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A cura di Veronica Pacini

La prospettiva antropologica sulle forme di conservazione e trasformazione nella riproduzione dell’ordine sociale

In Maschio e Femmina l’antropologa Margaret Mead si chiede:

Cosa debbono pensare gli uomini e le donne della loro mascolinità e della loro femminilità in questo ventesimo secolo nel quale tante delle nostre vecchie idee hanno bisogno di essere rinnovate? Abbiamo forse addomesticato troppo gli uomini e negato il loro naturale spirito d’avventura, vincolandoli a macchine le quali dopo tutto non sono che fusi e telai, mortai e pestelli, un tempo esclusiva preoccupazione delle donne, oggi perfezionati a ingigantiti? Abbiamo forse sviato le donne dalla vicinanza ai loro figli, insegnando loro a cercare un’occupazione invece che la carezza di un bimbo, una carriera sociale in un mondo che lotta per strada piuttosto che un posto sempre uguale presso un focolare acceso? [1]

Mead pone queste questioni negli Stati Uniti della prima metà del Novecento, quando la vita delle donne era notevolmente cambiata rispetto a cento anni prima e andavano pertanto riconfigurandosi i ruoli e i significati del maschile e del femminile nella società. Per rispondere a queste domande Mead conduce un’ampia ricerca etnografica presso sette diverse comunità indigene del Pacifico, compie cioè un movimento laterale: per vedere meglio, per capire qualcosa della sua cultura di appartenenza, sposta il campo di ricerca su altre culture. È questo che fa l’antropologia attraverso il lavoro etnografico: decentrare, sdoppiare, moltiplicare lo sguardo, perché non resti intrappolato in una sola prospettiva e non confonda una porzione di realtà con la realtà intera, una realtà possibile con una realtà necessaria.

Mead scopre che ogni civiltà studiata ha un suo modo di concepire il maschile e il femminile, e cioè che a partire da un dato biologico – la differenza tra i sessi – le caratteristiche attribuite all’uno o all’altro sono diverse nei diversi gruppi umani. Ogni cultura – intesa nel suo senso antropologico di sistema di significazione della realtà – prodotta da un gruppo umano è arbitraria, cioè frutto di scelte più o meno consapevoli che non hanno niente a che fare col dato biologico. Una caratteristica che in una società è attribuita alle femmine in un’altra può essere attribuita ai maschi, ad esempio la forza della testa, o la capacità di mantenere un segreto. Scrive Mead:

Nessuna civiltà ha pensato che tutte le caratteristiche conosciute: stupidità e intelligenza, bellezza e bruttezza, amicizia e ostilità, iniziativa e prontezza, coraggio, pazienza e attività, siano semplicemente qualità umane. Sebbene queste qualità siano state attribuite a un sesso o all’altro e qualcuna a entrambi, e per quanto arbitrarie esse ci possano sembrare (perché certamente non può essere vero che il capo della donna sia sempre più debole o più forte – per portare pesi – di quello dell’uomo), la divisione, per discutibile che ci possa apparire, è sempre esistita in ogni società.[2]

Nessuna società sfugge alla categorizzazione della realtà. È il modo che l’essere umano ha a disposizione per poter interagire con tutto quanto è altro da sé. A partire da dicotomie fondamentali – maschile e femminile, caldo e freddo, crudo e cotto, umido e secco, puro e impuro, sporco e pulito ecc. – la realtà viene frammentata, dotata di un valore, organizzata secondo gerarchie.

L’incompletezza biologica e le sovrascritture socio-culturali

I dati biologici sono investiti di significati culturali e questo avviene perché l’uomo è un animale biologicamente incompleto e per completarsi ha bisogno della società:

Noi siamo animali incompleti o non finiti che si completano e si perfezionano attraverso la cultura – e non attraverso la cultura in genere, ma attraverso forme di cultura estremamente particolari: dobuana e giavanese, hopi e italiana, di classe superiore e inferiore, accademica e commerciale.[3]

A differenza di altri animali non umani, l’essere umano al momento della nascita ha davanti a sé un lungo apprendistato prima di poter raggiungere uno stadio psico-fisico che gli permetta di provvedere alla propria sopravvivenza in autonomia. Da un punto di vista evolutivo il lento passaggio dalla quadrupedia alla postura eretta avrebbe influito su questo: il restringimento del canale del parto avrebbe portato a sopravvivere i bambini meno sviluppati e le loro madri[4]. Il cervello di un neonato è pressoché formato dallo stesso numero di neuroni di un cervello adulto, ma pesa quattro volte meno. Ciò che cresce è il numero di connessioni tra neuroni: alla nascita un neurone ha circa 2500 sinapsi; a tre anni 15000 (poi seguiranno delle fasi di potature neuronali)[5]. In questo periodo tutto ciò che apprendiamo, tutte le esperienze che viviamo, si trasformano in connessioni, in memoria implicita, non episodica-semantica, ma sistemica. Le neuroscienze sembrano andare incontro a quanto osservato nel campo della ricerca antropologica: nel rapporto tra biologia (o natura) umana e cultura, ciò che vi è di mezzo è il cervello[6]. La costruzione della rete neuronale non si verifica in condizioni neutre, cioè il cervello non si sviluppa prima di entrare in relazione con la realtà ma mentre interagisce con essa, in un continuo e imprescindibile scambio interno-esterno. In questo senso la cultura interviene nella costruzione dell’individuo tanto quanto la natura, attraverso un’esposizione costante agli atteggiamenti culturali della società di appartenenza e attraverso specifici cambiamenti di stato, segnalati da riti di passaggio, che ne andranno a definire la versione completa in età adulta, riti che sono spesso diversi a seconda del sesso biologico. Ogni gruppo umano, cioè, stabilisce processi caratteristici di andro-poiesi e gineco-poiesi. Possiamo dire quindi che:

La costruzione della personalità secondo il genere è dunque il risultato di un impegno attivo delle culture, inteso a integrare, completare e interpretare differenze biologiche che non sono in grado di produrre di per sé alcun modello comportamentale. Ciascuna società persegue dunque specifici modelli di donne e di uomini le cui caratteristiche di femminilità e mascolinità sono il risultato di complesse e pervasive costruzioni culturali, che trapelano dall’analisi delle pratiche sociali e delle categorie semantiche con cui la società e l’universo vengono descritti e ordinati.[7]

Il corpo come centro dei processi di significazione e normazione nelle società

In questo processo il corpo è centrale e viene costantemente investito di significati culturali. Studiando i significati dei corpi nei sistemi religiosi, l’antropologa Adriana Destro afferma:

nel corpo si iscrivono, in modo conciso ma influente, molte leggi (una sigla identitaria, una alleanza indelebile con la divinità). Esiste dunque una scrittura normativa depositata sul corpo. Le culture, in altri termini, trattano il corpo come un luogo in cui si può depositare buona parte del proprio sapere, delle proprie convinzioni o aspirazioni.[8] 

L’appartenenza sociale, sia nelle sue espressioni religiose che laiche, stabilisce le norme legate al corpo, cosa cioè ciascun individuo può o non può fare del proprio corpo, ciò che è permesso e ciò che è proibito. In particolare la regolazione della corporalità della donna è parte di una visione della costruzione societaria[9] e questo avviene perché l’intera vita delle donne – a differenza di quella degli uomini – è infatti segnata da tappe biologiche (il menarca e poi il ripetersi regolare dei cicli mestruali e infine la menopausa) che ricordano e consolidano la consapevolezza delle potenzialità riproduttive insite nel loro corpo. In assenza di analoghe funzioni biologiche, i maschi vengono spesso sottoposti a prove intese ad accrescere culturalmente e socialmente una virilità che ha bisogno di essere costantemente ribadita e confermata.[10]

I tratti biologici che contraddistinguono il sesso femminile sono un potere che il maschile deve arginare:

Proprio per questo, Mead legge gran parte delle istruzioni e delle pratiche sociali che, nei diversi contesti, costruiscono la mascolinità e le sue prerogative come un tentativo di controbilanciare il potere riproduttivo delle donne. In questa prospettiva si comprende come la sessualità delle donne possa essere vissuta come un pericolo per le società, le quali mettono in atto complesse strategie che mirano al controllo del potere riproduttivo e dei suoi prodotti.[11]

Le società hanno inventato diversi modi per controllare la sessualità della donna, addomesticarla e socializzarla. Adriana Destro, nel solco degli studi di Francoise Héritier, individua un problema ulteriore legato alla riproduzione:

La donna, per di più, non dà vita solo a ciò che è uguale a lei, cioè non riproduce solo il proprio sesso (figlie femmine), ma esattamente e in egual modo anche l’altro sesso (figli maschi). Al centro di molti problemi di genere e di appartenenze sessuali non c’è la emulazione dell’uomo da parte della donna (o la famigerata invidia del pene), ma il dato inconfutabile che le donne danno corpo all’identico e al diverso. Cosicché sul piano culturale generale, una disparità notevole sarebbe alla base di molte strategie di dominio maschile.[12]

La riproduzione dell’ordine sociale

Il dominio di un genere sull’altro è un dato culturale che viene riprodotto da tutti i membri di un gruppo sociale, indipendentemente dal posto occupato nella gerarchia e questo perché le strutture cognitive che permettono agli individui di pensare la realtà sono determinate dalla società stessa in cui si trovano ad agire. In termini generali è ciò che il sociologo Pierre Bourdieu definisce come habitus, ovvero sistemi di disposizioni durature e trasmissibili, strutture strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti, cioè in quanto princìpi generatori e organizzatori di pratiche e rappresentazioni.[13]

Cioè: le strutture attraverso le quali pensiamo la realtà sono desunte dall’interpretazione della realtà che un certo gruppo sociale ha prodotto (ricordate quanto detto prima a proposito dello sviluppo delle connessioni neuronali?) e quindi sono esse stesse prodotti socialmente determinati. In questo senso Bourdieu definisce senso pratico il sapere pragmatico e preriflessivo che ogni individuo interpella ogni volta che agisce nel suo campo, quindi una seconda natura di tipo socio-culturale che si sovrappone alla natura biologica. Far parte di un gruppo umano significa allora aderire in modo inconsapevole a una doxa, cioè all’insieme delle evidenze che permettono a ogni membro di un gruppo sociale di avere esperienze coerenti con gli altri membri del gruppo. Se la doxa di un gruppo umano prevede la dominazione di un genere sull’altro, i membri del gruppo tenderanno a riprodurla attraverso il senso pratico appreso con l’habitus.

Ricapitolando: un dato naturale e universale, la differenza di sesso, viene sovrascritto dal dato culturale e particolare, il genere; il significato e il valore di ogni genere e il loro rapporto (spesso gerarchico) strutturano la società (spesso gerarchica); la capacità legata al sesso femminile di mettere al mondo viene spesso compensata da una certa costruzione della mascolinità; ogni membro della società, sia esso di genere maschile o femminile, tende ad assimilare queste costruzioni sociali come naturali e a riprodurle.

Ma se ogni individuo è plasmato dalla società in cui nasce, nel bene e nel male, e diventa lui stesso riproduttore del sistema che lo ha prodotto, si può davvero cambiare la società? Certo che sì: la riproduzione sociale è un fenomeno umano, e in quanto tale risente delle scelte che gli esseri umani fanno. Nell’articolo precedente abbiamo accennato ai movimenti femministi, in questo abbiamo osservato come gli sguardi decentrati dell’antropologia e della sociologia possono permetterci di smascherare i processi sociali conservativi e posizionarci in una postura riflessiva che generi una trasformazione contemporaneamente individuale e sociale. Gli esseri umani, lo abbiamo visto, completano il patrimonio biologico con quello socio-culturale; e se è vero che non abbiamo potuto scegliere i nostri geni né la società in cui siamo nati, è altrettanto vero che possiamo sempre decidere che tipo di persone vogliamo diventare, che tipi di società vogliamo costruire.

 

Note

[1]   Margaret Mead, Maschio e Femmina, Il Saggiatore, 1962, p. 13

[2]   Ibidem p. 17

[3]   Clifford Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 64

[4]   Il riferimento è alle teorie riportate in Dean Falk, Lingua madre. Cure materne e origine del linguaggio, Bollati-Boringhieri, 2015

[5]   Alison Gopnik, Andrew N. Meltzoff, Patricia K. Kuhl, Tuo figlio è un genio. Le straordinarie scoperte sulla mente infantile. Dalai Editore, 2008

[6]   Francesco Remotti, Contro l’identità, Laterza, 1996, p. 12

[7]   Silvia Forni, Cecilia Pennancini, Chiara Pussetti, Antropologia Genere Riproduzione. La costruzione culturale della femminilità, Carocci, 2006, p. 13

[8]   Adriana Destro, Antropologia e religioni. Sistemi e strategie, Morcelliana 2005, p. 152

[9]   Ibidem, p. 153

[10]  Antropologia Genere Riproduzione, op. cit., p. 15

[11]  Ibidem

[12]  Antropologia e religioni, op. cit., p. 154

[13]  Pierre Bourdieu, Il senso pratico, Armando editore, p. 84

 

VERONICA PACINI

Sono nata nel 1987, nelle Marche. Sono laureata in Antropologia – Scienze delle religioni presso l’università di Bologna e in Ethnologie et anthropologie sociale presso l’EHESS di Parigi. Mi interesso di letteratura, antropologia, femminismo e infanzia.

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