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A cura di Alice Savini

La Milano della Controriforma e dei Borromeo

Passeggiando tra le ultime sale della Pinacoteca di Brera ci si imbatte in un quadro la cui storia compositiva è molto interessante; si tratta del Martirio di Santa Seconda e Rufina conosciuto anche come “Quadro delle tre mani”, poiché a realizzarlo furono tre tra i pittori più importanti della Milano dei primi anni del 1600: il varesotto Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, il valsesiano Giovanni Battista Crespi detto il Cerano e il bolognese naturalizzato milanese Giulio Cesare Procaccini. Il quadro è una sorta di emblema della Lombardia della Controriforma (dopo il Concilio di Trento) che, da 1564 al 1584 e dal 1595 al 1631, fu segnata dal riformismo degli arcivescovi e cugini Carlo e Federico Borromeo.

Il rinnovamento sia edilizio che artistico dei decenni post tridentini si diffuse in tutte le città del territorio grazie all’instancabile impegno di Carlo Borromeo. Fu proprio lui, tra i più ferventi sostenitori del Concilio tridentino, a promuovere una pittura capace di “parlare a tutti” che rifiutava gli eccessi del linguaggio manierista e le rappresentazioni dei nudi, ma che cercò altresì maggiore corrispondenza con le Sacre Scritture e una semplificazione formale e compositiva che potesse permettere maggiore facilità di comprensione. Divenuto santo nel 1610, Carlo Borromeo assunse il ruolo dell’episcopato post-tridentino ideale e l’esempio da lui tracciato, anche nel settore della promozione architettonica e figurativa, venne proseguito dai suoi successori come il cugino Federico Borromeo, salito sulla soglia arcivescovile nel 1595[1].

La politica artistica e l’ideologia figurativa di Federico furono ereditate dal predecessore e cugino Carlo Borromeo. Scomparsa la generazione di pittori legati alla stagione della cultura post-tridentina, Federico scelse i tre pittori Giovan Battista Crespi detto Cerano, Francesco Mazzucchelli detto Morazzone e Giulio Cesare Procaccini, che diedero avvio ad uno stile pittorico unico. Tali artisti riuscirono a unire in un unico linguaggio le ricercatezze formali derivanti dai modelli del tardo manierismo tosco-romano e emiliano all’oltranza espressiva, alla violenta drammaticità dei contrasti chiarosurali[2], creando una pittura eccentrica, tenebrosa, dal tumultuoso ritmo corale e “morbosa”, per certi versi molto lontana dal linguaggio della generazione precedente e che guarda già alle messe in scena del grande teatro barocco.

Coetanei, i tre artisti erano già impegnati da tempo in committenze d’alto livello di natura prevalentemente religiosa ed entrarono in contatto tra loro in svariate occasioni; infatti furono chiamati dalla Fabbrica del Duomo a lavorare ad alcuni quadroni raffiguranti la Vita di Beato Carlo (1602-1603) e dei Miracoli del Santo (1610). Cerano e Procaccini si ritrovarono a lavorare insieme anche nel cantiere di Santa Maria presso San Celso, chiamati a decorare le prime e le seconde campate laterali. Mentre il Morazzone, che entrò più tardi sulla scena pubblica, lasciò la sua prima opera pittorica milanese nella chiesa di sant’Antonio Abate, dove peraltro sono presenti anche il Cerano e Procaccini.

Il “Quadro delle tre mani”: Il Martirio di Santa Rufina e Seconda

 

Il dipinto “delle tre mani”, di forma quadrata e di modeste dimensioni, fu realizzato per la fruizione privata del ricco mecenate Scipione Toso, uno degli amatori d’arte più in vista del tempo ricordato anche da Girolamo Borsieri tra coloro che apprezzarono la nuova pittura dei “moderni” (Procaccini, Cerano e Morazzone). Nelle mani di Toso già nel 1625 (probabile anno di esecuzione[3]), passò poi alla proprietà del Cardinale Cesare Monti (successore di Federico Borromeo), per poi essere ceduto alle collezioni dell’Arcivescovado di Milano nel 1650; per entrare infine nelle collezioni della Pinacoteca di Brera solo nel 1896. Scipione Toso diede inizio a una competizione tra i tre grandi artisti che crearono un quadro non del tutto omogeneo ma comunque unitario; il dipinto è da intendere come un vero e proprio manifesto della scuola pittorica milanese della prima metà del Seicento.

Il dipinto doveva essere una sorta di celebrazione del cristianesimo delle origini, infatti in quegli anni gli artisti ricevevano molte commissioni riguardanti i primi martiri. Nel dipinto è raffigurato il martirio delle due sante, Seconda e Rufina, avvenuto durante le persecuzioni nella Roma dell’imperatore Gallieno (260 d.C.). Inizialmente fidanzate con Armentario e Verino, fecero successivamente voto di castità; i due giovani rifiutati decisero di vendicarsi denunciandole alle autorità. Le due Sante, che scelsero di non abiurare, furono portate al X miglio della Via Cornelia dove Rufina venne decapitata e Seconda bastonata fino alla morte. Nel dipinto il corpo di Rufina è raffigurato riverso nella parte destra della composizione, la santa è accompagnata da un angelo che tenta di fermare il desiderio di carne del cane da caccia. Mentre Santa Seconda è raffigurata sulla destra, rassegnata al suo destino e illuminata da una fonte luminosa che preannuncia l’ascesa al cielo. Lo stesso angelo che la accompagna, con il dito puntato verso l’alto, sembra rassicurare la ragazza del destino che la attenderà. I responsabili del martirio invece irrompono nella scena in tutta la loro potenza e prestanza, un cavaliere loricato è raffigurato a cavallo (potrebbe essere il conte Archesilao mandante della loro morte), mentre due sgherri, con ancora in mano la spada, sono gli autori materiali del martirio. Nel frattempo un paggio in armatura osserva nell’ombra ed un elegantissimo angioletto si libra in volo reggendo la palma del martirio.

Già nel 1636 il letterato Giovanni Pasta, che per primo coniò il titolo di “Quadro delle tre mani”, attribuì alla mano del Morazzone la composizione generale del dipinto insieme al carnefice centrale e l’angelo con la palma del martirio, mentre a Cerano il cavaliere e le figure di sinistra e a Procaccini la Santa Rufina e l’angelo che la assiste sulla destra. Ai pittori sembra essere stata assegnata la parte di dipinto più consona al proprio registro espressivo e ai temi solitamente affrontati; i tre sono infatti simili tra loro ma ciascuno fa proprio un filone diverso. Il Cerano è chiamato a realizzare la parte più ”macabra” del dipinto, la testa mozzata e sanguinosa di santa Seconda, così come il cavallo e il cane voglioso di carne, memore della grande attenzione alla pittura di animali della sua bottega. Egli inserisce nel quadro elementi di una violenza quasi al limite dell’orrore, ma questo rientra nella sua poetica spesso vigorosa quasi fino alla sgradevolezza; le sue opere riescono a tradurre in immagini i toni drammatici e visionari della religiosità del tempo.

Il carnefice dipinto nella penombra luminescente è opera del Morazzone, il quale passò alla storia come il pittore più drammatico e potente e antiedonista. Celebre pittore di battaglie e di grandi composizioni corali egli riuscì a donare all’intera scena un forte senso di dinamicità e coinvolgimento illusionistico. Mentre il linguaggio tenero e soave del Procaccini è riservato a Santa Rufina, ancora in vita che attende il momento del trapasso attorniata da una luce celestiale. L’aspetto eroico della santa è tipico del linguaggio del Procaccini che si contraddistingue per essere un artista di profonda devozione e coinvolgimento, ma al contempo anche legato a una fisicità con potente carica erotica, di una bellezza insieme idealizzata e sensuale.

Note

[1] Federico Borromeo fonda nel 1607 la Biblioteca Ambrosiana, uno spazio pubblico comprendente una ricca biblioteca, una pinacoteca e un’accademia artistica. Il primo nucleo della pinacoteca nasce nel 1618 quando l’arcivescovo Federico Borromeo dona la sua raccolta di disegni e dipinti alla biblioteca, mentre nel 1620 nasce l’Accademia di disegno, pittura, scultura e architettura simile a quella romana di San Luca e quella fiorentina.

[2] L’inizio del Seicento è un momento di contraddizioni dal punto di vista pittorico, si scontrano infatti due scuole pittoriche: quella caravaggesca diffusasi grazie al genio del Merisi e quella emiliana che si basa sulla pittura dei fratelli Carracci, che porta in campo il revival classicheggiante e neo-pagano alla base del barocco romano maturo.

[3] Nel 2005 lo studioso Jacopo Stoppa ha ipotizzato, su basi stilistiche, la datazione al 1617-1618.

Bibliografia

Baini (a cura di), Brera : guida alla Pinacoteca, 2004

J.Stoppa; Il Cerano. 2005

Gregori, Pittura a Milano dal Seicento al Neoclassicismo, 1999

Coppa, Seicento lombardo a Brera [: capolavori e riscoperte], 2013

Sitografia

Il “Quadro delle Tre Mani”: testamento di pittori maledetti | Viaggiatori Ignoranti

L’opera del lunedì – “il Quadro delle Tre Mani” – Bing video

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