo, l’uroburo, è proprio un serpente che si morde la coda, e simboleggia la natura ciclica delle cose. È quindi contemporaneamente sia un simbolo cristiano sia un simbolo esoterico, così come altri presenti all'interno dell’Abbazia.

Ultimo ambiente, profondamente danneggiato, di cui si hanno pochissime notizie, è la chiesa del Vaccaro: fu costruita al posto della diroccata chiesa di S. Salvatore, i cui resti furono riutilizzati per la nuova chiesa, la cui costruzione fu affidata al famoso architetto napoletano tra il 1735 e il 1745. Doveva essere a croce greca con una cupola sul transetto, ma oggi non ve n’è traccia. Resta soltanto la doppia scala d’ingresso alla chiesa e, grazie ad un lavoro di restauro, il bellissimo pavimento che presenta al centro una rosa “octolobata”, ossia a otto petali. Anche qui vi sono state delle interpretazioni esoteriche, in quanto il numero otto simboleggia l’equilibrio cosmico.

Fig. 14: la chiesa del Vaccaro

Il monastero conobbe un periodo di grande splendore per due secoli, fino alla morte dell’ultima badessa, Maria, avvenuta nel 1515. Il papa Giulio II aveva infatti decretato nel 1506 che con la morte della badessa il complesso del Goleto sarebbe stato chiuso e accorpato a Montevergine, e così successe. Ciò non impedì però all'abbazia di continuare a crescere, tanto da affidare la costruzione di una nuova chiesa al Vaccaro; con la soppressione però degli ordini monastici del 1810 voluta da Napoleone tutto il complesso cadde nell'oblio.

Si deve a padre Lucio Maria De Marino, benedettino stabilitosi al Goleto nel 1973, l’opera di sensibilizzazione sullo stato di degrado del monastero. È grazie a lui e al suo incessante interesse se oggi, grazie a un lavoro di restauro condotto dalla Soprintendenza, il monastero ha ripreso a funzionare, nonostante i gravi danni provocati dal terremoto del 980. Non vi sono più le monache, ma soltanto un monastero maschile con una piccola comunità dei Piccoli Fratelli di Gesù, che provvede all'animazione liturgica e che all'interno del Goleto discretamente prega, vive e tramanda la storia dell’abbazia.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Ministero dell’Interno, Pubblicazioni degli archivi di Stato, XXV, ABBAZIA DI MONTEVERGINE REGESTO DELLE PERGAMENE, a cura di G. MONGELLI O. S. B., vol. I (sec. X-XII), Roma

 

SITOGRAFIA

https://www.goleto.it/storia.asp

https://www.borgando.it/campania/rocca-san-felice-abbazia-goleto/ 

https://www.italianways.com/labbazia-del-goleto-capolavoro-del-romanico-campano/

http://www.jesuscaritas.it/wordpress/?p=4831

http://www.ilpuntosulmistero.it/il-serpente-del-goleto-di-marco-di-donato/

https://storie.ivipro.it/db/abbazia-del-goleto/  


VILLA CAMPOLIETO AD ERCOLANO

Villa Campolieto: un esempio di villa vesuviana.

Immortalata in una scena del film “Operazione San Gennaro” di Dino Risi, Villa Campolieto è uno splendido esempio di quello che poi diventerà il genere “villa vesuviana”, ossia un edificio architettonico che si inserisce perfettamente nel paesaggio diventandone parte fondante. La villa sorge nel cosiddetto “Miglio d’Oro” di Ercolano, un tratto della strada statale 18 che va da Ercolano a Torre del Greco ricchissimo di ville. In realtà la definizione “Miglio d’Oro” si riferiva un tempo alla straordinaria quantità di alberi di limone e arancio ubicati lungo la strada, ma nel corso del tempo si cominciò ad attribuire alla quantità di ville splendide, e non più agli alberi, il soprannome e la bellezza di questo percorso. Sono infatti un centinaio le ville sparse lungo questa strada, circa 120 per la precisione, alcune fatiscenti altre recuperate, opera dei più grandi maestri che nel tardo Settecento operavano in queste zone, da Vanvitelli a Vaccaro a Sanfelice. È possibile ricondurre quasi tutte queste costruzioni a un tardo barocco, anche se non eccessivamente pomposo, tendente al rococò, anche se alcune anticipano degli stilemi propri del Neoclassicismo. La concentrazione di queste ville in un particolare tratto di strada fu dovuta alla costruzione nel 1738 della residenza estiva di Carlo di Borbone e Maria Amalia di Sassonia a Portici, sulla strada vesuviana. Da quel momento in poi tutta l’aristocrazia napoletana cominciò a far erigere le proprie dimore nei pressi di quella reale, secondo un’abitudine molto diffusa all’epoca sia in Italia che in Francia di “gravitare”, anche architettonicamente, sempre nei pressi dei sovrani. Nacque così una straordinaria proliferazione di ville in un preciso tratto di strada, e fra queste una delle più belle è sicuramente Villa Campolieto.

Figura 1: Di Lalupa - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1323471

Fu fondata nel 1755 dal principe Lucio o Luzio di Sangro, signore del luogo e duca di Casacalenda, e la sua costruzione durò esattamente venti anni, venendo completata nel 1775. Molte furono le maestranze che ci lavorarono: in un primo tempo i lavori furono affidati a Mario Gioffredo, il Vitruvio napoletano, allievo del Solimena e architetto molto in voga del tempo. Fiero oppositore degli eccessi del barocco, Gioffredo immaginò per Villa Campolieto un corpo di fabbrica centrale quadrangolare da cui si dipartissero, con una pianta a croce greca, quattro bracci, che dividevano tutta la costruzione in quattro blocchi distinti. La Villa presenta due facciate: una anteriore, piuttosto classica, e quella posteriore, molto più particolare.

La facciata principale, quella che affaccia sulla strada, è un unico blocco massiccio, inquadrato da un porticato: presenta un elemento centrale a serliana scandito ai lati da due paraste monolitiche, mentre il piano superiore, o piano nobile, diviso dalla parte inferiore da una fascia marcapiano, offre allo sguardo una classica successione di finestre coronate da timpani triangolari e intervallate da paraste con capitelli ionici. Solo la finestra centrale, in accordo con l’arco sottostante, è inquadrata in una sorta di strombatura. Il tutto è coronato da una balaustra sull’attico. Dalla facciata anteriore si diparte un androne che mette in ideale continuità con un asse longitudinale la facciata anteriore con quella posteriore; tale asse si incrocia con l’altro braccio, quello orizzontale, della croce greca, che riceve tanta luce naturale dal giardino collocato ai lati della struttura. Tale luce va a sommarsi a quella derivante dalle due aperture anteriori e posteriori e illumina, come un gioco di luci scenografico, lo scalone posto a sinistra dell’entrata e che ricorda molto quello di Caserta. infatti sia la sua disposizione all’interno della struttura sia il suo essere a doppia rampa coronata da balaustra centrale sono riprese dalla reggia di Caserta. Inoltre la cupola che si eleva sull’incrocio dei bracci e i grandi finestroni ovali contribuiscono a inondarlo ancora di più di luce, la vera protagonista di questo edificio.

Figura 2: https://www.napoli-turistica.com/walk-in-art-evento-spettacolo-a-villa-campolieto-ercolano/

La facciata posteriore, invece, presenta sì elementi di continuità con quella anteriore, ma è caratterizzata da un ampio portico che si allarga difronte ad essa e che inquadra scenograficamente il paesaggio circostante. Gioffredo lo aveva immaginato circolare, ma poi fu sostituito alla direzione dei lavori a causa di contrasti con i duchi e, dopo un breve periodo, l’incarico fu affidato al Vanvitelli. Quest’ultimo, in carica dal 1763 al 1773 (anno della sua morte), apportò sostanziali modifiche al progetto originale, tra cui la forma del portico, che modificò in ellittico. Così facendo diede molta più ariosità al progetto, che acquistava slancio nella parte posteriore proprio grazie all’allungamento del portico. Infatti la successione, più stretta e lunga, di numerose e fitte volte a crociera sorrette da archi e colonne toscane che costituiscono il portico fanno sì che esso si confonda quasi con il paesaggio, che da elemento circostante diventa una successione di fondali naturali inquadrati dagli archi. La balaustra che corre al di sopra del portico sembra una corona posta al di sopra, e snellisce otticamente il tutto. Il portico ellittico si adagia nel giardino grazie a una scala a ferro di cavallo a doppia rampa.

Figura 3: https://www.turismocampano.it/miglio-doro

Figura 4: http://www.villevesuviane.net/villa-campolieto/

Dallo scalone si accede al piano nobile, scrigno incredibile di bellezza. L’atrio, il primo ambiente che si incontra, è letteralmente definito dalla luce, grazie alla cupola senza tamburo e ai finestroni che eliminano quasi le differenze tra interno ed esterno. La decorazione pittorica interna, opera di Fedele Fischetti e Gerolamo Starace, è un trionfo di elementi naturalistici e barocchi: conchiglie, festoni, ghirlande e figure mitologiche, inquadrate in nicchie. Ogni porta reca sulla sommità un cartiglio, e ai due lati vi sono medaglioni ovali con soggetti tipici della statuaria classica.

Figura 5: https://www.napolidavivere.it/2019/12/30/walk-in-art-a-villa-campolieto-ad-ercolano/

Dall’atrio si accede alla Sala da pranzo, particolarissima. Infatti è circolare, secondo i desideri dei padroni di casa. Vanvitelli la realizza grazie alla tecnica dell’incannucciato, che consiste nel creare una leggera ma resistente travatura in legno, sovrapposta con bambù, che viene poi coperta e affrescata. Il risultato è una struttura portante leggera e flessibile, resa ancora più leggiadra allo sguardo dalle pitture parietali a trompe l’oeil, opera dei fratelli Magri.

 

Figura 6: Di Lalupa - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1323498

Figura 7: http://www.villevesuviane.net/villa-campolieto/

Cesare Fischetti, invece, connota tutta la stanza secondo il gusto tipicamente bucolico vanvitelliano, ricoprendo le pareti con raffigurazioni del locus amoenus e tripudi di amorini e puttini.

Figura 8: http://www.villevesuviane.net/villa-campolieto/

In particolare segue la conformazione circolare della stanza riproducendo una sorta di gazebo e un vitigno, probabilmente uno di quelli del principe. Da destra verso sinistra si scorgono “...un gruppo di persone che giocano a carte tra cui il De Sangro, a seguire sullo sfondo le isole del golfo, e superata la porta possiamo vedere uno dei pochi autoritratti su affresco del Vanvitelli che scruta il cielo con il monocolo”. Agli angoli, oggi purtroppo andate perdute, si trovavano le raffigurazioni delle quattro stagioni.

Figura 9: http://www.villevesuviane.net/villa-campolieto/

Figura 10: http://www.villevesuviane.net/villa-campolieto/

Ultimo ambiente di villa Campolieto è il cosiddetto Salone delle Feste, la cui decorazione è andata persa. Si sa che era caratterizzato da un grande affresco sulla volta a botte della sala, e dai lacerti si capisce che lo stesso gusto bucolico delle altre sale doveva dominare anche qui. Alle pareti invece era raffigurato il mito di Ercole.

Dopo la seconda guerra mondiale, in cui subì gravissimi danni, la villa fu recuperata e restaurata nel 1984, diventando un centro internazionale di arte e la sede della Fondazione Ente per le Ville Vesuviane. A Villa Campolieto si è svolto spesso anche il ballo di fine anno dei cadetti della scuola Militare della Nunziatella, uno dei balli più famosi e prestigiosi delle Accademie Militari.

 

 

 

http://www.treccani.it/enciclopedia/mario-gioffredo/

https://www.sirericevimenti.it/portfolio/villa-campolieto/

https://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/ville-vesuviane/18916-ville-vesuviane-la-villa-campolieto/

https://www.touringclub.it/destinazione/localita/edificio-monumentale/170003/villa-campolieto-ercolano

http://www.villevesuviane.net/villa-campolieto/

http://www.campaniartecard.it/tour-item/villa-campolieto/

 

 

 


IL MUSEO DIDATTICO DELLA FOTOGRAFIA

Sito a Sarno (Sa), il Museo Didattico della Fotografia (MuDIF) è un museo molto particolare. È contemporaneamente uno spazio museale, un archivio fotografico, un laboratorio per il restauro conservativo, una camera oscura, un centro per la digitalizzazione di fotografie antiche e una biblioteca dedicata. Insomma, più che un museo in senso classico è un insieme di tante istituzioni, una più suggestiva dell’altra. Il museo nasce dall'opera dell’associazione “Il Didrammo”, che si pone come obiettivo sia quello di non far disperdere l’enorme patrimonio fotografico della Regione Campania, sia quello di salvaguardare la foto nella sua interezza, intesa come supporto.

L’associazione ha poi dato vita nel 2001 al Centro Provinciale per il Restauro e la Conservazione della Fotografia, che diventerà poi il MuDiF, Museo Didattico della Fotografia. Nel Museo, inteso come spazio museale, sono conservate le macchine fotografiche di un tempo, le cineprese, i contenitori per le lastre fotografiche, fino a giungere ai più moderni, ma contemporaneamente antichi vista l’era del digitale, rullini. C’è una camera oscura e ci sono anche oggetti legati al mondo della fotografia, come ad esempio i fondali, particolarmente suggestivi: un tempo, infatti, quando si immortalavano i momenti più importanti di una famiglia (comunioni, matrimoni etc.) si soleva andare allo studio fotografico. Lì il fotografo posizionava il soggetto davanti a un fondale, ossia la scena di un interno che poteva essere stampata o, nei casi più preziosi, dipinta. Lo “sfondo” era tematizzato: c’era quello per le comunioni, rappresentante solitamente un altare.

C’era quello dei matrimoni, più variegato, ma che comprendeva generalmente una terrazza e un effetto prospettico. C’era quello utilizzato dagli emigranti quando inviavano le fotografie a casa, molto semplice, arricchito da una sedia e qualche oggetto d’arredamento.

Insomma, guardarli adesso è davvero un tuffo nel tempo.

Figura 1: coppia in posa. Recto verso_DDR.095.jpg archivio fotografico MuDIF

Il patrimonio conservato nell'archivio fotografico, invece, è immenso: si va dall'opera di grandi fotografi che hanno documentato i cambiamenti politici del secolo alle foto private che raccontano di piccoli eventi quotidiani: la vendemmia, i compleanni, le ricorrenze.

Ogni foto porta con sé lo spaccato di un tempo lontano, la cristallizzazione di un attimo, una sorta di emozione sospesa. Vi sono immagini scattate dai fotoreporter alle star di un tempo, come Jackie Kennedy, o a campioni dello sport, uno su tutti Maradona.

Figura 2: Jackie Kennedy. Jovane 31.jpg archivio fotografico MuDIF

Figura 3: Francesco Jovane posa con il famoso calciatore Maradona.Album “Jovane”. Archivio fotografico MuDIF

Vi sono poi le fotografie che raccontano dei festival del cinema e dei vip che li frequentavano, oppure foto “rubate” a personaggi e attori famosi dell’epoca.

Un po’ come oggi, è solo il bianco e nero che ci riporta ad un’epoca lontana, così come i volti fin troppo noti di artisti che hanno fatto la storia.

Figura 4: sopra Alberto Sordi e Monica Vitti, Cinema e spettacolo_JOV.04A.02.jpg. Sotto Grace Kelly.Cinema e spettacolo_JOV.0061s.jpg, archivio fotografico MuDIF

Costituisce motivo di maggior pregio poter osservare il passaggio del tempo: la carta un po’ assottigliata, una sorta di rarefazione che permea la foto e che fa immediatamente capire di trovarsi al cospetto di un professionista.

Il Museo ha un patrimonio incredibile: nell'archivio fotografico sono conservati circa 85.000 fototipi, i cui nomi sono un vero e proprio tuffo nella storia della fotografia.

Dagherrotipi, ambrotipi, ferrotipi, aristotipi, stampe all'albumina, stampe al carbone, diapositive su lastra di vetro alla gelatina di bromuro d'argento, pellicole negative al nitrato di cellulosa, collotipi etc.

Oltre a ciò, il Museo è anche un laboratorio specializzato nel restauro conservativo, l’unico in Campania. È riconosciuto dall’ICCD come ente catalogatore, e può vantare una ricca biblioteca sull’argomento.

Insomma, è un Museo che contiene tante storie e tanti rami. Uno di quei luoghi della cultura che offre spunti incredibili solo a chi ha la curiosità di varcare le sue porte.

 

Si ringrazia il Museo Didattico della Fotografia per l’autorizzazione all’utilizzo delle immagini e per la consulenza tecnica.

http://www.ildidrammo.it/[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]


TENUTA FILANGIERI DE CLARIO

Definita come una delle più belle dimore storiche della Campania, la tenuta Filangieri De Clario si trova a San Paolo Belsito, in provincia di Napoli.

Situata in un contesto ameno e circondata da quasi trenta ettari di boschi, la villa è stata immaginata come una sorta di fattoria che ruota intorno ad un grande cortile. Sono due infatti le aree esterne: una è un parco all'italiana di quasi sei ettari, mentre l’altra è un boschetto, che si somma ai campi coltivati ad aranceti e noccioleti.

Come in quasi tutte le costruzioni del genere, al piano terra sono situati i locali destinati alla produzione di prodotti come l’olio e le stalle degli animali. Tra questi locali degne di nota sono le cantine, ove spicca il monumentale torchio, ricavato da un unico tronco di cipresso.

Al primo piano, invece, trova posto la residenza vera e propria.

Dopo una sontuosa doppia rampa di scale si apre una serie di sale ad infilata, l’una dentro l’altra, caratterizzate da una pavimentazione simile che le unifica. Un salottino, splendidamente arredato con mobili d’epoca e una elegantissima carta da parati floreale, continua a sua volta in una sala da biliardo, ove spicca un monumentale lampadario. Tutti gli arredi sono ottocenteschi, e impreziosiscono ulteriormente la dimora.

Dalla sala del biliardo si passa ad un’altra sala, caratterizzata da una decorazione a boiserie sulle pareti e preziose porcellane sui mobili.

Alla villa appartiene anche la piccola chiesa dell’Epifania, di proprietà della famiglia marchesale dei Mastrilli, proprietari della villa.

Al suo interno è presente sull’altare maggiore un dipinto su tavola del XVI secolo attribuito a Francesco da Tolentino, mentre negli altari laterali sono dislocate altre tele raffiguranti la “Vergine del Rosario”(Giovanni De Vivo) e “L’Arcangelo Raffaele e Tobiolo”(Angelo Mozzillo).

La villa fu acquistata in un primo tempo dalla famiglia Mastrilli, che la abbellì intorno alla metà del XVII secolo.

All'inizio dell’Ottocento poi, grazie al matrimonio di Vincenza Mastrilli con il barone Francesco de Clario, la villa passò alla famiglia de Clario.

Da questa in seguito passò ai Filangieri dopo il matrimonio di Elenora de Clario e Riccardo Filangieri, avvenuto nel 1920.

www.dimorestorichecampane.it


LA VILLA DEI MARCHESI AYALA A VALVA

A cura di Stefania Melito

Introduzione

C’è un luogo in provincia di Salerno che sembra essere rimasto fermo in un’epoca imprecisata, dove l’eleganza e il manierismo dominano incontrastati, un luogo ove il verde è il vero protagonista. È Villa Ayala a Valva, e in particolar modo il suo splendido ed incantato Parco.

Fig. 1: villa Ayala

Il paese di Valva

Valva è un piccolo centro di circa duemila abitanti in provincia di Salerno che si estende sulle pendici del monte Marzano, nel pieno della riserva naturalistica dei monti Eremita e Marzano, fondata nel 1993. La riserva si estende fino alla vicina Basilicata ed annovera un territorio di più di 3500 metri quadrati che abbraccia, oltre a Valva, i comuni di Laviano e Colliano. Il comune si divide in Valva vecchia, ossia il primitivo nucleo abitativo di epoca romana di cui restano solo rovine, e l’attuale insediamento.

Villa Ayala a Valva e il suo costruttore

Situata sulle pendici del monte Marzano, la villa risale alla seconda metà del 1700 e il suo nucleo originario è una torre d’angolo voluta dal signore normanno Gozzolino nel 1108, che prenderà appunto il nome di Torre Normanna. Successivamente si deve a un suo discendente, il marchese Giuseppe Maria Valva, sovrintendente di tutti i ponti e le strade del Regno di Napoli e consigliere di Ferdinando IV di Borbone, l’idea della costruzione di una villa che potesse attrarre e stupire i visitatori. Il marchese, appartenente all’Ordine dei Cavalieri di Malta e all’Ordine dei Cavalieri di Costantinopoli, era una figura di spicco dell’epoca: fu l’ideatore della cosiddetta “Via del grano”, ossia la strada che attraversava Campania, Basilicata e Puglia mettendo in comunicazione Napoli con il Tavoliere delle Puglie, cosa molto importante in un periodo in cui, a seguito di una grave carestia, il grano scarseggiava all'interno del regno borbonico. Ancora oggi un epitaffio sulla via del grano, eretto nel 1797, ne ricorda la costruzione.

Fig. 2: l'epitaffio a Eboli sulla "Via del grano".

La costruzione della villa

Come spesso accadeva in quegli anni il marchese immaginò un edificio a pianta rettangolare, inserito in un ampio parco esterno a cui si accedeva da un arco merlato. Stranamente si ispirò ad un’opera ben precisa, ossia il Castello del Buonconsiglio a Trento, per immaginare la villa. La struttura, chiamata anche Castello, è cinta ed introdotta da un muro perimetrale merlato, molto suggestivo, con un arco centrale che dà sull'ingresso principale.

Una volta oltrepassato, ci si ritrova nel cortile esterno antistante la villa, un piccolo giardino all'italiana che ricorda vagamente un’arpa, caratterizzato da viali irregolari costituiti da aiuole e siepi con statue delle Quattro Stagioni disseminate qua e là; un tempo nel giardino vi era un piccolo lago, ora invece c’è la fontana con Diana e il cervo. Sulla destra del viale d’ingresso vi è la chiesetta della Madonna del Fileremo, in cui ancora oggi i Cavalieri di Malta tutti gli anni celebrano una messa commemorativa.

La struttura del castello, che si estende su una superficie di circa 600 metri quadrati, è suddivisa in altezza su due livelli: il primo è quello che ospita le varie sale e si divide a sua volta in due corpi di fabbrica merlati, mentre il secondo è quello della Torre quadrata angolare. Quello che colpisce è l’estremo dinamismo costruttivo: la struttura infatti è movimentata non solo dalla merlatura che corre immediatamente al di sotto del sottotetto, ma anche da un ulteriore portico che cinge tutto l’edificio, spezzato da torrette angolari. Sull'edificio più a sinistra, che è anche quello più sporgente in avanti, si notano due coppie di quadrifore inquadrate in una trabeazione rettangolare, intervallate da un finestrino romboidale centrale. Al di sotto un porticato con tre archi a tutto sesto che dà luce al piano terra, in cui si trovano la cucina, cosiddetta “voltata”, e la sala delle armi.

Il secondo edificio, invece, più arretrato, presenta una facciata più semplice, scandita da una fascia marcapiano centrale, in cui il primo piano presenta tre finestre ad unico arco e il piano terra tre piccole e semplici bifore. Un piano cosiddetto “ammezzato” ospita la Cappella, mentre al primo piano, il cosiddetto piano nobile, trova posto l’appartamento marchesale. Caratterizzato da un grande salone con affreschi, l’appartamento era in origine un luogo ricco di arredi lignei e suppellettili, senza dimenticare quadri, affreschi e statue. All'ultimo piano è collocato il sottotetto, realizzato in calcestruzzo armato (uno dei primi esempi dell’utilizzo di questo nuovo materiale) e che ospitava varie stanze e relativi bagni. Sicuramente la parte di maggiore interesse dell’edificio è la cosiddetta Torre normanna, che si eleva ad un lato della struttura. Tutto l’edificio è stato parzialmente danneggiato dal terremoto del 1980.

Il Parco di villa Ayala

Uscendo fuori da villa Ayala a Valva si è circondati da in un bellissimo parco su più livelli, strutturato in un impianto manieristico e quasi barocco. I viali che lo solcano lo dividono un po’ irregolarmente in una scacchiera, e l’intera superficie è divisa in zone, tra cui due giardini all'italiana. Abbraccia una superficie di circa diciotto ettari, ed è inserito nei giardini più belli d’Italia. È caratterizzato da un susseguirsi di frutteti, boschi di magnolie, di cedri, di spazi ricavati tra la vegetazione ove trovano posto gruppi scultorei. È il caso, ad esempio, del cosiddetto emiciclo della Bellezza, che ospita tra gli altri il gruppo scultoreo delle Tre Grazie opera dello scultore Donatello Gabrieli.

Fig. 12: l'Emiciclo della bellezza

Ma non è un caso isolato: l’intera superficie arborea è decorata da statue, busti di marmo, complessi architettonici etc, che sbucano dalla vegetazione quasi come se l’abitassero. È il luogo del castello ove maggiormente si avverte un senso di estraniamento della realtà, come nel caso del giardino di Diana e la cerva, dominato dal gruppo scultoreo corrispondente.

Fig. 13: Diana e la cerva

Uno dei fiori all'occhiello del parco, che ha reso Villa Ayala famosa nel mondo, è il cosiddetto “Teatrino di verzura”: un anfiteatro naturale di quasi mille posti ottenuto da siepi di bosso accuratamente sovrapposte, da cui emergono dei busti in marmo che sembrano spettatori di un’immaginaria rappresentazione. La cosa più straniante è che solo alcuni dei busti guardano in direzione del proscenio, mentre il resto guarda altrove. Sembra quasi una cristallizzazione di uno spettacolo vero, con gli spettatori che assistono attenti e altri che si distraggono. Quando il Teatrino è utilizzato per gli spettacoli si possono vedere gli spettatori in carne ed ossa seduti accanto a questi busti, e l’insieme è altamente suggestivo.

Fig. 14: il teatrino di verzura

Tutto il resto del parco è ornato da statue a carattere mitologico e porticati eleganti, mentre al di sotto si può osservare un imponente sistema di grotte e canali, probabilmente scavato per incanalare le acque.

Fig. 15: le grotte

Anche le grotte sono ornate di statue, come la cosiddetta “Caverna dei mostri” che ospita statue di aspetto orribile.

Attualmente la Villa, che appartiene al priorato di Malta, è parzialmente visitabile.

 

Sitografia

http://www.villadayala.altervista.org/index.php

https://www.livesalerno.com/it/giardini-villa-dayala

https://www.comune.valva.sa.it/villa-dayala-valva/

https://salerno.occhionotizie.it/villa-ayala-piccola-versailles-valle-sele/

http://ambientesa.beniculturali.it/BAP/?q=luoghi&luogo=&provincia=&comune=&src=&ID=46

http://www.didatour.it/gita-scolastica/villa-dayala-valva/


LE GROTTE DI PERTOSA -AULETTA

A cura di Stefania Melito

Situate nel massiccio dei Monti Alburni, le Grotte di Pertosa-Auletta sono un complesso carsico sito in Campania, provincia di Salerno; rappresentano uno dei grandi attrattori turistici del comprensorio, e coniugano bellezza e rispetto per l'ambiente naturale. Intrise di storia e di archeologia, rappresentano sicuramente una pagina molto importante per la storia locale e internazionale, avendo attirato l'attenzione di studiosi provenienti da diverse parti del mondo. La loro particolarità consiste nella presenza di un fiume, il Negro, che scorre all'interno e che per alcuni tratti è navigabile.

Fig. 1: la cascata sotterranea

Le prime notizie relative alle Grotte risalgono alla Preistoria, addirittura all'età del Bronzo medio, quando alcuni uomini, attirati dal grande ingresso naturale, stabilirono nelle Grotte la loro dimora, utilizzando la luce proveniente dell'esterno per costruire utensili. Era un luogo ideale, vista sia l'abbondanza d'acqua sia la conformazione geografica del territorio che costituiva un rifugio naturale. Proprio l'abbondanza d'acqua, però, poteva costituire un problema, visto che le popolazioni primitive avevano la necessità di ricoverare le greggi in un luogo asciutto e al riparo dai predatori. Per fare ciò, inventarono e costruirono un nuovo tipo di abitazione: i dintorni erano ricchi di querce e rovere, legni inattaccabili all'acqua, con cui costruirono dei pali, i cosiddetti ritti, che infissero nell'alveo del fiume. Su di essi posero le traverse, costituendo una sorta di piattaforma a moduli quadrati su cui poggiarono un "pavimento" di argilla cotta, ideale per accendere il fuoco. Proprio queste abitazioni rappresentano un unicum, in quanto non si ha notizie di altre palafitte del genere costruite in una grotta. Insomma, quella che adesso si chiama bioarchitettura.

Fig. 2: stratigrafia dei ritrovamenti archeologici in grotta nel Muso Speleo-archeologico

Nel corso dei secoli, bisogna aspettare il Cinquecento per avere altre notizie su di esse, e precisamente la spedizione nel 1526 di Leandro Alberti, famoso umanista, monaco e teologo bolognese, che attraversò tutto il Vallo di Diano definendolo "somigliante a una barca". Ad una estremità di questa "barca", la prua, situò Pertosa e le Grotte, definendole come un cunicolo sotterraneo da cui usciva fuori molta acqua che "esce da detta Spelonca; da gli habitatori del paese, [...] mi fu accertato quella derivare da un picciolo Lago, che si ritrova nel principio della valle di Diano, di quindi poco più di due miglia discosto, o poco meno, che per un sotterraneo cuniculo quivi passa."  Esattamente trecento anni dopo tre botanici, Petagna, Terrone e Tenore, compirono un viaggio simile a quello di Leandro Alberti, descrivendo con quasi le stesse parole la cascata d'acqua che si precipitava dall'alto di una rupe e che poi scompariva sottoterra. E altri studiosi, che effettueranno spedizioni nel corso del tempo a causa di terremoti o curiosità personale, saranno affascinati dalla natura rigogliosa di questi luoghi.

Le Grotte si estendono in maniera orizzontale per circa tre km all'interno della montagna, e sono state originate dalla forza dell'acqua, che ne ha scavato i cunicoli. Al loro interno come detto scorre un fiume, il fiume Negro, e ciò le rende le uniche grotte non marine navigabili d'Italia. Perfettamente attrezzate per la visita turistica, si compongono di vari ambienti dai nomi suggestivi inscatolati l'uno dentro l'altro: il Ramo delle Meraviglie, la Grande Sala, la Sala del Trono, il ramo del Paradiso etc. E' uno spettacolo suggestivo scivolare sulle acque di questo fiume sotterraneo a bordo di un'imbarcazione trainata a mano da un sistema di cavi d'acciaio, ammirando la volte di questa "basilica" sotterranea. Ovunque stalattiti e stalagmiti, riflessi e bagliori dovuti alla calcite, carbonato di calcio purissimo che scintilla come i diamanti. Le concrezioni rocciose assumono forme bizzarre, che possono riportare alla memoria animali o figure mitologiche. Tutto il percorso, perfettamente orizzontale e adatto a chiunque, è illuminato da luci a led dal bassissimo impatto ambientale.

Nella Grande Sala, nel cuore del massiccio calcareo, 250 metri di spessore calcareo separano la cavità sotterranea dalla A2 del Mediterraneo: è straordinario pensare che mentre in superficie vi sono camion, autobus e automobili che sfrecciano, nel sottosuolo non c'è altro che un maestoso silenzio. L'unico rumore che si sente è il ritmico tambureggiare di goccioline d'acqua che cadono giù dalla volta di questo tempio geologico, alcune più veloci altre più lente, originando una sorta di ritmo sotterraneo. In questo mondo alieno l'uomo è un semplice spettatore, non può fare altro che osservare il paziente lavoro della Natura che da millenni crea e decora concrezioni, stalattiti e stalagmiti.

Tra le frastagliate pareti di roccia e le sovrapposizioni di strati di calcare, tra "vele" di alabastro e colonne, ecco spuntare però un segno umano: incredibilmente tracciato a penna, perfettamente leggibile, scritto con forza su una pagina di pietra; è una stella di David, e accanto ce n'è un'altra. Sotto un numero, e accanto ad esse un nome. La storia che c'è dietro risale alla Seconda Guerra Mondiale. Nel 1945 infatti un gruppo di ebrei si rifugiò all'interno delle Grotte di Pertosa-Auletta: non si sa se siano stati semplici cittadini, che per sfuggire a rastrellamenti o per ripararsi dai bombardamenti abbiano pensato di rifugiarsi nelle Grotte, o soldati ebrei. Pochi sanno infatti che in quel periodo si costituirono delle unità scelte di soldati ebrei, che si paracadutavano dietro gli Alleati per portare aiuti e sostentamento alle popolazioni ebree autoctone. Sulla roccia si legge ancora adesso, scritta in ebraico, una frase: "Questa valle è bella, ma quella che ci aspetta è ancora più bella".

Nel 2019 un stalattite e una stalagmite, dopo millenni, si sono "toccate", dando origine al "Bacio di roccia" più romantico e cliccato.

Fig. 7: il "bacio",

La visita alle Grotte di Pertosa-Auletta è arricchita ulteriormente dalla presenza di musei tematici: il Museo del Suolo, ove si racconta della vita al di sotto dei nostri piedi, nei primi tre metri del sottosuolo, la cosiddetta "pelle del pianeta"; il Museo Speleo-archeologico, interamente dedicato al racconto degli uomini primitivi che abitarono le Grotte, degli utensili che sono stati ritrovati durante le campagne di scavo e del ruolo mistico e religioso che questo antro ricopriva nell'antichità.

 

http://fondazionemida.com/grotte-pertosa-auletta

https://www.liberliber.it/online/autori/autori-a/leandro-alberti/

http://www.anticabibliotecarossanese.it/wp-content/uploads/2017/05/Petagna-Terrone-Terone-Viaggio-in-alcuni-luoghi-della-Basilicata-e-della-Calabria-Citeriore-effettuato-nel-1806.pdf

https://www.giornaledelcilento.it/dopo-20mila-anni-il-bacio-tra-stalattite-e-stalagmite-nelle-grotte-di-pertosa/

 


LA SCALA FENICIA: UN CAPOLAVORO SOSPESO

A cura di Stefania Melito

Introduzione

https://www.pinterest.it/pin/396809417142111225/

921 scalini alti e ripidissimi che collegano Capri ad Anacapri. Un percorso quasi in verticale, tortuoso, tra scorci mozzafiato e boschi, da cui si gode un panorama meraviglioso. Può sembrare una descrizione di un luogo da fiaba, invece è un’antica via di comunicazione. La cosiddetta Scala Fenicia oggi è un percorso turistico fra la Capri glamour e Villa San Michele, ma un tempo questi quasi due km di scale erano l’unico collegamento fra Marina Grande (il porto di Capri) e Anacapri: un percorso compiuto quasi quotidianamente dalle donne anacapresi, che scendevano al mercato per acquistare generi di prima necessità o per attingere acqua alla sorgente di Truglio, e risalivano con pesanti vasi mantenuti in equilibrio sulla testa. Stesso percorso doveva essere compiuto da chiunque volesse trasportare delle merci dal porto fin su o viceversa, da coloro che consegnavano la posta, o dai facchini che faticosamente trasportavano i bauli dei viaggiatori.

Fig. 1: scorcio della scala fenicia

La sorgente del Truglio

La cosiddetta sorgente del Truglio deve il suo nome ad un'antica villa romana ove tale sorgente zampilla, ed è situata nella parte bassa dell'isola, nelle vicinanze del mare e di una piccola spiaggia dove oggi i pescatori tirano in secca le barche. E' una delle quattro sorgenti d'acqua dolce dell'isola, ed ha una storia curiosa. In una pubblicazione del 1834 si racconta come nel corso di uno scavo nei pressi della sorgente venissero alla luce dei resti di alcune camere che sicuramente facevano parte di un edificio più grande: pulendo dalla terra queste camere emersero dei pavimenti con mosaici in buono stato di conservazione, e addirittura delle lastre di marmo giallo e verde che ornavano le pareti, e che furono poi trasportate a Napoli. Dallo stesso luogo emersero cinque meravigliose statue di marmo, tutte acefale, di cui una raffigurante l'imperatore Tiberio e una colonna di marmo giallo. Due delle statue furono inviate a Napoli al "real museo", una fu venduta dal proprietario del campo a un inglese e due furono lasciate sottoterra. In seguito il proprietario interruppe lo scavo e vi piantò sopra delle vigne. (Richerche topografiche ed archeologiche sull'isola di Capri da servire di guida ai viaggiatori, R. Mangoni, Napoli 1834)

Il percorso della scala fenicia

Venne chiamata erroneamente “scala fenicia” in quanto si credeva che l’isola fosse stata colonizzata dai Fenici, ma in realtà è una scala costruita dai Greci in una maniera tipica, ossia scavando i gradini a vivo nella roccia con una specifica tecnica. Fino al 1877, anno in cui fu costruita la strada carrozzabile, rimase l’unico modo per accedere ad Anacapri. Da Marina Grande, dove un tempo sorgeva la villa di Augusto, la scala comincia dolcemente a inerpicarsi su per poi diventare più ripida, e lungo il tragitto vi sono alcune testimonianze artistiche molto particolari: innanzi tutto vi è la chiesa di San Costanzo, a croce greca, che sorge su una chiesa più antica e che conserva al suo interno le spoglie del patrono di Capri, custodite in un reliquiario d’argento, che viene portato in processione ogni 14 maggio. Delle dodici colonne presenti al suo interno, quattro reggono la cupola centrale, e quelle quattro colonne in marmo giallo provenivano dalla villa di Augusto; solo in seguito furono sostituite con colonne meno preziose.

Salendo lungo il sentiero è possibile, inoltre, ammirare delle croci intagliate nella pietra, che furono scolpite dai monaci (o secondo alcuni dai vescovi di Capri) come “protezione” divina per i passanti, affinché i massi che si staccavano spesso dal costone roccioso soprastante non li colpissero. Si incontrano inoltre altre due chiesette: la prima è la cappella di Sant'Antonio, patrono di Anacapri, altresì detta la chiesa dei marinai perché qui le donne anacapresi si riunivano per pregare il santo affinché proteggesse i marinai e i mariti in mare. Un fuoco, perennemente acceso dinanzi ad essa, fungeva inoltre da faro, in maniera tale da far orientare gli uomini che tornavano al porto.

La seconda è la cappella di San Michele, attigua alla cosiddetta “Porta della differenza”, che segna il confine fra Capri e Anacapri e la fine della Scala.

1,7 km letteralmente sospesi fra cielo e mare.

https://www.capri.it/it/c/capri-online/i/SJ9FQ

https://web.archive.org/web/20160404005613/http://www.comunedianacapri.it/it/s/la-scala-fenicia

https://www.ioviaggio.it/la-scala-fenicia-a-capri

https://www.capri.it/it/e/la-scala-fenicia-2

http://www.caprireview.it/project/la-scala-nella-roccia/

https://www.fotoeweb.it/sorrentina/Foto/Capri/Scala_Fenicia.htm

https://www.paesionline.it/italia/foto-immagini-anacapri/2464878_scala_fenicia


PALAZZO CARACCIOLO SAN TEODORO

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Gioiello nascosto e luogo di incredibile bellezza, palazzo Caracciolo San Teodoro sorge sulla Riviera di Chiaia, uno dei cosiddetti quartieri chic di Napoli. Nel '500 qui sorgevano soltanto poche case di pescatori, un mercato del pesce e qualche altra povera attività; successivamente nel '600 e nel '700, vista la splendida posizione, cominciarono ad essere edificate case di villeggiatura e la zona fu lastricata nel 1697 ad opera di Luis de la Cerda, duca di Medinacoeli, che aggiunse anche <<tredici fontane, sedili e un doppio filare di alberi>>. Tale sistemazione però fu alterata nel corso del tempo fino a quando, tra il 1778 e il 1780, Ferdinando IV di Borbone decise di realizzare un grande giardino pubblico, la Villa Reale, affidando il progetto a Carlo Vanvitelli, figlio di Luigi. Ciò determinò un vero e proprio incremento di ville e palazzine nobiliari, che permise quindi l'eliminazione delle zone paludosi qui presenti e l'edificabilità del luogo mediante le cosiddette "colmate a mare", ossia un "riempimento" della zona antistante la spiaggia, che modificò irreversibilmente la linea di costa. In questo "fervore edilizio" si colloca palazzo Caracciolo San Teodoro.

Fig. 1: una veduta di Chiaia del 1800 ad opera di Caspar Van Wittel

Palazzo Caracciolo San Teodoro

È il classico palazzo che non avendo una facciata particolarmente imponente può passare inosservato, ma se si ha la curiosità di andare oltre l’ingresso ciò che si scopre lascia senza fiato.

Fig. 2: facciata

Costruita agli inizi del 1800, la residenza è un chiaro esempio di Neoclassicismo: la facciata è lunga e bassa, a tre ordini, idealmente divisa in due parti da due ordini di vetrate centrali sovrapposte; il colore utilizzato per l’intera superficie, un rosso pompeiano, fa capire non solo le intenzioni dell’architetto che ne curò la realizzazione, Guglielmo Bechi, ma anche la sua specifica preparazione. Costui era non solo un architetto toscano molto rinomato alla corte dei Borbone, ma anche un archeologo. Tenne la cattedra di storia dell'arte all'Università e fu il curatore delle collezioni del Real Museo Borbonico; diresse inoltre gli scavi di Pompei dal 1851 al 1852, anno della sua morte. La progettazione del palazzo Caracciolo San Teodoro piacque talmente da fargli affidare la realizzazione di Villa Pignatelli.

Palazzo Caracciolo San Teodoro: l'interno

Dal portico una grande scala in marmo bianco, molto scenografica, conduce al primo piano, ove sono ubicate le sale.

Fig. 3: lo scalone

Si può dire che sostanzialmente l'edificio, che occupa una superficie di 600 metri quadri, sia diviso in due parti. Una prima parte è costituita dalle gallerie, trasformate in salottini, ove si aprono le grandi vetrate della facciata. Inondando di luce naturale l'interno e alleggerendo all'esterno la superficie della facciata, e lasciando intravedere i sontuosi ambienti interni, costituiscono sicuramente gli ambienti più particolari del palazzo. Qui la suggestione pompeiana è molto forte, ed è in generale l’ambiente ove meglio si respira il lusso e lo sfarzo di quello che un tempo era uno dei palazzi più eleganti della Riviera di Chiaia. Le colonne danno un ritmo compositivo alle gallerie che ne spezza la monotonia, ritmo ripreso dai tavoli e dai divani che suddividono lo spazio in ambienti più piccoli. Nonostante la funzione di raccordo fra le varie sale, le gallerie si configurano come ambienti autonomi, vero diaframma fra l’interno e l’esterno. Inoltre affacciano sul giardino del palazzo e sul mare, dando una sensazione di continuità con il paesaggio esterno.

Fig. 4: la galleria

Una seconda parte, invece, a cui si accede tramite la Galleria, è caratterizzata da una fuga prospettica di tre salotti che terminano nel salone da ballo. Tutta la decorazione riprende temi che si ritrovano nelle pitture pompeiane, principalmente fiori e figure mitologiche declinate al femminile. Tutti gli ambienti hanno conservato gli arredi originali come tavoli e specchiere. Dalla Galleria del primo piano, girando a sinistra, si apre una successione di sale: il Salone dei Fauni, caratterizzato da una decorazione con fauni intenti a godersi i piaceri della vita, e la Sala delle Centauresse, rarissima declinazione al femminile di questo tema tipico delle decorazioni mitologiche (a tal punto che il Metropolitan Museum di New York gli ha dedicato una pubblicazione apposita).

Fig. 5: particolare dell'affresco delle Centauresse

Ultimo è il cosiddetto Salone dei cigni, un ambiente molto strano ad una prima occhiata: ciò che infatti salta agli occhi è la presenza di alcuni grandi specchi che sembrano messi a casaccio sulle pareti, in quanto ne coprono parzialmente gli affreschi paesaggistici. In realtà fu una scelta precisa del Bechi, che intese così coprire dei precedenti affreschi che non si armonizzavano con la decorazione da lui immaginata. La sala è coperta da una decorazione a soffitto che imita un padiglione di tessuto ocra ben gonfio, con le tende che illusionisticamente ricadono drappeggiate agli angoli.

Fig. 6: sala dei cigni

Dal salone dei cigni si passa al salone da ballo, di forma rettangolare ma che alle estremità presenta due nicchie laterali introdotte da colonne e un arco trionfale. Alle pareti paraste ioniche scanalate scandiscono le varie aperture, mentre il soffitto, a volta, presenta un'originale decorazione a stucchi scanalati sormontato da una cupoletta riccamente affrescata. Il pavimento, ligneo, è connotato da una decorazione a stelle.

Dalla parte opposta invece si aprono altre tre sale, due più piccole e la grande Sala da pranzo, di forma rettangolare, arricchita da un decorazione parietale in perfetto stile pompeiano, ove ben si nota la vocazione da archeologo del Bechi; un tavolo rettangolare in legno e marmo con lamine d'oro è collocato nel bel mezzo della stanza, bianca e oro, in cui troneggia un imponente lampadario dorato, dono dei Borbone. Imponenti specchiere e un pavimento a lastroni connotano l'ambiente, sormontata da un soffitto bianco decorato con motivi geometrici e festoni di frutta e fiori. Le porte che affacciano sulla sala sono sormontate da pitture scultoree di personaggi classici e motivi a girali.

Fig. 8: la Sala da pranzo

Altri due piccoli ambienti qui presenti sono la Sala della musica, bianca con decorazioni a colonne impreziosite da rappresentazioni di rampicanti, e la Sala cinese, in azzurro e bianco.

https://www.residenzedepoca.it/matrimoni/s/location/palazzo_sa_teodoro/

https://www.napoli-turistica.com/palazzo-san-teodoro-napoli/

http://www.sirericevimenti.it/it/portfolio/palazzo-san-teodoro/

http://www.palazzosanteodoroexperience.com/

http://www.palazzidinapoli.it/quartieri/chiaia/riviera-di-chiaia/

https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2012/13-febbraio-2012/via-caracciolo-lungomare-costruito-una-colmata-1903257733298.shtml


LA MORTELLA: UN GIARDINO INCANTATO

A cura di Stefania Melito

Quando l’amore plasma la natura e una follia si trasforma in stupenda realtà. È la descrizione che più si avvicina alla storia del giardino “La Mortella”, conosciuto anche come Museo-giardino, che si trova ad Ischia, e che può davvero sembrare, in alcuni tratti, una favola moderna.

La storia de la Mortella

I protagonisti di questa storia che sembra davvero una favola sono due: Susana Valeria Rosa Maria Gil Passo, vivace argentina dagli occhi verdi, e William Walton, geniale compositore britannico.

Susana, nata nel 1926, è la tipica ragazza argentina di buona famiglia: colta, raffinata, apprende l'inglese prima dello spagnolo. Sin da piccola però si rivela uno spirito ribelle e anticonvenzionale, tant'è che a 22 anni, cosa del tutto inedita per una ragazza della sua estrazione sociale, va a lavorare al Consolato britannico a Buenos Aires, dove incontra William Walton. Compositore di grande fama e molto apprezzato dai suoi contemporanei, nato nel 1902, Walton ha 46 anni quando arriva in Argentina per delle conferenze. E' un tipo deciso, ribelle, anticonformista. Susana gli organizza la conferenza stampa di presentazione al Consolato, Walton la nota e improvvisamente decide di sposarla. Con un coraggio che rasenta la pazzia la sera stessa le chiede di sposarlo. 24 anni di differenza sembrano non essere un ostacolo per i due, che nel giro di due mesi si sposano e partono per l'Europa, destinazione Italia. Nel 1949 si stabiliscono sull'isola d’Ischia, in un primo momento in una casa in affitto. Entrambi appassionati di natura, piante rare e giardini, nelle loro peregrinazioni sull'isola individuano un terreno che li affascina: è una brulla distesa di roccia lavica che guarda il mare, costituito da una valle e la soprastante collina, in località Zaro a Forio. Non è la solita terrazza sul mare, anzi ha un qualcosa di abbandonato e solitario, ed è simile a una cava di pietre. Si chiama “le Mortelle”, nome dovuto alle numerose piante di mirto che vi crescono. Comprano questo terreno con l’intenzione di farvi una sorta di giardino esotico e vi costruiscono una villa, che chiamano “La Mortella”, convincendo nel frattempo l’architetto costruttore di giardini Russel Page ad andare a dare vita al loro sogno un po’ folle. L’architetto impiegherà dieci anni per finire il giardino, che verrà costantemente curato e arricchito dalla coppia, trasformandolo in un capolavoro.

Fig. 3: i Walton nella loro casa ad Ischia. https://napoli.repubblica.it/cronaca/2020/03/21/foto/lady_susana_walton_il_decennale_della_scomparsa-251874273/1/#2

Il progetto

Russel Page immagina di dividere la Mortella in due parti: la cosiddetta “Valle”, ossia la parte di terreno che sta ai piedi della collina, e la “Collina” stessa. La prima parte, la Valle, dov'è anche la casa dei coniugi, è stata sviluppata da Page, ha la forma di una “L” ed è caratterizzata da un clima sub-tropicale e ombroso: qui vivono molte specie acquatiche come le ninfee, di cui una, la cosiddetta Victoria, è particolarissima; il primo giorno di fioritura è bianca e di sesso femminile, mentre il secondo giorno diventa rosso scuro e di sesso maschile.  Viene descritta così: <<‘LEI’ sboccia all'imbrunire e resta aperta fino alla tarda mattinata del giorno seguente, poi si chiude. ‘LUI’ si riapre nel tardo pomeriggio con i petali e i sepali mutati in rosso porpora. In una sola notte il fiore cambia sesso e colore, per poi immergersi nelle acque.>> Fa parte della cosiddetta Victoria House, una specie di serra tropicale dove crescono anche altre piante. La serra ospita una sorta di mascherone ispirato ad un'opera di Sir Walton.

Fig. 4_ la Victoria house. Fonte lamortella.org 

Altro arbusto particolarissimo presente qui è il Gingko biloba, un albero-fossile che si credeva fosse estinto fino a quando non fu ritrovato in Cina nel XVIII secolo, e la sua riscoperta destò talmente tanto scalpore che Goethe gli dedicò alcuni versi (Queste foglie d'albero d'Oriente,/che sono state donate al mio giardino,/rivelano un certo segreto,/che compiace me e i saggi./E' forse una creatura vivente chi si è divisa?/son due che hanno deciso/di manifestarsi in uno?/Per rispondere a tale domanda,/ho trovato la giusta risposta:/non noti, nei miei versi,/che son io uno e doppio?)

Fig. 5: Gingko biloba. Fonte lamortella.org

Orchidee e altre specie caratterizzano questa parte insieme a numerose fontane, tra cui si ricorda la cosiddetta Fontana Bassa, dono di Russel Page a sir William in occasione dell'ottantesimo compleanno di quest'ultimo.

La seconda parte, la Collina, è opera di Susana Walton, che ha cominciato la sua creazione nel 1983, anno della morte del marito. È popolato da specie appartenenti per lo più alla macchia mediterranea in quanto, a differenza della Valle, è una sorta di terrazza a strapiombo sul mare con un microclima diverso. Si inizia con il Giardino Mediterraneo, che deve il suo nome alla presenza di piante tipiche dell'area mediterranea, e che ospita il Ninfeo, caratterizzato da una fontana d’acciaio e tre nicchie, e il luogo di sepoltura di lady Walton, una semplice lastra su cui è inciso il suo nome e la scritta "genius loci", lo spirito del luogo.

Fig. 6: la fontana d'acciaio, cosiddetta "Specchio dell'anima". Fonte lamortella.org

La particolarità della "Collina" consiste nella presenza di costruzioni architettoniche particolari: il Teatro greco, che ogni estate ospita concerti di musica sinfonica, ricavato da un lato della collina e fiancheggiato da rose e piante aromatiche.

Fig. 7: il teatro greco. Fonte lamortella.org

Continuando, dopo una foresta di piante tropicali, si giunge in un luogo sopraelevato, colmo di pace e del suono di campane bene auguranti, ove al centro spicca un tempietto Thai;

Fig. 8: il tempio Thai. Fonte lamortella.org

Altro luogo simbolico è il cosiddetto Tempio del Sole, un'antica cisterna a tre vani trasformata in tempio, ove rappresentazioni della Musica si intrecciano ad affreschi raffiguranti le Muse, Apollo e soggetti ispirati alle coppie di amanti di Pompei.

L’angolo più particolare della Collina è la cosiddetta Glorieta, un pergolato di rose rampicanti circondato da un laghetto artificiale di pezzetti di vetro blu, donato dal collezionista americano Andy Cao.

Fig. 10: il laghetto artificiale. Fonte lamortella.org

Nel 1983 sir Walton morì a causa di un cancro; è stato seppellito sotto una roccia in Collina che domina tutto il giardino, la stessa roccia che lui definì “la mia roccia” la prima volta che la vide.

Fig. 11: la roccia di sir William. Fonte la mortella.org

La moglie invece è morta nel 2010. Oggi “La Mortella” è di proprietà di una Fondazione italo-britannica, con a capo il principe Carlo d’Inghilterra, ed è stata trasformata, per volontà di Susana Walton, in un luogo dedicato ai giovani compositori, “un laboratorio critico per lo studio delle opere di William ed un centro di eccellenza mondiale per rappresentazioni di musica, teatro e danza”. Il giardino privato è visitabile nel periodo della fioritura (29 marzo – 4 novembre), e ogni anno sono circa cinquantamila le persone che vengono qui ad ammirare la sua straordinaria bellezza, testimonianza di un sogno d’amore divenuto realtà.

Fig. 11: una bellissima immagine di lady Susana Walton. Fonte lamortella.org