LA CHIESA DI SANTO STEFANO A VIMERCATE
A cura di Alice Savini
Introduzione
La chiesa di Santo Stefano è situata nel mezzo del centro abitato di Vimercate (paese situato a pochi chilometri da Milano nel mezzo della Brianza). E chiusa tutt'intorno dall'abitato e si affaccia sulla piazza rettangolare dedicata allo Stesso santo protettore della città.
L'inizio della storia costruttiva si può collocare all'epoca longobarda, la prima testimonianza documentaria risale infatti al 745 d.c. Tuttavia, la struttura che noi vediamo oggi fu eretta tra il X e l'XI secolo subendo molte trasformazioni nel corso dei secoli che le hanno poi conferito l'aspetto attuale.
Esterno
L'esterno della chiesa rivela l'antica storia dell'edificio fatta di modifiche e trasformazioni nel corso del tempo.
L'edificio a pianta basilicale ha tre navate terminanti con tre absidi semicircolari. L'abside centrale, maggiore, comporta una decorazione a lesene rettangolari e cornice ad archetti pensili suddivisi in gruppi di tre.
I prospetti laterali sono realizzati prevalentemente da ciottoli e mattoni e non presentano alcuna decorazione, se non una serie di archetti nella parte settentrionale. Qui sono ancora visibili le aperture di un ambiente fortificato eretto sopra le navate laterali nel XV secolo - periodo travagliato dal punto di vista politico militare - e molto probabilmente utilizzato con funzione difensiva.
Con l'imbiancatura il settore centrale della facciata si distingue da tutte le altre murature laterali. Il blocco centrale con struttura a capanna è delimitato da due lesene terminanti con elementi cuspidali. Al centro vi si trova il portale ligneo sormontato da un vestibolo su doppia colonna tuscanica architravata con fregio dorico e metope scolpite con emblemi devozionali e un timpano modanato triangolare.
All'inizio del XVII secolo fu aggiunta anche una finestra classica a serliana e la nicchia che ospita tra antiche sculture trecentesche raffiguranti la Madonna con il Bambino tra Santo Stefano e un altro santo guerriero non identificabile.
Al fianco destro della facciata si innalza la torre campanaria iniziata nel XI secolo ( e poi modificata sia nel 1400 che nel XIX secolo): poderosa struttura rettangolare su cinque piani sormontata da una cuspide piramidale con una croce al sommo. Nella muratura del campanile è conservata un'unica scultura di epoca romanica raffigurante una testa antropomorfa inglobata in una serie di archetti pensili del secondo piano. Si tratta di una testa maschile con barba e capelli incisi con linee sottili, bocca dal taglio orizzontale e occhi in evidenza.
Interno
Le tre navate sono scandite da pilastri quadrangolari e terminano in tre absidi : i due laterali dedicati Sant'Ambrogio e a San Carlo ( in origine dedicata a San Michele).
All'interno dell'edificio sono presenti molte tracce pittoriche a testimonianza della lunga storia religiosa dell'edificio.
Un recente restauro ha difatti recuperato un ciclo murale trecentesco molto deteriorato: sono riemerse parti consistenti di affreschi posti a decorazione della volta della Cappella di Sant'Ambrogio ( che dal 1884 ospita la sacrestia) raffiguranti i quattro dottori della chiesa - Gerolamo, Agostino, Ambrogio, Gregorio - seduti sui loro scrittoi lignei.
Sempre nella medesima cappella sono stati ritrovati altri affreschi facenti parte di una serie di interventi decorativi e architettonici eseguiti nella chiesa tra il 1564 e il 1566: anni importanti poiché di poco successivi alla chiusura del Concilio di Trento e alla visita pastorale dell'arcivescovo Carlo Borromeo.
Posto sopra uno zoccolo, il dipinto è distinto in due registri corrispondenti al catino e alla fascia ornamentale sottostante dove sono conservati alcuni lacerti di una scena raffigurante la Resurrezione di Cristo. Meglio conservata è la scena centrale con il Compianto su Cristo morto presentato come se si trattasse di una grande pala d'altare.
La decorazione cinquecentesca dell'edificio prosegue con gli importantissimi affreschi dell' abside realizzati da Lattanzio Gambara e raffiguranti il Martirio di Santo Stefano (su cui ci soffermeremo nel prossimo articolo.)
L'impresa decorativa cinquecentesca dell'abside ha rappresentato solo una tappa del processo di rinnovamento dell'edificio che coinvolse sia lo spazio che la decorazione della collegiata nei tre secoli successivi.
I primi di questi interventi riguardano la navata e il presbiterio. Qui Jacopo Bassano e la sua bottega realizzarono una serie dieci figure di apostoli e dieci di profeti il cui destino non è facile da ricostruire. La presenza del Bassano e del Gambara non fanno altro che dimostrare l'importanza artistica di questa chiesa di provincia.
Nel periodo successivo la decorazione prosegue soprattutto nelle cappelle laterali e nella cripta dedicata a San Giuliano e alla Vergine. Qui nel primo decennio del XVII la campata viene decorata con una volta riccamente decorata con stucchi raffiguranti fogliami, nastri, palmette, foglie trilobate, cerchi e testine di cherubino. A questo periodo risalgono anche gli affreschi della volta raffiguranti la nascita della Vergine, la Presentazione al Tempio, lo Sposalizio e l'Annunciazione molto probabilmente realizzati da un pittore vicino alla cerchia di Camillo Procaccini.
Nel corso dei XVII vengono anche terminate le due cappelle dedicate a Sant'Ambrogio e a San Carlo poste rispettivamente a sinistra e a destra dell'altare maggiore. Si pensa che nella cappella dedicata a San Carlo fosse originariamente destinato un dipinto raffigurante san Carlo Borromeo in Gloria ora conservato nell'oratorio di Sant'Antonio la cui l'iconografia segue molto chiaramente quella della celebre pala del Morazzone realizzata per il santuario di Santa Maria della Noce a Inverigo.
Arrivati all'inizio del XIX secolo la necessità di arricchire la navata maggiore con una decorazione degna del Santuario si fece più pressante. Venne chiamato il pittore Giovanni Chiarini che nel 1841 fu incaricato di decorare la navata con una serie di riquadri narrativi che corrispondono al ritmo delle navate ed evocano bassorilievi inseriti nelle architetture classicheggianti. Nelle scene racconta le efferate torture subite da vari mariti come Paolo, Pietro, Simone, Giacomo ecc. accompagnate da dodici medaglie con i martiri degli apostoli , tondi con busti degli apostoli e trofei ecclesiastici.
Mentre la volta botte ribassata della navata centrale è decorata con un motivo a cassettoni a imitazione di un architettura antica.
Altra aggiunta importante dell'epoca è l' altare neoclassico eseguito su progetto di Leopoldo Pollack nel 1807. Si tratta di un tempietto circolare rialzato su gradini, a otto colonne con cupolino trasparente, anche per permettere una maggiore visione degli affreschi retrostanti. Il nuovo assetto sembra in qualche modo ricordare quello del Duomo milanese il cui cantiere era gestito proprio da Pollack.
Bibliografia
La collegiata di Santo Stefano a Vimercate : storia e arte in un'antica pieve lombarda, Silvana Editoriale, Il Gabbiano, 2008
A. Vergani ( a cura di), Mirabilia Vicomercati : itinerario in un patrimonio d'arte : il Medioevo, 1994.
P.Venturelli, G.A. Vergani ( a cura di), Mirabilia Vicomercati : itinerario in un patrimonio d'arte : l'età moderna, 1998.
Sitografia
https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/MI100-09354/
MARGHERITA CAFFI: PITTRICE DI FIORI
A cura di Alice Savini
La storia dell’arte è notoriamente maschile e pochi sono i nomi di donne pittrici che hanno superato l’anonimato, riemergendo da secoli di dimenticanza: tra queste, vi è la pittrice milanese Margherita Caffi.
Nata come Margherita Volò, faceva parte di un’importante famiglia di pittori, quella dei Vincenzini, che fondarono la prima bottega specializzata in nature morte di Milano, condizionando con il loro linguaggio espressivo i collezionisti milanesi di questo genere pittorico della metà del XVII secolo fino al primo quarto del XVIII secolo, coinvolgendo tre generazioni di pittori e pittrici.
Fu il padre Vincenzo Volò a dare il via alla bottega in cui lavorarono molti dei suoi figli avuti con Veronica Masoli, sposata nel 1647. Questi, originario della Franca Contea, regione della Borgogna, si trasferì a Milano dopo il 1635. Pittore di nature morte, fu particolarmente abile nel creare composizioni floreali tantoché gli fu attribuito l’epiteto di “Vincenzino dei fiori”. Questo epiteto divenne una sorta di marchio commerciale a dimostrazione del grande successo raggiunto dalla bottega: gli stessi figli di Vincenzo si facevano chiamare con orgoglio come “Vincenzino” e “Vincenzina”, come fece la stessa Margherita Caffi che si appropriò di tale denominazione a partire dal 1682. In pochi anni Vincenzo riuscì ad allargare le proprie frequentazioni e ad ottenere l’appoggio e l’apprezzamento di una clientela altolocata. Morto il padre nel 1672, furono i figli, Giuseppe (1662- post 1700), Francesca Vincenzina (1657- 1700) e Giovanna (1655-1680), a portare la bottega famigliare ai massimi livelli durante gli ultimi decenni del XVII secolo. (Alcune opere di Vincenzo Volò sono conservate oggi alla Pinacoteca Castello Sforzesco e nel Museo Ala Ponzone di Cremona).
Margherita Volò, poi Caffi, era la primogenita di Vincenzo Volò, nata nel 1648, di cui il padre curò la formazione pittorica presso la propria bottega e da cui lei ereditò l’amore per le raffigurazioni floreali: Margherita rimase infatti per tutta la vita una fiorante, seguendo una naturale inclinazione e sviluppando uno stile unico che, diversamente dai fratelli e sorelle, si discostava da quello paterno. Di lei si scrisse: ‹‹rara di lei abilità in dipingere fiori sopra qualsivoglia stoffa di seta, e sopra tele, e carte: e segnatamente sulle pergamene, le quali assai ricercate le erano, e a caro prezzo pagate›› (Lancetti).
Tappa fondamentale per la sua vita privata e lavorativa fu il matrimonio, avvenuto il 15 ottobre del 1667 con il pittore cremonese Ludovico Caffi, di cui assunse il cognome. Margherita lasciò Milano per trasferirsi a Cremona dove vi rimase solo per tre anni finché fu costretta a fuggire in seguito all’accusa di omicidio pendente sulla testa del marito; si spostò quindi a Piacenza (1670), poi a Bologna (1672) e infine di nuovo a Piacenza. Di questo periodo di lei si scrisse: ‹‹Si portò poi Ludovico con la sua dilettissima consorte a Bologna, ed applicatosi da dovero col pennello acquistossi assai credito nel figurare quadri sopra de quali la gloriosa pittrice v’intrecciava fiori così bene accordati che misto più nobile non si poteva desiderare›› . In questo periodo lavorò con il marito, realizzando quadri a quattro mani che ebbero grande fortuna commerciale. Questi spostamenti contribuirono alla nascita di un linguaggio pittorico autonomo, a una crescita professionale che la portò lontano dagli espedienti delle sorelle e fratelli rimasti sempre a Milano, tantoché la sua fama si diffuse oltre i confini del ducato milanese, conquistando i mercati dell’Emilia e del Veneto (grazie all’appoggio del cognato Francesco Caffi che riuscì a diffondere il nome di Margherita anche a Venezia), conquistando molti collezionisti e committenti del calibro dei Medici a Firenze, dei Borromeo a Milano, gli Este a Modena e i Gonzaga a Mantova. Ad esempio, per Francesco II d’Este, Margerita realizzò ben 29 tele destinate al casino delle Quattro Torri e alcune per Cesare Ignazio d’Este, cugino del duca.
Ritornò a Milano stabilmente solo dopo il 1682, con il marito e i numerosi figli. Qui incominciò ad aiutare la bottega famigliare che nel frattempo aveva accusato la perdita di Giovanna (1680), e collaborò in molti lavori e commissioni con la sorella Francesca Vincenzina, come conferma un quadro di Collezione privata (rintracciato da Ferdinando Arisi) in cui sono riconoscibili distintamente le mani delle due sorelle.
Il 1697 fu un anno di estrema importanza per Margherita e la sorella Francesca Vincenzina: entrambe furono ammesse alla prestigiosa Accademia di San Luca di Milano, insieme ad una sconosciuta Lucrezia Ferraria. L’onore a loro concesso fu un evento straordinario che non si ripeté più per molti anni a seguire, infatti, l’Accademia era rigidamente maschile e solo nel 1696 fu concessa l’ammissione di donne pittrici, sia come accademiche che come aggregate. Le due sorelle furono scelte sia per il loro valore di frescanti e per la celebrità raggiunta ma anche grazie al benvolere di Federico Maccagni, ex cognato in quanto marito di Giovanna e consigliere della stessa Accademia.
Nel 1691 Margherita rimase vedova e andò a vivere vicino alla madre che viveva con Giuseppe e le altre sorelle. Sembra che Margherita, insieme al fratello, contribuisse al sostentamento famigliare attingendo da quanto ereditato dal marito e ricavando redditi dalla sua professione. Il nuovo secolo vide ridursi, in seguito alla morte di Francesca Vincenzina, ai soli Margherita e Giuseppe lo sparuto gruppo superstite dei Volò pittori di nature morte. Da questo momento in poi, le notizie sulla Caffi si fanno più scarse, sembra che la fama che l’aveva avvolta fino a quel momento sia scemata e la sua produzione divenne limitata. Morì il 20 settembre 1710 nella parrocchia di Santo Stefano Maggiore a Porta Orientale.
È lo stile unico, mai monotono e in piena evoluzione di Margherita che ne decreta la fama raggiunta. Le espressioni floreali, delicate e vaporose sembrano uscire dall’oscurità dello sfondo, in uno stile definito dai critici “piumoso” per il vibrare continuo di luci, forme e colori. I fiori da lei dipinti sono leggiadri, vivaci e sbrigliati realizzati con pennellate lunghe e strisciate, quasi un preludio della pittura di tocco e di macchia. La particolare cura con cui realizza gli effetti di trasparenza dei petali e i riflessi cangianti e metallici dei vasi istoriati riescono a conseguire una ‹‹luminosa polverizzazione della materia››, anche grazie alla sua predilezione per l’utilizzo di toni caldi e colori rossi.
Lodata da storici e critici già nel Settecento, solo recentemente la sua opera è stata in parte rintracciata e comincia a essere rivalutata, ma un profilo artistico è ancora da farsi. I suoi quadri si trovano sia in collezioni private (a Cremona e a Reggio-Emilia), che in musei pubblici, quali il Museo Civico Ala Ponzone di Cremona (Fiori, opera firmata e datata “Marg.ta Caffi fecit 1684”), all’Accademia Carrara di Bergamo e presso la Collezione dei Principi Borromeo di Milano.
Le altre donne della bottega: Francesca Vincenzina e Giovanna
Alla morte di Vincenzo Volò furono soprattutto le due figlie rimaste a Milano a prendere in mano le redini della bottega. Francesca e Giovanna, indicate negli inventari del tempo come “le Vincenzine”, adottarono un linguaggio pittorico legato a quello del padre, realizzando nature morte miste con frutti e ortaggi. Le Vincenzine continuarono ad ampliare i rapporti di conoscenza e legami professionali con artisti noti del tempo quali Federico Maccagni (nel 1679 sposo di Giovanna), Giovanni Saglier (notizie dal 1671 al 1733), Luigi Pellegrini detto lo Scaramuccia o il Perugino (1616-1680), padre Andrea Pozzo (1642-1709), Giorgio Bonola (1657-1700). Il loro impegno comune fu essenziale per tutti gli anni Settanta, durante i quali lavorarono per l'aristocrazia cittadina, ma soprattutto per Vitaliano VI Borromeo: la partecipazione di Giovanna e Francesca Vincenzina all'arredo del palazzo dell'Isola Bella attesta l’importanza raggiunta dalle due pittrici. Il grande mecenate, ideatore e costruttore del giardino e del palazzo dell'Isola Bella, nel corso degli anni Settanta aveva commissionato decine di piccoli quadri a fiori alle due “Vicenzine”. Con la morte di Giovanna, a causa di un parto difficile, nel 1680 Francesca Vincenzina divenne il perno intorno al quale ruotò l'attività di bottega nel senso autentico del termine: dopo averne retto le sorti negli anni Settanta insieme alla sorella, in una comunione di lavoro pressoché totale, ella la condusse nel decennio successivo, mantenendone in parte le caratteristiche, lavorando fianco a fianco con il più giovane Giuseppe.
Come già ricordato sopra Francesca Vincenzina fu una, insieme alla sorella, tra le tre donne entrate nell’Accademia di San Luca nel 1697; sposata nel gennaio del 1689 con Nicolao Smiller, morì nel 1700 in una località sconosciuta fuori da Milano.
Bibliografia
V. Zani, in ‘Natura morta lombarda’, catalogo della mostra a cura di A. Veca, Milano 1999, 160 ' 165, nn. 42-45
Gianluca Bocchi, Il Soggiorno bolognese di Ludovico e Margherita Caffi, in “Strenna Piacentina 2013”, 2013
Gianluca Bocchi, Ricerche genealogiche e indagini storico-artistiche intorno a una famiglia di pittori milanesi del XVII secolo: i Vicentini, Arte Lombarda, n. 175, 2015, pp. 47-69
Gianluca Bocchi, Vincenzo Volò pittore di nature morte di origini borgognone e alcuni aspetti della sua attività milanese, Arte Lombarda, 170-171, 2014
Gianluca Bocchi, Ulisse Bocchi, Naturaliter: nuovi contributi alla natura morta in Italia settentrionale e Toscana tra XVII e il XVIII secolo, Galleria d’Orlane, 1998
Sitografia
CAFFI, Margherita in "Dizionario Biografico" (treccani.it)
LA FONDAZIONE GIUSEPPE MOZZANICA
A cura di Alice Savini
La Fondazione Giuseppe Mozzanica di Pagnano (frazione di Merate LC) nasce nel 2007 per far conoscere al pubblico l’arte dello scultore e pittore Giuseppe Mozzanica (1892 -1983), protagonista dimenticato dell’arte lombarda del Novecento. Il progetto nasce per iniziativa dei tre figli di Giuseppe, Dario, Ivo e Angela, che hanno assecondato il desiderio del padre di valorizzare e far rivivere la sua opera.
La Fondazione ha il suo cuore nella Gipsoteca (aperta nel 2014), edificio fatto costruire dallo stesso artista nel 1959, scrigno e laboratorio dove sono esposti i gessi relativi alla sua produzione tra gli anni ’30 e gli anni ’60. Altrettanto importante è il Polo Museale dove è possibile ammirare oggetti di lavoro, modelli, disegni, dipinti e lastre fotografiche. Infine, a completare la serie di edifici in cui si snoda la Fondazione, vi è un laboratorio dove è possibile partecipare a progetti per bambini e adulti qui organizzati.
Il percorso di visita (che si può prenotare dal sito internet Fondazione – Fondazione Giuseppe Mozzanica) inizia dal chiostro, dove è possibile vedere due bronzi unitamente a tre opere marmoree; da qui si entra in una serie di stanze dove sono custoditi gli oggetti di lavoro che lo scultore fabbricava da sé: martelli, scalpelli, raspe per modellare l’argilla, modellini, gessi, che riassumono il processo creativo e costitutivo delle sue opere.
Sempre dal chiostro è possibile accedere a una serie di stanze dedicate alla pittura dove sono conservati disegni preparatori, alcuni ritratti, vedute, paesaggi e nature morte. Proseguendo nel percorso attraverso il giardino, accompagnati da alcune teste di bronzo e da una nuotatrice pronta a tuffarsi, si arriva, dapprima, ai laboratori ludici e didattici e infine alla Gipsoteca: un luogo magico, un candido mondo di forme classiche, bianche e levigate valorizzate dalla luce naturale proveniente dalle grandi vetrate.
Giuseppe Mozzanica: vita di uno scultore di provincia
Grazie al lavoro della Fondazione è stato possibile tracciare la personalità artistica di Giuseppe Mozzanica, uno di quegli scultori lombardi della prima metà del Novecento rimasti, per necessità o per scelta, ai margini delle vicende maggiori della scultura nazionale e internazionale. Artista per certi tratti schivo e poco incline all’autopromozione, Giuseppe Mozzanica decide di lavorare nel paese di origine, dove può dedicarsi alla sua produzione indisturbato e protetto dalle verdi colline della Brianza.
Nato a Sabbioncello nel 1892 da una famiglia di contadini, scopre ben presto la passione per la scultura, a cui si avvicina grazie al lavoro nella cementeria di Carsaniga di Merate. Tra il 1907 al 1912 studia disegno libero e ornato presso le scuole domenicali di Merate, al termine delle quali decide di iscriversi alla scuola di Plastica del Castello di Milano dove studia fino al 1916 (cercando in tutti i modi di frequentarne le lezioni nonostante il divieto del padre, che lo voleva impiegato nei campi, e il capostazione che, in accordo con il padre, gli impediva di prendere il treno). A partire dal 1921 segue i corsi di plastica della figura tenuti da Giuseppe Graziosi presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. È qui che lo scultore affina la sua tecnica, il suo stile intriso di naturalismo e verità, nutrito dalla passione per l’arte greco-romana e rinascimentale; impara anche ad usare la fotografia, mezzo che sarà molto utile durante il processo creativo delle sue sculture.
Nel 1923, terminato il corso a Brera, entra per la prima volta nell’ambiente artistico nazionale esponendo alcune sue sculture alla Permanente di Milano. Pur muovendosi all’interno di quella corrente accademica ancora tenacemente ancorata all’ideale classico del naturalismo e ai dogmi del simbolo e del vero, non rimane, però, ininfluente all’arte di Rodin e Medardo Rosso come testimonia la Testa di Anziana (1924), caratterizzata dalla ricerca del vero espressivo e abbracciante la poetica del non finito. La sua produzione di questi anni sembra oscillare tra verismo e classicità.
Da questo momento in poi partecipa a numerose manifestazioni artistiche: nel 1925 all’Esposizione Nazionale d’Arte a Milano, nel 1926 alla XV Biennale di Venezia, nel ’33 e ’35 alle Esposizioni nazionali della Permanente di Milano dove il comune acquista alcune sue opere (oggi conservate alla Galleria d’Arte Moderna).
Sono questi gli anni di massima affermazione dell’artista. Nel 1926 viene chiamato da Pietro Lingeri e Giuseppe Terragni a collaborare per la parte plastica del Monumento ai Caduti di Como; sebbene il progetto si fosse imposto come favorito, il comune della città scelse di guardare altrove. Anche la possibilità di esporre due statue, il Calciatore e il Vogatore, per lo Stadio dei Marmi a Roma, venne meno. Le opere erano destinate a fare da corona allo Stadio dei Marmi nel Foro Mussolini di Roma. Il progetto prevedeva 60 statue raffiguranti le diverse discipline sportive, ma all’artista venne contestato il fisico dei due atleti, che non corrispondeva ai canoni estetici della virilità fascista che voleva l’uomo più assomigliante ad un perfetto David di Michelangelo. Giuseppe, infatti, aveva preso spunto da corpi reali di giovani del posto per cui erano più vicini alla realtà che all’ideale estetico del regime.
Dopo gli anni ’40 Mozzanica si isola progressivamente dall’ambiente artistico nazionale privilegiando manifestazioni di carattere locale e privato, in cui le commissioni di carattere funerario sono più numerose.
La scultura
Mozzanica ha una forte propensione per un’arte che sia più vicina possibile al vero, arte che si coniughi con l’identità classica nutrita di armonia, purezza formale, pulizia e levigatezza. Nelle sue opere vi è una tensione bipolare tra il vero e l’ideale che gli permette da un lato di non cadere nel classicismo tradizionale e retorico e dall’altro di non cedere ad un eccesso di realismo, troppo diretto e crudo per le sue preferenze. Il suo linguaggio rimane quindi ancorato alla tradizione ma intriso di una vivacità e leggerezza personali, non perseguendo una classicità atemporale lontana dal quotidiano e dalla storia ma una classicità che dialoga col presente.
In grado di toccare con grande abilità tutti i generi, dal ritratto, al nudo fino alla statuaria funebre, il suo processo creativo non inizia con un disegno, ma preferisce modellare la creta direttamente guardando il modello dal vero. È solito non lavorare a un unico lavoro, ma a più opere contemporaneamente, in modo da evitare la monotonia dell’attività quotidiana e portare una variatio. Non amando lavorare con la luce artificiale preferisce quella diffusa naturale, motivo per cui costruisce la sua gipsoteca con una serie di finestre che si aprono lungo tutto il perimetro. Amante della musica è solito ascoltare musica classica nelle sue interminabili giornate di lavoro.
Per imbastire le sculture a figure intera utilizza inizialmente la creta, mantenuta umida grazie all’aggiunta di panni bagnati, mentre per le figure minori predilige la plastilina.
L’artista aveva messo a punto un sistema formato da due torchi girevoli, legati da una catena, che potevano ruotare contemporaneamente in modo da mettere direttamente a confronto il modello umano e l’opera. Su uno si metteva il modello nudo, mentre sull’altro la struttura in ferro sul quale modellava la creta, poi pressata e mantenuta umida, dalla quale si otteneva il gesso con la forma anatomica finale. Qualora la statua andasse rivestita, il posto del modello veniva occupato dal nudo che poi veniva ricoperto con abiti veri appuntati da spilli, si proseguiva lavorando sul modello di creta su cui modellava gli abiti e i drappeggi del suo manichino.
Un analogo sistema veniva utilizzato per i volti: il modello veniva fatto sedere su una sedia girevole e la creta posta su un tavolino anch’esso girevole in modo da aver modo di cogliere ogni angolazione e sfaccettatura del volto. Per le mani utilizzava calchi in gesso dal vero, in una serie di combinazioni che poi riutilizzava nelle sue composizioni.
L’elemento più importante delle sue opere restano i volti, di cui lui sceglieva quello più adatto a seconda del soggetto e dell’occasione da un suo archivio: una serie di teste, che si possono ammirare nella gipsoteca, di persone a lui vicine.
Una volta elaborata la struttura finale il modello era pronto per la fusione in bronzo, per la trasposizione in marmo o terracotta. Anche se per lui l’opera perfetta rimaneva sempre il modello in gesso, così come era uscito inizialmente dalle sue mani d’artista. I modelli che arrivavano nello studio erano persone molto umili, come i contadini e le contadine di Merate, fino al 1935, ed operai ed operaie delle fabbriche dopo il trasferimento a Lecco.
Nella prima fase della carriera predilige opere di carattere pubblico (monumenti ai caduti) e privato (ritrattistica), mentre nel dopo guerra si cimenta nella realizzazione di opere a carattere funerario, abbracciando così tutti i generi scultorei.
Nella sua produzione ritroviamo, quindi, busti e teste ritraenti bambini, adulti, vecchi, statue di corpi femminili nude e vestite come Al Sole (1937), in cui è ritratta la moglie Maria, L’Aurora, La bagnante, e corpi virili e atletici come il Vogatore, Il Naufrago, Il calciatore.
Anche i temi del ricordo e della morte sono trattati dallo scultore con la stessa sensibilità dei suoi nudi. Tra la sua produzione troviamo, infatti, numerosi monumenti dedicati ai Caduti e monumenti funebri.
Inizia a realizzare i primi monumenti per i caduti subito dopo la Prima guerra mondiale, nei primi anni ’20 quando studia ancora a Brera. Mozzanica, che aveva combattuto per sei mesi sull’Altopiano d’Asiago, rielabora il trauma dell’esperienza nelle sue sculture, non utilizzando il monumento ai caduti con logica celebrativa e nazionalistica, come era in voga negli anni dell’Italia fascista, ma vi raffigura i caduti nella desolata sorte di sofferenza e morte che nemmeno la vittoria può riscattare, guerra che è umiliazione e perdita. Non ritrae una vittoria o la disfatta, ma si sofferma sulla sconfitta dell’uomo in quanto tale.
Il tema della morte è trattato dall’artista nei numerosi monumenti funebri realizzati tra il 1930 e il 1960 lasciati dall’artista in numerosi cimiteri come quello di Como, Bergamo, Milano; anche se il gruppo più cospicuo si trova nel museo monumentale di Lecco, in cui sono conservate 55 tombe.
La pittura
Centocinquanta sono i dipinti catalogati dalla Fondazione, realizzati principalmente tra gli anni ’50 e ’60, anche se le prime testimonianze di interesse verso il disegno sono rintracciabili nelle esercitazioni degli anni alla Accademia di Brera, come testimoniano alcuni disegni ancora conservati.
Anche nella pittura l’artista spazia da un genere all’altro: dal ritratto ai nudi dove può concentrarsi nella figurazione o nell’introspezione psicologica, alla pittura di paesaggio, che diventa più un passatempo; senza dimenticare le nature morte di piccolo formato, a cui si dedica durante l’inverno non potendo godere del bel tempo per ritrarre i paesaggi verdeggianti.
Le foto presenti sono state scattate dall'autrice dell'articolo
Bibliografia
Il cimitero monumentale di Lecco. / Giuseppe Mozzanica, Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2012
La pittura. / Giuseppe Mozzanica, Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2013
Anna Chiara Cimoli, Giuseppe Mozzanica 1892-1983: la scultura, Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2007
Giuseppe Mozzanica: tra classicità e naturalismo, Banca Popolare di Sondrio, 2014
LA PALA SFORZESCA
A cura di Alice Savini
La Pinacoteca di Brera è uno scrigno di tesori che raccoglie secoli e secoli di storia di Milano; per ogni quadro esposto si può andare oltre la qualità pittorica e compositiva per addentrarsi nelle vicende storiche dei personaggi che hanno scritto la storia della città di Milano, come nel caso de La Pala Sforzesca.
Si tratta di una tavola dipinta a olio di notevoli dimensioni (cm 230 x 165) esposta nella sala XV della Pinacoteca di Brera. La sua storia è legata a quella dell’uomo più potente della Milano di fine Quattrocento: Ludovico il Moro.
Ludovico il Moro Duca di Milano
Ludovico il Moro, il cui vero nome è Ludovico Maria Sforza, nasce il 27 luglio del 1452, quarto figlio di Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza. Alla morte del padre nel 1466, il fratello maggiore Galeazzo Maria diviene Duca di Milano. Morto assassinato Galeazzo Maria, il suo posto viene preso, nel 1476, da Gian Galeazzo Maria Sforza, suo figlio, che aveva solo sette anni. Ludovico cerca di opporsi alla reggenza della madre di Gian Galeazzo Maria, Bona di Savoia, che di fatto affida il ducato a Cicco Simonetta, suo consigliere di fiducia. Insieme al fratello Sforza Maria, tentano di batterlo con le armi ma inutilmente: Ludovico è costretto all’esilio in Toscana mentre il fratello muore avvelenato. Poco tempo dopo si riconcilia con la cognata Bona riuscendo poi ad allontanare Simonetta e la stessa Bona, che si stabilisce nel castello di Abbiate (Abbiate Grasso). Incomincia così il periodo di reggenza in vece del nipote. Dotato di grandi abilità diplomatiche e senza scrupoli, il potere di Ludovico accresce sempre di più: si allea con Lorenzo il Magnifico, intrattiene buoni rapporti con papa Alessandro VI Borgia e con il re di Napoli Ferdinando I, la cui nipote, Isabella d’Aragona, sposa Gian Galeazzo Maria. Ludovico, invece, sposa nel 1491 la figlia del duca di Ferrara Ercole I d’Este, Beatrice, e diventa padre di due figli, Massimiliano e Francesco. Fu un periodo molto prolifico per le arti a corte, grazie alla presenza di Bramante e del toscano Leonardo Da Vinci. Proprio il secondo ritrae Cecilia Gallerani, amante di Ludovico il Moro, nel celebre Ritratto di dama con l’ermellino (attualmente conservato a Cracovia) e ritrae Lucrezia Crivelli, molto probabilmente un'altra amante del Moro, nella Belle Ferronnière (quadro attualmente esposto al Louvre). Ludovico si fregia del titolo di duca anche se in realtà, a livello formale, esso spetterebbe a Gian Galeazzo, nel frattempo trasferitosi a Pavia dove ha creato una sua corte. Nel 1494, alla morte sospetta del nipote Gian Galeazzo Maria, Ludovico può finalmente regnare da solo, anche se il periodo prospero dura poco: dopo una serie di alleanze, tradimenti e battaglie, che lo vedono impegnato contro Firenze e Venezia, il ducato viene conquistato e occupato dalle truppe francesi nel 1499. Mentre Milano perde la propria indipendenza, dando inizio a un dominio straniero che durerà più di tre secoli e mezzo, Ludovico viene catturato dai francesi a Novara il 10 aprile. Viene tenuto prigioniero fino al giorno della sua morte, quando si spegne all'età di 55 anni nel Castello di Loches, in Francia, il 27 maggio 1508.
La Pala Sforzesca
La pala viene realizzata su commissione di Ludovico il Moro dopo il 1494, per ribadire la legittimazione del potere dopo la morte sospetta del nipote, attuando una vera e propria opera di propaganda. Destinata per la chiesa di Sant’Ambrogio a Nemus, entra a Brera nel 1808 a seguito delle soppressioni napoleoniche.
In una sfarzosa cornice architettonica ricca di elementi decorativi preziosi, si sviluppa una sacra conversazione con Madonna e Bambino in trono accompagnati dai Dottori della Chiesa: Sant’Ambrogio (con l’attributo tradizionale dello staffile), San Gregorio Magno (in abiti papali), Sant’Agostino (reggente in mano un libro) e San Girolamo (vestito con il manto rosso). In aria si librano due angeli recanti tra le mani la corona ducale, posta sulla testa delle Vergine. Alla scena assistono, inginocchiati in un rigido profilo dal sapore arcaico, il nuovo duca di Milano, Ludovico il Moro, Beatrice d’Este e i due figli: il primo, ancora in fasce, è il primogenito, Ercole Massimiliano, figlio di Beatrice; l’altro è Cesare, figlio illegittimo del Moro avuto con l’amante Cecilia Gallerani. La presenza di un figlio illegittimo in un ritratto ufficiale può sembrare strana oggi, ma ai tempi erano alquanto tollerati. Inoltre, la moglie Beatrice non nutrì mai nei suoi confronti alcun tipo di ostilità, lasciandolo crescere nella corte insieme ai propri figli. Il secondogenito del Duca, Francesco, se si considera il 1494 come anno di esecuzione della tavola, non poteva essere ritratto nel dipinto poiché ancora nel grembo materno.
Il Moro è presentato alla Vergine e al Bambino da Sant’Ambrogio, vescovo e protettore di Milano; il gesto ha un forte valore simbolico in quanto il santo, in questo modo, diviene garante per il duca posto di fronte alla Vergine e al Bambino, che si protende verso di lui in atto benedicente. Il nuovo Duca sta per essere incoronato con la preziosa corona dorata, indicando quindi una legittimazione divina del suo potere temporale.
I ritratti dei duchi sono spesso accostati a quelli che si trovano nel dipinto di Donato di Montorfano nel refettorio delle Grazie, sulla parete opposta a quella dove si trova l’Ultima Cena, per la stessa posizione e la rigidità delle figure. Nel dipinto, il chiaroscuro accentuato nella definizione dei volti e gli esibizionismi prospettici sono evidenti forzature degli insegnamenti di Leonardo e Bramante. A queste componenti si aggiungono gli arcaici ritratti araldici di profilo, l’ostentazione degli ori, dei gioielli e dei tessuti della corte più ricca d’Italia: il risultato è un dipinto caricato all’estremo, ancora legato a un passato glorioso che sta progressivamente scomparendo e segnando la fine della signoria milanese degli Sforza.
Il Maestro della Pala Sforzesca
Il mistero che cela la tavola è il nome del suo autore. L’opera è stata variatamente attribuita a Vincenzo Foppa, Bernardo Zenale o Ambrogio de Predis; per alcuni critici viene considerata, per l’armoniosa modulazione chiaroscurale, vicina alla scuola leonardesca. Ad oggi è attribuita a un anonimo Maestro della Pala Sforzesca (notizie dal XV secolo al XVI secolo) la cui mano è stata ritrovata anche in altre opere, e la cui pittura è caratterizzata da una decorazione sfarzosa data da un ampio utilizzo della foglia oro, dal sapore tardogotico, unita alla sensibilità realistica della tradizione foppesca e ai contrasti chiaroscurali di matrice leonardesca.
Attraverso diversi riscontri stilistici gli studiosi sono stati in grado di attribuire una serie di opere alla mano del Maestro della pala Sforzesca, alcune di queste sono: La Madonna con bambino con Santo e Donatore del Museum of Fine Arts di Huston, la Madonna in Trono con donatori e Santi alla National Gallery di Londra, una Madonna con Bambino alle Gemäldegalerie di Berlino e i tondi con gli Apostoli custoditi alla pinacoteca del Castello Sforzesco.
Bibliografia
Silvia Bellini, in Brera: guida alla Pinacoteca, a cura di Laura Baini, Milano, Electa, 2004
Mina Gregori, Pittura a Milano: Rinascimento e Manierismo, Milano, Cariplo, 1998
Ludovico Sforza, detto il Moro, duca di Milano, Enciclopedia Treccani
Sitografia
https://cultura.biografieonline.it/dama-ermellino-leonardo/
https://cultura.biografieonline.it/louvre/
https://cultura.biografieonline.it/leonardo-belle-ferronniere/
IL SANTUARIO DI SANTA MARIA DELLA NOCE A INVERIGO
A cura di Alice Savini
La miracolosa apparizione
Il santuario di Santa Maria della Noce, che ancora oggi è un importante luogo di devozione, si erge sulle colline del paese di Inverigo situato nel cuore della Brianza. Il Santuario nacque per volontà della popolazione del paese allo scopo di ringraziare la Madonna, a seguito della sua apparizione a due fanciulli che si erano persi nel bosco. Secondo la tradizione la figura divina apparve, in un giorno imprecisato del 1501, al di sopra delle fronde di un albero di noce, recando tra le braccia il Bambin Gesù, per portare in salvo i due malcapitati. Ancora oggi il luogo dell’epifania divina è ricordato dall’effige dipinta di una Madonna con Bambino (posta nella muratura dell’odierna torre campanaria, molto probabilmente sorta al posto dell’antica chiesa), collocata al di sopra di un albero di noce (che in origine era piantato all’interno dell’edificio).
Santa Maria della Noce e la sua storia
La costruzione della chiesa, inizialmente in pietra, iniziò il 2 giugno del 1519; ma fu solo grazie a Carlo Borromeo che la piccola edicola si trasformò in un grande santuario mariano. Nel 1570, in visita pastorale a Inverigo, l'arcivescovo Carlo Borromeo si lamentò per le condizioni deplorevoli della chiesa di Santa Maria della Noce, mai finita: l’arcivescovo diede disposizioni per il completamento della fabbrica; il nuovo santuario, terminato solo nel 1671 dopo i solleciti di Federico Borromeo, sembra essere frutto di un progetto realizzato da Pellegrino Tibaldi, l'architetto di fiducia dell'arcivescovo.
Giungendo davanti all’ingresso dell’odierno edificio si può vedere una balaustra marmorea che ne delimita il sagrato, la “recinzione” voluta da Carlo Borromeo permette di dividere lo spazio sacro da quello destinato al mercato della piazza circostante. L’austera facciata della chiesa dai tratti classicheggianti è un rimando all’arte rinascimentale: quattro giganti lesene di ordine ionico, poste su un alto basamento, scandiscono la facciata terminante con una struttura a timpano triangolare. La stessa composizione, formata da timpano privo di fregio e sorretto da colonne ioniche, è riproposta in scala ridotta a racchiudere un portale ligneo intagliato. Sul retro della chiesa troviamo invece la torre campanaria quattrocentesca costruita in cotto.
Una volta varcata la soglia ci troviamo in un ambiente che accoglie e “abbraccia” il pellegrino, grazie anche alla pianta centrale dell’edificio. Volgendo lo sguardo verso l’alto è possibile osservare la cupola archiacuta terminante con una lanterna finestrata. Alla base della cupola troviamo i quattro evangelisti, mentre le volte sono dipinte con un motivo a cassettoni che imitano un soffitto ad intaglio ligneo. Lo spazio interno è scandito da quattro colonne doriche giganti che si innalzano fino all’imposta delle volte. All’interno vi sono anche due cappelle che, oltre che contenere un importante dipinto e un crocifisso ligneo di grande qualità, sono abbellite con una decorazione in stucco di notevole complessità piena di elementi vegetali, racemi, putti e rosette.
A contrastare con gli elementi classicheggianti vi sono l’altare e l’ambone che sono opere contemporanee, realizzate in marmo di Carrara dall’artista contemporanea Marie Michèle Poncet.
Sei importati dipinti
Il Santuario di Santa Maria della Noce accoglie al suo interno una serie di dipinti di grandi artisti riconosciuti, ciò testimonia la grande importanza che nei secoli doveva aver assunto il santuario. Nella cappella laterale di sinistra un prezioso dipinto celebra il santo arcivescovo di Milano Carlo Borromeo; una cornice di stucco bianco racchiude la tela raffigurante San Carlo in Gloria datata 1618. La tela è assegnata alla mano di Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, un’importante pittore della Controriforma in Lombardia; si tratta dell’unica prova pittorica del maestro per il territorio della Brianza, che testimonia anche l'importanza raggiunta dal santuario in epoca borromaica. La composizione prevede al centro della tela la figura di San Carlo benedicente dallo sguardo severo e austero vestito con piviale e mitria dorati. Egli è circondato da una gloria di angioletti recanti alcuni oggetti sacri tra cui un crocefisso, il calice e il cappello arcivescovile. Degno di attenzione è il dettaglio della Bibbia aperta e offerta allo spettatore da un angioletto, dove si può constatare l'attenzione del pittore per i dettagli, dal segnalibro che taglia a metà la pagina, alle ombreggiature della piega della pagina sinistra che rimandano alla tradizione naturalistica lombarda. Il soggetto è uno tra i più frequentemente trattati dai pittori della Milano federiciana.
Subito a fianco, al di sopra di una porta di accesso al santuario, si può invece ammirare una tela raffigurante un San Gerolamo scrivente attribuito a Jusepe de Ribera e alla sua cerchia[1]. L’uomo è raffigurato in età avanzata mentre scrive la Vulgata, il corpo nudo è coperto da un semplice drappo mentre con la mano destra impugna uno stilo. A destra dell’altare invece è posta una tela di medie dimensioni caratterizzata da un forte gioco chiaroscurale, si tratta dell’Orazione nell’orto eseguita da Antonio Campi nel 1577[2]. L'immagine descrive un ambiente notturno in cui le figure di Cristo al centro e dell'angelo sulla sinistra sono avvolti da una innaturale fonte luminosa che traccia le superfici dei loro corpi.
Un dipinto dai colori brillanti e smaltati raffigurante La Visitazione della Santa Vergine a Santa Elisabetta è posto subito all’ingresso. Realizzato dal pittore Francesco Crivelli e commissionato dell’omonima famiglia Crivelli (il cui stemma è ancora visibile all’interno della maestosa cornice dorata) in un periodo di tempo che va dal 1530 al 1560. La scelta iconografica è inusuale poiché non vi è raffigurata la stretta di mano tra le due cugine, bensì un abbraccio.
Altra opera conservata nel santuario è il grande dipinto raffigurante l’Assunzione della Vergine di Gian Domenico Caresana. La Madonna è ritratta mentre ascende al cielo in un turbinio di nuvole e angeli; ai suoi piedi i dodici apostoli (tra cui Pietro e Paolo) sono spaventati alla vista del sepolcro vuoto. Il dipinto raffigurante Cristo e la Cananea rimane quello più enigmatico, sconosciuto è ancora il suo esecutore anche se l’ipotesi più accreditata è quella di Paolo Cazzaniga, copista e pittore di casa Borromeo. Si tratta infatti di una copia del dipinto eseguito da Annibale Carracci per palazzo Sampieri a Bologna.
Le foto sono state scattate dall'autrice dell'articolo.
Note
[1] Jusepe de Ribera detto lo Spagnoletto fu un pittore spagnolo che trovò fortuna come pittore nella corte spagnola di Napoli. Famoso per le sue opere dal sapore caravaggesco, ricche di chiaroscuri e raffiguranti la realtà, a volte anche violenta e brutale.
[2] Solo dopo il restauro del 1990 il dipinto è stato attribuito ad Antonio Campi grazie al ritrovamento della firma, in passato si pensava fosse stato dipinto da Simone Peterzano.
Bibliografia
Giussani, Il Santuario di Santa Maria della Noce in Inverigo, 2013.
Sitografia
Il Santuario S. Maria della Noce - Comunità Pastorale Beato Carlo Gnocchi (parrocchiainverigo.it)
Cammino di sant'Agostino (cassiciaco.it)
IL QUADRO DELLE TRE MANI: MANIFESTO PITTORICO DI UN’EPOCA
A cura di Alice Savini
La Milano della Controriforma e dei Borromeo
Passeggiando tra le ultime sale della Pinacoteca di Brera ci si imbatte in un quadro la cui storia compositiva è molto interessante; si tratta del Martirio di Santa Seconda e Rufina conosciuto anche come “Quadro delle tre mani”, poiché a realizzarlo furono tre tra i pittori più importanti della Milano dei primi anni del 1600: il varesotto Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, il valsesiano Giovanni Battista Crespi detto il Cerano e il bolognese naturalizzato milanese Giulio Cesare Procaccini. Il quadro è una sorta di emblema della Lombardia della Controriforma (dopo il Concilio di Trento) che, da 1564 al 1584 e dal 1595 al 1631, fu segnata dal riformismo degli arcivescovi e cugini Carlo e Federico Borromeo.
Il rinnovamento sia edilizio che artistico dei decenni post tridentini si diffuse in tutte le città del territorio grazie all’instancabile impegno di Carlo Borromeo. Fu proprio lui, tra i più ferventi sostenitori del Concilio tridentino, a promuovere una pittura capace di “parlare a tutti” che rifiutava gli eccessi del linguaggio manierista e le rappresentazioni dei nudi, ma che cercò altresì maggiore corrispondenza con le Sacre Scritture e una semplificazione formale e compositiva che potesse permettere maggiore facilità di comprensione. Divenuto santo nel 1610, Carlo Borromeo assunse il ruolo dell’episcopato post-tridentino ideale e l’esempio da lui tracciato, anche nel settore della promozione architettonica e figurativa, venne proseguito dai suoi successori come il cugino Federico Borromeo, salito sulla soglia arcivescovile nel 1595[1].
La politica artistica e l’ideologia figurativa di Federico furono ereditate dal predecessore e cugino Carlo Borromeo. Scomparsa la generazione di pittori legati alla stagione della cultura post-tridentina, Federico scelse i tre pittori Giovan Battista Crespi detto Cerano, Francesco Mazzucchelli detto Morazzone e Giulio Cesare Procaccini, che diedero avvio ad uno stile pittorico unico. Tali artisti riuscirono a unire in un unico linguaggio le ricercatezze formali derivanti dai modelli del tardo manierismo tosco-romano e emiliano all’oltranza espressiva, alla violenta drammaticità dei contrasti chiarosurali[2], creando una pittura eccentrica, tenebrosa, dal tumultuoso ritmo corale e “morbosa”, per certi versi molto lontana dal linguaggio della generazione precedente e che guarda già alle messe in scena del grande teatro barocco.
Coetanei, i tre artisti erano già impegnati da tempo in committenze d’alto livello di natura prevalentemente religiosa ed entrarono in contatto tra loro in svariate occasioni; infatti furono chiamati dalla Fabbrica del Duomo a lavorare ad alcuni quadroni raffiguranti la Vita di Beato Carlo (1602-1603) e dei Miracoli del Santo (1610). Cerano e Procaccini si ritrovarono a lavorare insieme anche nel cantiere di Santa Maria presso San Celso, chiamati a decorare le prime e le seconde campate laterali. Mentre il Morazzone, che entrò più tardi sulla scena pubblica, lasciò la sua prima opera pittorica milanese nella chiesa di sant’Antonio Abate, dove peraltro sono presenti anche il Cerano e Procaccini.
Il "Quadro delle tre mani": Il Martirio di Santa Rufina e Seconda
Il dipinto "delle tre mani", di forma quadrata e di modeste dimensioni, fu realizzato per la fruizione privata del ricco mecenate Scipione Toso, uno degli amatori d’arte più in vista del tempo ricordato anche da Girolamo Borsieri tra coloro che apprezzarono la nuova pittura dei “moderni” (Procaccini, Cerano e Morazzone). Nelle mani di Toso già nel 1625 (probabile anno di esecuzione[3]), passò poi alla proprietà del Cardinale Cesare Monti (successore di Federico Borromeo), per poi essere ceduto alle collezioni dell’Arcivescovado di Milano nel 1650; per entrare infine nelle collezioni della Pinacoteca di Brera solo nel 1896. Scipione Toso diede inizio a una competizione tra i tre grandi artisti che crearono un quadro non del tutto omogeneo ma comunque unitario; il dipinto è da intendere come un vero e proprio manifesto della scuola pittorica milanese della prima metà del Seicento.
Il dipinto doveva essere una sorta di celebrazione del cristianesimo delle origini, infatti in quegli anni gli artisti ricevevano molte commissioni riguardanti i primi martiri. Nel dipinto è raffigurato il martirio delle due sante, Seconda e Rufina, avvenuto durante le persecuzioni nella Roma dell’imperatore Gallieno (260 d.C.). Inizialmente fidanzate con Armentario e Verino, fecero successivamente voto di castità; i due giovani rifiutati decisero di vendicarsi denunciandole alle autorità. Le due Sante, che scelsero di non abiurare, furono portate al X miglio della Via Cornelia dove Rufina venne decapitata e Seconda bastonata fino alla morte. Nel dipinto il corpo di Rufina è raffigurato riverso nella parte destra della composizione, la santa è accompagnata da un angelo che tenta di fermare il desiderio di carne del cane da caccia. Mentre Santa Seconda è raffigurata sulla destra, rassegnata al suo destino e illuminata da una fonte luminosa che preannuncia l’ascesa al cielo. Lo stesso angelo che la accompagna, con il dito puntato verso l’alto, sembra rassicurare la ragazza del destino che la attenderà. I responsabili del martirio invece irrompono nella scena in tutta la loro potenza e prestanza, un cavaliere loricato è raffigurato a cavallo (potrebbe essere il conte Archesilao mandante della loro morte), mentre due sgherri, con ancora in mano la spada, sono gli autori materiali del martirio. Nel frattempo un paggio in armatura osserva nell’ombra ed un elegantissimo angioletto si libra in volo reggendo la palma del martirio.
Già nel 1636 il letterato Giovanni Pasta, che per primo coniò il titolo di “Quadro delle tre mani”, attribuì alla mano del Morazzone la composizione generale del dipinto insieme al carnefice centrale e l’angelo con la palma del martirio, mentre a Cerano il cavaliere e le figure di sinistra e a Procaccini la Santa Rufina e l’angelo che la assiste sulla destra. Ai pittori sembra essere stata assegnata la parte di dipinto più consona al proprio registro espressivo e ai temi solitamente affrontati; i tre sono infatti simili tra loro ma ciascuno fa proprio un filone diverso. Il Cerano è chiamato a realizzare la parte più ”macabra” del dipinto, la testa mozzata e sanguinosa di santa Seconda, così come il cavallo e il cane voglioso di carne, memore della grande attenzione alla pittura di animali della sua bottega. Egli inserisce nel quadro elementi di una violenza quasi al limite dell’orrore, ma questo rientra nella sua poetica spesso vigorosa quasi fino alla sgradevolezza; le sue opere riescono a tradurre in immagini i toni drammatici e visionari della religiosità del tempo.
Il carnefice dipinto nella penombra luminescente è opera del Morazzone, il quale passò alla storia come il pittore più drammatico e potente e antiedonista. Celebre pittore di battaglie e di grandi composizioni corali egli riuscì a donare all’intera scena un forte senso di dinamicità e coinvolgimento illusionistico. Mentre il linguaggio tenero e soave del Procaccini è riservato a Santa Rufina, ancora in vita che attende il momento del trapasso attorniata da una luce celestiale. L’aspetto eroico della santa è tipico del linguaggio del Procaccini che si contraddistingue per essere un artista di profonda devozione e coinvolgimento, ma al contempo anche legato a una fisicità con potente carica erotica, di una bellezza insieme idealizzata e sensuale.
Note
[1] Federico Borromeo fonda nel 1607 la Biblioteca Ambrosiana, uno spazio pubblico comprendente una ricca biblioteca, una pinacoteca e un’accademia artistica. Il primo nucleo della pinacoteca nasce nel 1618 quando l’arcivescovo Federico Borromeo dona la sua raccolta di disegni e dipinti alla biblioteca, mentre nel 1620 nasce l’Accademia di disegno, pittura, scultura e architettura simile a quella romana di San Luca e quella fiorentina.
[2] L’inizio del Seicento è un momento di contraddizioni dal punto di vista pittorico, si scontrano infatti due scuole pittoriche: quella caravaggesca diffusasi grazie al genio del Merisi e quella emiliana che si basa sulla pittura dei fratelli Carracci, che porta in campo il revival classicheggiante e neo-pagano alla base del barocco romano maturo.
[3] Nel 2005 lo studioso Jacopo Stoppa ha ipotizzato, su basi stilistiche, la datazione al 1617-1618.
Bibliografia
Baini (a cura di), Brera : guida alla Pinacoteca, 2004
J.Stoppa; Il Cerano. 2005
Gregori, Pittura a Milano dal Seicento al Neoclassicismo, 1999
Coppa, Seicento lombardo a Brera [: capolavori e riscoperte], 2013
Sitografia
Il "Quadro delle Tre Mani": testamento di pittori maledetti | Viaggiatori Ignoranti
L'opera del lunedì - "il Quadro delle Tre Mani" - Bing video