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A cura di Gianmarco Gronchi

Introduzione

È il 1581 circa quando il filosofo Michel de Montaigne, di passaggio a Pavia durante il suo viaggio in Italia, annota: «Pavia, 30 miglia piccole. Subito mi messi a veder le cose principali della Città […] Viddi oltra, quel principio d’edificio del Cardinal Borromeo per il servizio delli Scolari» La costruzione a cui il francese si riferisce, l’Almo Collegio Borromeo, non era ancora del tutto ultimata a quella data. È probabile, però, che sia riuscito a vedere i primi dei molti studenti che da oltre 450 anni vengono ospitati tra quelle mura. L’edificio a cui fa riferimento Montaigne è lo stesso collegio citato da Manzoni nel capitolo XXII dei Promessi Sposi. Lo stesso che impressionò, con la sua architettura, Stendhal durante le sue peregrinazioni italiane, come si legge in Naples et Florences (1816).

La fondazione dell’Almo Collegio Borromeo

Nel 1560, non ancora concluso il Concilio di Trento, un Carlo Borromeo ventiduenne e appena creato cardinale decise di fondare un collegio nella città universitaria in cui anche lui aveva ricevuto l’istruzione. Lo scopo era quello di offrire agli studenti meritevoli un’opportunità per concludere gli studi, ospitandoli gratuitamente durante il loro cursus studiorum. Tale scopo viene ancora onorato a più di quattrocento anni dalla fondazione, tenendo fede ai valori originari del fondatore, tant’è che oggi il Collegio Borromeo appartiene alla Conferenza dei Collegi Universitari di Merito.

La fondazione dell’Almo Collegio Borromeo deve essere relazionata, in campo storico e politico, con i provvedimenti che Carlo Borromeo prese come vescovo della città di Milano, dal 1564 fino al 1584, anno della morte. Fermo sostenitore dei principi post-tridentini, Carlo Borromeo si impegnò per la riforma della chiesa, per la regolamentazione dei costumi religiosi e per la riaffermazione del celibato per gli ecclesiasti. All’interno delle iniziative intraprese per la rifondazione della cristianità, di primaria importanza per il vescovo milanese era anche la riforma dei cristiani. In quest’ottica istituì i primi seminari milanesi per il clero, come il Collegio Elvetico, e si adoperò anche per l’istruzione del laicato. Aspetto, quest’ultimo, che motiva, oltre alla fondazione del collegio pavese, anche l’istituzione del Collegio di Brera. Lo scopo era quello di formare dei professionisti cattolici militanti mediante un’adeguata formazione dottrinale e spirituale.

Fig. 1 – La facciata del Collegio Borromeo.

Da un punto di vista storico artistico, l’Almo Collegio Borromeo è un compendio del gusto manierista tardo cinquecentesco. Il corpo principale della struttura è opera di Pellegrino Pellegrini detto il Tibaldi (1527-1596), a cui Carlo Borromeo affidò molteplici cantieri milanesi durante il suo arcivescovado. Influenzato dai modelli romani, il Tibaldi diede vita a un edificio di pianta quadrata, con corte racchiusa in un doppio loggiato, scandito da due ordini di serliane. In facciata, l’architetto propose tre ordini di finestre, separate da cornici marcapiano e giocate sull’alternarsi di intonaco e bugnato, ma depurate dagli eccessi dell’edilizia manierista che si trovano, per esempio, in Palazzo Te a Mantova. Anche l’architettura rispettò i dettami imposti dal vescovo di Milano, che per il suo collegio voleva forme semplici e rigorose.

I lavori furono conclusi verso il finire degli anni Ottanta del Cinquecento, ma la struttura subì ampliamenti notevoli nei periodi successivi.

Negli anni Venti del Seicento fu realizzato l’ampio cortile all’italiana sul lato est, a opera dell’architetto Francesco Maria Richini (1584-1658). Il dislivello del giardino rispetto al corpo del palazzo venne sfruttato per ottenere una veduta scenografica mediante una terrazza, con due scaloni simmetrici laterali. Il giardino si chiude sul lato orientale con un raccordo curvilineo che termina nel viridarium di gusto cautamente barocco. Nell’archivio del collegio sono conservati dei progetti che rivelano come al posto del viridarium sarebbe dovuto esserci un leggero rialzamento del terreno, atto a ospitare un allestimento di gusto teatrale. Sopra la collinetta, che avrebbe rappresentato il monte Elicona, ci sarebbe dovuta essere una statua di Pegaso. Un verso di Ovidio – dalle cui Metamorfosi è tratta la scena – avrebbe dovuto chiarire il senso della rappresentazione: Felices pariter studioque locoque, cioè “Felice allo stesso tempo dello studio e del luogo”. Si voleva così trasmettere l’idea di un collegio glorioso, virtuoso e ameno, parimenti il monte Elicona. Il progetto, alla fine, non venne realizzato, da una parte per i costi, dall’altra, probabilmente, per rispetto verso lo stile parco dell’edilizia di epoca post-tridentina.

Nell’Ottocento, con la demolizione della chiesa di San Giovanni in Borgo e l’acquisizione da parte della famiglia Borromeo dei terreni posti sul lato meridionale del collegio, venne allestito un giardino all’inglese. In accordo con la sensibilità romantica, questa nuova area verde si caratterizzò per la vegetazione irregolare e gli avvallamenti del terreno, testimoniando un’evoluzione di gusto rispetto al tempo di San Carlo.

Fig. 2 – Il doppio loggiato con la corte interna.

Ad un’architettura di così alto valore fanno eco gli interni del collegio.

Gli interni dell’Almo Collegio Borromeo

La cappella, la cui prima messa risale al gennaio del 1581, ancora usata per officiare le funzioni religiose, presenta decori d’epoca. Il pavimento in cotto lombardo è originale del Cinquecento, così come gli affreschi della volta, realizzati nel 1579 dal manierista pavese Giovan Battista Muttoni.  All’interno di un’incorniciatura formata da ornamentazioni geometrizzanti, fregi “a grottesca” e festoni di frutta e fiori, si trovano quattro scene di soggetto biblico, accomunate dal riferimento al tema eucaristico. Sulle pareti laterali sono presenti affreschi datati 1909 con le effigi di San Carlo, Santa Giustina martire, Santa Caterina d’Alessandria e San Tommaso D’Aquino. Gli arredi e tutti i paramenti liturgici sono ottocenteschi.

Fig. 3 – La Sala degli Affreschi, con la volta e la parete settentrionale, affrescate da Cesare Nebbia.

Al primo piano troviamo le sale di rappresentanza, cioè la sala Bianca e la Sala degli Affreschi.

La prima è così chiamata per i rivestimenti bianchi delle pareti su cui spiccano i tre anelli borromaici, stemma araldico della casata Borromeo che simboleggia l’unione e la concordia tra quest’ultima e le altre più potenti famiglie lombarde, ovvero Sforza e Visconti.

La seconda è invece caratterizzata dal suggestivo ciclo di affreschi voluto da quel Federigo Borromeo che, prima di diventare un personaggio manzoniano, fu vescovo di Milano dal 1595 al 1631 e primo patrono del collegio, che lo aveva visto come alunno sul finire del XVI secolo. La decorazione della volta e delle pareti corte fu promossa in occasione della beatificazione di san Carlo – cugino dello stesso Federigo – nel 1602. La parete meridionale fu decorata con la scena dell’Imposizione del cappello cardinalizio a Carlo Borromeo da Federico Zuccari (1539-1609). In questo affresco si sente tutta l’influenza del manierismo centroitaliano, che si avvia però a un repentino tramonto. I colori ariosi e i chiaroscuri tenui non nascondono un certo gusto michelangiolesco per il gigantismo anatomico e per un’impostazione scenografica magniloquente. Lo Zuccari lascia in quest’opera un ultimo saggio rappresentativo di quello che era stato il gusto dominante per tutto il Cinquecento. Di lì a poco ritroveremo l’artista a Roma, intento a dileggiare chi le esequie del Manierismo le stava celebrando a colpi di pennello nelle Cappelle Contarelli e Cerasi: Michelangelo Merisi da Caravaggio. Ma quella ormai, nonostante i pochi anni trascorsi dagli affreschi del Collegio Borromeo, è già un’altra epoca, un’altra arte.

La volta e la parete meridionale furono affidate invece a Cesare Nebbia (1536-1614). Tra i suoi affreschi, anch’essi caratterizzati da cromie squillanti di ascendenza manierista, si ricorda, per il suo significato storico, la scena con San Carlo tra gli appestati durante la peste del 1571. Fu un evento drammatico, che segnò il clima culturale dell’epoca. Ma se tanto San Carlo si adoperò per portare aiuto e fede ai poveri e agli appestati, ugualmente dovette fare Federigo sessant’anni dopo, quando Milano fu colpita da un’altra pestilenza. Quella di Federigo è la peste dei Promessi Sposi e della Colonna infame, la peste che lega in un filo doppio i due cugini Borromeo, in un cortocircuito di nomi e luoghi. È la peste che simbolicamente segna la cronologia estrema di una generazione di pittori vissuta a cavallo dei due secoli, tra la pestilenza di Carlo e quella del di lui più giovane cugino, e nominata per questo “generazione dei pittori pestanti lombardi”. Si definisce così un gruppo di cui fanno parte, tra gli altri, Giulio Cesare Procaccini, Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, il Cerano e, su tutti, Tanzio da Varallo. Questi nomi, che pure faranno le loro fortune lontani da Pavia – a Milano, a Como, ad Arona, al Sacro Monte di Varallo, per esempio – si legano tangenzialmente all’Almo Collegio Borromeo.

Negli appartamenti del rettore del collegio – non visibili al pubblico – viene conservato un Compianto su Cristo morto di uno dei loro maestri, il manierista milanese Giovanni Ambrogio Figino (1553-1608). L’opera, ricondotta al corpus del pittore milanese solo recentemente dal professor Mauro Pavesi, presenta quelle caratteristiche che faranno scuola alla generazione dei pestanti e anche al Caravaggio. Si noti il volto della Madonna che emerge dalla penombra e accosta la sua disperazione al corpo senza vita di Cristo, la cui anatomia finemente descritta stride con il pallore mortale dell’epidermide, enfatizzato da uno squarcio di luce proveniente dall’alto. Degno di nota, a parere di chi scrive, è il brano paesaggistico che il Figino indaga con piglio naturalistico, sull’onda di quella tradizione tutta lombarda che da Foppa, passando per la scuola bresciana del Savoldo e del Moretto, porta fino al Tanzio e al Merisi.

In definitiva, un cerchio che si chiude. O, volendo, che si apre.

Fig. 4 – Giovanni Ambrogio Figino, Compianto su Cristo morto.

 

Bibliografia

Erba, Collegio Borromeo, in Alma Ticinensis Universitas. Università degli Studi di Pavia, Silvana, Milano, 1990.

Pavesi, Giovanni Ambrogio Figino pittore, Aracne, Canterano, 2017.

Peroni, Il Collegio Borromeo, architettura e decorazione, in I quattro secoli del Collegio Borromeo di Pavia, Alfieri & Lacroix, Pavia, 1961.

Toscani, Il Collegio Borromeo, in Dario Mantovani (a cura di), Almnum Studium Papiense. Stori dell’Università di Pavia, vol.1, II, Cisalpino Istituto Editoriale Universitario, Milano, 2012.

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