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A cura di Gianmarco Gronchi

 

La storia di Keith Haring è legata all’Italia più di quanto si possa immaginare. In Italia si trova una delle sue ultime grandi opere pubbliche, il grande murales Tuttomondo a Pisa, datato 1989. È in Italia, precisamente a Bologna nel 1983, che va in scena una delle mostre temporanee che segnano la diffusione del graffitismo anche in Europa, ovvero Arte di frontiera. Oltre a questo però c’è altro. Milano, infatti, è una delle città italiane che meglio ha saputo accogliere il genio creativo del writer statunitense. Come abbiamo cercato di spiegare in un precedente appuntamento, il rapporto di Haring con il capoluogo lombardo è stato intenso quanto, purtroppo, oggi dimenticato. Ma se ogni tanto si ha la fortuna di riscoprire qualcosa di quel rapporto ingiustamente sepolto dall’incuria del tempo, come è successo a Giulio Dalvit in via Laghetto, spesso è compito dello storico dell’arte andare a ricostruire ciò che è stato basandosi solo su memorie e fonti d’archivio.

 

Parlare di Haring a Milano vuol dire parlare anche di un personaggio che in quella città è nato e che è riuscita a metterla sulle mappe delle capitali del mondo a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, ovvero Elio Fiorucci. Personaggio complesso Elio Fiorucci. Indagare la sua storia significa ripercorrere trent’anni di storia del costume, ma non solo. L’importanza di Fiorucci va ben oltre la sua attività legata al mondo della moda. Basti pensare ai suoi negozi, veri melting pot culturali in cui la nebbia meneghina si diradava per aprire una finestra su quanto accadeva oltreoceano. Non stilista, non designer, ma personaggio per cui il capo d’abbigliamento strictu sensu era solo uno delle molteplici esperienze che gravitavano intorno al mondo della moda. Fiorucci è stato davvero un creativo a 360°, capace di far convivere sotto lo stesso nome personaggi come Ettore Sottsass, Andrea Branzi, Michele De Lucchi, Alessandro Mendini, Oliviero Toscani, Andy Warhol, Colette, Klaus Nomi, e molti altri.

 

Per tornare alla questione principale, si ricorda che l’incontro tra Fiorucci e Keith Haring risale alla fine degli anni Settanta. Nel 1976 Fiorucci apre il suo negozio a New York, che diventa subito punto d’incontro per artisti del calibro di Andy Warhol. Haring, che frequentava la Factory di Warhol, entra così in contratto con Tito Pastore, collaboratore di Fiorucci, che qualche anno dopo propone a Elio di invitare l’ormai già affermato writer a Milano. L’invito si concretizza nel 1983, quando Fiorucci ha l’idea affidare la decorazione del suo negozio storico, aperto nel 1967 in galleria Passarella, proprio all’artista americano. Sulle prime Haring è scettico, ma la mediazione di Warhol, suo padrino artistico, lo convince a partire per l’Italia, per la cifra simbolica di 10.000 lire.

Fiorucci, per l’occasione, svuota completamente il suo negozio e lo consegna al genio creativo di Haring, coadiuvato dal giovanissimo Angel “L.A. II” Ortiz. Quello che va in scena nell’ottobre del 1983 è una due giorni non-stop di performance creativa svincolata da ogni regola e all’insegna della più sfrenata creatività. Fiorucci lascia aperto il negozio, affinché ognuno possa entrare a vedere l’artista all’opera. L’evento artistico diventa una grande festa, con un dj che mette la musica e Haring che disegna cagnolini e lascia la sua traccia sulle maglie e sulle borse degli avventori. Il negozio viene interamente ricoperto dai graffiti dei due writers americani, in una sorta di horror vacui giocoso e creativo, che segna il connubio perfetto tra uno dei campioni dell’arte del secondo Novecento e una delle menti più brillanti della moda italiana. Muri, camerini, porte e banconi vengono sommersi dalle linee fluide e guizzanti di Haring e Angel Ortiz. Questo evento è singolare, perché qualche anno dopo Haring riproporrà la stessa modalità operativa per i suoi Pop Shop, aperti a New York e Tokyo rispettivamente nel 1986 e nel 1988. La decorazione d’interni dei Pop Shop ha certamente delle tangenze con il lavoro svolto per Fiorucci, che evidenzia come per Haring decorare un ambiente chiusi significhi sostanzialmente invaderlo con i suoi disegni. Si crede che lo scopo sia quello di sostituire l’architettura con la propria arte, al fine di creare un ambiente omogeneo in cui non c’è distinzione tra le pareti e i complementi d’arredo. D’altronde, questo risponde alla filosofia artistica del writer americano, che vedeva nell’arte un mezzo per comunicare con pubblico quanto più vasto possibile, attraverso l’appropriazione di qualsiasi tipo di spazio come supporto per i suoi disegni.

La performance artistica ben sintetizza le peculiarità di Haring e di Fiorucci. Il primo, attraverso l’intervento nel negozio milanese, afferma ancora una volta la sua idea di un’arte giocosa, libera, non elitaria e democratica. Il secondo, invece, fa mostra ancora una volta di quella sua propensione verso la sperimentazione, la contaminazione tra arti ed esperienze diverse, all’insegna di una creatività che precorre i tempi senza alcuna pregiudiziale di sorta.

 

I graffiti di Keith Haring sono rimasti all’interno del negozio di Galleria Passarella per più di dieci anni. Alcune foto mostrano come i clienti di Fiorucci potessero camminare tra gli stend di vestiti, addossati alle opere di Haring, senza alcun tipo di limitazione. Una cosa che oggi da una parte fa sorridere e dall’altra lascia sconcertati. Niente però a confronto delle reazioni che si potrebbero avere nel sapere la fine di queste opere. Verso la metà degli anni Novanta, quando il marchio era già stato acquisito dalla multinazionale Edwin International, lo storico negozio Fiorucci di Galleria Passarella viene sottoposto a una ristrutturazione. I murales di Haring vengono coperti e i pannelli dei banconi e dei camerini staccati e venduti all’asta, causandone la dispersione. Agli inizi degli anni Duemila il negozio verrà venduto al colosso H&M. Dell’epopea di Fiorucci e dell’arte di Haring non rimane niente se non alcune fotografie e i ricordi di chi quegli anni li ha vissuti. D’altronde, nell’epoca dell’ipermodernità, per usare una definizione di Lipovetsky, pare non ci sia modo di sfuggire alle leggi del capitalismo selvaggio. La prossima volta però che passerete in San Babila, guardate per un attimo gli spazi oggi occupati da Urban Outfitters e provate a immaginare cosa volesse dire acquistare circondati dalle opere di Haring. Vi renderete conto di quanto purtroppo abbiamo perso. Che possa almeno essere un monito per il futuro.

 

 

 

 

Si ringrazia l’Archivio Elio Fiorucci per la concessione delle foto presenti all’interno dell’articolo.

 

Bibliografia

Guarnaccia M., Elio Fiorucci, Milano, 24 Ore Cultura, 2016.

Marabelli F., Caro Elio. Un viaggio fantastico nel mondo di Fiorucci, Milano, Electa, 2020.

Malossi G., Liberi tutti. 20 anni di moda spettacolo, Milano, Mondadori, 1987.

Epoca Fiorucci, catalogo della mostra (Venezia, Ca’ Pesaro Galleria Internazionale d’Arte Moderna, 23 giugno 2018 – 6 gennaio 2019), a c. di Gabriella Belli, Aldo Colonetti con Elisabetta Barisoni, Venezia, Consorzio Museum Musei, 2018.

 

Sitografia

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