A cura di Alice Oggiano
Bosa: il Castello Malaspina e la Cappella Palatina
Situato nella costa occidentale della Sardegna, in provincia di Oristano, l’antico borgo di Bosa è tra i più affascinanti d’Italia e si erge al di sopra dell’altopiano della Planargia, lungo le sponde del fiume Tirso. Noto centro abitativo sin dall’epoca preistorica, venne insidiato dai fenicio-punici ed in seguito dai romani. Centro cosmopolita, Bosa fu inoltre al centro di contese internazionali, che portarono ad un susseguirsi di dominazioni, tra le quali quelle aragonesi, spagnole, austriache e piemontesi ebbero notevole incidenza storica. Bosa conobbe una stagione di grande vitalità costruttiva in epoca medievale, quand’era inserita nella rete giudicale sarda, sotto l’egida del giudice d’Arborea.
Un notevole esempio architettonico di quel periodo è il poderoso castello dei Malaspina, detto anche di Serravalle dall’omonimo colle su cui insiste. Commissionato dai Malaspina – nobile famiglia toscana discendente dai marchesi Obertenghi ed effigiata nelle terzine dantesche nel Purgatorio – la sua costruzione venne portata a termine attorno alla metà del XIII secolo, in seguito agli scavi effettuati da Milanese che smentì la precedente datazione (XII secolo).
L’influsso pisano e i legami con tale ambiente sono tutt’oggi oggetto di studi, volti a stabilire se l’insediamento costruttivo fosse sorto in un’area totalmente disabitata o già parzialmente urbanizzata. È evidente che la presenza della comunità pisana rimase sempre forte all’interno del borgo. Fu inoltre a lungo discussa anche la possibile correlazione e sovrapposizione tra il castello e il centro preesistente di epoca romana. Il complesso architettonico presenta ben sette torri e diversi ambienti interni dediti ad attività riconducibili a diversi ambiti. Esternamente, invece, è protetto da una cinta muraria con funzione difensiva. La collocazione del plesso, al di sopra del colle, lo immetteva in una posizione di predominio rispetto al sottostante borgo, esaltandone perciò la sua natura di sede del potere, nelle sue molteplici funzionalità.
I forti del castello di Bosa, a fine difensivo, furono costruiti dai marchesi e vennero mantenuti dagli aragonesi in seguito alla loro conquista dell’isola avvenuta nel 1323. La sua infeudazione venne concessa nel 1297 da parte di papa Bonifacio VIII, quando la Sardegna entrò nell’orbita spagnola in qualità di viceregno. Mediante accordi pattuiti, il castello venne affidato alle cure dei giudici arborensi che ne detennero il monopolio sino al momento in cui il possedimento venne convertito in feudo per i sudditi castellani della corona. La fase arborense viene tuttora identificata come quella più proficua sia dal punto di vista urbanistico-architettonico sia per la dirompente ascesa demografica.
Bosa venne data in feudo nel 1328 al giudice Ugone II. Giacomo II, re d’Aragona, la affidò in seguito a Giovanni, fratello di Mariano signore del Goceano. Costui non tardò a mostrare il proprio disprezzo verso la corona, in quel momento guidata da Pietro III il Cerimonioso, mentre Giovanni non nascose mai le sue tendenze filoaragonesi.
Allo stato attuale permangono, del plesso originario, le torri ed il torrione in muratura. Il castello, oltre alla magnificenza delle sue forme, custodisce al suo interno un vero e proprio gioiello pittorico: la cappella palatina di Nostra Signora di Sos Regnos Altos. La chiesa presenta una pianta longitudinale e un’unica navata culminante in un presbiterio semicircolare interamente rimaneggiato. La sua collocazione cronologica è tutt’oggi incerta; le ipotesi più accreditate riportano un’iniziale intitolazione a San Giovanni e simultaneamente alla Vergine, altre ne anticipano La fondazione all’età bizantina.
Nel corso degli interventi, condotti in un arco cronologico che va dal XII al XIV secolo, venne realizzato un importante ciclo di affreschi, tra i più noti e prestigiosi dell’ambito isolano, che attualmente si presentano in una condizione estremamente frammentaria. Rinvenuto durante un restauro effettuato nel 1973, il ciclo pittorico si stende lungo tre pareti, partendo dal lato settentrionale e arrivando coprire le pareti di meridionale e occidente. Realizzato attorno al XIV secolo da un pittore proveniente dall’area toscana e commissionato probabilmente da Giovanni d’Arborea, il programma pittorico, iconografico e stilistico è chiaro e si snoda in vari registri.
Nel registro superiore del lato sud si riconoscono l’Adorazione dei Magi, la Coena Domini, alcuni Padri della chiesa ed Evangelisti. Una cornice a finte mensole separa il registro superiore da quello inferiore, nel quale la Maddalena penitente è accompagnata da una teoria di sante, tra le quali un unico santo, Giacomo il Maggiore, è rappresentato nelle consuete vesti da pellegrino. Maggior lustro alla scena viene conferito da un finto arazzo la cui trama reca degli scudi il cui pessimo stato di conservazione rende l’identificazione estremamente difficoltosa.
Tra le sante raffigurate, una posizione di rilievo viene data anche alla figura di Santa Lucia, accompagnata dal titulus. La Maddalena, anch’essa accompagnata dal titolo, è rappresentata seguendo quei canoni tradizionali che contribuiscono ad inquadrarla senza alcuna difficoltà: posta all’interno di due costoloni rocciosi, con lunghissimi capelli e una fulgente aureola, Maddalena è colta nell’atto di raccogliere del pane da un angelo celeste, segno di benevolenza divina. Nel dipinto si nota anche la presenza delle sante Margherita, Vittoria, Savina e Ursula.
In controfacciata è illustrata la storia del dono del mantello da parte di San Martino ad un povero, mentre San Costantino imperatore, vestito all’orientale, è posizionato accanto alla madre, Sant’Elena. Entrambi portano tra le mani gli strumenti della passione di Cristo: a Costantino spettano i chiodi e la lancia utilizzata da Longino per trafiggere il costato di Cristo, mentre ad Elena la grande croce lignea che, secondo la tradizione agiografica, fu da essa stessa ritrovata.
Nel grande ciclo trovano inoltre posto San Cristoforo, un San Giorgio che uccide il drago, un arcangelo Gabriele e la Madonna celeste.
Ma a recar grande stupore nel visitatore è senza dubbio la Leggenda dei tre vivi e dei tre morti, vero e proprio unicum isolano (e con rarissime analogie anche nel coevo panorama artistico nazionale) situato nel registro inferiore della parete, a destra e a sinistra rispetto al martirio di San Lorenzo. La scena narra di tre personaggi d’alto lignaggio – identificabili dai sontuosi abiti e dalle corone poste sul loro capo – i quali, posti al cospetto di San Macario eremita, ebbero la possibilità di osservare, all’interno di tre sarcofagi indicati dal santo, i loro corpi in stato di decomposizione variante in base al loro comportamento nella vita terrena.
La cappella palatina doveva essere il luogo di devozione privata della famiglia di Giovanni d’Arborea.
Al di fuori della chiesa sono ancora visibili alcuni ruderi dell’antica residenza nobiliare degli Arborea. La loro dimora doveva poggiare, originariamente, alle mura sul lato nord. Grazie a recenti campagne di restauro è oggi possibile osservarne una parziale ricostruzione degli ambienti interni.
La chiesa di Nostra Signora ed il Castello di Serravalle sono attualmente visitabili, da Novembre a Marzo, previa prenotazione.
Bibliografia
Francesco Floris, La grande enciclopedia della Sardegna, Cagliari, Della Torre, 2002.
Nicoletta Usai, La pittura nella Sardegna del Trecento, Perugia, Morlacchi, 2018.
Sitografia
http://www.castellodibosa.com/castellodibosa/
https://www.sardegnaturismo.it/it/esplora/castello-di-serravalle-o-dei-malaspina
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