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A cura di Alessandra Apicella

 

Il vedutismo fu una corrente pittorica che nacque nel corso del Settecento e che prediligeva come soggetto vedute di paesaggi naturali e cittadini, posti al centro della rappresentazione in modo scientifico ed oggettivo. Era possibile identificare due diversi filoni: il capriccio, dove venivano rappresentati paesaggi o di totale fantasia oppure costituiti da elementi reali ma tratti da luoghi differenti; e la veduta realistica che preferiva riprodurre oggettivamente la realtà.

Parlare, dunque, di vedutismo romantico sembra quasi un ossimoro, considerata la peculiarità fondamentale del movimento romantico, e cioè la rivalutazione della figura umana nella sua individualità sentimentale e nel suo rapporto con la natura circostante. L’uomo, che nel Settecento, secolo dei Lumi, era stato al centro dell’analisi dei grandi intellettuali per le sue capacità conoscitive e razionali, nell’Ottocento viene considerato dal punto di vista sentimentale, interiore, in contrasto con quella che era stata una valutazione asettica dell’uomo, ed eccessivamente razionale. 

 

Uno dei caratteri peculiari del Romanticismo, il complesso fenomeno culturale che investì, nel corso della prima metà dell’Ottocento, seppur in tempi e modalità differenti, tutti gli stati d’Europa negli ambiti filosofici, letterari, politici ed artistici, era lo sguardo differente verso la natura ed i paesaggi, letti attraverso la lente emozionale. Essere “romantici” significava scardinarsi dallo sguardo empirista, scientifico dei fenomeni e guadare alla natura non solo come paesaggio ma anche come “natura umana”, ponendo, poi, al centro della rappresentazione, non tanto quello che si era realmente visto quanto piuttosto ciò che di quella visione aveva suscitato un moto profondo nell’animo dell’artista. Per poter rappresentare “quest’altra natura”, viva e ricca di sentimento, si svilupparono diversi metodi: dalla pennellata rapida e veloce all’attenzione predominante verso i colori e verso i giochi di luce, di cui maestro per eccellenza fu Joseph Mallord William Turner; o ancora, attraverso la rappresentazione di un paesaggio dalla forte valenza simbolica, che rispecchiasse gli stati d’animo e le riflessioni esistenziali – è il caso della produzione di Caspar David Friedrich. 

 

In Italia, la concezione della natura come proiezione di sentimenti individuali ispirò la ricerca di luminosità gioiose o di ombrosità malinconiche ed assorte, di atmosfere dolci e di altre cupe ed ebbe, come suoi massimi rappresentanti, al Nord artisti come il marchese Massimo d’Azeglio e Giovanni Carnovali, detto il Piccio, e, al Sud gli esponenti napoletani della Scuola di Posillipo. 

Con il primo tornano in voga le produzioni del cosiddetto “paesaggio eroico”, erede della tradizione dei Carracci e di Domenichino. Un paesaggismo che partiva da episodi storici o letterari ambientandoli in suggestivi paesaggi boscosi, lacustri o montani che giganteggiavano su figure solitamente di piccolo formato. 

 

I temi prediletti dal Piccio (scene tradizionali, religiose o mitologiche) sono invece rappresentati in una perfetta fusione tra colore e atmosfera, attraverso l’impiego di contorni morbidi e avvolgenti, dove le figure appaiono quasi evanescenti. 

 

Il terzo principale filone del Vedutismo italiano si sviluppò, nella città partenopea, un ambiente artistico che già nei primi decenni dell’Ottocento si era mostrato particolarmente ricettivo nei confronti di questo genere pittorico, grazie soprattutto agli influssi di pittori stranieri, come Turner e Corot, che avevano più volte soggiornato nella città, ma anche per merito della persistenza di questo particolare filone dal secolo precedente. 

 

Paradossalmente, un ulteriore aggiornamento al filone paesaggistico fu dato da un altro artista straniero, l’olandese Anton Sminck van Pitloo (1790-1837), che giunse nella città di Napoli nel 1816, presso il conte Orloff che gli offrì una prima ospitalità. Ammaliato dai paesaggi e dall’atmosfera partenopea, decise di rimanervi fino alla morte, facendosi promotore della formazione di una scuola pittorica dedita alla produzione paesaggistica: alla “Scuola di Posillipo” aderirono, negli anni Trenta, molti artisti dediti al Vedutismo e, in particolare, a una pittura fortemente incentrata sulle ricerche cromatiche e tonali. Di Pitloo, che fu tra gli esponenti più insigni della scuola, si può ricordare un’opera che riesce a racchiudere in sé sia i caratteri essenziali della sua pittura che l’importanza che il paesaggio partenopeo ebbe in tutta questa produzione: è il caso del suo Castel dell’Ovo dalla spiaggia.

 

Il quadro, la cui esecuzione fu probabilmente completata en plein air, presenta una predominanza di tonalità gialle, calde e vibranti, utilizzate per rendere un’atmosfera quasi cristallina, in netto contrasto con le ombre in primo piano, dove, grazie al contrasto cromatico delle vesti, si scorgono delle piccole figure. L’origine olandese del pittore lo portò a sviluppare uno stile totalmente personale, in grado di coniugare il calore della terra napoletana con le atmosfere nordiche delle sue prime rappresentazioni. Quest’amalgama straordinario permise la produzione di paesaggi lirici, immersi in atmosfere da sogno, dove alla luce è affidato il compito di definire forme e di creare suggestioni.

Ad affiancare Pitloo nella gestione della Scuola, nata ufficialmente nel 1820, si pose Giacinto Gigante (1806-1876), che, alla morte del maestro, ne prese anche le redini, diventandone, grazie alle sue rappresentazioni della città e dei suoi dintorni, rese con una cura meticolosa dei dettagli e attraverso i dinamici effetti luministici e accordi cromatici resi possibili dall’acquerello, uno dei maggiori interpreti. 

 

Particolare il caso della Tempesta sul Golfo di Amalfi, dove la precisa disposizione spaziale degli elementi del paesaggio, figlia della sua attività di topografo, si coniuga con un’impostazione estremamente suggestiva e scenografica del paesaggio e dove l’elemento della potenza naturale, nella sua maestosità e pericolosità, è connesso all’influenza nordica che Pitloo ebbe su di lui.

La nascita della scuola e del suo stesso nome, datole in senso dispregiativo dagli accademici della città perché avrebbe alluso alla vicinanza di questi pittori con i forestieri, desiderosi di avere qualche ricordo disegnato o dipinto dei luoghi, esplicano perfettamente la condizione in cui si trovava la pittura paesaggistica nella gerarchia degli stili. Fu però proprio grazie a questa maggiore libertà che la scuola ebbe la possibilità di liberarsi più facilmente dai vincoli accademici e di dimostrare un continuo aggiornamento nei confronti delle sollecitazioni europee.

Tra le fila dei pittori paesaggisti annoverati nella scuola, si possono ricordare i tre fratelli Palizzi (Giuseppe, Filippo e Francesco Paolo), che mossero i primi passi pittorici nel contesto partenopeo, per poi intraprendere, ognuno di loro, una produzione pittorica personale, ma anche Gabriele Smargiassi e Salvatore Fergola.

Rispetto alla prima fase della scuola, di ascendenza soprattutto pittoresca, con l’evidente tendenza romantica le fasi successive videro una certa ripetitività di schemi ed una progressiva tendenza oleografica.

Nonostante gli inizi pittorici controversi ed in parte sottovalutati, col tempo la produzione paesaggistica della scuola di Posillipo divenne un punto di riferimento per il genere, tanto da portare il suo stesso fondatore a grandi successi in campo artistico e sociale: nel 1822, infatti, van Pitloo ricevette la nomina di Professore Onorario presso il Reale Istituto di Belle Arti di Napoli e nel 1824 la cattedra di paesaggio presso la medesima accademia.

 

 

Bibliografia

Carlo Bertelli, La storia dell’arte, volume 4 Dal Barocco all’Art Nouveau, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, 2011

Raffaello Causa, La scuola di Posillipo, in “MENSILI D’ARTE. Scuole, movimenti, personalità della pittura moderna”, volume 4, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1967

 

Sitografia

https://www.treccani.it/vocabolario/vedutismo/

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