IL DUOMO DI SALERNO

Il nome completo del Duomo di Salerno è in realtà “Basilica Cattedrale Primaziale Metropolitana di Santa Maria degli Angeli, San Matteo e San Gregorio Magno”, e nella sua lunghezza racchiude l’importanza di questa chiesa, in quanto “basilica” indica il titolo che il Papa concede ad edifici religiosi particolarmente importanti, mentre “cattedrale primaziale” indica una cattedrale il cui vescovo sia anche primate, cioè titolare di una sede metropolitana molto importante. San Matteo è inoltre il patrono di Salerno.

Costruita intorno al 1080 per volere di Roberto il Guiscardo, presenta un’architettura composita in quanto nella sua struttura sono state inserite delle novità mutuate dall’architettura carolingia, come ad esempio il transetto con tre absidi; la forma e la struttura della chiesa, a tre navate con cripta ad aula e il quadriportico, sono molto simili a quelle dell’abbazia di Montecassino.

Dalla facciata barocca ci si immette direttamente nel quadriportico, composto da una successione di colonne decorate da tondi policromi, sormontate da un loggiato con bifore e pentafore, su cui affaccia la porta in bronzo della chiesa, fusa a Costantinopoli ed originariamente ricoperta d’oro e d’argento. Lungo il portico sono stati collocati dei sarcofagi romani di notevole fattura, mentre sopra la porta, nella parete, sono incastonate le lapidi dei donatori della porta medesima. Svetta sul portico il campanile, alto circa 50 metri, di chiara derivazione arabo-normanna.

L’interno, a croce latina, è a tre navate con volta a botte, mentre il transetto è sormontate dalle originarie capriate lignee; la decorazione parietale è un insieme piuttosto armonico di vari stili, infatti all’impianto seicentesco si alternano affreschi di chiara matrice bizantina, affreschi di probabile scuola giottesca, reperti romani e bizantini e diversi amboni di pregevole fattura. Degna di menzione è la tomba del figlio di Roberto il Guiscardo, a forma di letto con baldacchino.

Ambiente altrettanto particolare e spettacolare è la cripta, restaurata in stile barocco, che conserva le reliquie di San Matteo, protettore della città, e che al centro presenta un altare sormontato da una statua bifronte del Santo, altare che permette la celebrazione della messa da ambo i lati. Al di sotto vi è la tomba del Santo, con un contenitore in cui raccogliere la cosiddetta “Manna di San Matteo”, un liquido trasparente che a volte le ossa del Santo hanno trasudato. Il particolare curioso della doppia faccia del Santo ha fatto sì che anche ai salernitani venisse affibbiata la stessa caratteristica.

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BADIA DI CAVA DEI TIRRENI

Complesso di grandi dimensioni che non si apprezza subito nella sua grandiosità, sorge in cima ad una collinetta che si trova a pochi km dal comune di Cava dei Tirreni, provincia di Salerno.

Fu fondata nel 1011 da S. Alferio Pappacarbone, un nobile longobardo che, ritiratosi su di una collina per condurvi vita ascetica, ebbe la visione della Santissima Trinità sotto forma di tre raggi luminosi che uscivano da una roccia; il prodigio e l’accorrere spontaneo di discepoli lo invogliarono a costruire un monastero con annessa una piccola chiesa.

Ampliata e trasformata in basilica a più navate al tempo di S. Pietro I abate (1079-1123), l’Abbazia si pose a capo di una vasta congregazione monastica, che formò un congregazione a parte all’interno dell’Ordine di San Benedetto, la cosiddetta “Congregazione della Santissima Trinità di Cava”. Nel 1394 il papa Bonificacio IX la elesse a vescovado, mettendola a capo di una diocesi. L’attuale basilica sorse invece nel 1761 per iniziativa dell’abate Don Giulio De Palma e su disegno dell’architetto Giovanni del Gaizo.

La facciata è settecentesca, con una facciata a salienti molto bella ed armonica, e che in un certo senso maschera le dimensioni davvero imponenti del complesso. L’interno, grazie alla pavimentazione in marmi policromi, è molto luminoso. Della basilica colpisce soprattutto l’ambone marmoreo in stile cosmatesco del secolo XII, probabilmente un dono del re di Sicilia Ruggiero II, il quale volle che la regina Sibilla, sua seconda moglie morta a Salerno nel 1150, fosse seppellita nella chiesa della badia.

Dell’allestimento originario restano due cappelle laterali, sui cui altari sono sistemate sculture di Tino da Camaino, fatte eseguire dall’abate e consigliere reale Filippo de Haya: su quello della prima cappella a sinistra, con un paliotto del secolo XI, vi è un rilievo raffigurante la Madonna col Bambino fra S. Benedetto e S. Alferio che presenta alla Madonna l’abate de Haya, mentre sull’altare della seconda cappella a destra vi sono i due gruppi delle Pie Donne e dei Soldati romani ai piedi della Croce.

Subito dopo la balaustra, sulle pareti vi sono quattro statue marmoree, tra le quali degne di nota sono quelle cinquecentesche di S. Felicita e di S. Matteo. Procedendo, a destra è la cella grotta di S. Alferio, con l'urna che ne custodisce le reliquie, a sinistra l’altare di S. Leone con la sua urna e, sulla parete, altre reliquie di santi. Gli affreschi della basilica sono opera del pittore calabrese Vincenzo Morani, che ne completò la decorazione nel 1857. Sotto i 12 altari della basilica sono deposte le reliquie dei 12 abati santi.

Accanto alla chiesa è da segnalare il chiostrino dei secoli XI-XIII, che anche se di proporzioni ridotte (non si poté crearne uno più grande nel ristretto spazio fra la grotta Arsiccia e il ruscello Selano) , è la parte più suggestiva e caratteristica della badia: sebbene abbia subìto diverse manomissioni, ricorda i chiostri fatti costruire nello stesso periodo a Salerno, e che sono caratterizzati da quadrifore con archi a ferro di cavallo, che testimoniano influenze musulmane.

Adiacente al chiostrino è la grande sala del Capitolo, del secolo XIII, in cui sono sistemati alcuni pregevoli sarcofagi romani, mentre suggestivi sono gli ambienti, di epoca diversa, esistenti nei sotterranei della badia e del chiostrino, il cosiddetto “cimitero longobardo”, adibiti a cimitero dei monaci che, per devozione, vollero esservi seppelliti.

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PALAZZO MONDO A CAPODRISE, CASERTA

A cura di Stefania Melito

Introduzione

A Capodrise, provincia di Caserta, sorge un palazzo di proprietà privata, il cosiddetto Palazzo Mondo, casa-museo privata del pittore Domenico Mondo. È uno di quegli angoli di Campania e di Meridione totalmente sconosciuti, ma che nulla ha da invidiare ad altre più conosciute realtà. Palazzo Mondo è gestito dalla Associazione GIA.D.A. (Giardini e Dimore dell'Armonia), un’organizzazione culturale senza scopo di lucro costituita nel 1999 per volontà dell’Architetto Nicola Tartaglione.

Palazzo Mondo e il suo proprietario

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Domenico Mondo, che a Capodrise nacque nel 1723, fu un pittore italiano allievo del Solimena e un prolifico disegnatore, attivo fino al 1800; fu direttore dell’Accademia Napoletana del Disegno su incarico di Fernando IV, ed uno dei migliori esponenti del Barocco napoletano, nonchè poeta dilettante ma molto apprezzato. Tra le altre cose, lavorò ad alcuni cicli di affreschi della Reggia di Caserta, ed affrescò questa dimora in uno stile particolarissimo, ove le suggestioni e le invenzioni del Barocco sono mitigate dal nascente gusto neoclassico.

Questa commistione di stili è evidente già dalla facciata, dove il rigore neoclassico si alterna all’esuberanza barocca della decorazione delle finestre e dei balconi. Particolare è l’interno, in quanto le stanza visitabili sono il frutto di un attento restauro conservativo affidato dagli attuali proprietari all’architetto Nicola Tartaglione. Gli ambienti restaurati sono la camera da pranzo, un salotto, uno studio con pareti dipinte con bordi “all’etrusca”, una sala della preghiera con una statua lignea della Madonna Pellegrina, il salotto d’angolo e una camera da letto rosso pompeiano, oggi arredata con letto a baldacchino.

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Il ciclo pittorico sulle pareti è frutto del lavoro congiunto di Domenico Mondo e dei fratelli Magri: i Magri erano “quadraturisti”, ovvero artisti specializzati nel comporre finte architetture e prospettive, in cui le figure dipinte dal Mondo si inserivano perfettamente. Tutto il piano visitabile è decorato da allegorie, rappresentazioni delle Virtù, trionfi di fiori e frutta.

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Particolare è il cortile interno che ospita un giardino “all’inglese”, ove elementi naturali (alberi, fiori etc) si alternano ad elementi artificiali (pozzi, fontane). Questo giardino ha un particolare curioso: al suo interno si coltiva una piccola camelia in vaso, fiore preferito di Lady Hamilton, moglie di Lord William Hamilton, ambasciatore inglese, che tradì diventando l’amante dell’ammiraglio Nelson; per suo volere, nel parco della Reggia di Caserta nel 1786 fu piantata una camelia, e da quel momento in tutte le dimore che sorgevano nei pressi della Reggia fu piantata una camelia, non escluso il piccolo giardino di Palazzo Mondo. Il restauro attuale, curato dall'architetto Tartaglione, ha trasformato questo cortile interno in una sorta di angolo pittoresco, a metà tra interno e esterno, dove le piante compongono una sorta di scenografia naturale tra gli elementi architettonici come le balconate.

Sitografia

 


VILLA RUFOLO A RAVELLO

Villa Rufolo è uno degli edifici storici maggiormente rappresentativi di Ravello, località tra le più rinomate della Costiera Amalfitana. Famosa in tutto il mondo per i Concerti Wagneriani che la Villa annualmente ospita nei suoi giardini, è a ragione considerata uno dei punti di forza dell’intera Costiera.

Il suo nome deriva dalla potente famiglia dei Rùfolo che ne è stata la prima proprietaria, una delle famiglie più antiche di tutta Ravello, che annoverava tra i suoi membri anche due vescovi; un altro componente della famiglia, Landolfo Rufolo, è il protagonista di una novella del Decamerone di Boccaccio, ove si citano sia i Rufolo che Ravello.

La costruzione della Villa risale all’anno 1000, allorquando i Rufolo vollero costruire qualcosa che testimoniasse il loro potere: l’accesso è costituito da un arco ogivale costruito in tufo giallo e grigio posto nella torre d’ingresso, di colore giallino, dovuto alla presenza di ceramiche macinate; attraverso un viale si arriva al chiostro, in stile moresco con colonnine che sorreggono archi ogivali.
Uscendo dal chiostro si arriva alla Torre Maggiore, che ha conservato l’aspetto originario: dalla sua cima lo sguardo spazia agevolmente su un buon tratto del Golfo.

Dalla Torre si accede ai giardini, una meravigliosa composizione su due livelli di aiuole fiorite che, grazie ai discendenti degli antichi maestri giardinieri che la composero originariamente, si è conservata pressoché intatta. I giardini inferiori ispirarono il Parsifal di Wagner, ed ancora oggi in suo onore ospitano i cosiddetti Concerti Wagneriani, nonché il Ravello Festival, caratterizzato dal palco a strapiombo sul mare.

Costeggiando il Bagno Turco e la Balnea, si arriva alla Sala da Pranzo dalla volta a crociera e, attraverso un sottopassaggio, al Chiostro, ove si incontra la Cappella, spesso sede di mostre ed eventi artistici.

Il restauro della villa, che dopo i Rufolo aveva conosciuto numerosi proprietari, si deve al mecenate ed appassionato d’arte scozzese Francis Neville Reid, che ha riportato la Villa al suo antico splendore.

Nel 2015 la Villa ha avuto 341.484 visitatori, piazzandosi al 16° posto nella lista dei siti più visitati a livello nazionale.

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PALAZZO ZEVALLOS STIGLIANO A NAPOLI

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Palazzo Zevallos, o Palazzo Zevallos Stigliano, ubicato sulla centralissima via Toledo a Napoli, è uno degli edifici più particolari della città, oggi sede di Banca Intesa, e dalle testimonianze seicentesche si evince che dovesse essere molto diverso, e quindi facilmente riconoscibile, dagli altri palazzi della zona in quanto più alto di tutti.

Di Armando Mancini - Flickr: Napoli - Palazzo Colonna di Stigliano, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16773353

La sua costruzione, ed anche il suo nome, si devono al ricco mercante portoghese Giovanni Zevallos, descritto come un perfetto "esempio di egoismo e rapina" che grazie alla sua abilità riuscì in breve tempo ad accumulare un patrimonio immenso per l'epoca: per fame di grandezza nel 1635 comprò questo palazzo, già esistente, e man mano, con un’opera di acquisizioni durata quattro anni, si assicurò la proprietà degli altri piccoli edifici della zona. La cosa straordinaria è che Giovanni volle competere niente di meno che con Palazzo Reale, affidando quindi l’accorpamento, la “ristrutturazione” e l’ammodernamento dei palazzi ai canoni barocchi a Cosimo Fanzago, anche se ricerche più recenti tendono a suggerire il nome di Bartolomeo Picchiatti, gran Ingegnere di Corte.

Palazzo Zevallos: descrizione

A marcare la proprietà del palazzo, all’ingresso viene posto lo stemma dei Zevallos, che però durante i tumulti del 1647, che danneggiano l’edificio, va perduto. Nel 1659 la proprietà, a causa della cattiva gestione della moglie e del figlio di Giovanni Zevallos, passa ai Vandeneynden, ed attraverso il matrimonio di una Vandeneynden con un Colonna di Stigliano, a questi ultimi, che ne arricchiscono ulteriormente il prestigio con l’acquisizione di numerose opere d’arte. È di questo periodo la costruzione del portale in marmo bianco e piperno scuro, unica caratteristica mantenutasi inalterata fino ai giorni nostri.

Di IlSistemone - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=22119541

Una testimonianze dell’epoca così descrive il palazzo:

“ll pianterreno si apriva con un grande atrio voltato, con pilastri e archi in piperno, dal quale era possibile raggiungere vari punti dell’edificio: a destra vi era una scala secondaria che dava accesso alle cantine e al piano ammezzato; a sinistra la scala principale che permetteva di raggiungere sia l’ammezzato che i due piani nobili; al centro invece si apriva il grande cortile attorno al quale erano disposti vari ambienti di servizio, tra cui una grande scuderia. Il primo piano nobile era composto da varie stanze tra cui una Galleria che dava sul cortile grande e un’altra – più piccola - che affacciava invece sul cortile secondario.”

Di Sailko - Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=48743228

La proprietà viene mantenuta fino al 1831, anno in cui la principessa di Stigliano, per far fronte a dei debiti, smembra il palazzo, riservandosi il secondo piano e vendendo il primo al banchiere Forquet. Tra il 1898 e il 1920 la Banca Commerciale Italiana acquista tutto il palazzo sia da Forquet che dagli altri proprietari, dando il via all’ultima trasformazione del Palazzo, completamente adeguato al gusto Liberty.

Le modifiche apportate da Luigi Platania riguardano il cortile fanzaghiano, che viene trasformato e adibito a salone per il pubblico; le pareti, che vengono tutte rivestite in marmo; il piano ammezzato, aperto e trasformato in balconate di gusto Liberty, e il grande spazio vuoto coperto dal lucernario vetrato decorato secondo il gusto degli anni; due grandi vetrate policrome sono aggiunte a schermare le arcate tra salone e vestibolo. Viene infine aggiunto il nuovo scalone d'onore monumentale.

Di Mentnafunangann - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=39976809

BIBLIOGRAFIA

A. Cilento, Bestiario napoletano, Laterza editore 2015


Palazzo donn'Anna

A strapiombo sulle acque del Mar Tirreno, questo superbo esemplare di barocco napoletano è uno dei palazzi di Napoli più affascinanti. Costruito nel 1642 su commissione della nobildonna Anna Carafa consorte del vicerè, è opera di Cosimo Fanzago, un architetto lombardo che, formatosi come scalpellino a Milano, dopo la morte del padre si trasferì dallo zio a Napoli. Avuto l’incarico di costruire questo palazzo non riuscì però a portarlo a termine, in quanto donna Anna Carafa morì prematuramente.

Si tratta, quindi, di un’opera incompiuta: si eleva al posto di una precedente villa dei principi di Stigliano, la Serena, e la sua particolarità è quella di avere due ingressi, uno sulla strada, che conduce direttamente al cortile interno costeggiando Posillipo, ed uno sul mare, nonché un teatro interno.

Il palazzo sorge su uno scoglio ed è costruito in tufo, mentre la facciata è solcata da finestroni e nicchie; a pianta rettangolare, presenta un andamento piuttosto discontinuo, forse a causa dei numerosi proprietari che ne hanno modificato, nel corso del tempo, l'aspetto. Nelle intenzioni dell'architetto doveva essere un edificio alquanto scenografico, con la possibilità di accedere ad un ampio cortile interno direttamente dal mare.

Ciò che, stranamente, rende più avvincente la storia di questo palazzo non è tanto la sua architettura, che riporta i tipici elementi caratterizzanti il barocco napoletano, ossia forme sinuose e virtuosismi, ma le innumerevoli leggende che sono fiorite su di esso nel corso del tempo. Già la sua denominazione, Palazzo Donn’Anna, è incerta, in quanto richiama alla mente sia la committente, donna Anna di Carafa, sia, per i napoletani, la regina Giovanna D’Angiò.

Si racconta che donna Anna Carafa, potentissima moglie del viceré, solesse dare feste e banchetti all’interno del palazzo, seguiti da spettacoli in costume: in uno di questi recitò la nipote di Anna Carafa, donna Mercedes, ed un altro nobile, Gaetano di Casapesenna, amante di donna Anna; fra donna Mercedes ed il Casapesenna era previsto dal copione un bacio, che fu dato e ricevuto con talmente tanto trasporto da provocare la folle gelosia della Carafa. Seguirono giorni di ingiurie fra le due donne, fino a che Mercedes sparì improvvisamente …. il giovane Gaetano la cercò disperato per mare e per terra prima di farsi uccidere in battaglia, e si narra che il fantasma di donna Mercedes ancora vaghi nel palazzo, e c’è chi giura di aver sentito pianti e lamenti nelle notti buie.

Matilde Serao, a questo proposito, nelle sue “Leggende napoletane”, scrive:

”Invano Gaetano di Casapesenna cercò Donna Mercede in Italia, in Francia, in Ispagna ed in Ungheria, invano si votò alla Madonna di Loreto, a San Giacomo di Compostella, invano pianse, pregò, supplicò. Mai più rivide la sua bella amante. Egli morì giovane, in battaglia, quale a cavaliere sventurato si conviene. Altre feste seguirono nel palazzo Medina, altri omaggi salutarono la ricca e potente duchessa Donn'Anna; ma ella sedeva sul suo trono, con l'anima amareggiata di fiele, col cuore arido e solitario. Quei fantasmi sono quelli degli amanti? O divini, divini fantasmi! Perché non possiamo anche noi, come voi, spasimare d'amore, anche dopo la morte?”

Altro discorso si deve fare invece per le due Giovanna D’Angiò, entrambe focose amanti ed entrambe inquiline di Palazzo Donn’Anna, che si narra uccidessero i loro giovani amori alla fine di un’unica ed indimenticabile notte d’amore. I cuori spezzati di mogli e fidanzate non si contavano, così come le sparizioni di tanti aitanti uomini, e si narra che ancora oggi sia possibile udire i lamenti dei tanti giovani amanti fatti uccidere in mille modi.

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Duomo di Amalfi

La cattedrale di Sant’Andrea, o Duomo, è sicuramente uno dei monumenti più caratteristici della costiera amalfitana e di Amalfi stessa: la facciata su più livelli, l’imponente scalinata e il bianco – nero che contrasta armoniosamente con i colori della facciata la rendono, infatti, immediatamente riconoscibile. La chiesa fu fondata nel IX secolo, quando Amalfi era una delle repubbliche marinare, e rimaneggiata nel 1200 con lo stile arabo-normanno allora tanto di moda. Ebbe altri due restauri, uno nella seconda metà del 1500 ed un altro nell’800 a seguito di un crollo. A fianco il campanile, rivestito di maioliche.

Caratteristico è il portico, con l’intreccio di arcate a trifora tipicamente arabo e la facciata a salienti, che conduce l’occhio direttamente al timpano, ove campeggia un mosaico raffigurante Cristo in trono in mezzo agli Evangelisti; oltrepassato il portico, si incontra la porta in bronzo proveniente da Costantinopoli, dono di un ricco amalfitano,il ricco mercante Pantaleone di Mauro.

L’interno è barocco, a tre navate riccamente decorate e sormontate da un soffitto a cassettoni ligneo e dorato con quattro affreschi. Spettacolare la vista prospettica sul settecentescoaltare maggiore e l’abside, in cui è collocata la tela raffigurante il Martirio di Sant’Andrea, patrono dei pescatori, cui la chiesa è consacrata. Sotto l’altare maggiore, infatti, vi sono le reliquie del santo, trasportate nel 1208 dal cardinale Pietro Capuano, reduce dalla Terra Santa. La leggenda racconta che le ossa di S. Andrea, racchiuse tra lastre istoriate, emanino una sostanza straordinaria, la Manna, raccolta da un’ampollina posta sulla tomba del santo.

Nella navata sinistra vi è la Croce di Madreperla, portata dalla Terra Santa da Monsignor Ercolano Marini, originario delle Marche, che fu benefattore amatissimo dalla gente amalfitana, che lo ricorda per le sue doti di umiltà e amore verso il prossimo, nonché come fine teologo. Le sue spoglie riposano ancora all’interno della cattedrale, ed in suo onore è stato eretto un orfanotrofio. Di fianco alla navata il Battistero, in porfido rosso egiziano, proveniente da Paestum.

Il Duomo è un insieme di elementi antichi e meno antichi: tra i più antichi spicca sicuramente la Basilica del SS. Crocefisso, edificata nell’anno 883, con matroneo e colonne originali, in cui sono stati collocati dei sarcofagi di età romana, mentre il resto delle decorazioni è stata spostata nel Museo Diocesano allocato di fianco al Duomo stesso.

L’elemento più spettacolare è sicuramente, però, il Chiostro del Paradiso, contiguo alla Basilica del SS. Crocefisso, un vero e proprio tuffo nell’Oriente: è un chiostro circondato da colonnette intrecciate e doppie a sesto acuto, fatto edificare tra il 1266 e il 1268 dall’arcivescovo Filippo Augustariccio come cimitero per i ricchi patrizi; ai lati si aprono sei cappelle affrescate del Trecento. L’intero portico è stato restaurato ed aperto al pubblico nel 1908.

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Battistero Paleocristiano di San Giovanni in fonte

L’unico al mondo ad essere ubicato su una sorgente, le cui acque erano utilizzate per il battesimo, il Battistero paleocristiano di San Giovanni in Fonte è un pregevole monumento situato sul confine tra Padula e Sala Consilina, due comuni del Vallo di Diano in provincia di Salerno.

Sorge nell’antico Marcellianum, ossia il latifondo agricolo della sovrastante città di Cosilinum, ora Padula, e prima che fosse adibito ad uso cristiano, esso era un tempio marino dedicato alla ninfa Leucothèa, notizia che ci viene riferita dallo storico Cassiodoro.
Successivamente venne trasformato in battistero cristiano, in quanto il primo Cristianesimo amava riutilizzare gli edifici preesistenti adeguandoli al suo culto.

La prima menzione dell’edificio, come “Commenda di S. Giovanni in Fonte”, comparve per la prima volta nel periodo normanno, quando fu concesso da Ruggero II ai Cavalieri Templari, protettori dei luoghi sacri della Terra Santa.Nuovamente da Cassiodoro ci viene riferito poi che, in occasione della fiera di San Cipriano, in quell’area avvenivano spesso dei furti, cosa giudicata non consona alla sacralità dei luoghi.

Qui si veniva convertiti alla religione cristiana mediante il rito orientale dell’immersione completa: la leggenda racconta che il candidato scendesse ritualmente sette scalini presenti nella vasca battesimale, simboleggianti i sette peccati capitali, e che l’acqua si gonfiasse raggiungendo il livello della gola; a quel puntosi veniva ritenuti purificati e pronti ad essere accettati come novelli cristiani, e l’acqua tornava al suo livello normale.

Il battistero fu annesso al demanio comunale per poi sparire, e successivamente ricomparire, soltanto alla fine dell’Ottocento; i restauri condotti dalla Soprintendenza tra il 1985 e il 1987 hanno evidenziato una composizione dell’edificio articolata intorno alla vasca centrale contornata da archi a tutto sesto, che probabilmente reggevano una cupola. Prospiciente alla vasca, un piccolo ambiente con un altare lapideo. Nei pennacchi delle volte vi sono dei frammenti di affreschi, di probabile matrice bizantina, raffiguranti una teoria di santi, mentre sono state ritrovate altre quattro teste, probabilmente raffiguranti i quattro Evangelisti.

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