TORTORA E I SUOI PORTALI MISTERIOSI

A cura di Felicia Villella

Introduzione

Tortora è il primo paese nord-occidentale della Calabria, vanta una notevole vista sul Mar Tirreno e possiede una posizione geografica strategica grazie al confine con la Basilicata. Il territorio rientra nel territorio del Parco Nazionale del Pollino ed è suddiviso in tre realtà, il centro storico, le frazioni montane e la zona marina, sostanzialmente il paese si estende lungo il Golfo di Policastro, fino ad arrivare a Laino Borgo. 

Da un punto di vista storico, il territorio è stato soggetto alla presenza dell’uomo già dal Paleolitico inferiore, come attestano i numerosi reperti rinvenuti nella zona nota come il Rosaneto risalenti a circa centocinquantamila anni fa. Dal VI al IV secolo a.C., Tortora, meglio nota con il nome di Blanda, fu in seguito abitata dagli Enotri, un popolo preromano. 

L’attuale denominazione del paese è successiva e deriva dalla cospicua presenza dell’omonimo volatile nella zona, che ne ha fatto il simbolo principale dello stemma araldico comunale.

I portali di Tortora

Il centro storico vanta una ricca collezione di portali lapidei, a partire dal più misterioso appartenente alla Cappella del Purgatorio, una costruzione di modeste dimensioni risalente al 1200 circa il cui impianto originario è costituito da un’unica navata quadrata di 8mt circa di lato e da una piccola abside posta di fronte l’ingresso.  Sormontata da un tavolato ligneo dipinto raffigurante le anime del Purgatorio, la navata conduce alla zona presbiteriale ed è separata da essa da un arco a tutto sesto. La facciata, presenta un unico ingresso incorniciato da un mirabile e laborioso portale scolpito con raffigurazioni esoteriche, una nicchia sovrastante lo stesso e due aperture laterali, il tutto capeggiato da un campanile a vista. 

Il portale, del 1688 che con il portone ligneo rappresenta l’unico esempio di arte basiliano-calabrese si presenta come un arco a tutto sesto, la cui parte superiore poggia su due pilastri dalla forma squadrata e nell’insieme rappresentano la volta celeste. I pilasti culminano in due capitelli decorati da un quadrifoglio e una figura animalesca, adagiati su due piedritti, mentre alla base sono scolpiti due leoni accovacciati, a guardia dell’ingresso.

Un ulteriore portale è quello di Palazzo Feudale, che si presenta come un arco a tutto sesto, nella cui chiave di volta è inserito lo stemma in ceramica smaltata della famiglia spagnola Vargas, in esso è rappresentato un braccio che afferra una clava, al di sopra di uno scorcio di mare stilizzato il tutto incorniciato da una bordatura giallo oro e un drappeggio cremisi. L’arco poggia su due mensole lineari mentre i piedritti terminano su due muretti. Il Palazzo, posto in Corso G. Garibaldi, è appartenuto al Principe Vargas Muchaca di Casapesenna, una famiglia feudataria di origine spagnola.

Situato in Via Bruzia, Portale Arleo incornicia l’ingresso di un palazzotto a più livelli, attualmente sfruttato ad uso abitativo. Nessuna notizia storica ci permette di delineare i contorni di una precisa indagine anamnestica, in conformità con il resto dei portali presenti nel territorio dal punto di vista stilistico, si fa risalire intorno alla seconda metà del X secolo, prima metà dell’XI. Oggetto di un errato restauro che ha ulteriormente assottigliato le morfologie dei decori presenti, il portale si presenta come un arco a tutto sesto, culminante in una chiave di volta dalle sembianze antropomorfe, ma dalla funzione apotropaica, si tratta probabilmente di una gorgone o di una Marcolfe. È formato da quattro parallelepipedi smussati ad angolo vivo, e una coppia di piedritti sormontati da due capitelli decorati da una colomba o da una tortorella in alto rilievo, il tutto sorretto da due pilastrini quadrangolari anch’essi decorati da una coppia di cani da guardia. Il resto delle decorazioni si rifà a motivi floreali stilizza che accompagnano nell’insieme l’intero portale. 

Ad incorniciare un suggestivo sottopassaggio sito in Vico Giuseppe Garibaldi troviamo Portale Leoncini, realizzato sfruttando il congiungimento tra due palazzotti privati, dei quali però non si hanno notizie storiche attendibili, così come nulla è stato tramandato riguardo la manovalanza e la data di realizzazione del portale. In conformità con quanto detto precedentemente, per somiglianza stilistica, anche questo portale si fa risalire al periodo compreso fra il X e l’XI secolo.

Realizzato come un arco a tutto sesto, il portale è capeggiato da una chiave di volta apotropaica su cui aleggia il blasone, ricondotto ad una casata familiare che ha come stemma un leone rampante colto di profillo sorretto da un albero posto al centro del blasone. L’arco si sviluppa su due basi quadrangolari squadrate decorate su due facce da croci templari e capitelli recanti una coppia di colombe incastonate in una cornice ottagonale. I piedritti sono decorati da fiori penduli stilizzati che si raccordano specularmente nella chiave di volta. 

Procedendo per Corso Giuseppe Garibaldi, all’entrata di un’ampia corte di un palazzotto signorile, Portale Lomonaco risale all’alto Medioevo e fu testimone nel 1860 della sosta di Giuseppe Garibaldi nel palazzo. L’elemento architettonico presenta un arco a tutto sesto costituito da sei conci decorati da motivi floreali stilizzati che si arrampicano lungo l’intero profilo dell’arco, culminando in una chiave di volta anch’essa floreale. Le mensole sono circondate da ghirlande lapidee, mentre i piedritti sono formati da tre conci in cui si ripete un motivo di foglie alternate a fiori. Il blasone posto in alto rispetto al portale raffigurante lo stemma di famiglia, è stato posto in un secondo momento rispetto alla costruzione del portale. In esso sono raffigurati due leoni rampanti posti ai lati di un albero centrale.

Infine, preso la Chiesa dedicata all’Annunziata, in una zona esterna al centro abitato, di fianco all’entrata nella chiesetta è presente un portale lapideo dalle semplici fattezze, precedente un lungo corridoio affrescato che conduce all’antico chiostro. Il portale si presenta costituito da conci squadrati privi di decorazioni, sui quali è incisa la data di fine lavori, 1628.

 

 

Celico G., Moliterni B., Luoghi di Culto e di Mistero, p. 133-162, Grafica Zaccara, 2003.

Cooper J. C., Dizionario dei Simboli, p.    Franco Muzzio Editore, 1988.

Salem G. N., Leon L. M., I Quattro Soli - Dal Simbolo al Mito - Appunti di Antropologia Iniziatica, p. 49-94 , L’Oleandro Arga Editore, 2008.

Giacomini A., Il libro dei segni sulle pietre, Carmagnola, 2001.

Celico G., Scalea tra duchi e principi, mercanti, filosofi e santi, Soveria Mannelli, pp. 15 e 17, 2000.

Tesi di Laurea triennale della Dott.ssa Daniela Sarubbo - SIMBOLI E MISTERI TRA LE INCISIONI

Progetto di Valorizzazione del Comune di Tortora, AA 2013/14 Università della Calabria

<h3><strong>GALLERIA FOTOGRAFICA</strong></h3>";

[nggallery id=81]


Villa Cimbrone

Uno dei più spettacolari edifici di Ravello, villa Cimbrone prende il suo nome dallo sperone roccioso, il cosiddetto “Cimbronium”, su cui è posata. Notizie della villa si hanno intorno al 1300, probabile epoca della sua costruzione, quando era di proprietà della potente famiglia degli Acconciajoco, che per varie vicissitudini furono costretti a cederla ai Fusco; questi ultimi, imparentato con i Pitti e i D’Angiò, se ne innamorarono talmente da mantenerne il possesso per più di 500 anni. Al corpo originario della villa furono man mano aggiunti delle cappelle private ed altri edifici, ma a caratterizzarne profondamente l’atmosfera fu il giardino: villa Cimbrone infatti, a differenza del restante territorio di Ravello che è principalmente roccioso e scosceso, offre vaste superfici coltivabili, che hanno permesso di realizzare un parco di ben sei ettari. La costruzione del cosiddetto Terrazzo del Belvedere e l’impianto del giardino sono di epoca rinascimentale, mentre al ‘700 si possono far risalire alcuni interventi nel corpo di fabbrica principale, come i saloni di rappresentanza: questi ultimi in particolare hanno decorazioni che si rifanno al giardino esterno. Alcuni fenomeni storici, come l’epoca napoleonica e il brigantaggio, uniti ad episodi come il terremoto che colpì la Costiera amalfitana alla fine del Settecento, determinarono un periodo di grande abbandono per Villa Cimbrone, svenduta per gravi problemi economici alla famiglia degli Amici di Atrani. L’epoca d’oro per la villa, però, si raggiunge nell’800, quando una buona parte dell’edificio viene comprata da un ricco banchiere inglese, Ernest William Beckett (1856-1917) 2° Lord Grimthorpe, giunto a Ravello per curare una grave forma di depressione. Lo splendore del luogo, il clima mite e i panorami mozzafiato influirono positivamente sul banchiere, che acquistata la villa nel 1904 decise di farne il posto più bello del mondo, e grazie al suo architetto di fiducia Nicola Mansi, commissionò numerosi interventi volti a ripulire e ridisegnare l’aspetto della villa ma soprattutto del giardino, che fu arricchito da statue, fontane e padiglioni decorativi, mentre il lavoro di appassionati botanici internazionali riuscì a far convivere insieme piante tropicali e mediterranee, che furono posizionate in maniera tale da “scandire” il giardino in tanti “episodi”. Durante la seconda guerra mondiale l’edificio fu confiscato e visse un secondo periodo di abbandono, a cui pose rimedio la famiglia Vuilleumier, che acquistò la struttura nel 1960, ripristinandone man mano l’antico splendore e creandovi un hotel di lusso.

http://www.villacimbrone.com/it/thevuilleumiersperiod.php

http://www.vesuviolive.it/ultime-notizie/95623-villa-cimbrone-la-piu-spettacolare-ditalia-ravello/<h3>

<strong>GALLERIA FOTOGRAFICA</strong></h3>

[nggallery id=78]


duomo di cosenza

Le origini della Cattedrale sono incerte e, secondo la tradizione, una primitiva Cattedrale sarebbe andata distrutta durante le incursioni saracene del 975 e del 986, guidate dall’emiro Abul Al Casim che rase al suolo l’intera città, successivamente ricostruita e con essa riedificata ex novo anche la cattedrale sul colle Pancrazio. Nel 1568 fu disposto il restauro dell’edificio e dell’altare maggiore, senza annoverare le innumerevoli modifiche a carico degli arcivescovi che si avvicendavano alla guida della diocesi. Nel 1638 un violentissimo terremoto sconvolse Cosenza e la Cattedrale che fu nuovamente distrutta. I nuovi lavori effettuati dall’arcivescovo Capece Galeota nel 1748 portarono il Duomo ad un nuovo aspetto barocco che oltre a nascondere l’originaria morfologia, portarono alla scomparsa di numerose opere d’arte. In seguito anche l’arcivescovo Narni Mancinelli nel 1881 apportò ulteriori modifiche all’edificio. L’esterno dell’edificio presenta una facciata a capanna alla quale si accede da una breve scalinata incorniciata da ambo i lati da una lapidea balaustra (non più originale), la tripartizione interna è visibile già dall’esterno grazie alla presenza dell’imponente portale centrale e i due laterali tutti archiacuti composi da pilastrini e colonnine i cui capitelli sono decorati da foglie di acanto e quercia, la divisione è inoltre sottolineata da quattro imponenti pilastri quadrati sormontati da due piccoli rosoni presenti nel livello inferiore della facciata e un rosone centrale di dimensioni maggiori, ma meno decorato.  Nonostante le origini del monumento siano ignote è inevitabile osservare il chiaro influsso che la cultura bizantina ha avuto su di esso, soprattutto nello schema interno che segue quello basicale latino a tre navate e otto campate con copertura lignea.  Gli archi a tutto sesto collegano imponenti pilastri squadrati i cui capitelli sono ornati da frondose fasce di foglie. I pilastri che ornano la zona di sinistra, invece, presentano decorazioni tipicamente bizantine con una fascia anteriore composta da una serie di palme e una fascia superiore che riporta un motivo ad anello incrociati. Da quello che resta di un frammento marmoreo dell’originale pavimentazione in mosaico si può risalire alla scuola del maestro pugliese Nicolaus, in esso sono evidenti motivi geometrici e animali simbolici, chiaro riferimento alla altare maggiore della Cattedrale di Bari. La cappella dedicata alla venerazione di una icona intitolata alla Madonna del Pilerio, probabilmente in riferimento al culto spagnolo, è un’esplosione di barocco. Mentre per quanto riguarda il monumento funebre in onore della moglie del re di Francia, Filippo III, Isabella d’Aragona, è composta da un trittico che richiama le vetrate delle cattedrali francesi, in cui al centro è raffigurata una Madonna col bambino e ai lati il re di Francia e la regina con gli occhi chiusi, probabilmente perché eseguito attraverso un calco in cera sul viso dell’ormai defunta Isabella, il primo caso di copia del vero nell’arte sepolcrale del 200. Un’ulteriore curiosità relativa ai ritrovamenti che il Duomo ci ha regalato è stato il rinvenimento di un sarcofago di epoca sì romana, ma in cui fu sepolto il figlio di Federico II di Svevia e Costanza d’Aragona, Enrico VII detto lo sciancato, precedentemente recluso nel castello di Nicastro e morto, probabilmente suicida, durante un viaggio che avrebbe dovuto portarlo al cospetto del padre a seguito di una convocazione ufficiale.

Bibliografia e sitografia

L. Bilotto, Il Duomo di Cosenza, Ed. Effesette, 1989

G. Tuoto, La Cattedrale di Cosenza, Edizioni Delfino Lavoro, 2003

http://www.cattedraledicosenza.it/

www.cosenzapp.it ( foto facciata)

<h3><strong>GALLERIA FOTOGRAFICA</strong></h3>
[nggallery id=77]
 

TERME ROMANE DI REGGIO CALABRIA

Largamente impiegate in età romana, II secolo a.C., gli ambienti termali fruttavano il connubio esistente tra l’ingegno architettonico e le proprietà curative delle acque termali. Si presentavano come un complesso di edifici pubblici dotati di palestre, vasche per il nuoto, locali per bagni caldi, freddi e di vapore, gabinetti per massaggi e solarium per abbronzarsi. Inizialmente gli stabilimenti sfruttavano le sorgenti naturali, solo in età imperiale si assiste all’inserimento degli impianti anche in città, possibile solo grazie all’avanzamento tecnologico. L’acqua veniva riscaldata da focolari sotterranei, che diffondevano l’aria calda in spazi cavi presenti nella pavimentazione e nelle pareti detti ipocausti, dovuti alla presenza di sospensure atte a creare intercapedini tra pavimento e suolo. Lo sviluppo architettonico interno era composto da una successione di stanze, la prima presentava all’interno una vasca di acqua fredda, da cui prendeva il nome la sala stessa, frigidario, di forma circolare, con una copertura a cupola ed esposta il più delle volte a nord per mantenere la temperatura dell’ambiente ottimale; questa sala era seguita all'esterno dal calidario, in genere rivolto a mezzogiorno per sfruttare il calore naturale proveniente dal sole, anche esso di forma circolare. Il calidario poteva comprendere il laconico, il sudatorio e l'alveo, una vasca per il bagno in acqua calda. Tra il frigidario e il calidario era presente, alle volte, una stanza mantenuta a temperatura moderata, detta tepidario, in cui veniva creato un raffreddamento artificiale. Assieme al calidario si usava un altro ambiente che può essere ricondotto a quella che ai nostri giorni è detta sauna. Ulteriori strutture dette natationes erano disseminate nella struttura, si tratta delle vasche utilizzate per nuotare. Attorno ai già citati spazi principali potevano svilupparsi spazi secondari come ad esempio l'apodyterium, uno spazio adibito a spogliatoio, oppure la sala di pulizia e la palestra. Scoperte nel 1886 in occasione della demolizione del Bastione di San Matteo, i resti delle terme di Reggio Calabria si trovano lungo la Via Marina della città. La struttura è composta da una serie di pavimenti musivi dai motivi geometrici composti da tasselli bianchi e neri, ben conservati, appartenenti ad un complesso privato di età imperiale. Reggio era ricca di acque salutari e terme, le strutture dovevano trovarsi all’interno della cinta muraria di epoca classica, nei pressi del fiume Apsia, oggi denominato Calopinace. I resti delle terme presentano, oltre ai mosaici pavimentali, un gymnasium, cioè una palestra composta da un portico con numerose colonne, alcune rinvenute in mare. I resti si intersecano anche con una struttura muraria estranea al complesso, probabilmente dovuta alla successiva costruzione di monumenti ecclesiastici nella zona, o, più verosimilmente, dovuta alla costruzione dell’argine di contenimento del fiume quivi presente. Lo stabile si sviluppa per una lunghezza di 25.00 m di cui attualmente è visibile solo una porzione, grazie alla realizzazione di una recinzione che lascia a vista la struttura rendendola anche visitabile. Durante il rinvenimento delle terme, furono trovati frammenti di stucchi dipinti, colonne di granito e laterizi. Probabilmente l’ambiente veniva usato come sala per gli esercizi corporali, dove presumibilmente erano presenti i peristilii, che, secondo una delle ipotesi storiografiche avanzate sul ritrovamento, sono stati successivamente convertiti negli ambienti della chiesa bizantina realizzata sui resti delle terme, in seguito demolita per far spazio ad opere ingegneristiche di carattere militare. L'abbondanza di acqua a carattere termale presenti nella citta di Reggio permise la costruzione di numerosi impianti termali pubblici e privati sia lungo la costa marittima e che lungo l'estremità del Lungomare. Si tratta del segno tangibile di una città divenuta la sede di una civiltà raffinata e il centro di vita mondana, come attesta un'iscrizione del 374 d.C., rinvenuta nel 1912 nel luogo dove oggi sorge la Banca d'Italia, tra Corso Garibaldi e Via Palamolla, in cui si fa riferimento al terremoto del 305 d.C. dopo il quale il governatore della Lucania, Ponzio Attico, fece ricostruire un lussuoso complesso termale e restaurare il vicino palazzo del tribunale.

Bibliografia e sitografia

G. D’Amore; Il termalismo della Calabria nell’assetto del territorio, Atti Accademia Pelori-tana dei Pericolanti, vol. LXI, 1983.

F. Martorano; Carta archeologica georeferenziata di Reggio Calabria, Iiriti Editore, Di-cembre 2008.

D. Castrizio, M. R. Fascì, R. G. Lagana; Reggio Città D’arte, Reggio Calabria, 2006.

A. De Lorenzo, F. Martorano; Le scoperte archeologiche di Reggio di Calabria, pp. 1882-1888, L'Erma Di Bretschneider, 2001.

F. Canciani; Calcidesi, vasi, in Enciclopedia dell'arte antica classica e orientale (Secondo supplemento), Roma, Istituto della enciclopedia italiana, 1994.

www.archeocalabria.beniculturali.it/archeovirtualtour/calabriaweb/tonnare1.htm

www.comune.reggio-calabria.it

<h3><strong>GALLERIA FOTOGRAFICA</strong></h3>

[nggallery id=74]


LA CATTOLICA DI STILO, REGGIO CALABRIA

A cura di Felicia Villella

Introduzione: descrizione dell'edificio

La Cattolica di Stilo, una cittadina in provincia di Reggio Calabria, è un edificio risalente al X secolo a pianta centrale, approssimativamente quadrata, con croce inscritta del tipo “puro”, cioè priva del prolungamento ad oriente, per la profondità del bema, e a occidente, per il nartece; modello planimetrico tipico del periodo medio-bizantino, attestato anche a Costantinopoli. La croce è evidenziata all’esterno dalle falde del tetto ed è centrata grazie alla presenza di cinque cupole di uguale diametro, di cui solo la centrale si differenzia per un leggero scarto in altezza.

Lo schema architettonico a cinque cupole, diffuso nella Grecia continentale e insulare, così come nelle province orientali dell’Asia Minore, si può considerare una soluzione regionale del caratteristico impianto medio bizantino originatosi a Costantinopoli. La soluzione adottata nella Cattolica e a Rossano, con ogni probabilità, fu introdotta in Italia dal Peloponneso o dall’Epiro, dove simili tipologie sono numerose soprattutto lungo la costa.

La Cattolica di Stilo: l'interno

Quattro colonne sono poste all’interno, di cui tre in marmo: due in cipollino, una in lumense e l’altra in granito. Sulla prima a sinistra è presente l’iscrizione: “Non c’è Dio all’infuori di Dio solo”, essa poggia su una base ionica capovolta, innestata su di un capitello corinzio in pietra calcarea del III-IV sec. d.C.; la prima a destra poggia, invece, su di un capitello ionico capovolto.

I capitelli delle quattro colonne di tipo paleo-bizantino a piramide tronca, con sagoma rigonfia, costole e nervature a rilievo, rimandano ai capitelli di molte basiliche d’Oriente. Secondo la storiografia potrebbero provenire o dalle rovine romane dell’antica Stilide, nei pressi di Stilo, o tale reimpiego testimonia altri esempi diffusi in molte costruzioni dei secc. X-XI in Grecia quale la Kapnikarea di Atene.

Internamente la suddivisione in nove spazi simili e la particolarità dello sviluppo verso l’alto creano uno spazio moltiplicato, tipica espressione di questo edificio che lo accosta ad analoghi esempi della Grecia insulare, facendo propendere per una loro datazione attorno agli ultimi anni del X secolo. 

La datazione della Cattolica di Stilo non è però del tutto chiara, difatti la storiografia avanza proposte contraddittorie che oscillano dal sec. X-XI al XIII inoltrato. Particolare dovuto agli affreschi riaffiorati fra gli strati palinsesti dell’intonaco interno, che testimonierebbero come l’interno venne decorato interamente per ben due volte se non addirittura tre; la prima tra la fine del sec. X e gli inizi del XI; la seconda alla fine del sec. XII e gli inizi del successivo e nel sec. XIII maturo o agli inizi del XIV secolo.  

Gli affreschi della Cattolica di Stilo

Al primo strato risalente al secolo X, inizi dell’XI, corrisponderebbero le figure di una santa martire nello sguancio destro della prothesis (absidi: la centrale, corrispondente al bema, era destinata ad accogliere l’altare; l’abside a sud, diakonikon, custodiva gli arredi sacri, le vesti dei sacerdoti e dei diaconi; l’abside a nord, prothesis, il rito preparatorio del pane del vino) e di due santi sulla parete occidentale, uno dei quali regge un cartiglio con iscrizione greca, che sono stati accolti come santi guerrieri riguardanti una crocifissione. 

Se così fosse, tale programma iconografico rivelerebbe la presenza di una scena cristologica che è ben attestata nell’ecumene bizantina comparendo anche a Hosios Lucas, in Grecia, sia nella cripta che nel Katholikon; mentre nell’Italia meridionale appare segnalata a partire dal X secolo a Grottaglie, Sanarica, Casarello e Ugento. 

È da notare che le figure appaiono dipinte al limite della goffaggine e non recano segni di delimitazione di campi, quindi sembra di trovarsi davanti a una pagina miniata, tale da ipotizzare che il pittore fosse un miniaturista. 

Tra le raffigurazioni, l’Ascensione presente nella volta del bema ne nasconde una più antica. La progettazione compositiva denota un’evidente incoerenza del gioco degli sguardo fra gli apostoli, alcuni rivolti con la testa all’annuncio proclamato dalla coppia di angeli sottostanti la mandorla, a sua volta sorretta da altri quattro angeli in volo. All’interno di essa, il Cristo seduto su di un segmento che appiattisce la porzione di circonferenza del globo ha una posa che echeggia l’Omologo di Santa Sofia a Salonicco, dal volto nobile e sereno.

Gli angeli dalle ali saettanti, hanno un tono più dimesso e lasciano ipotizzare l’affresco ad opera di una maestranza italo-greca. Gli apostoli, collocati sui margini laterali, e solo parzialmente conservati, conservano preziose tracce della sottostante sinopia.

Gli studi storico-artistici pertinenti agli strati palinsesti d’affresco, hanno rilevato come l’ultima decorazione realizzata nell’edificio risalga al Quattrocento, probabilmente attorno alla metà, ponendosi tra le rare testimonianze pittoriche della cultura tardogotica di matrice catalaneggiante, per altri versi testimoniata nella Regione attraverso tavole dipinte e oreficerie. Purtroppo non si conosce il nome del suo autore, la cui formazione artistica, comunque, è stata ipotizzata di scuola locale.

La definizione cronologica – anche degli altri affreschi – della Cattolica è, quindi, alquanto problematica perché va studiata esclusivamente su confronti stilistici, inoltre, nulla si conosce sull’origine dell’edificio, la committenza e le funzioni da esso svolto.

Si è proposto che fosse il Katholicon di “monastero in grotta”, oppure la Katholikè di Stilo, la Cattedrale, qualora il centro reggino fosse stato sede episcopale, o la chiesa matrice. È da rilevare, inoltre, che nel XVII secolo la Cattolica viene designata tra le parrocchie della città, per passare poi sotto la giurisdizione della chiesa matrice.

Per Paolo Orsi il nome indica “…una chiesa eremitica, officiata da monaci basiliani, che qui vivevano in preghiera e morivano in povertà e qui si facevano seppellire.”; per altri storici ancora, il nome equivale ad universale, titolo che si dava alle chiese matrici parrocchiali munite di fonte battesimale.

Biografia
Appunti personali lezione di Storia dell’Arte Calabrese


IL CASTELLO LANCELLOTTI DI LAURO (AV)

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Situato a Lauro, provincia di Avellino, su uno sperone roccioso chiamato “primo sasso di Lauro” che domina la vallata, il Castello Lancellotti balza agli occhi immediatamente per due ragioni: innanzi tutto per la sua imponenza, e poi per l’ecletticità della sua struttura.

È una costruzione sorta sulle rovine di una precedente struttura di epoca romana, e la sua particolarità consiste nella perfetta coesistenza di vari ordini e stili, senza per questo perdere di armonia e bellezza.

Figura 1: http://www.avellinotoday.it/eventi/storie-inverno-castello-lancellotti.html.

La struttura originaria del castello risale al 976, quando si parla di un certo Raimundo signore del “Castel Lauri”, anche se non si capisce bene dalla denominazione se quel “Lauri” si riferisca al castello o al comune. Quello che è certo è che in quel tempo la precedente struttura non esisteva più.

Il maniero nel tempo ha cambiato vari proprietari, come i principi del principato di Salerno o i Sanseverino, conti di Caserta, nel periodo normanno. Si hanno notizie più certe su di esso nel 1277, quando viene incluso dalla cancelleria angioina nelle proprietà di Margherita de Toucy, cugina di Carlo I d’Angiò. L’anno dopo diventa proprietà dei Del Balzo, famiglia di origini provenzali ma presente ad Avellino, che acquisirono tutta la contea. Costoro, in particolare, erano proprietari di ben trecento castelli in un’area compresa fra Salerno e Taranto, e potevano viaggiare fra queste due località senza mai lasciare i propri domini. (http://www.nobili-napoletani.it/del_Balzo.htm) Successivamente ai Del Balzo vi furono gli Orsini, conti di Nola, nel periodo aragonese, i Pignatelli e i Lancellotti, che ne acquisirono la proprietà nel 1632 da Camillo II Pignatelli e che sono gli attuali proprietari. La storia del castello subì una brusca interruzione la notte del 30 aprile 1799, quando fu dato alle fiamme dalle truppe francesi intervenute a sedare una rivolta giacobina. Una prima parte fu ricostruita nel 1870-1872 ad opera del principe Filippo Lancellotti, mentre i lavori terminarono definitivamente intorno al ‘900.

Figura 2: https://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/170104-castello-lancellotti-lauro-av-le-residenze-storiche-piu-visitate-della-campania/

Il maniero presenta elementi in stile gotico, rinascimentale, barocco, monumenti di epoca romana e un giardino all'italiana, fusi insieme in un complesso armonioso. A circondare la struttura vi sono le mura merlate, su cui sono poste diverse porte di accesso, fra cui spicca il portale rinascimentale a bugnato.

Figura 3: <a href="https://www.tripadvisor.it/LocationPhotoDirectLink-g1079030-d2422076-i255138824-Castello_Lancellotti-Lauro_Province_of_Avellino_Campania.html#255138824"><img alt="" src="https://media-cdn.tripadvisor.com/media/photo-s/0f/35/1c/08/il-portone-di-accesso.jpg"/></a><br/>

A colpire lo sguardo è l’imponenza delle torri quadrangolari, in particolare quella della Torre principale che supera i sedici metri di altezza e che svolgeva la funzione di primo luogo di difesa in caso di attacco. Dalle porte si accede alla corte interna, formata da elementi di epoca romana. In essa si trovano la cappella, il chiostrino interno e la biblioteca, che può annoverare più di mille volumi. Fra i libri più preziosi vi sono opere di Cicerone, Tacito, Seneca, Dante, Manzoni, e i libri mastri della famiglia.

Figura 4: https://grandecampania.it/castello-lancellotti/. La corte interna.
Figura 5: https://rosmarinonews.it/wp-content/uploads/2019/10/Castello-Lauro-giardino.jpg. Particolare fontana

Dalla biblioteca, tramite il chiostrino interno a cinque colonne, che richiama quello di un monastero, si accede alla Cappella privata, con il soffitto a capriate lignee, in cui coesistono diversi stili. Si va dall'affresco del Pantocratore assiso sul globo nel catino absidale, tipico dell’età normanna, a una distribuzione delle colonne tipiche di una basilica paleocristiana, ma sormontate da una balaustra di stampo rinascimentale.

Molti gli ambienti visitabili e che fanno parte dell’area abitata, mentre altri ambienti sono stati adibiti a Museo storico. Tra le stanze più caratteristiche ci sono sicuramente le Scuderie, in cui sono esposte carrozze del XVIII e del XIX secolo insieme ad un cavallo in legno e finimenti originali.

Figura 8: http://www.orticalab.it/Castello-Lancellotti-di-Lauro. Scuderie

Ambiente imponente per decorazioni e dimensioni è la cosiddetta Sala d’Armi: vi si accede da due porte che uniscono visivamente e raccordano i vari ambienti, grazie alla decorazione a boiserie sulla zoccolatura delle sale, sempre uguale. Sotto il soffitto cassettonato corre una fascia ricoperta da “quadri” con paesaggi e gli stemmi delle varie casate proprietarie del castello, con cartigli vari. Grandi affreschi posti in maniera speculare e varie picche ed alabarde esposte completano il quadro di questa elegante, ma molto funzionale, sala in cui il lusso e i richiami guerreschi convivono perfettamente. Ad una delle pareti vi è anche un affresco che raffigura il grande incendio che distrusse il castello nel 1799.

Figura 9: https://rosmarinonews.it/wp-content/uploads/2019/10/Castello-Lauro-Sala-d-Armi.jpg. Sala d’armi

Altro ambiente molto imponente è la Sala da Pranzo, che mostra uno splendido soffitto cassettonato con stelle sulle travi. La decorazione alle pareti, caratterizzate da un parato giallo e rosso che si conclude con delle nappine sulla boiserie, riprende idealmente i drappeggi dei tendaggi, mentre una terrazza in trompe l’oeil che corre lungo tutto il bordo del soffitto “apre” otticamente la sala, dandole luce e aria. Uno scenografico camino sormontato da una figura femminile in finto marmo, probabilmente una rappresentazione della Prosperità, completa la stanza.

Figura 10: https://rosmarinonews.it/wp-content/uploads/2019/10/Castello-Lauro-Sala.jpg. Sala da pranzo

A completare l’elenco degli ambienti vi sono il Salone Rosso, che conserva oggetti farmaceutici di origine siriana, la Sala del Biliardo, la camera da letto e la Stanza del Cardinale, che ancora sono parzialmente arredati con oggetti e mobilio d’epoca.

Dalle Sale si accede al grande terrazzo panoramico, che offre una meravigliosa vista sul Vallo di Lauro.

 

SITOGRAFIA

https://rosmarinonews.it/in-viaggio-con-roberto-il-castello-lancellotti-di-lauro/

https://www.ecampania.it/avellino/cultura/castello-lancellotti-lauro-galleria-fotografica

https://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/170104-castello-lancellotti-lauro-av-le-residenze-storiche-piu-visitate-della-campania/

http://www.castellidirpinia.com/lauro_it.html

https://www.italiaparchi.it/castelli-e-ville/castello-lancellotti.aspx


IL CASTELLO DI MANFREDONIA

Introduzione

Nel quindicennio manfrediano la politica delle fortificazioni appare caratterizzata da elementi che hanno un forte rapporto con il passato e con l’antico, in particolare per quanto riguarda il sistema castellano federiciano che non studia le modalità attraverso le quali creare delle differenze sostanziali tra le architetture della sua epoca e quelle militari e civili del periodo normanno.

Come il padre, anche Manfredi vuole porre la sua attenzione nei confronti delle strutture castellari regie; tra le varie innovazioni vuole dotare la città di Manfredonia di un sistema portuale dotato di mura tra il 1256 – 1258 e, per l’occasione, fa costruire una torre quadrata che verrà posta in seguito all’interno del Castello.
Il Castello di Manfredonia non è il frutto di un progetto unitario concepito fin dalla sua origine così come oggi ci appare, ma è il risultato di trasformazioni, ampliamenti e rifacimenti avvenuti in epoche diverse.

In origine tutta la struttura consisteva in uno spazio quadrilatero racchiuso da una cinta muraria raccordata da cinque torri a pianta quadrata, di cui quattro poste agli angoli e la quinta ubicata presumibilmente nei pressi della porta principale di Nord-est. I rimaneggiamenti delle epoche successive faranno assumere un aspetto estetico totalmente differente rispetto all’originario: la quinta torre, essendo stata smembrata, conserva poche tracce, mentre le altre, ad eccezione di quella posta a Sud-est, hanno cambiato la loro struttura formale da strutture quadrangolari a torrioni a pianta cilindrica.

Il castello di Manfredonia

Come tutti i castelli fortificati che si rispettino, presenta un torrione più alto degli altri: è consuetudine dei castelli medievali essere collocati su una motta, considerata il punto più alto della città, dalla quale spiccava il “donjon” (o “dongione”), torrione fortificato più alto degli altri che serviva come rifugio in caso di attacco nemico o abitazione del castellano.

Il castello di Manfredonia si connota, dal punto di vista architettonico, per una predominante derivazione sveva, geometricamente impostata e dalla linearità regolare della struttura, caratteristiche che lo accomunano anche ai castelli svevi costruiti fuori dall’Italia. Le fonti documentarie non confermano altrettanto però, visto che datano la costruzione al periodo di Re Carlo I d'Angiò.

Infatti i primi documenti che parlano del Castello di Manfredonia provengono proprio dalla Cancelleria angioina e risalgono all’aprile del 1279: in essi si fa riferimento al reclutamento di manodopera specializzata per l’inizio dei lavori, ma un’altra ipotesi probabilmente accettabile è quella in virtù della quale gli Angioini abbiano sopraelevato il Castello su fondazioni preesistenti, inserendole in un progetto più grande che ricordava gli albori della dinastia sveva, rendendole quasi omaggio, soprattutto ad un personaggio come Manfredi.

Di Salvatore Triventi - http://www.fotodasogno.altervista.org/, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=34905536

Con il governo della casa d’Aragona, (1442), si assiste ad un ulteriore processo di visibile trasformazione del Castello: negli ultimi anni del XV secolo, gli Aragonesi, all'interno di un complessivo progetto di fortificazione delle strutture difensive delle più importanti città costiere, dispongono per il Castello di Manfredonia la costruzione di una nuova cortina muraria inglobante la struttura primitiva. A queste mura viene data una leggera inclinazione “a scappata” tale da renderle più rispondenti alle mutate esigenze dell’arte difensiva conseguenti all’uso dell’artiglieria (all’epoca, per mandar via il nemico, una delle modalità più gettonate era l’olio bollente. Veniva occupato tutto il perimetro superiore della balaustra del Castello, comprese le torri e da quella posizione si gettava giù; la facciata a scappata consentiva uno scorrimento maggiore e più veloce dell’olio in questione). I torrioni cilindrici posti agli angoli della fortificazione presentano un ordine “casamattato”, detto così perché ospitava i cannoni e l’artiglieria per le battaglie ed era il luogo più sicuro del Castello, “a prova di bomba” come si suol dire; la casamatta, appunto, era il luogo che veniva distrutto per ultimo durante gli assedi poiché era chiuso all’interno e coperto nella parte superiore.

L’unico problema era che, quando si caricavano i cannoni o le armi oppure in caso di una bomba tirata con la catapulta che riusciva a raggiungere l’interno della casamatta, il fumo veniva trattenuto all’interno. La protezione era soltanto esterna per intenderci: la casamatta aveva comunque delle aperture per consentire la sistemazione delle bocche dei cannoni, ma se un esplosivo riusciva a raggiungere l’interno non c’era via di scampo in quanto dalla casamatta si poteva entrare ma non si poteva uscire.

La costruzione del grosso bastione posto ad Ovest del Castello, denominato dell’Avanzata o dell’Annunziata, segna per l’edificio un’altra tappa nella storia della sua edificazione, che nel corso del tempo è mutata anche nel Novecento, dando al Castello di Manfredonia l’aspetto che vediamo oggi.

 


IL NINFEO DI VADUE A CAROLEI, COSENZA

A cura di Felicia Villella

Introduzione

Da un punto di vista Etimologico, il termine ninfeo deriva dal greco nymphâion ed era una parola usata per indicare luoghi di ristoro dotati di vasche d’acqua colme di piante acquatiche, in cui si praticava il culto delle ninfe, da cui il nome per l’appunto, le divinità femminili minori che nella mitologia classica erano venerate come genî benigni ai mortali.

In seguito il termine cominciò ad indicare sia grotte di origine naturale che di origine artificiale in cui erano presenti sorgenti di acqua naturale, ed infine, in epoca rinascimentale e poi barocca, comprese anche le fontane monumentali dalle facciate scenografiche presenti ad esempio nelle ville.

In Italia sono presenti diversi esempi, soprattutto in Campania, ma anche la Calabria presenta questa tipologia monumentale ed è il caso del Ninfeo di Vadue a Carolei, in provincia di Cosenza.

Ad oggi il complesso monumentale di Vadue Vecchia è considerato un parco storico in cui è presente un’antica residenza nobiliare restaurata, risalente probabilmente al XVII, costruita su strutture preesistenti e voluta dalla marchesa spagnola Alarcon Mendoza de la Valle; essa include un ampio cortile circondato da un’alta cinta muraria con annesse due cappelle, una casa - torre e un ninfeo con seggio e canopo interamente affrescato, ma in cattivo stato di conservazione.

Il sito insiste su un costone roccioso che parte a sud dalla confluenza del torrente Cavallo con il fiume Busento, fino a nord con la valle del Busento, sulla via Cosenza - Carolei Domanico - Amantea.

Il Ninfeo di Vadue a Carolei

Il Ninfeo è formato da una sala le cui pareti sono intervallate da una serie di aperture, la cui continuità è garantita da una seduta continua che percorre le tre pareti che danno sulla vasca, di forma quadrata, colma d’acqua; al centro si trova un calice decorato da figure antropomorfe e da un piccolo canopo formato da due alte colonne di ordine dorico. Ai lati sono presenti due aperture con architravi sormontati da nicchie la cui calotta presenta una decorazione a conchiglia, mentre probabilmente manca uno stemma nobiliare alla sommità dell’arco.

La sala si sviluppa all’interno del costone roccioso, dal quale è appunto ricavata; essa presenta una scenae frons sottolineata da un arco centrale ribassato e ricoperta da una volta a botte con superfici affrescate da cornici, ghirlande e differenti scene mitologiche, raffigurate con ambienti e personaggi proposti con abbigliamento classico.

Nonostante il compimento di un intervento di recupero, non è stato possibile bloccare lo stato di deterioramento, né ritardarlo, soprattutto nel caso degli affreschi, in parte dovuto alla natura stessa del ninfeo ricavato all’interno della roccia, una condizione che incrementa notevolmente il tasso di umidità delle pareti, interessate da diversi episodi di efflorescenza, variazioni cromatiche, infestazione di vegetali, fratture e lacune.

Tra le interpretazioni adottate relative alle rappresentazioni ancora leggibili, pare che le scene presenti su uno dei lati della volta possano rappresentare i miti di Apollo e Dafne, di Leda e il cigno e di Europa rapita dal Zeus.

Dirimpetto è raffigurata una particolare scena mitologica, forse riferita al mito di Atteone ed Artemide, è inoltre presente la sposa di Ercole, Delanira, che cavalca il centauro Nesso.

Il restauro della seconda metà del secolo XIX ha permesso di dare forza alla struttura al fine di garantire una maggiore stabilità costitutiva, ma l’assenza di manutenzione di certo non ha giovato ad un così delicato manufatto.

C’è da dire che il paesaggio in cui il manufatto è contestualizzato lascia realmente senza fiato, imboccando una stradina secondaria rispetto alla via principale che porta al centro del paesino ci si trova immersi nel verde, un boschetto che era ricco ornamento dei fasti di un tempo, in cui ben si calava un’opera come il ninfeo atta all’ozio, inteso nella sua accezione più nobile.

Un luogo sicuramente da rivalutare e da inserire in un percorso turistico più ampio che miri a considerare la residenza con cappella e ninfeo annesso un posto dal richiamo romantico in cui rivivere quello che la marchesa Mendoza sicuramente aveva intellettualmente concepito.

Figura 5 - Ninfeo di Vadue di Carolei, prospetto frontale

Bibliografia

    • F. Costabile, I ninfei di Locri Epizefiri, Soveria Mannelli (Cz), 1992
    • L. Addante, Cosenza e i cosentini. Un volo lungo tre millenni, Rubbettino, Soneria Mannelli (Cz), 2001
    • G. De Rose, Monografia sintetica della cittadina di “Ixia”. L’odiernan Carolei, Associazione sportiva Carolei di Toronto, 1979
    • C. Gattuso, R. Cozza, P. Gattuso, F. Villella, La conoscenza per il restauro e la conservazione, Franco Angeli, Roma, Ottobre 2012

 


LA REGGIA DI CARDITELLO

Più che per le sue reali valenze artistiche, che pure sono notevoli, la Reggia di Carditello rappresenta un simbolo sia dello stato dell’arte in Italia, ove solo il volontariato e la passione individuale sembrano realmente contribuire a salvare i beni dall’incuria, e sia di ciò che può fare lo Stato se solo vuole.

La real casa di Carditello, residenza di caccia dei Borbone, sorge a San Tammaro, vicino Capua, ed è opera di un allievo del Vanvitelli, Francesco Collecini, già impegnato nella costruzione del belvedere di San Leucio, che ne realizzò la costruzione dal 1787 al 1804.

Si compone di un corpo di fabbrica centrale, a due piani, e di due ali laterali, separate dalla palazzina centrale da un androne. Al piano terra ci sono le cucine, l’armeria e le sale per il personale, e attraverso due scale simmetriche si accede al piano superiore, dovevi erano gli ambienti destinati ad accogliere la famiglia reale e il salone per i ricevimenti organizzati al rientro dalla caccia. Tutti questi ambienti erano riccamente affrescati con opere di Fedele Fischetti, Giuseppe Cammarano e Philip Hackert.

Antistante il complesso si trova una pista di terra battuta, simile ad un antico circo romano, destinata alle corse dei cavalli, di forma semi-circolare, che circonda un prato centrale, al cui centro vi è un tempietto da cui il sovrano assisteva alle corse ippiche; ai due lati vi sono delle fontane ornamentali.

Prese a suo tempo anche il nome di “Reale Delizia”: il soggiorno presso Carditello era particolarmente piacevole per la Corte di Ferdinando IV, che volle trasformare la reggia da semplice residenza di caccia (come nelle intenzioni di Carlo di Borbone) a vera e propria “fattoria”, ove impiantare coltivazioni di grano ed allevamenti di bovini e cavalli.

Il nome Carditello deriva da cardo, pianta che cresceva numerosa nei pressi della reggia. Di particolare interesse è una piccola chiesa, tipicamente settecentesca, il cui interno è riccamente decorato, ed anche se oggi ne sono rimaste poche testimonianze, si intravedono ancora lacerti di affreschi, opera di Hackert.

La reggia attraversò un prolungato periodo di abbandono e vandalismo: dopo i Borbone, nel 1943 divenne una base per le truppe tedesche, e nel 2011 fu messa all’asta, senza che però nessuno la acquistasse; dal 2011 al 2013 fu sorvegliata da Tommaso Cestrone, volontario del luogo soprannominato “l’angelo di Carditello”, che se ne prese cura fino alla sua morte, avvenuta per infarto la vigilia di Natale del 2013. Si deve a lui e all’interessamento di Massimo Bray, all’epoca Ministro dei beni Culturali, se non si è persa del tutto la memoria di questo stupendo complesso, e se l’intero complesso è stato acquistato dal Ministero.

Sitografia

GALLERIA FOTOGRAFICA

[nggallery id=38]


LA CHIESA DI PIEDIGROTTA A PIZZO CALABRO

A cura di Felicia Villella

Introduzione

In provincia di Vibo Valentia si erge la piccola chiesa di Piedigrotta a pizzo Calabro, scavata nella roccia sedimentaria, la cui origine si divide tra storia e leggenda. La tradizione narra che un veliero composto da un equipaggio napoletano in viaggio a metà del 600 nel Golfo di Sant’Eufemia, fu sorpreso da una tempesta che lo fece naufragare distruggendo l’imbarcazione contro gli scogli; l’intera ciurma, però, riuscì a raggiungere a nuoto le rive di Pizzo, portando in salvo anche l’effige della Madonna presente sulla nave ed oggi conservata all’interno della chiesetta. Come voto della scampata morte, i marinai eressero la piccola chiesa scavandola nella roccia e collocando al suo interno il piccolo quadro.

Secondo i documenti storici, invece, verso la fine dell’800, un artista locale, Angelo Barone, iniziò a scolpire nella roccia le navate che compongono la chiesetta sfruttando una precedente costruzione, secondo quanto scrive il canonico Ilario Tranquillo nel 1725, riempiendo gli ambienti con statue che riprendono scene bibliche; alla sua morte, il figlio Alfonso ne proseguì l’opera, completandola con bassorilievi ed affreschi. Purtroppo, negli anni ‘60, una serie di atti vandalici, la ridussero ad un cumulo di macerie, finché, Giorgio Barone, nipote dei due precedenti artisti e rinomato scultore, prese a cuore la ristrutturazione del monumento, terminata nel ‘68. Ad oggi, la chiesetta di Piedigrotta è il secondo monumento più visitato della Calabria dopo i Bronzi di Riace.

La chiesa di Piedigrotta a Pizzo Calabro: descrizione

Da un punto di vista architettonico, la facciata della chiesetta si presenta semplice e lineare la cui sommità è sormontata da una croce metallica e da una statua di Madonna con Bambino, il piccolo campanile laterale è adorno della campana proveniente, secondo la leggenda, dal veliero vittima di naufragio e datata 1632.

L’ambiente interno si divide in tre grotte: l’ingresso è circondato da quattro angeli che sorreggono le acquasantiere dalle basi leonine; a sinistra si trova la raffigurazione della celebrazione di una funzione religiosa con fedeli e sacerdote ad adorazione della Madonna di Pompei, l’arco di ingresso presenta due evangelisti e un grande pesce, tipico della simbologia cristiana.

A seguire, è rappresentato il miracolo di San Francesco di Paola che attraversa lo stretto di Messina sul suo mantello, frontalmente è presente Sant’Antonio di Padova fra gli orfanelli.
La grotta più grande è occupata da un presepe, la cui scena centrale è impegnata dalla natività e sullo sfondo è presente un paesaggio arabo che ospita le statue dei re Magi, questo ambiente è preceduto da due medaglioni posti frontalmente che rappresentano il Cuore di Gesù e di Maria.

A sinistra dell’altare maggiore, infine è scolpita la parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci e due medaglioni raffiguranti Papa Giovanni XXIII e Kennedy, realizzati durante il restauro terminato nel ’68. Un’ultima grotta contiene la statua della Madonna di Lourdes, probabilmente ritrovata in bosco negli anni ’50 e qui collocata.

La chiesa ospita anche la statua del protettore della citta di Pizzo, San Giorgio che uccide il drago oltre a Santa Rita incoronata dall’Angelo della morte. L’altare principale ospita una copia del quadro della Madonna di Piedigrotta, l’originale è stato oggetto di un lungo restauro ed attualmente si trova nel Santuario di San Francesco di Paola in attesa di una definitiva collocazione.

Le volte sono interamente affrescate, ma le condizioni di conservazione sono veramente pessime, si distinguono un pellegrinaggio di fedeli a Lourdes, lo sposalizio della Madonna, il naufragio del veliero napoletano e la battaglia di Lepanto.

Dei cinque medaglioni affrescati, soltanto uno risulta ancora leggibile in cui è raffigurato l’Ascensione al cielo.

Bibliografia

  • Sacro e profano in coabitazione. Santi e meno santi nella chiesetta di Piedigrotta a Pizzo, "Bell'Italia", suppl. al n. 120, speciale Calabria, n. 22, aprile 1996;
  • Malferà Carmensissi, Le verità di Piedigrotta, Hodigitria, Pizzo Calabro (VV), 2008.

Sitografia