IL DUOMO DI SALERNO E LA CRIPTA

A cura di Stefania Melito

INTRODUZIONE

La cattedrale primaziale metropolitana di Santa Maria degli Angeli, San Matteo e San Gregorio Magno, altresì detta Duomo di Salerno, o Cattedrale di San Matteo, o semplicemente San Matteo per i salernitani, è la chiesa principale della città. Il suo titolo di cattedrale è in realtà solo onorifico, in quanto essa è una basilica minore, ma si fregia del titolo di cattedrale in quanto riveste particolare importanza per il suo territorio e per la Chiesa.

Fig. 1: Di Berthold Werner, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=32936645

LA STORIA DEL DUOMO DI SALERNO: ROBERTO IL GUISCARDO

Costruito tra il 1076 e il 1084 quando era arcivescovo Alfano I, il duomo di Salerno fu voluto da Roberto il Guiscardo, personaggio fondamentale per la storia di Salerno. Sposo in seconde nozze della principessa longobarda Sichelgaita di Salerno, principessa guerriera che secondo la leggenda lo accompagnava in battaglia cavalcando al suo fianco, unì normanni e longobardi sotto un'unica bandiera formando di fatto un impero che si estendeva dalla Sicilia a Malta e comprendeva tutta l'Italia Meridionale. Strinse un patto d'alleanza con il papa Gregorio VII, dopo averlo salvato dall'assedio delle truppe imperiali di Carlo IV a Castel Sant'Angelo nel 1084 e aver saccheggiato Roma; il pontefice quindi si trasferì a Salerno sotto la protezione del duca.

A questo si aggiunse un altro episodio, a metà tra mito e leggenda, che concorse alla fondazione della chiesa, ossia la traslazione delle spoglie di San Matteo. Il santo infatti morì in Etiopia e fu sepolto a Velia, ove rimase per circa 500 anni. Da lì, nel 954, apparve in sogno ad una donna del posto, Pelagia, e a suo figlio, il monaco Atanasio, pregandoli di disseppellirlo: il monaco voleva condurre la salma a Costantinopoli, ma non riuscì a partire dal porto di Amalfi. Allora nascose la salma in una chiesa nei pressi di Casal Velino, dove il vescovo della diocesi di Paestum Giovanni la prelevò per condurlo a Capaccio. Dalla Cattedrale di Capaccio le spoglie furono poi portate a Salerno, ove giunsero il 6 Maggio del 954 d.C. e deposte nell'aula Sanctae Dei Genitricis, ossia il luogo che sarebbe poi diventato il duomo.

DESCRIZIONE DEL DUOMO: LA PORTA DEI LEONI

Il Duomo di Salerno presenta una prima facciata, ciò che resta della chiesa originale, con una porta fiancheggiata da due statue: una di un leone, simbolo della potenza della Chiesa, e una di una leonessa con il cucciolo, simbolo della Carità, a cui si accede tramite una doppia scala settecentesca di marmo che è andata a sostituire quella originale in pietra. Sul portone, un cartiglio che ricorda l’alleanza fra Salerno e Capua e decorazioni fitomorfe che alludono alla Passione di Cristo, nonché altre due rappresentazioni di animali: una scimmia, simbolo dell'eresia scacciata, e una colomba che mangia dei datteri, simbolo dell'anima che gode dei piaceri ultraterreni.

Fig. 2: la porta dei leoni

Dalla facciata si passa ad un quadri-portico, in cui è molto evidente il retaggio delle dominazioni arabe e normanne nonchè la predominanza dello stile romanico: tale portico è infatti uno degli unici esemplari di porticato romanico in Italia. Esso è composto da una fila inferiore di colonne di recupero, provenienti da Paestum e necropoli vicine, sormontate da dischi policromi, e da una fila superiore di colonnine raggruppate a gruppi di cinque (pentafore); in tutta la decorazione emergono stilemi arabeggianti. Il centro del cortile è occupato da una fontana, un vecchio fonte battesimale, mentre tutt’intorno al colonnato sono stati posizionati nel corso degli anni sarcofagi romani, quasi a voler comporre una specie di “album” delle famiglie illustri della città.

Fig. 3: Di Bellsalerno - Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=42852236. Particolare del colonnato interno.

Al lato del quadriportico si eleva il campanile arabo-normanno, risalente alla metà del XII secolo. Esso si eleva per un'altezza di 52 metri, ed è formato da quattro blocchi, tre cubici sormontati da un tiburio a cupola, tutti con bifore di alleggerimento ai quattro lati: la cupola finale è in stile amalfitano. Il campanile, che ospita ben otto campane, presenta sulla faccia meridionale una lapide che recita: "«TEMP(O)R(E) MAGNIFICI REG(IS) ROG(ERI) W(ULIELMUS) EP(ISCOPUS) A(POSTOLO) M(ATTHEO) ET PLEBI DEI», che tradotto significa «Al tempo del Magnifico Re Ruggiero il vescovo Guglielmo (dedicò) all'Apostolo Matteo e al Popolo di Dio».

Fig. 4: Di Bellsalerno - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=62662905

Alla cattedrale si accede mediante un portone di bronzo del 1099, proveniente da Costantinopoli, che presenta formelle in oro e in argento (ormai diventate verdastre) raffiguranti San Matteo e animali allegorici.

Fig. 5: https://www.salernodavedere.it/il-duomo-di-salerno-la-cattedrale-di-san-matteo/. Porta d'ingresso.

L'interno della chiesa presenta una struttura a tre navate con volta a botte, molto simile a quella dell'abbazia di Montecassino, che termina in un transetto triabsidato: la decorazione all'interno, risalente al Seicento, molto probabilmente fu eseguita al di sopra di affreschi precedenti di scuola giottesca, come dimostrano alcuni lacerti ritrovati in una delle cappelle laterali.

Fig. 6: pianta del duomo

 

Fig. 7: gli affreschi ritrovati

In generale l'impianto originario della cattedrale è stato stravolto dagli interventi seicenteschi di Carlo Buratti: di originale restano soltanto il pavimento musivo nei pressi della zona absidale e gli amboni, anch'essi rimaneggiati ma sufficientemente leggibili nella loro conformazione originale. Collocati subito prima dell'iconostasi, ossia della divisione che un tempo si ergeva fra la zona absidale e la zona ove si radunava il popolo, i due amboni sono l'ambone Guarna del 1180, chiamato così perchè donato dall'arcivescovo Romualdo Guarna alla cattedrale di Salerno, e l'ambone D'Ajello, del 1195, donato dalla famiglia dell'arcivescovo D'Ajello. L'ambone a sinistra, l'ambone Guarna, è più piccolo ed è di forma quadrangolare con un piccolo terrazzino sporgente: la sua tipologia di costruzione è detta "a cornu evangeli"; l'ambone di destra, l'ambone D'Ajello, molto più grande e detto "a cornu epistulae", è una cassa quadrata sorretta da dodici colonnine. Entrambi gli amboni presentano lastre intarsiate a motivi arabeggianti.

 

Di tutta la chiesa, quel che sorprende per la sua magnificenza è la cripta sottostante, alla quale si accede tramite una scalinata. È un ambiente riccamente affrescato, barocco, risalente al 1081 circa ma oggetto di rifacimento da parte degli architetti Domenico e Giulio Cesare Fontana nel ‘600. La decorazione policroma del pavimento, un alternarsi di piccole formelle nere su fondo bianco, esplode sul fusto delle colonne che reggono la volta e si inserisce perfettamente tra gli affreschi del soffitto racchiusi da cornici. Il soggetto raffigurato è il miracolo di San Matteo: leggenda vuole che in occasione dell’assedio di Salerno, avvenuto nel 1544 da parte di Ariadeno Barbarossa, si scatenasse una grande tempesta che allontanò e distrusse la flotta nemica. La tradizione attribuì questo evento ad un miracolo di San Matteo, eleggendo quindi il Santo a patrono della città; ancora oggi, durante la festa di San Matteo (21 settembre), viene innalzata un’immagine del Santo dipinta su un telo con la scritta “Salerno è mia, io la difendo”. Altri affreschi della volta rappresentano S. Grammazio, il Miracolo della liberazione di un indemoniato, la guarigione di un malato e la Sapienza, la Fortezza e la Giustizia. Al centro della cripta, circondato da una balaustra, vi è un altare a fossa che contiene le spoglie di san Matteo e la tradizionale statua bifronte del Santo. La tradizione vuole che il Santo sia raffigurato così affinché possa essere visto in volto da qualsiasi punto della cripta.

Fig. 10: Di MarcoGasparro - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=74974600

SITOGRAFIA

http://www.agirenotizie.it/2015/09/il-duomo-e-san-matteo-con-due-facce/

http://www.cattedraledisalerno.it/visita-virtuale/14-visita-vituale.html

http://www.cattedraledisalerno.it/visita-virtuale/la-cripta.html

http://www.lacittadisalerno.it/cronaca/il-santo-che-protegge-la-citt%C3%A0-salerno-%C3%A8-mia-io-la-difendo-1.1555848

https://www.costieraamalfitana.com/duomo-di-salerno/

www.salernonews24.com

www.medioevo.org


MONASTERO DI SANTA CHIARA

A cura di Stefania Melito

Introduzione e storia dell'edificio

Protagonista di una delle canzoni napoletane più famose di sempre (Munasterio ‘e Santa Chiara), il monastero di Santa Chiara di Napoli è una vera e propria oasi di pace all'interno del tessuto urbano napoletano, e rappresenta uno dei complessi monastici più grandiosi ed importanti della città partenopea.

Fig. 1: https://www.wga.hu/html_m/g/gagliard/index.html. Esterno Santa Chiara

Voluto da Roberto D’Angiò e dalla sua seconda moglie Sancia Maiorca come omaggio a San Francesco e Santa Chiara, santi ai quali i due sovrani erano devotissimi, il complesso fu costruito tra il 1310 e il 1328. I lavori furono eseguiti da Gagliardo Primario, architetto particolarmente attivo a Napoli in quel periodo, che immaginò l'aspetto dell'edificio sacro come la rappresentazione terrena della filosofia francescana improntata alla semplicità. In realtà, più che come una semplice chiesa, tale complesso fu immaginato come una sorta di cittadella francescana con l’aggiunta sia di un monastero femminile, destinato ad accogliere le Clarisse, sia di un convento maschile, ospitante i Frati Minori francescani. Il francescanesimo e la sua semplicità influenzarono anche lo stile gotico scelto per la costruzione: l'architetto infatti impostò la facciata con un aspetto simile ad una fortezza, in cui nel massiccio dell'architettura viene avanti in aggetto un corpo composto da tre archi gotici, due più piccoli ai lati e il terzo più grande centrale; sulla facciata a cuspide spicca un rosone traforato contornato da un motivo lineare. I fianchi del complesso riprendono ancora l'immagine della fortezza: possono essere orizzontalmente divisi in due parti, la prima, superiore, caratterizzata da fianchi massicci in cui sono evidenti robusti contrafforti intervallati da finestroni alti e stretti, e la seconda, in cui una fuga di archi gotici alleggerisce l'impianto e contorna l'entrata secondaria. Dal pronao si accede, tramite un portale strombato, all'interno della chiesa.

Fig. 2: Luca Aless / CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0). Interno

Qui ci si trova dinanzi ad una navata unica, lunga 82 metri, larga 13 e alta 46, con dieci cappelle per lato e con un aspetto austero, conforme allo spirito che anima anche la facciata, di cui viene ripreso lo schema compositivo a due blocchi. Dal soffitto a capriate lignee infatti l'occhio è attratto dalla fila di finestre che fanno penetrare una luce quasi ascetica, che si frange sul parapetto che corre lungo tutti gli archi strombati sorretti da pilastri circolari a fascio. Un tempo, secondo il Vasari, la chiesa era totalmente rivestita dagli affreschi di Giotto e della sua bottega napoletana, e addirittura sembra che in una di queste cappelle vi fosse ritratta l'Apocalisse secondo uno schema compositivo ideato da Dante. Nel 1340 la chiesa fu aperta al culto. L’aspetto rimase immutato fino al 1742, quando furono chiamati ad adeguarla al gusto mutato della nuova epoca Ferdinando Sanfelice e Domenico Vaccaro. Costoro, con un vasto gruppo di decoratori e architetti, distrussero trifore e bifore, la pavimentazione e gli altari e riempirono l’interno di ornamenti barocchi che sconvolsero l’aspetto della chiesa. Durante la seconda guerra mondiale un bombardamento provocò un incendio che distrusse in parte alcuni interni della chiesa, perdendo così tutti gli affreschi, sia le aggiunte posteriori sia quelli originali, di cui si sono salvati solo pochi frammenti. In seguito, i lavori di restauro si concentrarono sull'architettura medievale rimasta intatta ai bombardamenti, riportando la basilica all'aspetto originario trecentesco e omettendo il ripristino delle aggiunte settecentesche. I lavori terminarono definitivamente nel 1953 e la chiesa fu riaperta al pubblico. Le opere scultoree sopravvissute furono spostate nelle sale del monastero, che oggi accoglie il cosiddetto “Museo dell'Opera del Monastero”, mentre i sepolcri monumentali sono rimasti all'interno. Fra questi, degni di nota sono la sepoltura di Roberto D'Angiò realizzata dai fratelli Giovanni e Pacio Bertini, situato in fondo alla navata centrale, e le tombe di Carlo di Calabria e Maria di Valois opera di Timo da Camaino, scultore senese facente parte della bottega di Giovanni Pisano che concluse la sua carriera proprio a Napoli sotto i D'Angiò, progettando tra le altre cose Castel Sant'Elmo e la Certosa di San Martino.

La parte più famosa del Monastero è sicuramente il chiostro maiolicato, che ha conservato l’originario colonnato con 66 archi a sesto acuto, mentre l’aspetto attuale del giardino è opera del Vaccaro su commissione della badessa Ippolita da Carmignano.

Fig. 6: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Naples_santa_chiara_cloitre_trav%C3%A9e_centrale.JPG#globalusage

L’architetto infatti ristrutturò il Chiostro dividendo la parte centrale del cortile in quattro grandi aiuole, suddivise a loro volta da vialetti interni, e innalzò 64 piccoli pilastri in piperno impreziositi da maioliche disegnate da lui stesso: la celebre decorazione fu opera però degli artigiani Donato e Giuseppe Massa, che realizzarono e dipinsero a mano le maioliche policrome con scene di vita quotidiana di allora, motivi marinareschi, scene di vita agreste, miti e rappresentazioni allegoriche dei quattro elementi. Le "riggiole", ossia le mattonelle utilizzate, sono circa 30.000.

https://lartediguardarelarte.altervista.org/la-poetica-bellezza-napoletana-il-chiostro-maiolicato-del-monastero-di-santa-chiara/museo-santa-chiara-napoli/

Alcuni sedili collegano i pilastri maiolicati tra di loro: la particolarità consiste nell'aver raccordato cromaticamente tutto il chiostro, adattando la decorazione agli affreschi del '700 che ricoprono le pareti e che rappresentano allegorie, scene dell’Antico Testamento e santi.

Fig. 9: https://lartediguardarelarte.altervista.org/la-poetica-bellezza-napoletana-il-chiostro-maiolicato-del-monastero-di-santa-chiara/museo-santa-chiara-napoli/

A differenza della chiesa, il chiostro è scampato quasi miracolosamente ai bombardamenti del 1943.

https://www.touringclub.it/evento/napoli-monastero-di-santa-chiara

https://www.10cose.it/napoli/chiesa-chiostro-monastero-santa-chiara-napoli

http://www.napolike.it/complesso-di-santa-chiara-napoli

www.museosantachiaranapoli.it

 


VILLA PIGNATELLI A NAPOLI

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Il figlio del primo ministro di Ferdinando I che litiga con l’architetto al quale ha commissionato una villa imponente da costruire abbattendo un’altra villa, costringendolo prima a presentare ventidue progetti e poi licenziandolo. Non è l’inizio di un libro ma la reale vicenda che ha portato alla nascita della villa Pignatelli a Napoli, situata sulla Riviera di Chiaia. Ma andiamo con ordine.

La nascita di un progetto: villa Pignatelli a Napoli

Il figlio del primo ministro di Ferdinando I era sir Ferdinand Richard Acton, nobile britannico: i suoi genitori erano sir John Acton, ministro del regno di Napoli, e la figlia del fratello; in pratica la madre di sir Ferdinand era anche sua cugina diretta. Nel 1826 sir Ferdinand commissionò i lavori della villa all'architetto Pietro Valente, che per adeguarsi alle precise richieste del committente inglese fu costretto ad elaborare e a sottoporgli ventidue progetti, fino a quando riuscì a trovare un accordo. Immaginò la casa, costruita abbattendo prima una dimora dei principi Carafa e poi edificandovi sopra i nuovi corpi di fabbrica, come una classica domus pompeiana a pianta quadrata formata dall'unione di due rettangoli. Il primo rettangolo, a due piani, forma il corpo di fabbrica anteriore arricchito da un porticato con colonne doriche, mentre il secondo, quello posteriore, concepito come l’ingresso principale, si sviluppa su un solo piano. La scelta di collocare l’ingresso nella parte posteriore fu dettata dalla volontà dell’architetto di consentire ai proprietari della villa di arrivare direttamente in carrozza davanti l’ingresso.

Fig. 1: Di Armando Mancini - Flickr: Napoli - Villa Pignatelli, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16361259

Lo stesso Valente disegnò anche l’appartamento del maggiordomo sul lato ovest, i due padiglioni sulla Riviera di Chiaia e gli alloggi della servitù. Gli interni e il giardino furono invece opera del toscano Guglielmo Bechi, che curò la decorazione interna dell’appartamento e la scalinata d’ingresso in marmo sul lato posteriore, con sculture che riproducono statue romane.

Fig. 2: https://www.visitnaples.eu/napoletanita/percorri-napoli/villa-pignatelli-storia-e-cultura-in-un-antica-dimora-dell-ottocento

Alla morte dei proprietari inglesi la villa fu acquistata dal banchiere Rotschild, che grazie ai prestiti alla dinastia dei Borbone era riuscito ad avere un posto di primo piano sulla scena politica partenopea. Il banchiere tedesco, volendo abbellire la dimora, chiamò Gaetano Genovese, l’architetto ufficiale della casa reale napoletana, e abitò nella villa fino al 1860. Di lui resta il monogramma CR al primo piano. Dopo le vicende dell’Unità d’Italia i banchieri vendono la villa nel 1867 al principe Diego Aragona Pignatelli Cortes e sua moglie, che continuano i lavori di trasformazione già avviati dai precedenti proprietari.  Al nipote Diego, che vi si trasferì con la moglie Rosa Fici di Amalfi nel 1897, risalgono la copertura del portico, le trasformazioni interne e i mobili, fatti eseguire appositamente per gli ambienti dell’appartamento. Nel 1952 la principessa Rosina, con il desiderio di perpetuare il ricordo della sua famiglia e del marito, lasciò la Villa allo Stato, purché “nessun oggetto potesse essere distratto a far parte di altre collezioni”. La Villa diventò quindi l’attuale Museo.

Di tutti questi cambi di proprietari e relativi lavori rimane un patrimonio incredibile, una stratificazione di epoche e di opere d’arte che hanno contribuito ad accrescere il fascino di questa dimora. Ogni proprietario vi ha infatti riversato il proprio gusto e le proprie inclinazioni artistiche, dalle collezioni d’arte a quelle di fotografia, dalla posateria da tavola ai quadri agli arredi e alle sculture passando per i libri (circa 2000), gli spartiti antichi, i dischi di musica classica (circa 4000) e le carrozze. Il museo comprende la Villa con l’Appartamento Storico al piano terra di cui possono essere visitati i tre salottini (azzurro, rosso e verde), la Sala da ballo, la veranda neoclassica, la Biblioteca e la Sala da pranzo con la tavola con piatti e posate della famiglia Pignatelli

Ci sono inoltre gli ambienti del primo piano destinati alla Casa della Fotografia, il Museo delle Carrozze e dei finimenti al pianterreno della Palazzina Rothschild e il giardino.

http://www.polomusealecampania.beniculturali.it/index.php/il-museo-pignatelli

http://www.napolike.it/villa-pignatelli-napoli

http://www.rocaille.it/villa-pignatelli-napoli/

 


LA CAPPELLA DEI BIANCHI DELLA GIUSTIZIA

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Napoli, cortile dell’Ospedale degli Incurabili, una scala a tenaglia. Ed ecco che improvvisamente ci si ritrova in uno scrigno d’arte appartenuto a chi faceva del conforto ai condannati a morte la propria missione di vita. Stiamo parlando della Confraternita dei Bianchi della Giustizia e della loro Cappella, tradizionalmente aperta solo due volte all'anno, ossia a Pasqua e all'Assunta.

Fig. 1: Di Baku - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=7158704

La cappella dei Bianchi della Giustizia: la storia

Recentemente riaperta grazie all'Associazione “Il faro di Ippocrate” e alla Curia, la cappella dei Bianchi della Giustizia deve il suo nome all'abito indossato dagli uomini dell’omonima confraternita, una sorta di saio bianco con cappuccio; presenti in molte raffigurazioni, soprattutto del periodo risorgimentale, costoro avevano il compito di assistere spiritualmente tutti i condannati a morte nel loro ultimo viaggio, accompagnandoli fisicamente al patibolo e facendosi carico delle spese dei funerali e delle messe a suffragio, nonché del conforto dei parenti del condannato. Si deve a San Giacomo della Marca nel 400 l’istituzione di questo “pio ufficio” e anche il nome latino della confraternita, Succurre Miseris, che sarà attivo per circa quattro secoli. I Bianchi della Giustizia, costituiti da una miscellanea di uomini appartenenti a varie classi sociali e spesso tacciati di tramare alle spalle del potere, nel corso della loro esistenza, oltre all'assistenza spirituale, formarono un vero e proprio archivio in cui raccolsero nomi, cognomi e testimonianze di circa quattromila condannati a morte in circa quattro secoli. Uomini e donne uccisi per i motivi più disparati, a volte senza un motivo, solo perché ritenuti “pericolosi” o perché sfortunati. È il caso dei soldati uccisi per rappresaglia con il “metodo della decima”, ossia il decimo soldato della fila veniva fucilato, per non parlare dei tanti patrioti napoletani uccisi solo perché portatori di idee nuove. Oltre a questo, raccoglievano anche gli oggetti appartenuti al defunto e, soprattutto, le corde utilizzate per impiccarli, affinché non venissero vendute dai boia come portafortuna contro il malocchio. Erano una confraternita potentissima, temuta da Filippo II che ne ordinò lo scioglimento, ma che sopravvisse fondando anche, tra le altre cose, il Pio Monte della Misericordia.

Descrizione della Cappella

La Cappella dei Bianchi della Giustizia, situata sul lato nord dell’Ospedale degli Incurabili, si compone di vari ambienti riccamente adornati: dallo scalone a tenaglia realizzato in piperno si accede alla barocca Cappella di Santa Maria Succurre Miseris, con pavimento a scacchi in cui è inserita una lapide. La volta, a botte, presenta affreschi di Giovanni Balducci, Giovan Battista Benaschi e Giacomo Sansi, mentre sull'altare, opera di Dioniso Lazzari in marmo policromo e decorato con stucchi dorati, vi è una statua della Vergine di Giovanni di Nola.

Sui tre lati intorno all’altare corrono stalli lignei, opera di Giuseppe Lubrano, culminanti in uno stallo difronte all'altare sormontato da una cimasa lignea e un baldacchino in tessuto rosso.  Da questo ambiente si passa alla “Cappella dei Giustiziati”, un piccolo ambiente barocco caratterizzato da un pavimento a scacchi con un motivo che ricorre in molti ambienti monastici campani, un intarsio marmoreo quasi tridimensionale che suggerisce l’idea di una scala, simbolo dell’ascesa al Signore propria delle comunità religiose. Il soffitto è decorato con stucchi dorati, mentre il piccolo altare marmoreo presenta un medaglione con una raffigurazione della Madonna con Bambino.

https://www.ilmattino.it/napoli/cultura/napoli_riapre_dopo_anni_la_cappella_dei_bianchi_della_giustizia-2554511.html

Il terzo ambiente è la Sacrestia, che custodisce affreschi di Paolo De Matteis con i ritratti di importanti membri della confraternita.

Oltre a questi vi è anche una selezione di oggetti appartenuti ai condannati a morte nel corso dei secoli, nonché la cosiddetta “Scandalosa”: un mezzobusto agghiacciante che mostra gli effetti provocati dalla sifilide sul corpo di una giovane e bella donna, un terribile monito per le tante ragazze che, spinte dalla fame e dalla miseria, si dedicavano alla prostituzione e rischiavano di finire vittime dalla terribile malattia che fece strage per diversi secoli.

https://www.ilmattino.it/napoli/cultura/napoli_riapre_dopo_anni_la_cappella_dei_bianchi_della_giustizia-2554511.html

https://www.ilmattino.it/napoli/cultura/napoli_riapre_dopo_anni_la_cappella_dei_bianchi_della_giustizia-2554511.html

http://www.napoligrafia.it/monumenti/chiese/congreghe/mariaBianchi/mariaBianchi01.htm

https://napolipiu.com/napoli-la-cappella-dei-giustiziati-o-compagnia-dei-bianchi-della-giustizia/

https://www.napoli-turistica.com/cappella-dei-bianchi-della-giustizia-napoli/

http://www.ecampania.it/napoli/cultura/visita-guidata-alla-cappella-bianchi-della-giustizia

 


VILLA SAN MICHELE: TRA CIELO E MARE

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Situata ad Anacapri, comune dell’isola di Capri, Villa San Michele potrebbe essere definita la realizzazione fisica ed architettonica di un sogno. La sua costruzione fu voluta infatti da un giovane medico svedese, Alex Munthe, che visitando Capri si innamorò talmente del clima, del sole e del mare dell’isola che decise di trasferirsi lì.

La villa: genesi di un capolavoro

"Una casa aperta al sole, al vento e alle voci del mare - come un tempio greco - e luci, luci ovunque"; con queste parole il medico venuto dal freddo descrisse la sua idea di villa. Era nato nel 1857 ad Oscarshamn, figlio di un farmacista svedese. Divenne medico personale della regina Vittoria di Svezia, e morì nel Palazzo Reale di Stoccolma nel 1949. Quando arrivò sull'isola, nel 1885, lì dove avrebbe edificato la sua villa c’era soltanto una piccola cappella dedicata a San Michele, da cui la villa prese il nome. Tutto intorno niente, solo una ripidissima scala collegava quel pianoro battuto dal vento al resto dell'isola. Le vicissitudini dovute alla sua costruzione furono quindi molteplici, e dovute a vari fattori: la posizione della villa,situata su uno sperone roccioso, la difficoltà di far arrivare i materiali via mare etc.

https://www.capri.it/it/s/villa-san-michele-axel-munthe, la villa alla sommità della scala fenicia

Nonostante le difficoltà, il giovane medico non desistette dal suo obiettivo, da lui talmente sentito da parergli quasi di aver sottoscritto un patto con l'anima del luogo, una sorta di genius loci <<avvolto da un ricco manto>>. La salubrità del clima caprese, la tranquillità di una vita così diversa da quella che lui conosceva, il rapporto a tratti quasi mistico tra gli isolani e la natura lo spinsero a lavorare, principalmente in Francia, avendo come unici obiettivi mettere da parte i soldi per la costruzione della villa e indagare sempre più a fondo l'animo umano. Forte di ciò, intorno alla fine dell'Ottocento cominciò i lavori.

La costruzione dell'edificio

La villa in origine era situata in un appezzamento di terreno ove sorgeva l'antica cappella di San Michele, ormai diroccata, e la casa del proprietario del terreno. Alex Munthe la acquistò e la trasformò completamente: è concepita in uno stile molto aperto ed arioso, circondata da pergolati da cui si ammira il golfo di Napoli e che cingono come in un abbraccio il corpo centrale della casa, articolato su più livelli, mentre la parte centrale, lo studio personale del medico, è al primo piano. «Nessun architetto fu mai consultato, nessun disegno preciso o pianta venne mai fatto, nessuna esatta misura fu mai presa. Fu tutto fatto ad occhi chiusi come diceva mastro Nicola», o seguendo schizzi abbozzati sulle pareti. Nel corso della costruzione, in un piccolo appezzamento di terreno vicino, il medico scoprì un’antica villa romana, da cui prese anche dei reperti archeologici per abbellire la sua casa; altri reperti gli furono regalati dagli abitanti del luogo, che non capendo il valore inestimabile degli oggetti preferirono darli al medico svedese, che li custodì amorevolmente all'interno della villa trasformandola in un vero e proprio museo.

http://villasanmichele.eu/index.php?page=collection

Un gusto a metà fra l'eclettismo e il collezionismo pervade tutta l'abitazione: il rivestimento bianco, la predominanza del bianco e del nero nei vari ambienti della casa sono mutuati dalla precedente struttura, la casa di Vincenzo Alberino, un isolano proprietario del terreno, a cui fanno da contraltare il colore del mare, dei fiori, delle opere d'arte ivi posizionate.

Particolare, ed esemplificativa della sua personalità, è la camera da letto: anche qui una miscellanea di oggetti inseriti in un ambiente bianco quasi spartano, con volta a crociera retta da un doppio arco all'ingresso e una trifora in corrispondenza del corridoio.

Seguendo la tradizione meridionale secondo cui gli oggetti posti in corrispondenza del capo condizioneranno il sonno, il medico pose una testa di Hypnos, il dio greco del Sonno fratello della Morte. Se si pensa al fatto che la morte è la nemica di qualsiasi medico, e che Munthe nel corso della sua vita fu afflitto dall'insonnia, ecco che questa testa assume un significato doppio, a metà tra il propiziatorio e l'apotropaico.

http://villasanmichele.eu/collection

La passione per l’arte non si limitava soltanto ai reperti archeologici: Munthe infatti fece arrivare da altre parti d’Italia oggetti di pregio per la sua casa, tra cui mobili toscani e tavoli decorati in stile cosmatesco, con cui abbellì quella che sarebbe stata la sua dimora, salvo brevi intervalli, per 56 anni.

La parte più caratteristica della villa è il colonnato, in cui è posta una sfinge di granito rivolta verso il mare.

https://it.wikipedia.org/wiki/File:Villa_San_Michele_Sphinx.jpg

Questa Sfinge ha 3200 anni, proviene direttamente dall'Egitto e come questa creatura mitologica in granito rosso sia arrivata a villa San Michele resta un mistero, uno dei tanti di questo luogo. Si racconta che il medico l'abbia vista in sogno, sia andato in barca a recuperarla e l'abbia posta lì, sotto il colonnato, rivolta verso il mare.

La fine del sogno

L’edificazione della villa assorbì gran parte della vita di Alex Munthe, che per uno strano scherzo del destino fu colpito da una malattia agli occhi che lo costrinse ad affittare villa San Michele alla marchesa Luisa Casati Stampa, che ne rese una dimora famosa per lo sfarzo e la vita piena di eccessi che vi si conduceva. Alex Munthe si trasferì a Torre Materita, una parte di Anacapri più in ombra e migliore per la sua malattia agli occhi, non prima di aver acquistato il terreno e il monte che si erge alle spalle della villa per farne una riserva per gli uccelli. Lì, su quella montagna, si erge un castello, il castello Barbarossa, diventato oggi stazione ornitologica. Quando la marchesa Casati Stampa lasciò villa San Michele il medico, stanco degli eccessi della nobildonna, tolse via ogni cosa lasciata da lei, tranne il suo motto, che ancora oggi campeggia in una delle stanze della villa: Oser Vouloir Savoir Se Taire (Osare Volere Sapere Tacere). Alex Munthe morì in Svezia otto anni prima della marchesa, lasciando in eredità la sua dimora allo stato svedese.

Oggi è un museo, presieduto dalla Fondazione Munthe, ove è possibile ammirare la straordinaria varietà di oggetti preziosi custodita al suo interno. Le storie relative alla costruzione della villa diventarono un best-seller intitolato “La storia di san Michele”, uno dei libri più letti del Novecento dopo la Bibbia e il Corano.

http://www.comunedianacapri.it/it/s/villa-san-michele-2

http://www.capri.net/it/s/villa-san-michele-axel-munthe

http://www.ilparcopiubello.it/index.php/park/dettaglio/76

http://villasanmichele.eu/


VILLA PANDOLA SANFELICE A LAURO (AV)

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Di Mocogia - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=47546851

Lauro (in verde più scuro sulla cartina), piccolo paese della provincia di Avellino che dista circa 40 km dal capoluogo, è situato al centro del cosiddetto Vallo di Lauro, una valle incassata al di sotto delle cime dei monti Cresta e Pizzo D'Alvano (entrambi sui mille metri) che per la sua posizione strategica ha costituito da sempre un luogo di conquista per le varie dinastie che si sono susseguite nei secoli, dai Normanni fino ad arrivare agli Orsini, ai Del Balzo e ai Pandola. In tempi recenti Lauro viene ricordata per essere la città natale di Umberto Nobile, generale dell'Aeronautica famoso per la sfortunata esplorazione nel 1928 del polo Nord sul dirigibile "Italia", da cui venne tratto il film "La tenda rossa" del 1969 diretto da Mikheil Kalatozishvili.

Fig. 2: il dirigibile Italia https://www.osservatorioartico.it/la-storia-del-dirigibile-italia/

Villa Pandola Sanfelice

Villa Pandola Sanfelice si trova appunto nel comune di di Lauro, ed è situata sulle antiche mura a ridosso del Castello Lancellotti. Originariamente era di proprietà dell'Ordine del Beneficio di S. Maddalena, e fu acquistata dalla famiglia Pandola nel 1753, favorevole all'unificazione d'Italia e al Risorgimento; la dimora rimase della famiglia fino al matrimonio nel 1966 dell'ultima discendente di casa Pandola, Emilia, quando essa passò ai Sanfelice,di tradizione filoborbonica. La casa rispecchia questa pluralità di visioni, in quanto in essa sono contenuti sia cimeli militari che rimandano ai moti risorgimentali, sia arredi che rispecchiano un gusto più tradizionale e filomonarchico. Tutta la storia della famiglia è contenuta in un libro, "Emilia e i suoi: una famiglia del sud dentro il Risorgimento", scritto dall'ultima discendente di casa Pandola, l'irlandese Emilia appunto, nata Higgins e trasferitasi a Napoli nei primi dell'Ottocento.

Fig. 1: villa Pandola Sanfelice, l'esterno https://www.dimorestoricheitaliane.it/dimora/villa-pandola-sanfelice/

Villa Pandola Sanfelice: la casa

L’ingresso è preceduto da un viale dall'andamento sinuoso, fiancheggiato da aranci, limoni, numerosi arbusti floreali quali rose e gelsomini, palme di diversi tipi e alberi centenari, immerso in uno splendido scenario naturalistico digradante in una piccola altura boscosa. L’ingresso è costituito da una grande stanza che fa da collegamento e contemporaneamente divisione a due saloni, l’uno detto “degli Specchi”, l’altro “delle Battaglie”, dal soggetto dei quadri presenti, a cui segue una piccola cappella. Sia la hall che i saloni sono impreziositi dagli arredi originali d’epoca, ma soprattutto dai pavimenti di maioliche napoletane originali del XIX secolo.

Dal piano terra, attraverso uno scalone di marmo, si giunge al primo piano o piano nobile, dove sulla sinistra si può ammirare la cosiddetta “Sala della musica”, il cui pavimento è tutto di maioliche sui toni del terra bruciata a disegni geometrici: domina la stanza, immersa in una calda luce beige grazie alla tappezzeria di seta a colori neutri, un pianoforte della prima metà dell’ ‘800 cosiddetto "Gran Concerto", su cui sono esposti dei violini.

Fig. 2: la sala della musica https://www.turismo.it/cultura/articolo/art/campania-alla-scoperta-di-villa-pandola-sanfelice-id-19030/

Successivamente, in una disposizione ad infilata, si trova il “salotto verde”, dal colore predominante degli arredi, impreziosito da un camino di marmo bianco scolpito di foggia semplice ma elegante. Alle pareti, quadri a carattere naturalistico raffiguranti uno la foce del Garigliano (fiume che segna il confine fra Campania e Lazio), l’altro Torre Astura (torretta fortificata laziale). Il pavimento è di cotto, che contrasta piacevolmente con la tappezzeria bianca.

Fig. 3: sala verde
https://www.dimorestoricheitaliane.it/dimora/villa-pandola-sanfelice/

Degna di nota è la camera da letto principale, detta “dell’Ammiraglio” in quanto sul letto campeggia un quadro raffigurante una battaglia: arredi originali dell’epoca e un letto sormontato da un baldacchino completano l’insieme; tutti i mobili sono originali, in stile Impero.

Fig. 4: camera da letto https://www.dimorestoricheitaliane.it/dimora/villa-pandola-sanfelice/

La Villa contiene, ed occasionalmente espone, cimeli, antiche uniformi militari, documenti e corrispondenze, abiti di corte e testimonianze delle simpatie filoborboniche della famiglia Sanfelice, che contrastano piacevolmente con gli arredi di gusto risorgimentale, come ad esempio i quadri di noti liberali dell'Ottocento, come Carlo Poerio, appesi alle pareti.

Tutta la struttura è insomma pervasa dal fascino multiforme della Storia, che un attento restauro a cura delle attuali proprietarie ha saputo conservare pressoché intatto.

 

SITOGRAFIA

www.osservatorioartico.it

http://dimorestoricheitaliane.it/vacanze-location/villa-pandola-sanfelice/

http://www.irpinia.info/sito/towns/lauro/villapandolasfelice.htm

http://www.nobili-napoletani.it/sanfelice.htm

http://www.ottopagine.it/av/agenda/74047/lauro-tutto-pronto-per-la-pubblicazione-di-agora.shtml


LA CAPPELLA DEL TESORO DI SAN GENNARO

A cura di Stefania Melito

Introduzione

È risaputo: la devozione del popolo napoletano per San Gennaro è talmente grande da eclissare qualsiasi altro “rapporto” che si possa avere con gli altri 51 patroni della città; San Gennaro è amato, insultato, invocato, “vissuto” quasi nel quotidiano come se fosse una persona reale sempre al proprio fianco. Ed ovviamente le vicende che riguardano i monumenti e le testimonianze artistiche legate al santo sono le più strane ed avvincenti, al confine fra realtà e leggenda. Esempio perfetto sono le vicende della costruzione della Cappella del Tesoro di San Gennaro all’interno del Duomo di Napoli.

La Cappella del Tesoro di San Gennaro

A seguito di guerre e pestilenze i napoletani fecero infatti un voto a San Gennaro, promettendo che se il santo avesse allontanato dalla città le eruzioni del Vesuvio, le pestilenze, i terremoti e le guerre la città lo avrebbe “ricompensato” costruendo una nuova e più bella Cappella del Tesoro all’interno del Duomo; per solennizzare questa promessa, essa fu redatta davanti ad un notaio il 13 gennaio 1527 dalla “deputazione”, una sorta di commissione creata ad hoc. Nel 1608 la costruzione della Cappella fu affidata all’architetto Francesco Grimaldi, già attivo a Napoli per altri incarichi; i problemi più grandi si ebbero però al momento della decorazione, in quanto il ciclo pittorico fu voluto affidare a pittori non napoletani, in un tentativo di accaparrarsi le migliori maestranze europee. Tale idea suscitò però le ire dei pittori napoletani ed un insieme di sabotaggi ai danni degli artisti chiamati: il cavalier d'Arpino rinunciò, Guido Reni lasciò Napoli dopo l'accoltellamento di un suo aiutante, Francesco Gessi scappò. Arrivò il Domenichino, cominciò a lavorare ma, dopo una lettera di minacce, fuggì anche lui. Tornò più tardi e completò alcune opere, ma il 6 aprile 1641 improvvisamente morì, avvelenato secondo alcuni. Altri artisti chiamati furono Giovanni Lanfranco, minacciato, e i napoletani Luca Giordano, Massimo Stanzione e Giuseppe Ribera, detto "Spagnoletto". Tra varie vicende, la Cappella fu completata ed inaugurata nel 1646.

Descrizione

Essa è a croce greca, in stile barocco, separata dal resto del Duomo dal cancello in bronzo dorato di Cosimo Fanzago, costruito in circa 40 anni, particolarissimo in quanto è un vero e proprio strumento musicale (se si batte con una moneta il cancello si sentono le note musicali) e da una fascia marmorea sul pavimento, che ribadisce un’altra particolarità della Cappella, ossia la sua appartenenza alla città di Napoli e non alla Curia.

Di IlSistemone - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=21878993

Vi sono sette altari: uno maggiore (opera del Solimena) situato al centro e che racchiude al proprio interno le ampolle con il sangue del Santo, due laterali e quattro minori, posti alla base degli archi che reggono la cupola.

Di © José Luiz Bernardes Ribeiro, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=39192953

Tutt’intorno vi sono diciotto sculture bronzee di Santi posti intorno alla scultura di San Gennaro sull’altare maggiore, mentre in totale, compresa sacrestia e cappella della Concezione, vi sono 54 busti reliquari in argento, raffiguranti i santi patroni della città e sempre di scuola napoletana, tra i quali spiccano le attribuzioni a Lorenzo Vaccaro, Giuseppe Sanmartino e Andrea Falcone. Il ciclo di affreschi, come detto, è opera prevalentemente del Domenichino (i pennacchi della cupola e tutta la fascia superiore della cupola), esclusa la parte centrale della cupola, opera di Giovanni Lanfranco, e la pala d'altare di destra (il San Gennaro esce illeso dalla fornace) opera del Ribera.

Di ErwinMeier - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=74706408

Dall’altare di destra parte un corridoio, affrescato a trompe-l'œil, che conduce alla sacrestia della Cappella e alla cappella della Conciliazione: la sacrestia, arredata con armadi seicenteschi lignei contenenti i paramenti sacri e sormontati da dipinti su rame, presenta una decorazione candida in stucco con putti e figure che culminano in un affresco ovale di Luca Giordano.

Di IlSistemone - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=45064266

La cappella della Concezione invece presenta una decorazione a marmi e stucchi, con un altro dipinto ovale sulla volta opera del Farelli. Sull’altare maggiore vi è un’opera di Stanzione, che sostituì quella che avrebbe dovuto fare il Domenichino ma che non riuscì a portare a termine a causa della sua morte.

Di IlSistemone - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=45064267

http://www.museosangennaro.it/it/35/gli-affreschi

http://www.museosangennaro.it/it/34/la-cappella

http://www.cappellasangennaro.it/

 


Villa Cimbrone

Uno dei più spettacolari edifici di Ravello, villa Cimbrone prende il suo nome dallo sperone roccioso, il cosiddetto “Cimbronium”, su cui è posata. Notizie della villa si hanno intorno al 1300, probabile epoca della sua costruzione, quando era di proprietà della potente famiglia degli Acconciajoco, che per varie vicissitudini furono costretti a cederla ai Fusco; questi ultimi, imparentato con i Pitti e i D’Angiò, se ne innamorarono talmente da mantenerne il possesso per più di 500 anni. Al corpo originario della villa furono man mano aggiunti delle cappelle private ed altri edifici, ma a caratterizzarne profondamente l’atmosfera fu il giardino: villa Cimbrone infatti, a differenza del restante territorio di Ravello che è principalmente roccioso e scosceso, offre vaste superfici coltivabili, che hanno permesso di realizzare un parco di ben sei ettari. La costruzione del cosiddetto Terrazzo del Belvedere e l’impianto del giardino sono di epoca rinascimentale, mentre al ‘700 si possono far risalire alcuni interventi nel corpo di fabbrica principale, come i saloni di rappresentanza: questi ultimi in particolare hanno decorazioni che si rifanno al giardino esterno. Alcuni fenomeni storici, come l’epoca napoleonica e il brigantaggio, uniti ad episodi come il terremoto che colpì la Costiera amalfitana alla fine del Settecento, determinarono un periodo di grande abbandono per Villa Cimbrone, svenduta per gravi problemi economici alla famiglia degli Amici di Atrani. L’epoca d’oro per la villa, però, si raggiunge nell’800, quando una buona parte dell’edificio viene comprata da un ricco banchiere inglese, Ernest William Beckett (1856-1917) 2° Lord Grimthorpe, giunto a Ravello per curare una grave forma di depressione. Lo splendore del luogo, il clima mite e i panorami mozzafiato influirono positivamente sul banchiere, che acquistata la villa nel 1904 decise di farne il posto più bello del mondo, e grazie al suo architetto di fiducia Nicola Mansi, commissionò numerosi interventi volti a ripulire e ridisegnare l’aspetto della villa ma soprattutto del giardino, che fu arricchito da statue, fontane e padiglioni decorativi, mentre il lavoro di appassionati botanici internazionali riuscì a far convivere insieme piante tropicali e mediterranee, che furono posizionate in maniera tale da “scandire” il giardino in tanti “episodi”. Durante la seconda guerra mondiale l’edificio fu confiscato e visse un secondo periodo di abbandono, a cui pose rimedio la famiglia Vuilleumier, che acquistò la struttura nel 1960, ripristinandone man mano l’antico splendore e creandovi un hotel di lusso.

http://www.villacimbrone.com/it/thevuilleumiersperiod.php

http://www.vesuviolive.it/ultime-notizie/95623-villa-cimbrone-la-piu-spettacolare-ditalia-ravello/<h3>

<strong>GALLERIA FOTOGRAFICA</strong></h3>

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IL CASTELLO LANCELLOTTI DI LAURO (AV)

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Situato a Lauro, provincia di Avellino, su uno sperone roccioso chiamato “primo sasso di Lauro” che domina la vallata, il Castello Lancellotti balza agli occhi immediatamente per due ragioni: innanzi tutto per la sua imponenza, e poi per l’ecletticità della sua struttura.

È una costruzione sorta sulle rovine di una precedente struttura di epoca romana, e la sua particolarità consiste nella perfetta coesistenza di vari ordini e stili, senza per questo perdere di armonia e bellezza.

Figura 1: http://www.avellinotoday.it/eventi/storie-inverno-castello-lancellotti.html.

La struttura originaria del castello risale al 976, quando si parla di un certo Raimundo signore del “Castel Lauri”, anche se non si capisce bene dalla denominazione se quel “Lauri” si riferisca al castello o al comune. Quello che è certo è che in quel tempo la precedente struttura non esisteva più.

Il maniero nel tempo ha cambiato vari proprietari, come i principi del principato di Salerno o i Sanseverino, conti di Caserta, nel periodo normanno. Si hanno notizie più certe su di esso nel 1277, quando viene incluso dalla cancelleria angioina nelle proprietà di Margherita de Toucy, cugina di Carlo I d’Angiò. L’anno dopo diventa proprietà dei Del Balzo, famiglia di origini provenzali ma presente ad Avellino, che acquisirono tutta la contea. Costoro, in particolare, erano proprietari di ben trecento castelli in un’area compresa fra Salerno e Taranto, e potevano viaggiare fra queste due località senza mai lasciare i propri domini. (http://www.nobili-napoletani.it/del_Balzo.htm) Successivamente ai Del Balzo vi furono gli Orsini, conti di Nola, nel periodo aragonese, i Pignatelli e i Lancellotti, che ne acquisirono la proprietà nel 1632 da Camillo II Pignatelli e che sono gli attuali proprietari. La storia del castello subì una brusca interruzione la notte del 30 aprile 1799, quando fu dato alle fiamme dalle truppe francesi intervenute a sedare una rivolta giacobina. Una prima parte fu ricostruita nel 1870-1872 ad opera del principe Filippo Lancellotti, mentre i lavori terminarono definitivamente intorno al ‘900.

Figura 2: https://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/170104-castello-lancellotti-lauro-av-le-residenze-storiche-piu-visitate-della-campania/

Il maniero presenta elementi in stile gotico, rinascimentale, barocco, monumenti di epoca romana e un giardino all'italiana, fusi insieme in un complesso armonioso. A circondare la struttura vi sono le mura merlate, su cui sono poste diverse porte di accesso, fra cui spicca il portale rinascimentale a bugnato.

Figura 3: <a href="https://www.tripadvisor.it/LocationPhotoDirectLink-g1079030-d2422076-i255138824-Castello_Lancellotti-Lauro_Province_of_Avellino_Campania.html#255138824"><img alt="" src="https://media-cdn.tripadvisor.com/media/photo-s/0f/35/1c/08/il-portone-di-accesso.jpg"/></a><br/>

A colpire lo sguardo è l’imponenza delle torri quadrangolari, in particolare quella della Torre principale che supera i sedici metri di altezza e che svolgeva la funzione di primo luogo di difesa in caso di attacco. Dalle porte si accede alla corte interna, formata da elementi di epoca romana. In essa si trovano la cappella, il chiostrino interno e la biblioteca, che può annoverare più di mille volumi. Fra i libri più preziosi vi sono opere di Cicerone, Tacito, Seneca, Dante, Manzoni, e i libri mastri della famiglia.

Figura 4: https://grandecampania.it/castello-lancellotti/. La corte interna.
Figura 5: https://rosmarinonews.it/wp-content/uploads/2019/10/Castello-Lauro-giardino.jpg. Particolare fontana

Dalla biblioteca, tramite il chiostrino interno a cinque colonne, che richiama quello di un monastero, si accede alla Cappella privata, con il soffitto a capriate lignee, in cui coesistono diversi stili. Si va dall'affresco del Pantocratore assiso sul globo nel catino absidale, tipico dell’età normanna, a una distribuzione delle colonne tipiche di una basilica paleocristiana, ma sormontate da una balaustra di stampo rinascimentale.

Molti gli ambienti visitabili e che fanno parte dell’area abitata, mentre altri ambienti sono stati adibiti a Museo storico. Tra le stanze più caratteristiche ci sono sicuramente le Scuderie, in cui sono esposte carrozze del XVIII e del XIX secolo insieme ad un cavallo in legno e finimenti originali.

Figura 8: http://www.orticalab.it/Castello-Lancellotti-di-Lauro. Scuderie

Ambiente imponente per decorazioni e dimensioni è la cosiddetta Sala d’Armi: vi si accede da due porte che uniscono visivamente e raccordano i vari ambienti, grazie alla decorazione a boiserie sulla zoccolatura delle sale, sempre uguale. Sotto il soffitto cassettonato corre una fascia ricoperta da “quadri” con paesaggi e gli stemmi delle varie casate proprietarie del castello, con cartigli vari. Grandi affreschi posti in maniera speculare e varie picche ed alabarde esposte completano il quadro di questa elegante, ma molto funzionale, sala in cui il lusso e i richiami guerreschi convivono perfettamente. Ad una delle pareti vi è anche un affresco che raffigura il grande incendio che distrusse il castello nel 1799.

Figura 9: https://rosmarinonews.it/wp-content/uploads/2019/10/Castello-Lauro-Sala-d-Armi.jpg. Sala d’armi

Altro ambiente molto imponente è la Sala da Pranzo, che mostra uno splendido soffitto cassettonato con stelle sulle travi. La decorazione alle pareti, caratterizzate da un parato giallo e rosso che si conclude con delle nappine sulla boiserie, riprende idealmente i drappeggi dei tendaggi, mentre una terrazza in trompe l’oeil che corre lungo tutto il bordo del soffitto “apre” otticamente la sala, dandole luce e aria. Uno scenografico camino sormontato da una figura femminile in finto marmo, probabilmente una rappresentazione della Prosperità, completa la stanza.

Figura 10: https://rosmarinonews.it/wp-content/uploads/2019/10/Castello-Lauro-Sala.jpg. Sala da pranzo

A completare l’elenco degli ambienti vi sono il Salone Rosso, che conserva oggetti farmaceutici di origine siriana, la Sala del Biliardo, la camera da letto e la Stanza del Cardinale, che ancora sono parzialmente arredati con oggetti e mobilio d’epoca.

Dalle Sale si accede al grande terrazzo panoramico, che offre una meravigliosa vista sul Vallo di Lauro.

 

SITOGRAFIA

https://rosmarinonews.it/in-viaggio-con-roberto-il-castello-lancellotti-di-lauro/

https://www.ecampania.it/avellino/cultura/castello-lancellotti-lauro-galleria-fotografica

https://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/170104-castello-lancellotti-lauro-av-le-residenze-storiche-piu-visitate-della-campania/

http://www.castellidirpinia.com/lauro_it.html

https://www.italiaparchi.it/castelli-e-ville/castello-lancellotti.aspx


LA REGGIA DI CARDITELLO

Più che per le sue reali valenze artistiche, che pure sono notevoli, la Reggia di Carditello rappresenta un simbolo sia dello stato dell’arte in Italia, ove solo il volontariato e la passione individuale sembrano realmente contribuire a salvare i beni dall’incuria, e sia di ciò che può fare lo Stato se solo vuole.

La real casa di Carditello, residenza di caccia dei Borbone, sorge a San Tammaro, vicino Capua, ed è opera di un allievo del Vanvitelli, Francesco Collecini, già impegnato nella costruzione del belvedere di San Leucio, che ne realizzò la costruzione dal 1787 al 1804.

Si compone di un corpo di fabbrica centrale, a due piani, e di due ali laterali, separate dalla palazzina centrale da un androne. Al piano terra ci sono le cucine, l’armeria e le sale per il personale, e attraverso due scale simmetriche si accede al piano superiore, dovevi erano gli ambienti destinati ad accogliere la famiglia reale e il salone per i ricevimenti organizzati al rientro dalla caccia. Tutti questi ambienti erano riccamente affrescati con opere di Fedele Fischetti, Giuseppe Cammarano e Philip Hackert.

Antistante il complesso si trova una pista di terra battuta, simile ad un antico circo romano, destinata alle corse dei cavalli, di forma semi-circolare, che circonda un prato centrale, al cui centro vi è un tempietto da cui il sovrano assisteva alle corse ippiche; ai due lati vi sono delle fontane ornamentali.

Prese a suo tempo anche il nome di “Reale Delizia”: il soggiorno presso Carditello era particolarmente piacevole per la Corte di Ferdinando IV, che volle trasformare la reggia da semplice residenza di caccia (come nelle intenzioni di Carlo di Borbone) a vera e propria “fattoria”, ove impiantare coltivazioni di grano ed allevamenti di bovini e cavalli.

Il nome Carditello deriva da cardo, pianta che cresceva numerosa nei pressi della reggia. Di particolare interesse è una piccola chiesa, tipicamente settecentesca, il cui interno è riccamente decorato, ed anche se oggi ne sono rimaste poche testimonianze, si intravedono ancora lacerti di affreschi, opera di Hackert.

La reggia attraversò un prolungato periodo di abbandono e vandalismo: dopo i Borbone, nel 1943 divenne una base per le truppe tedesche, e nel 2011 fu messa all’asta, senza che però nessuno la acquistasse; dal 2011 al 2013 fu sorvegliata da Tommaso Cestrone, volontario del luogo soprannominato “l’angelo di Carditello”, che se ne prese cura fino alla sua morte, avvenuta per infarto la vigilia di Natale del 2013. Si deve a lui e all’interessamento di Massimo Bray, all’epoca Ministro dei beni Culturali, se non si è persa del tutto la memoria di questo stupendo complesso, e se l’intero complesso è stato acquistato dal Ministero.

Sitografia

GALLERIA FOTOGRAFICA

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