A cura di Valentina Fantoni
Bologna diede i natali a diversi artisti che fecero la storia della pittura rinascimentale e barocca e tra questi compare anche il nome di Lavinia Fontana, pittrice di grande successo che si guadagnò stima e fama non solo nel capoluogo felsineo ma anche a Roma e in tutta Europa, apprezzata da importanti membri dell’alta società, da principi, re e papi.
Figlia d’arte, venne battezzata il 24 agosto 1552 nella cattedrale di Bologna circondata dal padre Prospero, apprezzato pittore manierista bolognese, dalla madre Antonia di Bartolomeo De Bonardis, e dai suoi padrini, il cavalier Agostino Hercolani e Andrea Bonfiglioli. La sua formazione venne guidata quasi esclusivamente dal padre, che le fornì una preparazione pittorica accurata assecondando l’evidente talento che la fanciulla dimostrò, sin da subito, nel disegno. Lavinia non frequentò mai la bottega del padre insieme agli altri allievi maschi, in ottemperanza alle norme sociali del tempo che richiedevano di evitare la frequentazione di luoghi che avrebbero potuto creare situazioni potenzialmente promiscue.
I primi generi pittorici in cui Lavinia dimostrò grandi capacità figurative furono i soggetti religiosi, di medio e piccolo formato, e i ritratti. Gli inizi della sua attività risalgono alla prima metà degli anni Settanta del Cinquecento, quando aveva all’incirca vent’anni. Il suo stile, nonostante fosse molto vicino a quello del padre, dimostrava già l’influenza che i grandi maestri avevano avuto su Lavinia, come gli emiliani Correggio e Parmigianino e il grande maestro Raffaello, dimostrando lo studio e l’attenzione della giovane artista. Nelle opere di soggetto sacro di questa sua primissima fase, Lavinia seppe rielaborare i modelli emiliani, in particolare quelli della tradizione carraccesca, con alcuni aspetti provenienti dall’ambiente fiammingo, noto per la cura e l’attenzione nei dettagli. Gli aspetti peculiari di queste prime opere sono l’intimità affettiva familiare creata dai personaggi, la spiccata caratterizzazione fisionomica riservata alle figure e l’attenta descrizione del dato naturale. Gli influssi artistici che emergono nella prima produzione dei ritratti mostrano, invece, l’influenza della ritrattistica del Bronzino, del Passerotti e di Sofonisba Anguissola, influenze che permisero a Lavinia di portarsi verso quella che al tempo era definita la ritrattistica di corte. Nei suoi ritratti, Lavinia cercava di registrare ogni aspetto significativo e peculiare della persona effigiata, attraverso un disegno così minuto che era possibile riconoscere il rango sociale della persona ritratta da pochi ma precisi particolari. Nonostante l’obiettivo principale fosse quello di rappresentare gli interessi, la personalità o il rango sociale della persona ritratta, veniva mostrata anche la sfera emotiva: osservando questi ritratti è possibile scorgere un universo di sentimenti inespressi e celati, ed è qui che risiede la bravura dell’artista.
Sul finire degli anni settanta, Lavinia si dedica maggiormente alla produzione di opere di soggetto sacro, di destinazione privata e pubblica. Infatti, Lavinia fu tra le prime donne artiste, nel mondo cristiano occidentale, a cimentarsi nella realizzazione di pale d’altare, opere di grande formato commissionate per gli altari delle chiese di una certa importanza. Ricevere incarichi di tale portata fu un grande riconoscimento nei confronti della sua bravura e della sua professionalità, al pari dei suoi colleghi uomini. Inoltre, il periodo storico in cui visse Lavinia era animato da un fervente spirito cristiano: erano gli anni in cui la Chiesa Cattolica cercava con ogni mezzo di contrastare la Riforma protestante, e l’arte fu uno degli strumenti maggiormente impiegati per l’opera di indottrinamento, soprattutto dei meno colti.
Una delle figure di spicco che cercò di dare un personale contributo alla Controriforma fu il cardinale Gabriele Paleotti, bolognese, che si adoperò affinché gli artisti fossero in grado di realizzare opere di destinazione privata e pubblica, di soggetti sacri come profani, rispettosi di principi come quello di decoro e verisimiglianza. La famiglia Fontana fu vicina al Paleotti grazie alla collaborazione di Prospero con il cardinale per alcune opere e, successivamente, grazie all’opera di Lavinia, che l’ecclesiastico definì “vera artefice cristiana” [1].
Lavinia si dedicò, sempre sul finire degli anni settanta, alla realizzazione di due particolari autoritratti: Autoritratto al clavicembalo (Accademia Nazionale di San Luca, Roma) e Autoritratto allo studio (Uffizi, Firenze) (Fig. 1). Il primo fu realizzato come presentazione al futuro suocero, Severo Zappi, poco prima delle nozze con il figlio Gian Paolo; per impressionarlo, Lavinia si raffigurò come una signora dedita all’arte della musica e della pittura, attitudini raffinate e colte. Invece, nel secondo autoritratto, destinato a far parte della raccolta di ritratti di uomini e donne celebri che stava raccogliendo l’erudito Alonso Chaçon, Lavinia sottolinea la sua attitudine professionale ritraendosi accanto ad un tavolo intenta ad iniziare il suo dipinto.
Negli anni Ottanta, Lavinia affina il proprio stile dedicandosi a una produzione artistica corposa e variegata: spazia dai ritratti di corte di personaggi maschili importanti a quelli di donne illustri, fino alle grandi pale d’altare. Anche i ritratti si inserivano in quel contesto controriformato professato dal Paleotti: il ritratto, maschile, doveva essere un esempio di dignità, di virtù e valore incarnati nell’effigiato e doveva portare ispirazione ed emulazione nello spettatore, tralasciando completamente quegli aspetti che avrebbero potuto concorrere alla vanità del personaggio o alla sua mera esaltazione personale, motivo per cui Lavinia utilizzava un linguaggio pittorico sobrio e asciutto. Il linguaggio cambiava invece per i ritratti femminili, in cui quelli ad essere trasmessi dovevano essere valori più nascosti, legati alla vita privata, alla moralità, all’apprezzamento che derivava dall’appartenenza ad un casato prestigioso, alla manifestazione di gusti raffinati, coerenti con un’educazione aristocratica, espressi attraverso l’esibizione di un abito sfarzoso, di un gioiello elaborato o di un portamento sostenuto. L’artista si faceva quindi osservatrice attenta di un mondo apparentemente effimero e superficiale, mostrando la grandezza e il potere comunicativo del ritratto internazionale.
Nei primi anni Ottanta arrivarono anche le prime commissioni pubbliche per le pale d’altare. La prima opera pubblica probabilmente fu La moltiplicazione dei pani dei pesci (1583) per la Chiesa dei Mendicanti di Bologna, oggi conservata nella Chiesa di Santa Maria della Pietà. Altra opera di grande importanza fu quella commissionata nel 1584 dal comune di Imola per la pala con la Madonna di ponte Santo, San Crisologo e San Cassiano. In queste opere di grande formato Lavinia dimostra ancora una volta di saper rielaborare i modelli paterni e carracceschi attraverso un linguaggio personale, in cui la cura per i dettagli e la resa della scena generale sono capaci di coinvolgere lo spettatore rendendo chiara la lettura dell’episodio ritratto. Sempre in questi anni si registrano ulteriori sviluppi nel campo della ritrattistica: Lavinia si dedicò anche ai ritratti di fanciulli, caratterizzati da un’indagine psicologica dei soggetti che si insinua nella resa del loro apparato araldico. Probabilmente l’accortezza dell’artista nella resa di questi ritratti deriva dalla sua sensibilità di madre e dall’affetto che nutriva per i suoi numerosi figli. Il ritratto monumentale della Famiglia Gozzadini (Pinacoteca Nazionale, Bologna), firmato e datato 1584, mostra la perfetta sintesi dei caratteri che contraddistinguevano l’opera di Lavinia: l’animata gestualità dei personaggi e l’attenzione fiamminga dei dettagli. Il ritratto di famiglia viene ambientato all’interno di una casa, grazie alla scelta di ritrarre i membri della famiglia come in un fermo immagine, presentandoli riuniti attorno ad un tavolo (fig. 2). Il ritratto venne commissionato a Lavinia da una dei membri della famiglia Gozzadini, Laudomia, la dama in rosso, che chiese alla pittrice, con al quale probabilmente aveva un rapporto di sincera amicizia, di ritrarla insieme al padre Ulisse e alla sorella Ginevra, la dama in bianco, e i loro due mariti. La particolarità di questo ritratto risiede nel fatto che al tempo della realizzazione dell’opera Ulisse e Ginevra erano deceduti, motivo per cui il dipinto rappresenta un ideale ricongiungimento della famiglia. Grazie alle pose e ai gesti è possibile cogliere questa curiosa sfumatura: il gesto di Ginevra, che sfiora la mano del padre, allude al loro comune destino e il suo abito color bianco è in contrapposizione al colore rosso vivo della sorella Laudomia. Alle spalle, i mariti vengono raffigurati con una mano sulla spalla delle rispettive mogli e caratterizzati con alcuni dettagli: Annibale viene rappresentato con una lettera in mano, a simboleggiare i suoi interessi letterari e probabilmente il suo ruolo nella gestione e amministrazione del patrimonio di famiglia, mentre Camillo viene ritratto con la spada e la croce dell’ordine portoghese di Gesù Cristo. Il tutto viene impreziosito dai dettagli lenticolari e pregiati degli abiti, delle gorgiere e dei gioielli di famiglia delle due donne che, come da tradizione bolognese per le dame sposate da più di due anni, sono eleganti e sfarzosi zibellini da mano. L’atmosfera famigliare viene sottolineata, oltre che dai gesti e dagli sguardi degli effigiati, dalla figura del cagnolino, simbolo di fedeltà, anch’esso dotato di preziosi gioielli (Fig. 3).
Sul finire degli anni Ottanta, Lavinia fu oggetto di importanti commissioni internazionali: le fu richiesta la realizzazione di un’imponente pala d’altare per il re di Spagna, Filippo II, raffigurante la Sacra Famiglia col Bambino dormiente e San Giovannino, oggi conservata all’Escorial. Inoltre, si dedicò alla realizzazione di diverse opere di soggetto mitologico e quindi di destinazione privata, come la Venere e Cupido del 1592 (Musée des Beaux Arts, Bordeaux), dal clima paganeggiante, prezioso ed enigmatico, o come Giuditta e Oloferne (Pinacoteca Stuard, Parma), dai toni cromatici vivaci e raffinati. Nel 1593 le venne commissionata dal cardinale Gabriele Paleotti un’opera da riporre sull’altare di famiglia in San Pietro a Bologna, un’Assunzione. Il dipinto, imponente per le dimensioni, mostra una Madonna assunta in cielo, accompagnata da una moltitudine di angioletti festanti che spargono fiori e petali sulla città di Bologna, rappresentata nella parte inferiore della tela. L’opera venne trasferita a Pieve di Cento sul finire del Settecento e risiede tutt’ora sull’altare del Santissimo Sacramento nella chiesa Collegiata di Santa Maria Maggiore a Pieve di Cento (Fig. 4).
La produzione di opere religiose fu una costante nell’attività di Lavinia, che lavorò ad una delle più importanti imprese artistiche del suo tempo: la decorazione di San Domenico a Bologna con il ciclo dei Misteri del Rosario, dove partecipò con la realizzazione di due tele, l’Incoronazione della Vergine e Gesù tra i Dottori (1601).
A cavallo tra il 1603-1604 Lavinia era conosciuta in tutto l’ambiente artistico italiano e forte di una grande esperienza, dopo trent’anni di attività, nei generi del ritratto e della pala d’altare venne chiamata a Roma per eseguire una tela di grandi dimensioni per la Basilica di San Paolo fuori le mura. L’opera, purtroppo andata distrutta in seguito all’incendio del 1823, rappresentava la Lapidazione di Santo Stefano protomartire. A Roma, al tempo di papa Clemente VIII Aldobrandini, si trovavano già grandi artisti come Annibale Carracci, Caravaggio, Cavalier D’Arpino e Guido Reni, e Lavinia seppe inserirsi in questo ambiente tutto al maschile mantenendo le sue peculiarità di artista e la sua integrità e stima. Fu richiesta da numerosissimi esponenti dell’alta società romana, soprattutto da ricche ed eleganti dame romane, che desideravano essere ritratte dall’abile artista bolognese. L’ultima opera che Lavinia eseguì prima di morire a Roma nell’agosto del 1614, fu una Minerva in atto di abbigliarsi, ora conservata presso la Galleria Borghese (Fig. 5). L’opera dal soggetto pagano e mitologico, in cui la bellezza e l’eleganza femminile si mostrano in una dimensione intima e privata, sembra simboleggiare la nostalgica memoria della giovinezza della pittrice, consapevole del fatto che anche la sua bellezza stava tramontando.
Lavinia si spense nell’estate del 1614 nell’Urbe, circondata dal notevole successo che aveva saputo riscuotere durante tutto l’arco della sua carriera, dimostrando abilità e professionalità ineguagliabili, dimostrando il valore delle donne artiste.
Note
[1] Vera Fortunati, Lavinia Fontana, una pittrice nell’autunno del Rinascimento, in Lavinia Fontana 1552-1614, a cura di Vera Fortunati, Electa, Milano 1994, p. 27.
Bibliografia
Maria Teresa Cantaro, Biografia e fortuna critica, in Lavinia Fontana bolognese. “pittora singolare” 1552-1614, a cura di Maria Teresa Cantaro, Jandi Sapi Editori, Roma 1989
Vera Fortunati, Lavinia Fontana, una pittrice nell’autunno del Rinascimento, in Lavinia Fontana 1552-1614, a cura di Vera Fortunati, Electa, Milano 1994
Vera Fortunati Pietrantonio, Lavinia Fontana, in Pittura bolognese del’ 500, a cura di Vera Fortunati, 2 voll., Casalecchio di Reno (Bologna), Grafis edizioni, 1986, vol. 2
Sitografia
https://www.pinacotecabologna.beniculturali.it/it/content_page/item/540-la-famiglia-gozzadini
https://www.treccani.it/enciclopedia/lavinia-fontana_(Dizionario-Biografico)/
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