LA “DANZA MACABRA” DI SAN VIGILIO DI PINZOLO

A cura di Alessia Zeni

La chiesa di San Vigilio

Dopo aver trattato la chiesa di Santo Stefano nel comune di Carisolo, in Val Rendena, si tratterà ora una chiesa cimiteriale vicina a quest’ultima e altrettanto importante, ovvero San Vigilio di Pinzolo. L’edificio è un esempio di arte e architettura cinquecentesca trentina che attrae turisti e amanti dell’arte per la sua bellezza, ma soprattutto per la sua celebre “Danza macabra”. Un affresco imponente, ben visibile dalla strada che da Pinzolo conduce a Madonna di Campiglio per ricordare al viaggiatore che la morte colpisce chiunque e in qualsiasi momento.

Fig.1 - La chiesa di San Vigilio a Pinzolo (Ciaghi 2004).

La chiesa si trova nella campagna di Sorano alle porte di Pinzolo e sembra sia nata come piccola cappella ad uso dei coloni del territorio tra Pinzolo, Carisolo e il rione di Baldino. La storia ci segnala che la chiesa è stata eretta prima dell’anno Mille, e tale datazione è confermata dai reperti architettonici trovati nella chiesa come l’antico arco santo, le prime fondamenta e alcune caratteristiche architettoniche della torre campanaria e della sagrestia risalenti al X secolo. Nel 1515 la chiesa è stata smantellata per un aumento della popolazione locale e sul vecchio impianto romanico costituito dalla muratura meridionale e dal campanile è stato rifabbricato un edificio a tre navate divise da possenti colonne in granito e abside poligonale.

Tra il 1530 e il 1540 la chiesa è stata decorata con la celeberrima “Danza macabra”: ad oggi l’affresco è molto meglio conservato di quello della vicina chiesa di Carisolo. Non è l’unico affresco dipinto tra il 1530 e il 1540, anche le immagini che ornano le pareti interne dell’abside risalgono all’ultimo intervento della chiesa e raccontano la storia del santo patrono di Trento, Vigilio.

Fig. 2 - Chiesa di San Vigilio di Pinzolo, interno, abside con il ciclo di affreschi che racconta la storia di San Vigilio (Ciaghi 2004).

 

La “Danza macabra” di Pinzolo

La “Danza macabra” dipinta sulla parete esterna della chiesa cimiteriale di Pinzolo è stata affrescata da Simone II Baschenis da Averara (Lombardia) nel 1539, sulla parete esterna meridionale della chiesa di San Vigilio, nel registro di sotto gronda. L’affresco è molto grande e corre lungo tutta la parete meridionale per una lunghezza di 21 metri. Come nella vicina chiesa di Carisolo, il ballo della morte è stato dipinto per ricordare all’uomo che siamo tutti uguali al suo cospetto, infatti l’opera è stata commissionata dalla Confraternita dei Battuti[1] che nella chiesa di San Vigilio si riuniva per i riti di penitenza.

La “Danza macabra” di Pinzolo raffigura il ballo della morte di 18 coppie formate da scheletri e personaggi della società cinquecentesca. Ogni coppia, nella fascia sottostante è accompagnata da didascalie in volgare che indicano i crudeli e a volte spietati avvertimenti della morte al genere umano. Il testo riporta le parole che ogni scheletro rivolge al suo compagno di ballo e sono nella parlata locale, un volgare maccheronico di tono popolare, a cui si aggiungono colte citazioni in lingua latina e volgare, sui cartigli portati dagli scheletri.

Il dipinto si legge da sinistra verso destra e può essere diviso in tre parti. La prima parte è costituita da un gruppo di tre scheletri che rappresentano il regno della morte e suonano tre strumenti: uno è incoronato ed è seduto su un trono mentre suona una cornamusa, mentre gli altri sono in piedi e suonano delle trombe. Questa prima parte è seguita da Cristo crocifisso, qui dipinto per ricordare al fedele che neanche lui è stato risparmiato dalla morte e raffigurato a introdurre il ballo vero e proprio.

Fig. 4 - San Vigilio di Pinzolo, esterno, fianco meridionale, la “Danza macabra”, particolare con i tre scheletri musicisti e Cristo Crocifisso (Ciaghi 2004).

A Cristo seguono 18 personaggi abbigliati secondo la moda dell’epoca e sistemati secondo il rango sociale. Il Papa, un cardinale, un vescovo, un sacerdote e un frate francescano sono raffigurati nei loro abiti clericali in pose pompose e raffinate, ma anche in pose umili e dimesse come nel caso del frate francescano.

 

 

 

Segue l’imperatore con lo scettro e la mantella del suo rango, un re con corona, collana e ricca veste, una regina coronata con abito arabescato, un duca con abito da cortigiano, un medico con toga e ampolla, un guerriero armato con alabarda e spada, un ricco avaro che offre un bacile pieno d’oro, un giovane elegante con cappello piumato, un mendicante con le gambe di legno, una monaca con le mani giunte a chiedere pietà, una gentildonna, un’anziana e un bambino senza abiti accompagnato da uno scheletro che tiene un sonaglio nell’asta. Ogni personaggio è trafitto dalla freccia della morte ed è sistemato in pose rigide e timorose, spaventato dallo scheletro che lo accompagna e lo invita al ballo con smorfie e ghigni malefici.

Conclude il ballo lo scheletro della morte raffigurato in sella ad un cavallo alato che galoppa sopra corpi ammassati a terra e con l’arco scaglia le frecce sui partecipanti alla danza. La morte è seguita dall’arcangelo Michele e dal diavolo con il compito di giudicare le anime nel giudizio finale. L’arcangelo Michele è dipinto con spada e bilancia e intercede a difesa delle anime, sopra di lui un angelo sostiene un velo dal quale emerge un’anima; sotto sta la scritta: “Morte non può distruggere chi sempre vive”. Il diavolo, ultima figura della lunga danza, è dipinto in sembianze demoniache con ali di pipistrello, enormi orecchie, corna e barba da caprone e tiene in mano un libro con l’indicazione dei Sette Peccati Capitali. Questi ultimi sono illustrati nella fascia sottostante e sono simboleggiati da animali, ma purtroppo sono di difficile lettura perché degradati negli anni dagli agenti atmosferici.

Questa è la breve descrizione della “Danza macabra” raffigurata nella chiesa di San Vigilio di Pinzolo, alle porte del paese, sulla strada che conduce a Madonna di Campiglio. Il soggetto qui trattato è uno degli affreschi più emblematici del Trentino Alto-Adige, ma anche della storia dell’arte italiana. È un affresco raro, ma un tempo molto diffuso in tutto il mondo d’oltralpe, dalla Spagna, alla Francia, fino alla Germania come messaggio per i fedeli a condurre una vita nei precetti cristiani.

 

Note

[1] La Confraternita dei Battuti era molto diffusa in Val Rendena nel medioevo e in particolare a Pinzolo era presente una delle prime Compagnie dei Battuti del Trentino. I Battuti venivano anche definiti “Disciplini” o “Flagellanti”, termini che ricordano una forma di religiosità da loro praticata molto severa, fatta di lunghe orazioni e rigide penitenze inflitte sul corpo con flagelli e ciclici. La Compagnia era anche dedita alle azioni caritative e alla commissione di opere artistiche per le chiese come è il caso della “Danza macabra” di San Vigilio di Pinzolo.

 

Bibliografia

Facchinelli Walter, Nicoletti Giorgio, Val Rendena. Guida turistica, Trento, Editrice Uni Service, 2006 Chiaghi Giuseppe, Nell'antica chiesa di San Vigilio a Pinzolo, Pinzolo, Famiglia cooperativa di Pinzolo, 2004


LA BASILICA DI SANTA GIUSTINA A PADOVA

A cura di Mattia Tridello

La Basilica Abbaziale di Santa Giustina: una introduzione

Assisa sulla lanterna della cupola più alta della basilica, la statua di Santa Giustina sembra dominare e osservare il frenetico movimento di passanti e turisti che, in gran numero, transitano giornalmente in Prato della Valle, nella vasta piazza (una delle più grandi d’Europa) che grazie alle risistemazioni settecentesche costituisce il punto privilegiato per godere di una vista senza eguali dell’edificio sacro. La facciata di quest’ultimo, insieme alle composte volumetrie rinascimentali, si specchia nel canale dell’area antistante regalando scorci e visioni sempre nuovi che irradiano e amplificano le dimensioni del tempio cristiano rendendolo visibile a qualsivoglia visitatore che si appresta ad entrarvi o a passarvici accanto. La posizione della basilica, sebbene ai lati della piazza e ben distante dal centro cittadino, con le possenti mura perimetrali e le slanciate cupole, si impone costantemente come straordinaria testimonianza del passaggio di epoche, stili e funzioni, dell’avvicendarsi di dominazioni che tuttavia non intaccarono il desiderio originale per cui venne costruita; quello di omaggiare degnamente quel gruppo di Santi e Protomartiri che innalzarono le fondamenta del primo cristianesimo padovano, e che proprio lì trovarono il riposo delle spoglie mortali. Anche se meno frequentata dai flussi turistici della città che di norma si concentrano esclusivamente alla Basilica di Sant’Antonio, Santa Giustina è stata e continua a essere la più antica testimonianza storica, artistica e cristiana della Padova romana, il più vetusto edificio sacro che detiene numerosi primati storici e artistici, che con questa trattazione si cercherà di rendere più noti. Basti pensare che, per le sue incredibili dimensioni, essa è stata collocata al nono posto tra le più grandi basiliche del mondo; o al fatto che racchiude le sepolture di importanti, numerosi santi, primo fra tutti l’Evangelista Luca. La notevole rilevanza e la singolare corrispondenza tra i corpi venerati nel santuario alimentano e favoriscono, quasi come un unicum nel panorama ecclesiale italiano, una corrispondenza tra le sepolture di una martire dell’età tardo-antica e paleocristiana, ovvero Santa Giustina, uno dei dodici Apostoli di Cristo, San Mattia e infine Luca, l’unico Evangelista che, oltre a scrivere il Vangelo omonimo, compose anche gli Atti degli Apostoli. Si può comprendere, dunque, come l’eccezionalità indiscussa del luogo sia non solo il frutto dell’amore degli abitanti e dei monaci benedettini che fin dal X secolo se ne presero cura, ma anche il risultato cronologico di numerosi interventi e sovrapposizioni storiche che cominciarono dall’epoca romana fino a arrivare al XVII secolo. Per poter rintracciare la genesi dell’antichissima area sacra occorre quindi calarsi a ritroso nei secoli e più precisamente negli anni delle persecuzioni romane, nelle quali trovarono la morte molteplici martiri, tra i quali anche la Santa titolare del complesso abbaziale che corona la città patavina.

Il contesto storico

Prima della risistemazione settecentesca di Prato della Valle, l’area odierna, chiamata Campo di Marte o Campo Marzio, era essenzialmente un vasto spiazzo in terra battuta adibito a crocevia di strade e tragitti che confluivano all’ingresso delle mura del centro cittadino. Patavium (questo il nome di Padova durante la dominazione romana) grazie al fatto di essere attraversata dal Medoacus (l’odierno fiume Brenta) divenne, a partire dall’età augustea (31 a. C), un importante centro di scambi commerciali con le altre città settentrionali dell’impero come Adria e Este. Le abbondanti risorse agricole, l’allevamento dei cavalli e la pastorizia contribuirono a creare un clima di floridezza economica che perdurò fino al II secolo d. C. In tale contesto storico, il primo cristianesimo padovano non tardò ad essere presto perseguitato dalle autorità romane che videro in quest’ultimo una dottrina contraria ai principi politici e sociali su cui era stato fondato l’impero. Nonostante i divieti imposti anche dalle leggi locali, il credo cristiano iniziò a diffondersi a Padova e nelle zone limitrofe diventando ben presto la religione della maggior parte della popolazione e di alcuni ceti patrizi vicini alle famiglie imperiali. Così, per i primi tempi, i cristiani si riunivano per celebrare l’Eucarestia e leggere i testi sacri in case private messe a disposizione dalle famiglie più abbienti, le cosiddette “domus ecclesiae”. La sepoltura dei defunti avveniva invece all’interno di necropoli in gran parte occupate da sepolture di cittadini pagani, come nel caso dell’area cimiteriale presente all’estremità del Campo Marzio. Quest’ultimo, caratterizzato dalla presenza di un teatro chiamato “Zairo”, era affiancato da una zona sepolcrale collocata pressappoco al di sotto dell’attuale basilica di Santa Giustina e fu il luogo in cui quest’ultima, secondo le più antiche testimonianze, venne martirizzata (Fig. 1).

Fig. 1 – Pianta di Patavium con indicata l’area dell’attuale Prato della Valle e della basilica.

Il martirio di Santa Giustina e la genesi della basilica

Il legame della futura basilica con la figura della Santa trova origine direttamente dal martirio che quest’ultima subì proprio nel Campo Marzio vicino al teatro Zairo. Le testimonianze della condanna e del supplizio inflitto a Giustina si possono rintracciare all’interno del suo testo agiografico, la “Passio” che, secondo l’opinione di alcuni storici del secolo scorso (R. Zanocco e J. Bue), sarebbe da far risalire a un periodo compreso tra il VI e il X sec d. C. Cercando di riassumere brevemente il testo antico si possono facilmente constatare non solo le vicende che avvennero durante il processo, ma anche le origini della giovane padovana. Giustina proveniva infatti da una distinta famiglia locale e secondo la tradizione, mentre l’imperatore Massimiano si trovava di passaggio in città, venne arrestata e brutalmente condotta al cospetto dell’imperatore presso il tribunale istituito in Campo Marzio. Rifiutatasi di abiurare e di rendere omaggio al dio pagano Marte, venne condannata alla pena capitale per mezzo della spada. La sentenza, avvenuta a poca distanza dal luogo, venne eseguita il 7 ottobre 304. I padovani presenti, colpiti dal forte ardore con cui la ragazza aveva professato il proprio credo, raccolsero il corpo e lo seppellirono presso la zona cimiteriale adiacente al luogo del martirio. Ben presto la venerazione per la sepoltura della Santa fece sì che venisse edificata una piccola cappella cimiteriale volta a custodire le sacre spoglie. Tuttavia, il primo intervento che pose l’inizio della lunga storia costruttiva della basilica si deve rintracciare poco dopo il 520 d. C. quando il patrizio e prefetto del pretorio romano Opilione fece  costruire un sacello e una basilica sul luogo della sepoltura di Giustina e degli altri martiri che, come lei, avevano condiviso la stessa sorte (Fig. 2). L’edificio, secondo le testimonianze dell’epoca, meraviglioso per fattura e decorazione artistica, venne arricchito di corpi e reliquie di molti altri santi della diocesi e costituì il luogo prescelto dai primi vescovi della città per la collocazione della loro tomba.

Fig. 2 – Pianta del complesso fatto costruire da Opilione, in ero è evidenziato il sacello.

Il complesso paleocristiano, che rimase intatto per secoli, venne colpito da un’ingente calamità nel 1117 poichè, a causa di un violento terremoto, crollò. Dalla devastazione si salvarono solamente alcune piccole parti di muratura e l’antico sacello annesso al corpo basilicale. La storia costruttiva, sebbene rallentata a causa del disastro naturale, non si arrestò, anzi si arricchì di nuove ricostruzioni e ambienti volti a conservare i numerosi corpi di santi e protomartiri che a partire dall’XI secolo iniziarono ad essere ritrovati e riscoperti. Questi ultimi, essendo stati nascosti durante il periodo delle invasioni barbariche per il timore che venissero rubati o profanati, tornarono a essere esposti alla venerazione popolare. Per primi vennero riesumate le spoglie di S. Massimo Vescovo, S. Giuliano, S. Felicita Vergine e i SS. Innocenti; nel 1075 rivide la luce il corpo di San Daniele, nel 1174 quello di Santa Giustina e durante il 1177 quello dell’Evangelista Luca.

Le vicende architettoniche e stilistiche del complesso mutarono nel corso dei secoli tanto che l’antica struttura venne ampliata con un profondo coro (ancora esistente) e con la cappella contenente l’arca sepolcrale di San Luca (Fig. 3). Proprio per la decorazione di quest’ultima i monaci benedettini neri che a partire dal 971 amministravano il complesso abbaziale decisero di commissionare nel 1453 ad Andrea Mantegna un polittico da porre sull’altare accanto alla tomba dell’Evangelista. La pala (Fig. 4), in loco fino al 1797, a causa delle soppressioni napoleoniche venne asportata dalla chiesa di Santa Giustina e destinata ad essere custodita alla Pinacoteca di Brera, dove ancora oggi si trova.

La ricostruzione cinque-seicentesca

A partire del XVI sec, nel momento più alto di espressione culturale e artistica della città patavina, iniziarono a essere elaborati una serie di progetti e ipotesi avanzate prima con l’intenzione di ristrutturare superficialmente la struttura, per poi tramutarsi nella decisione di ricostruire completamente l’intero complesso basilicale e monastico per rendere esplicito il prestigio sociale e culturale assunto dall’abbazia nel corso del tempo. In questo frangente di fervore edilizio nacque e si sviluppò il progetto architettonico della basilica attuale. Il piano unitario di Santa Giustina non venne progettato da un unico architetto, bensì da una commistione di esperti; tra questi si ricordano il monaco Girolamo da Brescia, Matteo da Valle, Alessandro Leopardi, Andrea Briosco, Andrea da Valle e infine Andrea Moroni.

L’esterno della Basilica di Santa Giustina

Principalmente privo di decorazioni, l’esterno del corpo basilicale (Fig. 4) si presenta monumentale al visitatore, rivelando solo nei lati lunghi della costruzione alcuni abbellimenti ad intonaco come ad esempio le cornici dentellate che incorniciano il tetto a due spioventi delle cappelle laterali e del transetto. L’elemento che tuttavia colpisce maggiormente l’attenzione dell’osservatore è senz’altro il cospicuo numero di cupole che, disseminate su tutta la copertura, contribuiscono a slanciare la mole già possente della basilica e grazie alla copertura a piombo e ai tamburi intonacati, diventano un elemento di riconoscimento visibile anche a distanze elevate. Di notevole impatto visivo sono anche i numerosi oculi circolari di influenza bramantesca che abbelliscono sia la facciata incompiuta che i lati delle navate.

Fig. 5 – Esterno della basilica.

L’interno

L’interno della Basilica di Santa Giustina (Fig. 6) si rivela come uno dei più esemplari e ben riusciti capolavori dell’architettura veneta cinquecentesca, tanto che la sua dimensione in lunghezza (122 metri) è annotata sul pavimento della navata centrale della Basilica di San Pietro in Vaticano. La grandiosa dimensione, come dal resto anche la pianta, non è altro che il risultato della perfetta fusione dello stile imperiale romano con il gusto tardo rinascimentale. La planimetria (Fig. 7) mostra infatti una pianta complessa ma allo stesso tempo chiara e solenne. Il corpo basilicale, formato da tre navate separate tra loro da possenti pilastri rivestiti di paraste ioniche, presenta ben 14 cappelle minori, 7 per parte, che si aprono sulle navate laterali. Di singolare interesse è proprio il sistema architettonico nel quale queste vengono inserite: in pianta per ogni campata della navata antistante corrispondono due cappelle separate tra loro da un sottile muro; in alzato, invece, queste sono raggruppate sotto un unico arco centrale dal quale si apre un oculo circolare che permette l’illuminazione della volta a botte (Fig. 8). La successione prospettica delle navate laterali risulta arricchita dalla presenza di un altro modulo che viene ripetuto più volte in corrispondenza dei pilastri della navata centrale: un arco a tutto sesto (che si imposta sullo stesso livello delle cappelle) sorregge un alto architrave con un piccolo rosone che a sua volta diventa il piano trasversale sul quale si imposta la volta soprastante (Fig. 9). Tali elementi, così elaborati e ripetuti secondo schemi unitari, permettono che l’ambiente risulti non solo armonioso ma anche compatto e proporzionato. Magnifico nella sua ferma austerità, lo spazio interno è scandito sia da netti contrasti volumetrici che da intensi equilibri tra ombra e luce, tra una diffusa e calma luminosità che invade e sembra riflettere in tutto l’edificio sacro. Ogni elemento architettonico è evidenziato da modanature grigie che dividono l’ambiente in tanti spazi, alcuni più aperti e altri, come le cappelle, più raccolti. La copertura delle campate della navata centrale presenta delle cupole ribassate senza tamburo, decorate con lacunari circolari (Fig. 10) che proseguono fino all’intersezione con l’ampio transetto. L’area della crociera è infatti ottenuta grazie a uno schema geometrico ben preciso che ripropone su tutti i tre lati del presbiterio un modulo unico e definito. Accanto all’area absidata centrale compaiono due cappelle semicircolari per parte che, intersecandosi con le altre presenti nel transetto, creano quattro piccoli spazi quadrati sui quali si impostano le cupole minori. Al di sopra del braccio trasversale trovano collocazione due cupole con tamburo che vengono separate, tramite volte a botte, da una calotta ulteriore ubicata nel punto di intersezione della crociera. L’ultima cupola per ordine di collocazione è situata nella profonda abside dello spazio liturgico presbiteriale. Come si può notare da un confronto tra l’esterno e l’interno della basilica, le cupole citate, anche se al di fuori presentano le lanterne (Fig. 11), all’interno sono formate da una calotta leggermente ribassata e sono sprovviste dell’apertura circolare che introduce la lanterna superiore (Fig. 12a-12b).

Fig. 11 – Cupole esterne della basilica.

Nell’analizzare il vasto edificio, la trattazione cercherà di porre maggiore attenzione su quegli spazi che attraggono maggiormente l’interesse del visitatore che, nel suo itinerario, si addentra alla scoperta delle molte meraviglie del santuario. Per tale motivo ci si appresterà a descrivere diffusamente sia la zona presbiteriale di Santa Giustina (con particolare attenzione alla Cappella di San Luca, all’altare maggiore e al sarcofago di San Mattia), sia ai resti più antichi della storia basilicale dell’abbazia, ovvero, il corridoio dei Martiri e il sacello paleocristiano (Fig. 13).

Fig. 13 – A altare e cappella di San Luca, B altare maggiore, C arca di San Mattia, D corridoio dei Martiri, E sacello di San Prosdocimo.

La tomba di San Luca

Originariamente, come illustrato in precedenza, l’arca contenete le spoglie dell’Evangelista non si trovava nella posizione attuale. Tramite una solenne funzione, il corpo di San Luca venne traslato dall’antica cappella trecentesca all’interno del nuovo braccio sinistro del transetto della basilica nel 1562, quando i lavori di ricostruzione erano quasi ultimati. Tuttavia, prima di approfondire le vicende legate alla presenza del corpo santo a Padova e la sua sistemazione nel sarcofago, occorre innanzitutto chiarire alcuni dati biografici e agiografici legati alla vita di colui che, a differenza di come molti pensano, non fu uno degli Apostoli scelti da Gesù. Le notizie riguardanti la sua vita possono essere desunte da tradizioni antichissime risalenti al II e III secolo. Egli, probabilmente originario di Antiochia di Siria, divenne compagno di San Paolo nei suoi viaggi apostolici, è proprio quest’ultimo a citarlo più volte come fedele collaboratore e evangelizzatore all’interno di lettere e scritti. Fin dai tempi antichi Luca venne preso come protettore e intercessore per i medici, specialmente padovani, poiché dalla lettera di Paolo ai Colossesi (4,14) l’Evangelista viene chiamato più volte con il termine “medico”. A veridicità del fatto, dopo un attento esame del Vangelo e degli Atti degli Apostoli, si possono rintracciare numerosi riferimenti alla medicina, una particolare attenzione alla narrazione delle guarigioni operate da Cristo e un attento uso di termini specifici in alcuni episodi narrati. Si veda ad esempio il samaritano che cura il viandante aggredito con olio e vino oppure la descrizione del sudore con gocce di sangue di Gesù durante la preghiera nell’orto degli ulivi.

Una tradizione analoga vede quest’ultimo come patrono anche degli artisti in virtù del fatto che, secondo i racconti proliferati in epoca bizantina e medievale, egli sarebbe stato il primo iconografo della storia a ritrarre il volto di Cristo e Maria per espresso volere di quest’ultima tramite la scrittura di tre proto-icone: la Chalkopratissa o Advocata (Maria che intercede per la salvezza dei peccatori), la Hodigitria (la Madonna che regge il bambino sul braccio sinistro e che “indica la via”) e la Panaghia Dexià (la Madre di Dio con il Bambino sul braccio destro). Inoltre, dopo l’assunzione di Maria in Cielo in Anima e Corpo, Egli avrebbe dipinto ulteriori raffigurazioni. Esempi di tali icone sacre si possono rintracciare a Bologna nel Santuario della Madonna di San Luca, a Santa Maria Maggiore a Roma (Salus popoli romani) e in molte altre località; ciò in virtù del fatto che tali modelli iconografici si diffusero velocemente nei secoli diventando presto oggetto di numerose copie. Una raffigurazione attribuita al Santo si trova proprio sopra la sua tomba nella basilica di Santa Giustina e istituisce, straordinariamente, un connubio unico in tutto il panorama basilicale italiano.

L’Icona della madonna Costantinopolitana 

La presenza della veneranda Immagine nella basilica padovana può essere ricondotta, grazie agli antichi documenti ritrovati, al periodo compreso tra il XII e XIII secolo. L’Icona, anticamente conservata nel sacello annesso alla costruzione basilicale, è secondo alcuni storici la più antica immagine mariana presente nella città, tanto da essere sempre stata ritenuta miracolosa da parte della devozione popolare. Per tale motivo più volte veniva portata in solenne processione e ad essa erano affidate continue preghiere per scongiurare il pericolo di carestie e siccità. L’immagine sacra che si può osservare oggi nella Cappella di San Luca, tuttavia, non si presenta nella sua forma stilistica originaria. Durante il Cinquecento, a causa del deperimento e il cattivo stato di conservazione della tavola antica, venne realizzata una copertura metallica sbalzata soprastante chiamata "riza" volta sia a proteggere la lesionata immagine, sia a nasconderne i difetti del tempo. Quest’ultima mascherava completamente l’antica effige, poiché anche i volti di Maria e Gesù (le parti originali meglio conservate) vennero ricoperti da una tela dipinta per l’occasione (Fig. 14). Solo nel 1959 la vera icona (Fig. 15) venne separata dalla riza in bronzo dorato che la proteggeva: così facendo, si dovette provvedere alla sistemazione non più della singola icona ma di ben due immagini. La risposta al problema si concretizzò con la designazione di due diverse collocazioni: la copertura cinquecentesca venne posta stabilmente al di sopra della tomba di San Luca in un elaborato espositore con due angeli ad opera di Amleto Sartori (1960), mentre la tavola originale venne custodita all’interno di un apposito spazio nel monastero benedettino.

Il tipo iconografico

Il genere iconografico al quale l’immagine, tradizionalmente, appartiene sarebbe quello della Madre di Dio Odighitria (letteralmente colei che indica la via) nel caso dell’icona padovana, il gesto viene reso pittoricamente dalla mano di Maria che con il mignolo sinistro indica Cristo.  La particolarità della tavola, tuttavia, consiste nella direzione in cui è rivolto lo sguardo delle figure: Gesù è rivolto verso l’esterno dell’opera e insieme a Maria guarda direttamente l’osservatore, quasi a voler instaurare un diretto e profondo dialogo spirituale con lui (Fig. 15 a). Tali peculiarità fanno sì che l’icona possa essere accostata maggiormente al tipo iconografico della “Madre di Dio della consolazione” o “Palestinskaia”.

Il corpo di San Luca nella Basilica di Santa Giustina

Tornando ad analizzare le vicende legate all’Evangelista, bisogna innanzitutto comprendere il perché della presenza delle sue spoglie proprio a Padova. Secondo la tradizione Egli morì all’età di 84 anni e venne sepolto nell’antica Tebe, capitale della regione greca della Boezia. Dalla prima sepoltura in territorio greco, il corpo, come riferisce anche San Girolamo, venne portato nella Basilica dei Dodici Apostoli a Costantinopoli per esservi custodito. Le notizie storiche riguardanti la vicenda sembrano tacere per lunghi anni, per poi ricomparire in epoca medievale quando, nel 1177, nell’area cimiteriale di Santa Giustina in Campo Marzio, venne testimoniato il ritrovamento delle sacre spoglie di Luca a seguito di numerosi fatti prodigiosi come profumi e sogni premonitori a coloro che frequentavano il luogo. A conferma dell’identità del corpo venne trovato anche un cosiddetto titulus, ovvero un’iscrizione recante il nome di Luca e tre rappresentazioni di vitelli sulla cassa tombale. L’eccezionale scoperta indusse l’abate monasteriale Domenico, e il Vescovo di Padova Gerardo Offreducci, a far confutare la veridicità del ritrovamento a Papa Alessandro III che si trovava in quel momento a Ferrara. Per spiegare il trasporto del sarcofago da Costantinopoli a Padova, la medesima tradizione (che si sta ancora studiando e verificando) indicherebbe l’avvenimento di quest’ultimo durante la persecuzione iconoclasta dell’VIII secolo, e quindi è lecito ipotizzare che il corpo insieme all’icona siano stati spostati per sfuggire alla profanazione.

L’arca sepolcrale

Il sarcofago dell’Evangelista (Fig. 16), opera raffinata di scuola pisana, venne realizzato a cura dell’abate Mussato intorno al 1316. La struttura (Fig. 17) è caratterizzata dall’elevazione su cinque sostegni verticali costituiti da quattro colonne laterali e un elemento scultoreo centrale, ritraente angeli.  La cassa tombale si presenta rivestita da un elegante involucro in porfido verde che racchiude al suo interno tre riquadri per parte sui lati lunghi e due su quelli corti (Fig. 18). All’interno di questi ultimi trovano spazio dei raffinati bassorilievi che riproducono, sia sul fronte che sul retro, la stessa successione di figure, quasi una processione formata da un angelo con torce, uno atto nell’incensare con il turibolo il sarcofago e il bue alato con il Vangelo (il simbolo di riconoscimento nel tetramorfo dell’Evangelista). L’animale alato compare anche sul lato corto destro dell’arca, mentre sul sinistro emerge la rappresentazione di Luca stesso con i suoi scritti.

Fig. 18 – Arca di San Luca, vista dall’alto e disposizione dei bassorilievi nei fronti.

Il contenuto dell’arca

L’interno del sarcofago, per secoli venerato come il contenitore delle spoglie dell’Evangelista Luca, venne aperto nel 1998 per poter ispezionare i resti, sottoporli ad indagini scientifiche e donarne un frammento significativo al Metropolita di Tebe, Hieronymos (Fig. 19-19 a). Formatasi una commissione scientifica, al seguito di numerose indagini, si arrivò alla conclusione che lo scheletro conservato a Padova apparteneva a un uomo morto in tarda età (tra i 70 e gli 85 anni) alto circa 163 cm. Inoltre le ossa conservate a S. Giustina corrisponderebbero al cranio presente a Praga (prelevato dall’arca e consegnato dai monaci al re di Boemia Carlo IV nel 1354). La conservazione molto accurata e rispettosa dei resti nel sarcofago, insieme all’elevato numero di oggetti di origine orientale deposti sul suo fondo, denotano un particolare interesse, fin dall’antichità, a voler a tutti i costi preservare i resti di un individuo santo e importante.


SAN CESAREO, IL DUOMO DI TERRACINA

A cura di Andrea Bardi

La concattedrale di San Cesareo: storia

Nell’area che dal I secolo a.C. ospitava il Foro Emiliano (dal nome di Aulo Emilio, il magistrato romano che lo fece completare[1]), e precisamente al di sopra del podio del Tempio Maggiore cittadino, il Capitolium[2], si trova la cattedrale di Terracina, intitolata ad uno dei suoi patroni, San Cesareo, martire di origine cartaginese sotto Traiano [fig. 1].

Fig. 1

Le prime notizie della Basilica Sancti Cesarii, nonostante fosse documentata una folta comunità di fedeli già sotto Gregorio Magno (590-604)[3], risalgono al periodo carolingio, e precisamente al pontificato di Leone IV (847-855). Secondo il Liber Pontificalis, infatti, fu questo pontefice a donare alla Basilica una veste liturgica recante il proprio nome. Al momento della donazione della veste, tuttavia, l’areale del Foro era già stato interessato da una fase di ristrutturazione (probabilmente in occasione della visita dell’imperatore Costante II nel 662) voluto dal consul et dux di Terracina, il dominus Giorgio. L’intervento di riqualificazione del Foro da parte di Giorgio è ben testimoniato da un’iscrizione graffita su una colonna, evidentemente di spoglio, del portico della cattedrale (MVNDIFICATVS EST FORVS ISTE TEMPORE DOMINI GEORGII CONSVL ET DVX). Bisogna aspettare l’ultimo quarto del XI secolo, tuttavia, per la consacrazione della cattedrale. Nel 1073 papa Alessandro II (1061-1073) donò personalmente la diocesi[4] (e di conseguenza anche la cattedrale) a Desiderio, abate di Montecassino (futuro papa Vittore III). L’anno successivo un altro monaco cassinese, Ambrogio, fece consacrare l’edificio al martire Cesareo[5]. Il duomo terracinese divenne il centro della comunità cattolica nel 1088, anno in cui a Vittore III seguì al soglio pontificio Urbano II (1088-1099), eletto al termine di un conclave tenutosi proprio all’interno della cattedrale. L’elezione di Urbano costituì l’acme di un profondo percorso di rinnovamento dell’edificio che, in pieno accordo con i dettami della Riforma Gregoriana[6], doveva coinvolgere anche l’episcopio, che fu perciò dotato di una struttura claustrale[7]. Pochi decenni dopo, e precisamente sotto la guida di Eugenio III, venne completata la decorazione musiva del grande fregio sul portico. Al XIII secolo, invece, risalgono il cero pasquale di Crudele (1245)[8] e il grande campanile laterale. Dopo circa quattrocento anni, un ulteriore momento chiave interessò la morfologia della chiesa di San Cesareo: l’intervento settecentesco (1729) coinvolse la copertura a capriate lignee (sostituita da una volta a botte), la terminazione a tre absidi dell’edificio (rimpiazzata da un coro quadrangolare) e il ciborio medievale, che lasciò spazio ad un grande baldacchino tardobarocco. Fu solo negli anni Venti del Novecento, tuttavia, che il duomo subì l’ultimo intervento sulle sue strutture. Per interessamento del ministro dell’Educazione Nazionale Fedele, si volle effettuare un intervento in stile che riportasse la facciata alla sua conformazione medievale, sostituendo le crociere del portico con un soffitto a capriate lignee e demolendo il nartece (atrio tra la facciata e la navata della chiesa, originariamente adibito ai catecumeni, fedeli non ancora ammessi al battesimo)[9].

 Esterno di San Cesareo

L’attuale duomo di Terracina si innesta sul podio dell’antico Capitolium romano, reimpiegandone la cella scandita all’esterno da una serie di semicolonne scanalate. Al di sopra della gradinata del podio romano si innesta un portico a sei colonne interrotto al centro da un’arcata a tutto sesto[10]. Le colonne, di altezza diseguale tra di loro, sono completate da basamenti di altezza variabile, che recano ognuno coppie di animali [fig. 2], purtroppo scarsamente leggibili ma ancora identificabili (scimmie con strumenti musicali, leoni, pantere, caproni).

Fig. 2

Il portico, coinvolto nel corso del restauro in stile nel 1926 (intervento finalizzato a ripristinarne la struttura originaria) venne completato nel XII secolo, poco dopo la chiusura del cantiere della chiesa ad opera del cardinale Benedetto, titolare di San Pietro in Vincoli morto nel 1128. La committenza benedettina è identificabile grazie ad una iscrizione sulla cornice del portale centrale (“BENEDICTVS S[AN]C[TA]E ROMANAE AECCLESIAE DEI GRAZIA CARDINALEM”). Sul lato destro della trabeazione soprastante corre invece un interessantissimo fregio musivo a schema libero. Il tema del portico, la Redenzione, è qui concretizzato dalla presenza di una serie di animali fantastici con forte valenza simbolica. L’inserimento di una croce patente, di un’imbarcazione e di due iscrizioni è una dichiarazione programmatica della pertinenza alla seconda crociata proclamata da papa Eugenio III nel 1147. Le iscrizioni, infatti, recano i nomi di due cavalieri crociati locali, Goffredo d’Egidio [fig. 3] (GVTIFRED EGIDII MILES) e Pietro del Prete (PETRVS PBRI MILES) [fig. 4].

La prima crociata, indetta proprio da Urbano II, eletto proprio a San Cesareo, era ormai troppo datata per essere oggetto di committenza[11]. Il portico presenta un’ulteriore iscrizione (PALATIVM T[ER]RAC IMP[ERATO]R VALE [NTINIANU]S SILVINIAN[US] CINA LEONTIVS S[ANCTUS] CES[ARIUS] LEONI) relativa ai nomi dei personaggi che erano ritratti nella parte sinistra del fregio. Valentiniano III, imperatore che dedicò un sacello a Cesareo dopo che quest’ultimo aveva guarito miracolosamente la madre, Galla Placidia; Silviano, vescovo cittadino per pochi mesi nel 444; Leonzio, console di Fondi convertito da Cesareo; Cesareo, santo martire titolare del duomo. Alle gesta passate dei santi patroni della città (Cesareo e Silviano) venivano associati i protagonisti dell’allora presente di Terracina (Goffredo e Pietro). Alle estremità del portico l’edificio è chiuso a sinistra dal campanile[12] e a destra da Palazzo Venditti, sede del Comune[13]. Il campanile in laterizio [fig. 5] presenta quattro ordini aperti da bifore (l’ultimo da una trifora) affiancate da arcate acute cieche. Esso si imposta su una volta a crociera su base quadrata, segno evidente della penetrazione in area terracinese delle modalità costruttive cistercensi.

Fig. 5 - credits to: http://www.medioevo.org.

Interno della concattedrale

La chiesa deve il suo attuale impianto planimetrico al periodo romanico (fine XI secolo), tra la donazione di papa Alessandro II a Desiderio e l’elezione di Urbano II. L’intervento sulle preesistenze antiche consistette nella riduzione dell’ampiezza della cella per la creazione di nuove pareti laterali, più vicine alla nave centrale. Tra queste ultime e la muratura originaria si creò così uno spazio di risulta, privo di copertura e costantemente esposto alle intemperie, che portò ad una lenta e prevedibile usura della pavimentazione romana originaria. La parete di fondo del Capitolium venne poi dotata di tre absidi, ricavate a partire dai volumi di alcuni piedistalli basamentali sui quali poggiavano statue di divinità. La chiesa, a tre navate e a terminazione triabsidata, segue da molto vicino la nuova abbazia di Montecassino voluta dall’abate Desiderio. I confronti più diretti, tuttavia, rimangono in ogni caso quello con Sant’Angelo in Formis ma soprattutto con Sant’Agata dei Goti[14]. In alzato, l’edificio somma a un unico ordine di arcate a tutto sesto (sostenute da dodici colonne marmoree di spoglio), la grande botte settecentesca in sostituzione all’originario sistema a capriate. Il gioco decorativo della pavimentazione romana, realizzato mediante una sapiente combinazione di marmi e paste vitree, si snoda in un pattern policromo, dalla grande maestria decorativa, fatto di rotae (cerchi), losanghe e quadrati [fig. 6].

Fig. 6 - credits to: http://www.medioevo.org.

Il pulpito, anch’esso caratterizzato dalla compresenza di marmi policromi e paste vitree lavorati a intarsi geometrici, è a cassa rettangolare [fig. 6]. Sorretto da quattro colonne su leoni stilofori, ognuna delle quali dotata di un capitello diverso dall’altro (curioso è il capitello con tre telamoni) [fig. 8], esso viene sostenuto al centro da un corpo a base ottagonale. Affianco al pulpito, il cero tortile pasquale, datato 1245 e realizzato da un certo Crudele.

Lungo le navate laterali, poi, si aprono gli spazi di sei cappelle (tre per lato). Al culmine delle navate laterali troviamo due cibori medievali (XIII secolo), con gli altari contenenti le reliquie dei Ss. Silviano, Silvia e Rufina (navata sinistra) e di S. Eleuterio (navata destra). Il Ciborio di S. Silviano [fig. 9] [fig. 10] eleva le sue quattro colonne di marmo di reimpiego a partire da una base quadrata. Sui suoi capitelli, corinzi, poggia un architrave di spoglio che introduce il baldacchino a tronco di piramide dalla base ottagonale. Sulla lastra marmorea dell’altare un S. Silviano benedicente è affiancato dalle Ss. Silvia e Rufina, rispettivamente a sinistra e a destra. Il Ciborio di S. Eleuterio [fig. 11] [fig. 12] mantiene elementi analoghi in pianta e in alzato, mentre la lastra sul fronte dell’altare ospita il santo nell’atto di benedire la città.

Il baldacchino centrale, tardobarocco, risale al 1729. La copertura lignea poggia su colonne scanalate culminanti su capitelli compositi [fig. 13]. L’altare centrale, posto al centro del baldacchino, custodisce le reliquie dei Ss. Cesareo, Giuliano, Felice ed Eusebio, ritratti sulla lastra frontale e collocati ai piedi di una scalinata. Il baldacchino settecentesco anticipa gli spazi del coro, culminanti con una statua lignea di S. Pietro in Trono (XIX secolo) [fig. 14].

Introdotto da una grande arcata a tutto sesto, le sue pareti sono decorate da pontefici e santi vescovi a monocromo inscritti in nicchie ad arco. Sebbene non siano state fatte ancora attribuzioni certe, l’ipotesi più accreditata vede nella squadra del pittore gaetano Sebastiano Conca (1680-1764) l’equipe addetta al completamento di questi brani. L’arco trionfale del coro lascia spazio all’episodio dell’Ordinamento di Epafrodito a vescovo di Terracina, che, insieme ai tre episodi della volta del coro (Elezione di Urbano II; Gloria di S. Urbano; Pietro l’Eremita chiede al papa di liberare Gerusalemme dagli infedeli) sono invece opere accertate di Virginio Monti (1852-1942). Le testimonianze pittoriche delle cappelle laterali di San Cesareo sono assai poche. La prima cappella sulla destra è senza dubbio la più interessante. Essa presenta, sul lato di fondo, due figure di santi a fresco dall’identità chiarissima. Sono S. Pietro, sulla sinistra, e S. Paolo sulla destra. Al di sotto dello strato di intonaco, in corrispondenza della figura di Paolo, è stata recentemente rinvenuta una figura di santo apostolo i cui attributi iconografici (bastone da pellegrino, borsa a tracolla, libro) rimandano inequivocabilmente alla figura di S. Giacomo Maggiore [fig. 15], mentre l’insieme dei tratti stilistici portano con un certo grado di certezza a un pittore aggiornato al linguaggio napoletano di Pietro Cavallini (1240-1330 ca.)[15]. Il sottarco della cappella, tra grottesche, girali vegetali e cornici in stucco, introduce tre riquadri con un’Orazione nell’Orto, una Flagellazione di Cristo e, al centro, un Padre Eterno.

Fig. 15

Le altre cappelle non presentano alcuna decorazione pittorica, essendo molti dipinti stati trafugati alla fine del secolo scorso (tra il 1989 e il 1991 sono scomparsi una copia dal Battesimo di Cristo di Carlo Maratta in S. Maria degli Angeli, una Sacra Famiglia e una Santa Brigida). Ai lati dell’absidiola minore, in corrispondenza del Ciborio del vescovo Eleuterio, si trovano i brani pittorici più interessanti e risalenti alla fine del X secolo. Una testa imberbe [fig. 16], facente parte di un originario ciclo pittorico di cui essa è l’unica porzione superstite, è connotata dal forte linearismo e dalla carica espressiva che caratterizzano il coevo stile beneventano. Successiva rispetto alla testa, una fascia in finto marmo [fig. 17] tra l’absidiola e la zona presbiteriale, altro elemento che permette una collocazione abbastanza precisa nel quadrante culturale della pittura campana del tempo (Cripta di Giosuè in S. Vincenzo al Volturno). In corrispondenza dei gradini del presbiterio, poi, un velarium [fig. 18] (pressoché coevo alla lastra in finto marmo) segnato nella sua parte alta da due linee nere ondulate e, in verticale, da bande rosse.

Fig. 16
Fig. 19

 

 

Note

[1]Al centro del lastricato del Foro si trova l’iscrizione “A(ulus) AEMILIUS A(uli) F(ilius) STRAVI [T]”.

[2] Fino allo scorso secolo era visibile, dal retro del Duomo in corso Anita Garibaldi, l’iscrizione recante il nome dell’architetto, un certo C. Postumio Pollione.

[3] Terracina era, alla metà del V secolo, importante kastron militare bizantino contro la pressione dei Goti da sud, in occasione della cosiddetta “guerra greco-gotica”.

[4][4] La donazione riguardò la “civitatem terracinensem cum pertinentiis suis”.

[5] L’influenza di Montecassino su Terracina era, all’epoca della donazione, già avviata, a partire dall’episcopato del monaco Teodaldus attorno alla metà del XI secolo.

[6]Dal nome di Gregorio VII (1073-1085).

[7] Durante i lavori di ristrutturazione dell’episcopio (1994) sono state rinvenute colonne romane di riuso, collegate tra loro mediante arcate a tutto sesto, evidentemente afferenti al chiostro del vescovado.

[8] La datazione (31 ottobre 1245) è incisa sul lato verso l’altare: A.D. MCCXLV MEN. OCT. DIE ULTIMA. Sul lato rivolto alla navata centrale, invece, l’iscrizione “CRUDELES OPE” è testimonianza esaustiva dell’identità dell’artefice.

[9] Durante la visita pastorale del 1580 le colonne erano sedici. In seguito alla demolizione novecentesca, il numero scese a dodici. Due colonne erano collocate all’apertura del nartece verso la navata, le altre due ai lati della confessio, ovvero la cella in cui vengono conservate le reliquie del santo.

[10] Prima del recupero delle forme originarie a seguito dell’intervento novecentesco, il portico era voltato a crociera e le arcate a sesto acuto sono state sostituite da una serie di archi ciechi a sesto ribassato, secondo il modello rintracciabile anche in S. Giorgio al Velabro.

[11] Le analisi paleografiche dell’iscrizione hanno inoltre confermato la pertinenza al XII secolo.

[12] Costruito successivamente rispetto al portico: lo spazio per i pilastri del campanile venne ricavato a partire da un taglio della modanatura di base.

[13] Recenti ipotesi vorrebbero il palazzo la residenza della famiglia dei Pironti, che avrebbero commissionato anche il campanile. Un membro della famiglia dei Pironti, seguendo tale lettura, potrebbe essere il personaggio che si nasconde dietro il ritratto scolpito sul pilastro del campanile.

[14] Sant’Agata è il parallelo più convincente proprio per la realizzazione delle absidi entro preesistenze murarie, nonché per la presenza del presbiterio rialzato.

[15] Pietro Cavallini giunse a Napoli nel 1308, lavorando alla Cappella Brancaccio in San Domenico Maggiore e in Santa Maria Donnaregina.

 

Bibliografia

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Nuzzo, La decorazione pittorica della cattedrale di Terracina dal X al XIV secolo alla luce delle recenti scoperte. Dall’influenza beneventana alla pittura della Riforma, ai percorsi delle botteghe cavalliniane nel Lazio meridionale, in Una strada nel Medioevo. La via Appia da Roma a Terracina (a cura di M. Righetti), Roma, Campisano, 2014, pp. 217 – 236.

T. Gigliozzi, Nuovi elementi per la fase architettonica altomedievale della cattedrale di Terracina e inedite testimonianze del periodo ‘desideriano’, in Una strada nel Medioevo. La via Appia da Roma a Terracina (a cura di M. Righetti), Roma, Campisano, 2014, pp. 201-216.

T. Gigliozzi, I segni della Riforma nella cattedrale di Terracina. La chiesa, il chiostro, il portico, la cattedra, in “Arte Medievale”, IV serie, Milano, Silvana, 2016, pp. 27-34.

Nuzzo, I segni della Riforma nella cattedrale di Terracina. Temi e simboli nel fregio musivo del portico, in “Arte Medievale”, IV serie, Milano, Silvana, 2016, pp. 35-44.

Scavizzi, Conca, Sebastiano, in Dizionario Biografico degli italiani, 27, 1982, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana.

Tedeschi, Le epigrafi del portale e del portico della cattedrale di Terracina, in “Arte Medievale”, IV serie, 2016, Milano, Silvana, 2016, pp 45-50.

Ticconi, Monti, Virgilio, in Dizionario Biografico degli italiani, 76, 2012, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana.

 

Sitografia

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http://www.treccani.it/enciclopedia/virginio-monti_(Dizionario-Biografico)/


LA BASILICA DI SAN PAOLO MAGGIORE A NAPOLI

A cura di Ornella Amato
Fig.1 - Piazza san Gaetano.

Introduzione

Per poter apprezzare la profonda bellezza del complesso della Basilica di San Paolo Maggiore occorre fare alcune precisazioni introduttive.

Nel 1995 l’UNESCO ha dichiarato il centro storico di Napoli Patrimonio dell’Umanità. Esso racchiude quasi tre millenni di storia e risulta essere il più vasto d'Italia e uno dei più vasti d'Europa con i suoi 17 km², i suoi  monumenti, che sono testimonianza della successione di culture del Mediterraneo e dell'Europa. Le strade del centro storico di Napoli, sebbene seguano la struttura stradale originaria dell’antica città che fu della Magna Grecia, mantengono tutt’oggi la denominazione di Decumani, che presero nella successiva epoca romana.

In particolare, lungo il Decumano maggiore – uno dei salotti culturali della città – s’incontrano piazze e monumenti che custodiscono fatti ed eventi che hanno segnato la storia del capoluogo campano e dei suoi abitanti.

È proprio qui che, in posizione pressoché centrale, ci si imbatte in Piazza San Gaetano che sorge sull’area in cui esisteva l’antica agorà greca, diventata poi il foro in epoca romana ove– in pompa magna - si accoglievano gli imperatori.

Successivamente, a partire dell’ epoca angioina, qui si svolgevano le funzioni dei Sedili della città, ovvero delle istituzioni amministrative di Napoli i cui rappresentanti, detti gli Eletti, si riunivano nella vicina chiesa di San Lorenzo Maggiore per perseguire il bene comune della città. A cinque dei sei seggi avevano diritto di partecipare i nobili, mentre il resto dei cittadini era aggregato nel sesto seggio, ovvero quello del popolo.

Questa era la piazza per eccellenza dove si discutevano trattati di guerra e di pace, ed era qui che accorreva il popolo napoletano richiamato alle armi dal suono delle campane.

LA BASILICA DI SAN PAOLO MAGGIORE A PIAZZA SAN GAETANO

Il nome della piazza- in un primo momento nota come Largo San Paolo e su cui si erge la basilica di San Paolo Maggiore - deriva dalla presenza della tomba di San Gaetano nella basilica stessa, oltre che dalla presenza della statua dedicata allo stesso Santo, eretta come ex-voto per la liberazione della peste che colpì la città nel 1656 e che seminò morte ovunque. I cadaveri furono oltre 200.000 su un totale di circa 450.000 abitanti, e la capitale fu messa letteralmente in ginocchio.

Il grido di preghiera affinché il morbo cessasse fu affidato non solo alla Chiesa, ma in un certo qual modo anche agli artisti, ai quali furono commissionate diverse opere che non solo la testimoniarono, ma che furono soprattutto ex-voto di ringraziamento per il cessato morbo.

Fig. 2 - Micco Spadaro, Piazza Mercatello durante la peste del 1656, Napoli Museo di San Martino.
Fig. 5 - Napoli, Mattia Preti - Porta San Gennaro Affresco votivo per la scampata pestilenza del 1656 – come da bozzetti conservati al Museo di Capodimonte.

A questo filone di arte devozionale appartiene anche la statua dedicata a San Gaetano Thiene che oggi s’innalza sulla piazza.

Gaetano Thiene, da sempre molto amato in città, qui visse fin dal 1538, anno in cui ricevette in concessione dal Viceré don Pedro da Toledo la Basilica di San Paolo, ove si insediò con i chierici regolari teatini, e vi rimase fino al 1547. Sarà poi beatificato l’8 ottobre 1629 da Papa Urbano VIII.

Il 7 Agosto del 1656 i rappresentanti della città si recarono scalzi e con un cordone al collo sulla tomba del Beato Gaetano Thiene, in San Paolo Maggiore, per chiedere la liberazione dalla pestilenza con la promessa di iscriverlo tra i Santi Patroni della città. Fonti mediche e sanitarie raccontano che da quel giorno non si contarono più vittime e che il morbo cessò improvvisamente. Una delegazione partì quindi alla volta di Roma per incontrare Papa Alessandro VII e chiedergli di iscrivere il nome del Beato Gaetano Thiene nel Registro dei Santi, ma soprattutto tra i compatroni della Città. La canonizzazione però avverrà solo il 12 Aprile del 1671 ad opera di Clemente X.

Ciononostante i teatini della Basilica di San Paolo Maggiore vollero ugualmente la realizzazione di un monumento al Beato Gaetano come ex-voto per la grazia ricevuta, e ne affidarono il progetto e l’esecuzione a Cosimo Fanzago, che avrebbe collaborato con Andrea Falcone.

L’opera, in marmo e piperno, fu realizzata tra il 1657 e il 1664, ma il risultato probabilmente non piacque ai teatini, in quanto non ne soddisfò la volontà di avere una statua sviluppata soprattutto in altezza.

Nel 1670 si decise di rimettere mano all’opera e, a seguito di un precedente ritrovamento nei pressi del Duomo di una colonna che si voleva utilizzare per la Guglia di San Gennaro (realizzato per ex-voto per lo scampato pericolo durante l’eruzione del Vesuvio del 1631 e realizzato entro il 1660), si pensò di utilizzarla per la guglia del Santo, ma la famiglia Pisani, che aveva un palazzo nell’area limitrofa, vi si oppose per timore di un eventuale crollo.

Il monumento, pertanto, rimase nelle sue forme fino al 1737, anno in cui Don Alfonso Carafa, a sue spese e per sua devozione, lo fece completare: la statua seicentesca fu sostituita con l’attuale che fu realizzata probabilmente a Roma in epoca imprecisata da un De Angelis, ma comunque entro il 1747, con le braccia aperte simbolo dell’accoglienza ai fedeli e alla loro protezione. Affacciandosi su Via San Gregorio Armeno, che è la strada dei maestri presepai, San Gaetano è considerato il loro protettore: il Santo si trova, secondo un’interpretazione diffusa, in una posizione di estasi, anche se l’aureola argentea che ne coronava il capo attualmente è stata sostituita con una copia; sul basamento vi sono due iscrizioni che ne raccontano la storia di opera nata per ex-voto, mentre alla base fanno da contorno quattro angeli marmorei; la colonna che regge la statua –oggetto di discussione e che avrebbe dovuto innalzare al cielo la statua del Santo - rimase nei laterali della Basilica per essere poi successivamente portata, anche se spezzata, al Museo Archeologico Nazionale e, solo nel 1914, riuscì ad ottenere una definitiva collocazione nell’attuale e centralissima  Piazza Vittoria ed è stata dedicata ai “Caduti del mare”.

Alle spalle della statua, sulla piazza, si erge maestosa la Basilica di San Paolo Maggiore.

Fig. 8 - Piazza san - Gaetano Basilica di San Paolo Maggiore e Statua votiva a San Gaetano.

La Basilica di San Paolo Maggiore fu costruita sui resti del Tempio dei Dioscuri, ovvero i gemelli Castore e Polluce, figli di Zeus, il cui mito era fortemente sentito non solo in Grecia, ma anche in tutta la Magna Grecia. Tale tempio probabilmente fu realizzato nel V sec. a.C., e attualmente ne restano le colonne, i capitelli corinzi ed i relativi architravi; sarebbe stato poi ristrutturato sotto gli anni di Tiberio dal liberto Pelagonte, più o meno nei primi anni del I sec. d.C. – come dimostra l’iscrizione incisa sull’architrave – quando il culto dei due Argonauti era diventato di tipo dinastico e collegato ai membri della famiglia imperiale.

Fig. 12 - Andrea Palladio - Studio del Capitello Corinzio del Tempio dei Dioscuri di Napoli – quarto chlibro de “I Quattro Libri dell’Architettura”.

La prima chiesa fu edificata tra l’VIII ed il IX sec. d.C. per celebrare la vittoria dei napoletani sui Saraceni, avvenuta nel giorno di San Paolo (da qui la titolazione della Chiesa al Santo di Tarso) ma si hanno notizie certe solo a partire dal 1538, quando Pedro de Toledo la diede in concessione a Gaetano Thiene e ai chierici regolari teatini. Dopo la morte di Thiene, gli stessi teatini si attivarono per una vera e propria opera di rinnovamento.

Parteciparono  i grandi nomi del panorama artistico napoletano, a partire da  Massimo Stanzione  che nel 1642 ne affrescò il soffitto della navata centrale, poi nel 1671 Dionisio Lazzari -  in occasione delle celebrazioni per la canonizzazione di Gaetano Thiene - realizzò una volta in muratura che collegava la facciata della chiesa alle colonne del vecchio tempio pagano; probabilmente, proprio a causa dell'intervento operato da Lazzari, la struttura antica, notevolmente appesantita, finì col crollare durante un violento terremoto, avvenuto nel 1688, provocando anche il crollo di tutte le colonne, tranne le due tutt’oggi visibili. Ciò che rimaneva delle colonne fu utilizzato per decorazioni interne.

Fig.13 - La facciata della Chiesa prima e dopo il crollo dovuto al terremoto del 1688, in un’immagine di Carlo Celano del 1692 in "Notizie del bello, dell'antico e del curioso della città di Napoli".

Nel Settecento i lavori di abbellimento proseguirono soprattutto a opera di Domenico Antonio Vaccaro e Francesco Solimena, che riutilizzarono i marmi antichi crollati con il terremoto, rilavorandoli e mettendoli in opera all'interno per rivestire il pavimento e le paraste della navata centrale.

Per quel che concerne la Basilica, bisogna comunque precisare che è più corretto parlare di “Complesso monumentale”, poiché la Basilica stessa include due edifici religiosi di piccole dimensioni: il Santuario di San Gaetano Thiene e la Chiesa del Santissimo Crocifisso.

Fig. 14 - Chiesa del Santissimo Crocifisso - esterno.

La struttura della Chiesa del Santissimo Crocifisso  è collocata alla base dell'antico tempio dei Dioscuri. Negli anni sessanta del Novecento il fabbricato fu messo in collegamento con il Succorpo della Basilica, causando lo stravolgimento dell'impianto originario. L'interno del complesso è costituito da tre navate, di cui la principale è adibita a luogo di culto, mentre le laterali costituiscono la sacrestia, gli uffici e un cimitero venuto alla luce nel 1962 a seguito di lavori di ristrutturazione.

Il Santuario di San Gaetano Thiene  è  invece un luogo di culto che fu progettato da Francesco Solimena, che realizzò anche gli affreschi presenti nella navata, mentre i bassorilievi raffiguranti le Storie di San Gaetano di Thiene sono invece  di Domenico Antonio Vaccaro. Qui è custodita la tomba del Santo titolare.

Fig.15 - Santuario di San Gaetano Thiene - interno.

Lasciando tali strutture, si ritorna sulla facciata della Basilica, progettata da Arcangelo Guglielminelli ed alla quale si accede attraverso un’elegante scala e  dove, oltre alle già citate colonne, sono da segnalare le lesene scanalate con capitello e le statue raffiguranti i santi Pietro (a sinistra) e Paolo (a destra), entrambe di Andrea Falcone e datate 1671.

All’interno la basilica presenta una pianta  a croce latina e  tre navate con cappelle laterali.

Fig. 18 - Pianta della Basilica e del Complesso.
  1. Chiesa del Santissimo Crocifisso detta la Sciabica
  2. Santuario di San Gaetano Thiene
  3. Resti del Tempio dei Dioscurie ingresso alla basilica di San Paolo
  4. Angelo Custode di Domenico Antonio Vaccaro
  5. Cappella di San Carlo Borromeo
  6. Cappella di San Giuseppe Maria Tomasi
  7. Cappella dei Santi Pietro e Paolo
  8. Cappella Flasconi (o dell'Angelo custode)
  9. Cappella dell'Immacolata (o dei Santi Pietro e Paolo)
  10. Cappella "anonima"
  11. Cappella Firrao
  12. Abside
  13. Cappella di Sant'Andrea d'Avellino
  14. Sacrestia di Solimena
  15. Cappella "anonima"
  16. Cappella del beato Paolo Burali d'Arezzo
  17. Cappella della Purità
  18. Cappella di San Gaetano Thiene
  19. Cappella della Natività
  20. Cappella del beato Giovanni Marinoni
Fig. 19 - Interno della Basilica.

Il soffitto originale con gli affreschi raffiguranti le Storie di Pietro e Paolo e la Vittoria dei Napoletani sui Saraceni dello Stanzione è stato danneggiato gravemente durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. La basilica è notevolmente impreziosita dalla policromia marmorea e dalla statuaria: ne è testimonianza l’Angelo Custode del Vaccaro, esposto sul lato sinistro della navata  centrale e databile al 1724; secondo un manoscritto la statua venne scolpita su volontà dei padri teatini per ricordare un angelo che, nel 1648, con in mano un cartiglio sul quale vi era incisa la frase Hic est fratrum amator, qui multum orat pro populo (questi è l'amico dei suoi fratelli, che prega molto per il popolo), riuscì a fermare i tumulti della folla napoletana che, affamata, tentava disperatamente di saccheggiare il convento.

Fig. 23 - Domenico Vaccaro – L’Angelo Custode.

Altro scrigno d’arte è la Cappella Firrao, ubicata sul lato sinistro dell'abside della chiesa lungo la parete presbiterale, considerata una delle espressioni barocche più riuscite dell’intero complesso religioso. La cappella, i cui  lavori iniziarono nel 1640 e terminarono appena due anni dopo, attualmente si presenta nel suo aspetto originario, con all’interno gli affreschi nella cupola opera  di Aniello Falcone che risalgono al 1641.

L'elemento centrale dell'ambiente è la scultura raffigurante la Madonna delle Grazie (1641), opera di Giulio Mencaglia, il quale ricevette tale commissione proprio da Cesare Firrao che volle quella scultura nella cappella di famiglia e che ne fu committente ufficiale, a testimonianza della devozione dei Firrao verso il culto mariano.

Ai lati della figura sacra vi sono le due principali figure della famiglia, inginocchiate dinanzi alla Madonna: sul lato sinistro è proprio Cesare Firrao, mentre sul lato destro è Antonio Firrao, padre di Cesare.

All’interno dello stesso complesso si trova la Sagrestia, interamente affrescata da Francesco Solimena verso la fine del Seicento con AngeliAllegorieVirtù e la Caduta di San Paolo e di Simon Mago sulle grandi pareti frontali: i lavori in sacrestia furono eseguiti secondo i più tipici canoni del barocco napoletano, con gli affreschi caratterizzati da incorniciature decorate con motivi fitomorfi e floreali, attraverso stucco e dorature di Lorenzo Vaccaro.

Ultimi nel complesso di San Paolo Maggiore sono i due Chiostri: il Chiostro Piccolo, eretto alla fine del ‘500 dai padri teatini, presenta una pianta rettangolare con un pozzo al centro a cui - si racconta – accorresse tutta la popolazione napoletana poiché conteneva l’acqua più fresca della città; contemporaneo alla sua edificazione è anche il Chiostro Grande, che dal 1866 è sede dell’Archivio Notarile della città.

Fig. 26 - Chiostro piccolo.

Nel complesso ha sede il primo Museo Permanente del Presepe napoletano. Qui è possibile ammirare il presepe che il maestro Antonio Cantone realizzò per Papa Francesco nel Natale del 2013 in piazza San Pietro e che fu successivamente restituito alla  città.

Esso ha trovato posto nella navata sinistra della chiesa e occupa una superficie di oltre sessanta metri quadrati. L’opera è composta da sedici figure, vestite con abiti del Settecento napoletano realizzati con tessuti in seta di san Leucio.

 

 

Bibliografia

Leonardo Di Mauro, San Paolo Maggiore, in "Napoli Sacra", Vol. 7, 1994

Nino Leone, La vita quotidiana a Napoli ai tempi di Masaniello, Milano, 1994

AA.VV., Napoli e dintorni, Touring Club Italiano Milano 2007

 

Sitografia

https://www.storienapoli.it/

www.enciclopediatreccani.it

https://www.napoligrafia.it/monumenti/chiese/basiliche/paolo/paolo01.htm

http://incampania.com/location/basilica-san-paolo-maggiore-napoli/

https://www.espressonapoletano.it/a-san-paolo-maggiore-il-museo-permanente-del-presepe-napoletano/

https://www.napoli-turistica.com/basilica-san-paolo-maggiore-napoli/

https://www.storienapoli.it/2016/03/07/san-paolo-maggiore-miti/

https://www.ilmattino.it/napoli/citta/a_piazza_san_gaetano_torna_la_statua_protettore_dei_presepai

https://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/146775-statua-di-san-gaetano-dono-al-santo-che-libero-napoli-dalla-pestilenza/

http://www.corpodinapoli.it

http://www.parthenolimpic.artplannerscuole.it/

https://books.google.it/

http://www.unesco.it/it/PatrimonioMondiale


HOKUSAI AL MUSEO «EDOARDO CHIOSSONE»

A cura di Fabio d'Ovidio

Genesi di una raccolta

L’importante collezione di stampe e pitture ukiyo-e presenti nell’attuale museo di arte orientale di Genova, intitolato a Edoardo Chiossone (Arenzano 1933 – Tokyo 1898) andò costituendosi, assieme all’intero patrimonio di questo ente, in un arco temporale di circa 23 anni (1875-1898), grazie proprio alla sua importante figura.

Chiossone, formatosi come incisore presso l’Accademia Ligustica di belle arti ed esperto nel settore dell’incisione e delle stampe delle carte valori, si trasferì nell’attuale capitale giapponese su diretto invito del governo stesso durante la restaurazione Meiji, al fine di presiedere alla direzione della nuova Officina Carte e Valori del Ministero delle Finanze; qui lavorò fino al pensionamento nel 1891, e rimase nel paese del Sol levante fino alla morte. Oltre allo svolgimento di questo compito, si occupò personalmente di realizzare le filigrane per banconote, francobolli, obbligazioni e titoli di stato che conferirono una precisa identità all’intero mondo della finanza in Giappone.

Fig. 3 - Edoardo Chiossone.

Il periodo storico in cui Edoardo Chiossone visse in Giappone si colloca cronologicamente tra il 1867 e il 1912, in un momento cruciale per la storia di questa nazione. Dopo il declino della famiglia Tokugawa a capo dello shogunato – che amministrò politicamente il Giappone tra 1603 e 1867 – il nuovo governo capì che per entrare in competizione industriale, tecnologica e finanziaria con le principali potenze occidentali, doveva aggiornarsi prendendo a modello quelle stesse potenze; per fare questo vennero chiamati da tutto il mondo studiosi occidentali, specializzati in vari settori, noti con il nome di Oyatoi gaikokujin (onorevoli stranieri noleggiati), con il fine di trasformare l’impero giapponese da un paese agricolo-feudale ad uno industrializzato. In realtà, l’apertura del Giappone al mondo occidentale era avvenuta a metà Ottocento, quando l’ammiraglio statiunitense Perry nel 1853 aveva obbligato il Paese a tale apertura, pena il bombardamento via mare della baia di Edo (la futura Tokyo, sede allora del governo shogunale): in seguito a questo evento si verificarono le firme di alcuni trattati con Olanda, Francia, Gran Bretagna, USA e Russia.

L'intera raccolta del museo fu inizialmente regalata attraverso testamento all'accademia di belle Arti della città di Genova, affinché l'intero patrimonio raccolto da Chiossone fosse esposto e reso accessibile al pubblico.

Tralasciando tutti i bronzi, le lacche, le stoffe, i libri e le armi esposti, le stampe e le pitture ukiyo-e appartenenti ai periodi Edo e Meiji costituiscono la più importante collezione di questo tipo presente sul suolo italiano; inoltre questa raccolta di opere figurative è conosciuta nel mondo come una tra le più corpose di esemplari antichi e rari in ottimo stato di conservazione, selezionati da Edoardo Chiossone stesso grazie alla sua conoscenza in campo grafico.

Sotto il profilo iconografico, l'intero insieme di stampe e dipinti qui presenti abbracciano l'intero corpus di soggetti e temi raffigurati, andando così a testimoniare e a ricostruire tutte le tappe dell'evoluzione stilistica di questo particolare linguaggio artistico tra la metà del XVII secolo sino alla fine del XIX.

Per formare questa collezione l'incisore genovese si appoggiò e sfruttò la conoscenza del pittore Kawanabe Kyosai (1831-1889), il quale raccoglieva in sé non solo l’eredità della scuola classica di pittura Kano, ma anche quello della scuola ukiyo-e tramandatogli da Utagawa Kuniyoshi (1798-1861), che seppe indirizzarlo nell’acquisto delle differenti opere d’arte oggi presenti a Genova.

Storia del museo e delle sue sedi

Non appena l'intera collezione che Edoardo Chiossone aveva raccolto durante il suo periodo in Giappone raggiunse la città di Genova, nel 1905, trovò sistemazione al piano nobile della sede dell'Accademia di belle Arti. Durante questo periodo venivano esposti in maniera permanente circa 150 dipinti ukiyo-e e decine di stampe dei principali artisti di questo movimento.

Seguendo le condizioni che Chiossone aveva inserito nel proprio testamento in merito all'esposizione di questa raccolta, il comune del capoluogo Ligure nel 1948 approvò la progettazione e costruzione di una sede ad hoc stabile e definitiva per raccogliere il museo. L'area ad esso dedicata venne rintracciata all'interno del parco cittadino dove sorge villetta Di Negro, una residenza ancora presente in città, ma inagibile a causa dei bombardamenti subiti durante la Seconda Guerra Mondiale. L’edificio, ideato dall'architetto Mario Labò, venne costruito nel corso di tutti gli anni ’50 e ’60, per poi essere inaugurato nel maggio 1971. Sotto un profilo meramente estetico il complesso museale presenta una struttura di gusto razionalista con all'interno un grande piano terreno rettangolare da cui si innalzano cinque gallerie a sbalzo che seguono la lunghezza dei due lati maggiori dell'edificio.

Nell’esposizione del piano terreno sono presenti una serie di grandi statue in bronzo, fuso a cera persa, che raffigurano un Buddha nella posizione del loto, un karashishi (animale mitico della tradizione orientale, dalle forme canine, protettore delle abitazioni), e un gruppo di gru.

Nelle prime quattro gallerie, conservati in teche, si trovano una serie di manufatti e prodotti artistici dell’Asia orientale: specchi, statue raffiguranti il Buddha storico in differenti posizioni dello yoga e realizzate in differenti materiali, maschere del teatro classico dei no armature complete da guerrieri samurai, servizi da tè e armi.

Nell’ultima galleria invece sono presenti teche che sovente sono vuote: questo non è dovuto ad una dimenticanza dei vari curatori nell’esposizione delle opere presenti né ad una penuria di oggetti, quanto al fatto che queste teche servono per accogliere le punte di diamante della collezione, ovvero i dipinti e le stampe che per motivi di conservazione posso essere esposti circa 60 giorni in 2 anni, a temperatura, umidità e luce controllata onde evitare che le singole opere si danneggino, anche perché sono per natura sprovviste di una cornice – in senso occidentale – di supporto. Questa particolare procedura espositiva non è solo dettata da motivazioni di conservazione artistica, ma anche dalla modalità tradizionale con cui i giapponesi espongono le proprie opere d’arte: questi infatti – a differenza degli occidentali che espongono le opere in maniera perpetua – decidono a seconda del periodo dell’anno di esporre determinate opere e di celarne altre, che vengono riposte in appositi contenitori conservati in stanze estremamente sicure.

Katsushika Hokusai (1760-1849): biografia e opere

Hokusai, grazie alla fama di cui gode in Occidente, merita di essere inserito nel novero dei maggiori pittori della storia dell’arte mondiale. Condusse la sua esistenza e la sua attività artistica prevalentemente nella capitale amministrativo/shogunale Edo (oggi Tokyo). Venne introdotto al mondo della cultura borghese da Katsukawa Shunsho, ma si ritiene abbia anche frequentato gli atelier di altri artisti ukiyo-e.  Durante la sua attività artistica realizzò migliaia di opere impiegando tecniche differenti: xilografia, disegno, pittura, grafica editoriale e manualistica per artigiani e futuri pittori. Il suo operato ha dato origine a composizioni innovative, e i suoi colori hanno una risonanza non solo tra gli artisti nipponici a lui successivi, ma anche tra quelli occidentali: nei decenni dopo la sua morte – complice anche l’apertura del Giappone alle potenze Occidentali – si assistette in tutta Europa alla moda del giapponismo al punto tale che molti artisti, soprattutto impressionisti, collezionarono stampe giapponesi o ne eseguirono copie pittoriche (vedere tra gli altri Van Gogh).

Hokusai, che significa Atelier del Nord, non è il suo vero nome ma l’artista iniziò ad impiegarlo dal 1796, il che dimostra, con gli altri nomi da lui impiegati, un’immensa devozione al culto dell'Orsa Minore. Nel corso dei suoi 90 anni di vita, l'artista scelse di assumere nomi diversi, al fine di rimarcare le differenti fasi del suo operato e del suo linguaggio artistico. Sebbene nel corso della sua vita cambiò oltre 120 nomi circa, la critica ha stabilito per convenzione di suddividere la sua produzione attorno a soli sei.

Il nome impiegato per indicare l’artista durante la produzione giovanile e la sua formazione sotto Katsukawa Shunsho è Shunro (1778-1795) che significa splendore di primavera. A questa prima fase risalgono le stampe che hanno come soggetti gli attori kabuki[1]  e le cortigiane di Yoshiwara[2].

Dopo la morte del maestro, l’artista decise nel biennio 1795-1797 di assumere il nome di Sori Hokusai: durante questi due anni, Hokusai iniziò a frequentare sempre più assiduamente i circoli letterari di Edo. Sotto il profilo artistico incominciò ad eseguire illustrazioni per antologie diverse e stampe per una cerchia di clienti raffinata, colta e sensibile. In queste opere, l’artista cominciò ad esprimere un proprio stile originale, al punto che la sua produzione iniziò ad essere tenuta in gran conto dagli ambienti letterari e soprattutto dai poeti.

Dal 1798 al 1805 l’artista prese il nome di Katsushika Hokusai. A cavallo tra i due secoli, continuò con la produzione di opere che avevano segnato la fase precedente. Maturò nuove esperienze ed interessi tra cui il gusto per l'eccentrico e per le tecniche di rappresentazione dello spazio usate in Occidente, come la prospettiva geometrico-lineare. Al 1804 risale la pubblicazione della serie di stampe Le 53 stazioni del Tokaido: con quest'opera si affermò in maniera definitiva e univoca la fama della sua arte al grande pubblico.

In tutto il terzo decennio del XIX secolo (1810-1820) Hokusai è noto come Katsushika Taito. Questi furono gli anni in cui si dedicò principalmente alla manualistica, tra le varie pubblicazioni si possono citare le Istruzioni per disegni rapidi e il primo dei dodici volumi del Manga (1819), una vera e propria enciclopedia dedicata al disegno, l’ultimo volume sarà edito nel 1832.

Nei 14 anni successivi (1820-1834) assunse il nome di Iitsu (nuovamente uno), a manifestare un totale rinnovamento. Questa fase è ricchissima di opere rilevanti, tra queste la serie delle Trentasei vedute del monte Fuji (di cui fa parte la Grande Onda 1830-1832).

Negli ultimi 15 anni della sua vita, si fece chiamare Gakyorojin Manji (Il vecchio pazzo per la pittura). A questo fase è datata l’edizione in tre volumi delle Cento vedute del monte Fuji (1835-1847/1849).

 

Note

[1] Il kabuki è il teatro borghese, nato nel corso del ‘600 e avente come soggetto l’esaltazione della vita dei borghesi.

[2] Yoshiwara era il quartiere dei piaceri della capitale amministrativo-shogunale Edo. Il termine cortigiana è un false friend, non indica una donna di corte, ma una prostituta; solitamente con questo termine si fa riferimento ad una prostituta colta in grado di intrattenere il proprio cliente non solo sessualmente, ma anche sotto un profilo intellettuale. Da non confondere assolutamente con geisha che era una mera intrattenitrice, sebbene anche loro spesso instaurassero con i loro clienti relazioni carnali.

 

Bibliografia

Donatella Failla, La rinascita della pittura giapponese. Vent'anni di restauri al museo Chiossone di Genova. Catalogo della mostra, Genova, 27 febbraio-29 giugno 2014

Donatella Failla, Dipinti e stampe del mondo fluttuante: capolavori Ukiyoe del Museo Chiossone di Genova, Genova 2005

Donatella Failla, Capolavori d’Arte Giapponese dal periodo Edo alla Modernizzazione. Catalogo della mostra. Genova, 25 Luglio 2001 - 16 Giugno 2002

Donatella Failla (a cura di) Edoardo Chiossone, un collezionista erudito nel Giappone Meiji. Catalogo mostra, Roma, 31 gennaio - 16 marzo 1996

Visite guidate presso il Museo Chiossone tenute dalla professoressa Donatella Failla, già curatrice del museo

Lezioni universitarie del corso Storia dell’arte dell’Asia orientale tenuto dalla professoressa Donatella Failla

 


IL COMPLESSO DEL CASTELLO DI SQUILLACE

A cura di Felicia Villella

Dal passato mitico e glorioso, Squillace vanta la sua fondazione per mano di Odisseo che, in viaggio verso la sua amata Itaca, sbarcò in seguito ad una tempesta in una terra compresa tra il fiume Alessi e il fiume Corace. Altre teorie vogliono che sia stata fondata, invece, da Menesteo, re di Atene.

Conosciuta in antichità come Skyllation, è citata anche nell’Eneide di Virgilio, grazie alla sua importanza come porto militare e commerciale.

Alla colonia greca si sostituì il sito romano di Scolacium, che non si sovrappose all’insediamento precedente, sviluppandosi invece al suo fianco perdendo, tuttavia, quell’egemonia commerciale di cui aveva goduto per tanto tempo.

Inquadramento storico

Il borghetto medievale di Squillace nacque nel periodo di occupazione normanna, durante il processo di latinizzazione del territorio calabro a discapito dei bizantini ivi presenti. Esso occupa un colle lambito dal fiume Alessi e da un suo affluente, il Ghetterello, che funge da difesa naturale, mentre si distinguono, da fuori, due vette su cui poggiano il castello vero e proprio e una torretta, detta vecchio castello, un tempo collegate dalla cinta muraria.

Durante la reggenza normanna, il borgo sviluppò un’egemonia politico-amministrativa che andava di pari passo con quella religiosa; difatti fu proprio in questo momento storico che Ruggero d’Altavilla fece dono a Bruno di Colonia di una serie di terreni ove istituire la certosa di Serra San Bruno.

A Federico II si deve, con molta probabilità, la costruzione della torre poligonale sul lato est del recinto. Dopo la sua morte (1250) il castello venne infeudato sotto diverse famiglie e per molto tempo.

Fig. 1 – Pianta del castello e assetto murario, photo credit http://www.iluoghidicassiodoro.it/i-musei/il-castello-normanno-di-squillace/.

Nel 1485 il castello fu posto sotto il controllo di Federico d’Aragona e poi, circa dieci anni più tardi, passa alla famiglia Borgia dopo uno sposalizio di interesse tra Goffredo, fratello della più famosa Lucrezia, e Sancha d’Aragona; a testimoniarlo lo stemma nobiliare che campeggia sul portale di ingresso. Questo sodalizio sancì una ferma alleanza tra papa Alessandro VI Borgia e Alfonso II d’Aragona.

I Borgia controllarono il castello fino al 1729; poi, per mancanza di eredi, quest’ultimo tornò a far parte del demanio regio per poi passare, nella seconda metà del 1700, sotto il controllo dei De Gregorio insieme all’intero borgo.

Le architetture

I Normanni, per imporre la loro presenza in un territorio fortemente grecizzato, adottarono l’abitudine di impostare le proprie architetture secondo schemi a loro riconducibili. Come prima cosa sostituirono l’uso dei mattoni, proprio dei romani e dei bizantini, con quello della pietra locale. Difatti il castello di Squillace è interamente realizzato in granito, materiale facilmente reperibile in zona.

Fig. 2 – Veduta aerea del Castello di Squillace. Photo credit https://media-manager.net/storage/italiagustus/media=res_1200-630/structure/1118/005.jpg

La composizione è abbastanza scontata e tipica dell’impianto normanno: tutto il complesso ruota infatti attorno al donjon, un torrione rettangolare largo oltre 10 metri che fa anche da fortezza. Si sviluppava a partire da un un pianoterra chiuso, destinato alla funzione di magazzino per le derrate alimentari, seguito da un primo piano composto da una sala ricevimenti, da un secondo piano con una sala privata ed infine dal terrazzo completamente merlato.

Risale al XII secolo, invece, la costruzione della prima cinta muraria di protezione insieme alla creazione di un corridoio di fuga, che fiancheggia il muro di cinta con entrata a chicane, seguito da una scalinata molto ripida che permetteva un veloce allontanamento dal castello.

Fig. 3 – Torre circolare di ingresso, photo credit https://lh3.googleusercontent.com/proxy/4avbh0AnJCD3SfAjqDuG9ceB-gP7KZ25aqXRzKycQraj5xTIgqtis1mFYogJGKJcwyhh4.

Fu grazie a Federico II che vennero ultimati i lavori di ammodernamento e di rinforzo dovuti ad un clima politico incerto: venne aumentata la pertinenza perimetrica del castello e dunque aggiunta una nuova cinta muraria con torre poligonale; fu realizzata un’aula, detta Palazzo, di forma rettangolare e dotata di bagni con acqua calda e fredda.  A tal proposito vennero aggiunte anche due cisterne per la raccolta dell’acqua piovana. Agli Angioni si deve invece l’ultimo aggiustamento delle mura e l’aggiunta di una torre circolare posta all’ingresso del castello.

I Borgia, infine, avviarono un progetto che prevedeva la creazione di un altro palazzo dagli ampi finestroni, sui resti di quello federiciano, che non verrà mai terminato.

Dal castello è possibile osservare i resti della torretta: secondo gli scritti risalenti al XVII secolo del domenicano Giuseppe Lottelli, si tratterebbe di una struttura da differenziare rispetto al castello. Tale torretta, infatti, era presente prima ancora che i normanni lo erigessero.

Curiosità

La tradizione vuole che Squillace abbia dato i natali al senatore Cassiodoro nel 485 circa. Al termine della guerra greco-gotica il senatore ritornò nella sua città natia e fondò il monastero di Vivario che includeva un centro studi biblico e una importante biblioteca.

Una campagna di scavi portata, avanti dall’École Française all’interno del castello negli anni Novanta, portò alla luce una sepoltura nei pressi della torre poligonale (una coppia di scheletri abbracciati).

L’orientamento degli arti è verso nord-est, mentre le mani si intrecciano e le teste sono rivolte l’una verso l’altra. Si tratta di un uomo e una donna, vissuti tra il 1200 e il 1300, dalla notevole altezza per gli abitanti del posto; di fatti si è ipotizzato che si trattasse di persone provenienti dal nord. Storici locali hanno battezzato la sepoltura come “tomba degli amanti”, fantasticando sui personaggi quando erano in vita e sulle cause della loro morte. Tra le ipotesi si suppone un amore travagliato, nato in un contesto storico particolare per il territorio di Squillace, conteso tra più dinastie: che siano stati, forse, sepolti vivi?

Un’ulteriore campagna di scavi, condotta sempre negli anni Novanta nella sala principale del castello, ha portato alla luce un’ulteriore sepoltura; si tratterebbe, questa volta, di due soldati. Un ritrovamento importante che ha portato a nominare la camera “sala dei guerrieri”.

Fig. 4 – Tomba degli amanti, castello di Squillace, photo credit https://www.yescalabria.com/it/il-castello-di-squillace-e-il-mistero-degli-amanti/.

Gli scavi archeologici del 2008, invece, portarono alla luce una necropoli del VI/VII secolo d.C. In questo caso le persone rinvenute dovettero, in vita, appartenere ad un ceto sociale abbiente, come dimostrano i ricchi corredi rinvenuti: reperti ceramici raffinati, orecchini e monili di argento e pettini in avorio. La datazione è sicuramente precedente rispetto all’VIII secolo d. C., questo perché sono stati rinvenuti i resti di un banchetto funebre, vietato dalla chiesa cristiana proprio in questo secolo, perché troppo affine al rito pagano.

Documenti ufficiali attestano inoltre che proprio nel castello, nel giorno 29 luglio del 1098, il conte Ruggero d’Altavilla, che qui soggiornava, ricevette San Bruno di Colonia, alla presenza del beato Lancino e di Teodoro Misimerio, ultimo vescovo di rito greco.bizantino.

Inoltre, a causa della posizione in cui è stato costruito il castello (prima dell’edificazione di quest’ultimo insisteva sul luogo un insediamento bizantino, sopraelevato rispetto al resto dell’abitato) e della sua forma irregolare, frutto di continui rifacimenti e aggiunte, il complesso è detto localmente Stridula, proprio perché, se attraversato dai venti, produce un rumore acuto particolarmente accentuato.

Come ultima curiosità è bene ricordare che Giovanni Verga ambientò il suo primo romanzo storico, I Carbonari della montagna, proprio tra le mura della torretta.

 

Bibliografia

Mafrici, Squillace e il suo Castello nel Sistema Difensivo Calabrese, Oppido Mamertino (RC) 1980;

Mulè, Scyllaceum prima urbium Brettiorum, Chiaravalle Centrale (RC) 1983;

Codispoti, Skylletion-Scolacium-Squillace e Cassiodoro, Chiaravalle Centrale 1976;

 

Sitografia

https://www.yescalabria.com/it/il-castello-di-squillace-e-il-mistero-degli-amanti/

http://www.iluoghidicassiodoro.it/i-musei/il-castello-normanno-di-squillace/

http://www.castellosquillace.it/

http://www.cassiodoro.it/squillace-di-cassiodoro/

https://media-manager.net/storage/italiagustus/media=res_1200-630/structure/1118/005.jpg

https://lh3.googleusercontent.com/proxy/4avbh0AnJCD3SfAjqDuG9ceB-gP7KZ25aqXRzKycQraj5xTIgqtis1mFYogJGKJcwyhh4


SAN MAURO E I LUOGHI DEL PASCOLI

A cura di Jacopo Zamagni
Fig. 1 - Ritratto di Giovanni Pascoli.

La Romagna, oltre a conservare splendidi borghi e castelli medievali, ha visto nascere tante personalità illustri destinate a rimanere nel firmamento della storia dell’arte e della cultura. Questo articolo concentrerà l’attenzione su una figura che, come poche altre, ha creato un legame indissolubile tra il suo paese natale, San Mauro di Romagna, e le sue opere: Giovanni Pascoli, uno dei più importanti poeti italiani dell’Ottocento e figura di spicco, insieme a Gabriele D’Annunzio, del Decadentismo italiano.

San Mauro Pascoli è un piccolo municipio situato nei pressi del Rubicone compreso in un’area fra la via Emilia e il mare. Non lontano dal comune si innalza maestoso il palazzo settecentesco della Torre, cuore della tenuta dei principi Torlonia, dove visse anche Giovanni Pascoli quando era fanciullo. Il compendio sorge nei pressi dell’antica Giovedìa, un tempio romano dedicato a Giove Capitolino difronte al quale, secondo la tradizione, Giulio Cesare sostò in preghiera dopo l’attraversamento del Rubicone.

Circa a metà del XII secolo in Romagna cominciarono ad affermarsi le autonomie comunali e San Mauro diventò parte del feudo dei Malatesta, potente famiglia che in questa regione vantava svariati possedimenti e numerosi castelli. Durante il periodo del dominio malatestiano, San Mauro venne inserita nell’ambito territoriale del castrum Savignani, ma i Sammauresi non accettarono questa collocazione e, nella prima metà del XV, secolo riuscirono ad ottenere l’autonomia. Ai Malatesta subentrarono gli Isei, poi gli Zampeschi ed infine i Riario. L’inizio del Cinquecento vide l’arrivo di Cesare Borgia detto il Valentino, figlio di papa Alessandro VI. Alla morte del pontefice San Mauro passò per brevissimo tempo alla Repubblica di Venezia per essere ceduta nuovamente al Papa, che assegnerà il feudo ancora ai Riario e poi agli Zampeschi. Nel 1578 S. Mauro ritornò sotto il diretto dominio della Chiesa e seguì tutte le vicissitudini del territorio romagnolo fino all’Unità d’Italia.

Nel marzo del 2019 è stato inaugurato il Parco Poesia Pascoli, un progetto culturale promosso dall’amministrazione comunale di san Mauro Pascoli che vuole valorizzare sia la figura di Giovanni Pascoli che gli edifici storici del territorio sammaurese. I beni inclusi nel succitato progetto che verranno di seguito illustrati sono il Museo Casa Pascoli e Villa Torlonia, nota anche come “la Torre”.

MUSEO CASA PASCOLI

Fig. 2 - Ingresso del Museo Casa Pascoli.

Il Museo Casa Pascoli è la casa che, il 31 dicembre 1855, ha dato i natali a Giovanni Pascoli e che lo ha ispirato per alcuni dei suoi più noti componimenti. Pascoli visse qui fino all’età di sette anni, per poi trasferirsi coi fratelli maggiori al collegio di Urbino; trascorrerà poi a San Mauro le vacanze estive. Come molti edifici storici romagnoli, anche Casa Pascoli subì ingenti danni durante la Seconda Guerra Mondiale e fu necessario ristrutturare l’edificio per poterlo riportare al suo aspetto originario.

Fig. 3 - Museo Casa Pascoli con annesso giardino esterno.

La casa all’esterno si presenta con un’architettura molto sobria, tipica delle case di campagna ottocentesche. Una volta varcato l’ingresso troviamo sulla destra la cucina, l’unico degli ambienti domestici ad essere scampato ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale e che si può ammirare nel suo aspetto originale. La stanza presenta in alto una grande trave in legno e in fondo un grande focolare con utensili e mobili d’epoca.

Salendo al primo piano della casa, si accede agli ambienti più intimi e suggestivi. La prima stanza è la camera da letto, all’interno della quale si trovano la culla in legno appartenuta al piccolo Giovanni e una teca che conserva alcune lettere scritte da Pietro Guidi detto “Pirozz” , amico fraterno del poeta.

Di fronte alla camera da letto si trova lo studio del Pascoli, dove sono esposti importanti documenti storici, come le prime edizioni delle poesie pascoliane con dediche autografe che l’autore donò al Comune di San Mauro.

Fig. 8 - Studio del Pascoli e sullo sfondo libri e vocabolari appartenuti al poeta (da Archivio fotografico Museo Casa Pascoli).

La visita prosegue nell’adiacente giardino dove, ancora oggi, si conservano alcune delle specie botaniche che Pascoli citò nei propri componimenti, tra cui le rose rampicanti, i giaggioli e l’erba cedrina.

Fig. 9 - Giardino esterno del Museo Casa Pascoli.

La visita si conclude giungendo al cospetto della chiesetta dedicata alla Madonna dell’Acqua, un piccolo oratorio annesso al giardino di Casa Pascoli che fu luogo di consolazione spirituale per la madre del poeta, il quale, nel maggio del 1897, scrisse ai suoi amici di San Mauro: «E l’ospite saluterà commosso il mio mondo ideale che ha per confini l’Uso e il Rio Salto e per centro la chiesuola della Madonna dell’Acqua e il camposanto fosco di cipressi».

Fig. 10 - Chiesetta della Madonna dell‘Acqua.

VILLA TORLONIA (LA TORRE)

Fig. 11 - Complesso di Villa Torlonia.

Villa Torlonia è un grande residenza rustica situata a pochi chilometri di distanza da San Mauro Pascoli. E’ giunta fino a noi nell’aspetto che si consolidò nel XVIII secolo. L’edificio, già proprietà dei principi Torlonia, è formato da un corpo centrale contenente un ampio cortile interno e due edifici minori laterali: il primo, sulla sinistra, serviva come abitazione del fattore e magazzino; l’altro, sulla destra, è la piccola chiesa ottocentesca dei Santi Pietro e Paolo. La parte più antica di Villa Torlonia è rappresentata dalle cantine sottostanti l’attuale sala degli Archi, corrispondenti alle fondazioni del Castrum di Giovedìa (XI secolo).

La Torre riveste una particolare importanza non tanto per l’interesse artistico, quanto per la testimonianza che offre di un mondo agricolo ormai scomparso, dell'organizzazione sociale ed economica di cui le varie aree dell'edificio sono espressione. Villa Torlonia si impose nel tempo come una tenuta agricola di primaria importanza per il territorio romagnolo e non solo, raggiungendo livelli di assoluta eccellenza. Fra i prodotti che si affermarono a livello internazionale si ricordano i vini - compreso uno spumante denominato pretenziosamente “La Tour” - e la selezione delle razze bovine, che portarono alla vittoria in importanti concorsi nazionali ed esteri.

Fig. 15 - Cortile interno di Villa Torlonia.

La Corte di Giovedìa fu riconvertita da castello a masseria fortificata dominata da un’imponente torre, così come la si può vedere rappresentata nella Galleria delle Carte Geografiche dei Musei Vaticani.

Fig. 16 - Torre di Giovedìa.

Nel XVIII secolo la proprietà del complesso passò al nipote di Pio VI, Luigi Onesti Braschi. Nel secolo successivo divenne proprietà del principe Alessandro Torlonia, il quale nominò Giovanni Pascoli senior amministratore dei suoi beni in Romagna. A questi succedette per un breve periodo il figlio Ferdinando, il quale però morì improvvisamente. Nel 1855 gli subentrò il nipote Ruggero, che sostituì lo zio Giovanni anche nel ruolo di mandatario dei Torlonia. Ruggero aveva sposato, nel 1849, la sammaurese Caterina Vincenzi Allocatelli e i coniugi avevano fissato la loro dimora nella casa di lei, in paese. Qui nacquero ben dieci figli fra cui Giovanni (1855-1912), il futuro poeta.

La famiglia si trasferì alla tenuta della Torre nel 1862, e lì rimase fino al 1867, data della tragica morte - rimasta impunita - di Ruggero Pascoli, assassinato sulla via Emilia da due sicari mentre tornava in calesse da Cesena. Questo grave lutto stravolse la vita di tutti i membri della famiglia, i quali furono costretti a fare ritorno alla casa materna dove, purtroppo, sia la sorella che la madre si spensero l’anno successivo. Questi ulteriori drammatici eventi causarono la dispersione dei restanti membri della famiglia, i quali riportarono gravi traumi psicologici, come si evince dalle loro tormentate vite e dalle pagine poetiche del Pascoli.

Fig. 17 - Ritratto della famiglia Pascoli.

Nel secolo scorso la proprietà di Villa Torlonia fu smembrata e gli edifici furono in gran parte abbandonati, andando incontro ad un inesorabile deterioramento Nel 1974 il compendio è stato dichiarato di interesse storico dal Ministero della Pubblica Istruzione. Nel 1983 il Comune di S. Mauro ne ha acquisito la proprietà e lo ha restaurato, rendendolo fruibile alla collettività. Attualmente la struttura ospita convegni, spettacoli teatrali, mostre temporanee ed il Museo Multimediale Pascoliano.

 

Bibliografia

SUSANNA CALANDRINI, San Mauro; Giovedìa; La Torre, Pazzini Industria Grafica s.r.l., Verucchio, 1989.

ACCADEMIA PASCOLIANA SAN MAURO PASCOLI, Il Supplemento ai Quaderni di San Mauro – 4 – Giovanni Pascoli LA TORRE San Mauro, Tipografia BAIARDI s.n.c., San Mauro Pascoli, 1995.

SUSANNA CALANDRINI, Storia di S. Mauro Pascoli, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena, 2000.

 

Sitografia

www.casapascoli.it

www.parcopoesiapascoli.it


CORRADO PELLINI: IL “PITTORE DEL SILENZIO”

A cura di Matilde Lanciani
Autoritratto, 1930.

Corrado Pellini è stato un artista marchigiano protagonista del movimento di Ritorno all'Ordine fra i due conflitti mondiali, poco conosciuto dalla critica per via della morte prematura a soli 25 anni per tubercolosi, che non diede modo al promettente talento del pittore di manifestarsi appieno. Nacque a Montelupone, in provincia di Macerata, nel dicembre del 1908 da una modesta famiglia: il padre Aurelio, brigadiere della finanza e la madre Adalgisa, sarta ma affetta da malattia invalidante. L’eccezionale talento di Pellini emerse già quando frequentava la Scuola d’ Arte a Macerata e fu evidenziato dal  prof. Lazzaro, che lo volle come suo assistente per l’esecuzione di alcuni lavori di pittura e decorazione a Treia, all'Istituto Salesiano di Macerata, a Fiuminata e Caramanico. A questi anni appartiene una serie di paesaggi della campagna maceratese, in cui si esprimono l’essenzialità dei volumi e la linearità della pennellata.

Viale di arbusti, 1927 ca., olio su legno, collezione privata.

Dopo aver conseguito la licenza della scuola superiore, si iscrisse nel 1930 all'Accademia delle Belle Arti di Roma diretta da Ferruccio Ferrazzi su spinta dello stesso prof. Lazzaro e dell’artista Cesare Peruzzi, il quale aveva esposto nel 1915 alla Terza Mostra Internazionale della Secessione di Roma a fianco di  Cézanne, Renoir e Casorati.  In questo periodo Pellini collaborò alla realizzazione degli affreschi del soffitto di Palazzo Venezia con il prof. Dal Prai, condividendo con lui gli aspetti positivi e le problematiche dell’avventura romana che gli diede occasione di conoscere e frequentare molti degli artisti della scuola romana (Scipione, Mafai, Trombadori, Pirandello).

A causa della mancanza di mezzi finanziari non poté continuare a frequentare l’Accademia a lungo ed  iniziò anche ad avvertire i primi sintomi della tisi, che lo avrebbe poi inevitabilmente portato alla morte il 18 marzo del 1934. Tornò quindi a Montelupone dove si ritirò nel suo studio a dipingere: il suo più grande successo fu la sua personale a Macerata nel 1932 insieme ad artisti marchigiani come Bartolini, Ciamberlani, Bruno Da Osimo, Mainini e in seguito, nel 1933, la prima mostra a Montelupone. L’artista era molto amato dai giovani che erano soliti ritrovarsi nel suo studio a chiedere consigli e ad osservare il suo lavoro.

La retrospettiva a lui dedicata, nel 2004, proprio a Montelupone,  presentava 300 opere di cui alcune facenti parti di collezioni private. L’artista era solito utilizzare la tavola di compensato dove dipingeva da entrambi i lati ed era inoltre inserito in un gruppo di artisti maceratesi degli anni ’20-’30 appartenenti alla scapigliatura futurista. Ciò è testimoniato dai contatti con Mario Buldorini, pittore e scenografo tra i fondatori del “Gruppo Boccioni” a Macerata e Ivo Pannaggi, rinomato pittore futurista. Infatti a Porto Sant'Elpidio, sempre in provincia di Macerata, alcuni dei discendenti di quest’ultimo hanno segnalato l’appartenenza di uno dei quadri del Pellini a Pannaggi, che lo aveva acquistato per poi regalarlo a sua figlia. Sono stati infatti reperiti alcuni pezzi non firmati ma riconducibili all'autore grazie all'indagine del critico Lucio Del Gobbo e agli studi di Goffredo Giachini. Dal 1929-30 l’artista iniziò a firmarsi con uno stile grafico che seguiva la moda liberty, dal 1925 in poi la sua tecnica ebbe una svolta: dalla pennellata veloce, ricca di fraseggi cromatici, passò ad una composizione a larghe campiture di colore con un’evocativa sintesi coloristica.

Pellini fu sicuramente influenzato dal clima fervente in ambito artistico post-bellico: gli impressionisti, “ultima raffica di gioia e felicità”, come sottolineava Montale (Giachini), avevano segnato una già netta chiusura verso la tradizione. A Roma la rivista “Valori Plastici” con Carrà, De Chirico e Melli tentava il ritorno all’ordine ormai totalmente soppiantato dalle avanguardie come Cubismo e Futurismo. Si ricorda la partecipazione dell’artista alla 93° Rassegna per Amatori e Cultori nella sala Picena a Roma, la collettiva del 1935 e quella del 1995 a Macerata.

Le opere di Corrado Pellini, che è stato definito “il pittore del silenzio” per il suo raccolto lirismo, sono caratterizzate da una calma e serena pacatezza e da un'ineluttabile attesa. I soggetti sono cieli lividi e nature morte, nudi delicati ed elementi naturalistici come alberi contorti e paesaggi marchigiani con ulivi e vegetazione locale, albe e tramonti, ambientazioni marine. I toni sono lievi e morbidi, esprimono la spensieratezza di un artista ancora ventenne che è costretto ad abbandonare una carriera promettente e la sua stessa vita per colpa della malattia. Semplicità e onestà i caratteri portanti della sua poetica. Enrico Franchi, letterato e giornalista, scrisse su di lui:

“La sera che si avvicina, è tutta armonia di tinte delicate, quelle che formano una delle attrattive di questa luminosa provincia. Un’armonia fatta per ispirare pittori e poeti dall'anima pura”.

Panorama, 1927, olio su compensato, 28x45 cm, collezione privata.

 

Bibliografia e Sitografia

http://www.larucola.org/2014/07/04/i-paesaggi-di-corrado-pellini/

http://www.valledelpensare.it/it/punto-di-interesse/poi/casa-natale-corrado-pellini-79/

Con la gentile concessione del materiale fotografico e documentario da parte del prof. Goffredo Giachini.


UMBERTO BOCCIONI AL MUSEO DEL NOVECENTO

A cura di Michela Folcini

Per poter apprezzare a pieno l'arte di Umberto Boccioni, nella fattispecie le opere conservate al Museo del Novecento di Milano, è necessario introdurre alcuni concetti riguardo le pratiche artistiche dei primi decenni del secolo XX.

Le Avanguardie europee

La tendenza a liberare definitivamente il colore puro e il disegno dalle tradizionali convenzioni che avevano governato il modo di fare pittura porta all’affermazione, nei primi anni del Novecento, della nascita di nuovi linguaggi artistici, definiti oggi dagli storici dell’arte come Avanguardie.

Il termine Avanguardia – che deriva dal linguaggio militare – indica movimenti e gruppi di artisti che operano con posizioni più spericolate rispetto alla maniera e al gusto in quel momento dominanti, e fautori di un radicale rinnovamento delle inclinazioni e intenzioni dell’arte contemporanea.

Ma dove nascono e dove si sviluppano questi nuovi linguaggi?

L’Europa degli anni Dieci e Venti è il terreno su cui sorgono le Avanguardie. Gli artisti più anticonvenzionali lasciano il loro contributo nella consolidazione di queste correnti pittoriche, che si riveleranno fondamentali per lo sviluppo dell’arte contemporanea dei decenni successivi.

In Francia Henri Matisse fonda il gruppo dei fauve, corrente dell’Espressionismo francese, che si inserisce in dialogo diretto con quella di Dresda nata nel 1905 e conosciuta come il gruppo Die Brücke; nel 1907 Pablo Picasso esordisce con l’opera Les demoiselles d’Avignon inaugurando definitivamente la stagione del Cubismo; nel 1909 l’Italia contribuisce alla diffusione delle avanguardie attraverso la nascita del Futurismo; a Monaco tra il 1911 e 1912 Kandinskij pone le basi per l’Astrattismo, linguaggio artistico che sconvolgerà definitivamente l’approccio pittorico; infine, in continuità con le prime avanguardie, si inseriscono nel panorama europeo altri movimenti: Dadaismo, Surrealismo, Neoplasticismo o De Stijl e l’Art Nouveau.

L’era del Futurismo: avventura, grinta, velocità

Nel febbraio del 1909 Filippo Tommaso Marinetti, principale animatore del gruppo, traccia i fondamentali lineamenti del Futurismo in Fondazione e Manifesto del Futurismo, pubblicato a Parigi e a Milano. Un anno dopo la pubblicazione del manifesto ufficiale, gli artisti Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla e Gino Severini firmano il Manifesto dei pittori futuristi che sancisce l’estensione delle linee del Futurismo nel campo delle arti figurative.

La pittura futurista cerca di ricollegarsi ai filoni artistici di Manet, Monet, Matisse, Cézanne, all’interno dei quali il colore e la forma sono gli assoluti protagonisti. Tra i caratteri del nuovo movimento si evidenzia il rifiuto dell’immobilità della tradizione e l’affermazione di una nuova estetica della velocità.

L’arte futurista vuole esaltare ogni forma di originalità, anche se temeraria, anche se violenta, per arrivare, con nuovi mezzi a rendere e magnificare la vita odierna, incessantemente e tumultuosamente trasformata dalla scienza vittoriosa” (da “Il Manifesto dei pittori futuristi”). Scrive Umberto Boccioni, principale esponente del Futurismo italiano, che “Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido”. Sono le parole che scrive nel Manifesto tecnico del 11 aprile 1910, parole accolte da tutti gli artisti del movimento e testimoni di un nuovo sguardo nei confronti dell’arte, della società e della politica.

Boccioni nelle collezioni del Museo del 900 di Milano

Il Museo del Novecento di Milano, uno dei più importanti e conosciuti musei dedicati all’arte contemporanea, conserva all’interno dei suoi spazi una sezione dedicata alle opere futuriste. Nelle sue sale è possibile ripercorrere gli sviluppi cronologici e artistici del Futurismo italiano grazie alla presenza di un nucleo di opere d’arte dedicato ai grandi esponenti di questa corrente: Umberto Boccioni, Giacomo Balla, Fortunato Depero, Gino Severini, Carlo Carrà, Ardengo Soffici sono i nomi dei grandi artisti futuristi che si incontrano passeggiando nelle sale del Museo del Novecento, testimoni di un momento significativo per la storia dell’arte contemporanea e per le vicende legate al panorama culturale della Milano dei primi due decenni del secolo.

Probabilmente ogni artista di questo movimento italiano meriterebbe un approfondimento, ma è Umberto Boccioni colui che ha saputo operare una trasfigurazione espressiva dei propri soggetti realistici, arrivando a definire una poetica soggettiva degli stati d’animo.

Il Museo del Novecento di Milano conserva nella sua collezione permanente più di dieci opere realizzate dall’artista, presentate in un percorso cronologico con lo scopo di illustrare agli spettatori l’evoluzione del linguaggio creativo sviluppato da Boccioni.

La prima opera che si incontra entrando nella sezione dedicata è Signora Virginia, 1905, olio su tela, un ritratto che a livello esecutivo risente degli influssi di Giacomo Balla e Severini: da Balla riprende l’attenzione al dato naturalistico, filtrato da una pennellata di matrice divisionista derivata dalle esperienze di Severini. Il soggetto è ritratto da basso verso l’alto e inserito nella sfera intima della casa. Il ritratto è la prima opera di Boccioni acquistata da una collezione pubblica e incarna le caratteristiche dei quadri dedicati alle figure materne.

Fig. 1 - Umberto Boccioni, Signora Virginia, 1905, olio su tela, Museo del Novecento, Milano. Fonte: https://www.museodelnovecento.org/.

Il trittico degli Stati d’animo (Quelli che restano, 1911; Gli addii, 1911; Quelli che vanno, 1911) è una serie di tre quadri separati, ma in stretto rapporto tra di loro; gli Stati d’animo vogliono raccontare le emozioni suscitate dalla partenza e dal distacco. A differenza dell’opera precedente, qui ogni pennellata è veicolo di espressività: linee confuse, sussultanti e che si fondono in gesti che esprimono agitazione frenetica.

Fig. 2 - Umberto Boccioni, Stati d’animo, 1911, Museo del Novecento, Milano. Fonte: https://twitter.com/museodel900/.

A partire dai dipinti e dalle sculture realizzati tra il 1911 e il 1913, appare un dinamismo che permea ogni corpo, permettendo all’artista di concentrarsi sulla dialettica del movimento relativo e assoluto di una figura o di un oggetto: l’obiettivo è una ricerca di continuità formale tra interno ed esterno, tra oggetto e ambiente. Ciò è possibile riscontrarlo nelle due opere Umberto Boccioni, Elasticità, 1912 e Umberto Boccioni, Costruzione spiralica, 1913, nelle quali l’artista comincia a focalizzarsi sulle ricerche volte alle trasformazioni dell’oggetto all’interno di uno spazio.

La compenetrazione tra interno ed esterno, oggetto e spazio, è possibile riscontrarla anche nell’opera Umberto Boccioni, Carica di lancieri, 1915 dove l’impeto e la velocità delle masse dei cavalieri si contrappone alla staticità dei soldati. Ogni segno tracciato sul supporto è in sintonia con il momento storico che l’artista sta vivendo in quel momento, ovvero la Prima Guerra Mondiale, che per i futuristi veniva considerata come “igiene del mondo”.

Fig. 5 - Umberto Boccioni, Carica di lancieri, 1915, Museo del Novecento. Fonte: https://artsandculture.google.com/.

Le ricerche di Umberto Boccioni in campo artistico non rimangono legate alla sola azione pittorica, ma sperimentate anche in campo scultoreo e plastico.

Una delle maggiori ricerche plastiche si rintraccia in Umberto Boccioni, Sviluppo di una bottiglia nello spazio, 1912, bronzo; la scultura deve essere in grado di far vivere gli oggetti rendendo plastico il loro prolungamento nello spazio; Boccioni rivisita il tema della natura morta studiando il rapporto tra la bottiglia e lo spazio circostante: la bottiglia si smembra secondo i canoni del Cubismo e si modella nell’atmosfera e nello spazio in cui è inserita.

Questo breve percorso dedicato all’arte di Umberto Boccioni si chiude presentando uno dei capolavori dell’artista: Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio, 1913, bronzo, opera che consolida tutte le ricerche sul dinamismo. L’artista segue il concetto secondo cui l’immagine deve essere “manifestazione dinamica della forma, rappresentazione dei moti della materia”: la macchina del corpo umano in movimento è rappresentata nel suo energico groviglio di muscoli e tendini e, al tempo stesso, si fonde aerodinamicamente con l’ambiente, nel suo maestoso incedere quasi sfaldandosi nell’atmosfera circostante.

 

Bibliografia

Mattioli Rossi (a cura di), Boccioni. Pittore scultore futurista, cat. mostra (Milano, Palazzo Reale, 5 ottobre 2006 – 7 gennaio 2007), Milano, 2006.

V.W. Feirabend, Umberto Boccioni. La rivoluzione della scultura, 2006.

Bora, G. Fiaccadori, A. Negri, A. Nova, I luoghi dell’arte. Nascita e sviluppi dell’arte del XX secolo, Electa Scuola, 2014.

Rossi (a cura di), Umberto Boccioni (1882-1916). Genio e memoria, cat. mostra (Milano, Palazzo Reale, 23 marzo-10 luglio 2016; Rovereto MART – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, 4 novembre 2016-19 febbraio 2017), Milano, 2016.

 

Sitografia

https://www.museodelnovecento.org/


PALAZZO BARBERINI A ROMA (II PARTE)

A cura di Maria Anna Chiatti

Dopo aver delineato la storia della costruzione di Palazzo Barberini[1], ci si soffermerà ora su una selezione di capolavori di carattere decorativo e strutturale che vi sono contenuti. Queste opere sono tanto rappresentative nel panorama artistico del XVII secolo da aver contribuito a costruire il grande mito del Barocco Romano, con un conseguente forte riverbero sulla fama della famiglia Barberini.

Le scale monumentali

L’odierno accesso al palazzo avviene attraverso la grande corte occidentale, su via delle Quattro Fontane. Da qui il visitatore che desideri entrare negli spazi del museo può ammirare dapprima le sale del pianterreno, per poi salire al piano nobile servendosi del cosiddetto scalone di Bernini. Questa grande scalinata a pozzo quadrato, costruita intorno al 1630, è in effetti tradizionalmente riferita al genio di Gian Lorenzo Bernini (1598 - 1680) e rientra nella sezione progettuale dell’edificio che prevedeva l’ampliamento del palazzetto Sforza, comprato dai Barberini nel 1625, che oggi rappresenta gran parte dell’avancorpo nord della struttura.

Il progetto dello scalone doveva necessariamente tenere conto della precedente articolazione dei livelli, giacché questo sarebbe andato ad impostarsi nella porzione mediana dello stabile esistente; a partire dal pianterreno la scala doveva collegare l’ingresso principale della Cavallerizza sul cortile (distrutto per la creazione di via Barberini nel 1926) con la scalinata preesistente che portava al giardino e ai livelli superiori[2]. Bernini creò una scala perfettamente proporzionata, anche se, incredibilmente, non del tutto simmetrica per via degli spazi a disposizione. Le rampe di gradini sono sostenute da colonne binate fino al primo piano, poi da pilastri. Sulle pareti si aprono una serie di nicchie che ospitano ognuna una statua, mentre verso l’interno si vede dischiudersi sotto di sé il grande pozzo quadrato man mano che si sale, come fosse una corte interna: il vano a cielo aperto crea effetti di luce particolarmente suggestivi, molto adeguati a stupire gli ospiti del palazzo (la scala nord serviva da ingresso di rappresentanza ed era quindi più frequentata di quella posta a sud, fig. 1).

Lo schema dello scalone quadrato si discosta molto dai due tipi più diffusi nei palazzi romani del Cinquecento, a rampe parallele accostate o a chiocciola.

 

In netta contrapposizione, sia per ubicazione nella villa che per forma e stile, è la meravigliosa scala di Francesco Borromini (1599 - 1667), oggi utilizzata come uscita dal percorso espositivo del museo (fig. 2). Si tratta di una gradinata senza soluzione di continuità, che sembra arrotolarsi (o srotolarsi) come un lungo papiro per tutta l’estensione verticale di Palazzo Barberini; la pianta ovale consente una salita più agevole rispetto a quella a chiocciola, secondo un modello codificato nel XVI secolo dal Vignola (1507 - 1573), da Sebastiano Serlio (1475 - 1554) e da Andrea Palladio (1508 - 1580). In questo caso la luce entra dalla sommità aperta, ma anche dalle finestre della facciata.

La scala serve l’ala sud del palazzo, ed era riservata ad una circolazione più ristretta e privata rispetto al corrispettivo a nord, poiché portava agli appartamenti privati del cardinal Francesco, fino alla biblioteca all’ultimo piano[3]. Ogni girata si compone di dodici colonne binate in stile dorico, con capitelli decorati con piccole api (che sono il simbolo del casato). L’ecletticità dell’architetto è ben dimostrata nella realizzazione della struttura spiraliforme, che Borromini utilizzò con successo anche in altre opere.

Le volte affrescate

Al contrario degli scaloni monumentali, che sono “soltanto” due, i soffitti decorati nelle stanze della residenza sono di un numero quasi incalcolabile. Due sono gli esempi illustri su ci si soffermerà, con la speranza di suscitare in chi legge una dose di curiosità che sia il motore di una visita alla Galleria Nazionale d’Arte Antica.

I soffitti dei saloni più ampi del palazzo rappresentano due trionfi divini, e celebrano il papato di Urbano VIII: si tratta del Trionfo della Divina Sapienza, dipinto da Andrea Sacchi (1599 - 1661) tra il 1629 e il 1631 in un salone dell’ala nord, e del Trionfo della Divina Provvidenza, realizzato da Pietro da Cortona (1596 - 1669) dal 1633 al 1639 nel grande salone centrale a doppia altezza.

Per ciò che concerne la Divina Sapienza, i precedenti iconografici sono davvero scarsi, se si escludono le rappresentazioni medievali della Saggezza (raffigurata con lo scudo nella mano destra e il libro con i sette sigilli nella sinistra)[4] alle quali tuttavia Sacchi non guardò: in questo affresco (fig. 3) la personificazione della Sapienza Divina è assisa in trono, al centro della scena, circonfusa della luce di un grande sole che le splende alle spalle. Tutto intorno i suoi attributi si incarnano nei toni pastello delle figure di undici fanciulle: Nobiltà, Eternità, Soavità, Divinità, Giustizia, Forza, Beneficienza, Santità, Purezza, Perspicacia, Bellezza. Ognuna di loro reca il simbolo dell’attributo che rappresenta; dall’alto scendono due giovani alati con un leone e una lepre, emblemi dell’amore e del timor di Dio[5]. Le fanciulle rappresentano inoltre le costellazioni, pervadendo così l’opera di Sacchi di una importante valenza politica di autocelebrazione, con una funzione che si potrebbe quasi definire apotropaica[6]: tutte le virtù sono riunite nella congiuntura astrale sotto cui Urbano VIII è diventato papa, il 6 agosto 1623, con la conseguente supposizione del pontefice di incarnarle tutte.

Confrontando questa ordinata e soffusa rappresentazione (ascrivibile al filone classicista del barocco) con il maestoso affresco nel salone di rappresentanza che raffigura Il trionfo della Divina Provvidenza, ci si rende immediatamente conto di trovarsi di fronte ad un codice del tutto diverso: si tratta del manifesto programmatico del nuovo linguaggio barocco.

In questa enorme composizione, Pietro da Cortona si dimostrò capace di riscrivere la tradizione della decorazione ad affresco articolata su quadri riportati, creando uno spazio aperto che sfonda illusionisticamente la parete. Questo elaboratissimo soggetto fu ideato dal poeta Francesco Bracciolini (1566-1645) per glorificare il pontefice e la sua famiglia, ed elogiato da molti letterati e intellettuali, tra i quali Girolamo Tezi (1580?- 1645) nelle Aedes Barberinae ad Quirinalem descriptae, pubblicato nel 1642.

Il titolo completo dell’opera in effetti è Il Trionfo della Divina Provvidenza e il compiersi dei suoi fini sotto il pontificato di Urbano VIII, e risulta facilmente intuibile il valore celebrativo sotteso dalla committenza. Per mezzo di più di cento personaggi, accompagnati da innumerevoli ronzanti api, Pietro da Cortona celebrò il potere politico e spirituale della famiglia Barberini, creando uno spazio tanto dilatato che l’occhio umano - dabbasso - non riesce a percepire completamente: si può notare il cornicione rettangolare, dipinto come se fosse scolpito nel marmo, e la divisione della volta in cinque parti. Nel riquadro centrale, su uno scranno di nuvole, siede la Provvidenza Divina con lo scettro in mano mentre la Fama incorona lo stemma Barberini. Nelle grandi fasce laterali virtù e vizi si combattono, e le prime vincono sempre sui secondi. Sui lati corti sono rappresentati Minerva che piega i giganti ed Ercole che caccia le Arpie; sui lati lunghi, invece, il Buongoverno garantisce la pace sconfiggendo la guerra, e la Teologia e la Religione allontanano dissolutezza e lascivia. La vastità dell’affresco basterebbe da sola a scatenare meraviglia nell’osservatore, che si ritrova inoltre immerso in un vortice di figure, «in una sequenza turbinosa di immagini»[7] con un ritmo frenetico.

Quest’opera, realizzata in sette anni, consacrò Pietro da Cortona come uno dei protagonisti incontrastati della pittura romana del Seicento.

Fig. 5 - Il salone di Pietro da Cortona. Credit: https://www.barberinicorsini.org/.

Nei prossimi articoli si tratterà della decorazione dell’appartamento settecentesco della principessa Cornelia Costanza (ultima discendente diretta dei Barberini), del mecenatismo di papa Urbano VIII e di una selezione dei capolavori conservati alla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini.

 

Note

[1] A tal proposito si veda l’articolo al link https://www.progettostoriadellarte.it/2020/09/01/palazzo-barberini-a-roma/?swcfpc=1

[2] La gradinata che si può apprezzare oggi è infatti il rifacimento di una precedente, e fu costruita tra il 1673 e 1679.

[3] La biblioteca del cardinale Francesco Barberini contava circa 40.000 volumi, ed era seconda soltanto alla Biblioteca Vaticana, della quale oggi è parte.

[4] D. Gallavotti Cavallero, Il programma iconografico per la Divina Sapienza nel Palazzo Barberini: una proposta, estratto da Studi in onore di Giulio Carlo Argan, Multigrafica Editrice, Roma 1984, p. 270.

[5] Cfr. sito della GNAA al link: https://www.barberinicorsini.org/opera/allegoria-della-divina-sapienza/

[6] Lett. che allontana l’influenza maligna.

[7] C. Bertelli, G. Briganti, A. Giuliano, Storia dell’arte italiana, vol. 3, Bruno Mondadori, Milano 2009, p. 328.

 

Bibliografia

Antinori A., Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, in Scotti Tosini A. (a cura di), Storia dell’Architettura Italiana. Il Seicento, tomo I, Electa, Milano 2003, pp. 140 - 145

Bertelli C., Briganti G., Giuliano A., Storia dell’arte italiana, vol. 3, Bruno Mondadori, Milano 2009

Circolo Ufficiali delle Forze Armate d’Italia, Palazzo Barberini, Palombi Editori, Roma 2001

Gallavotti Cavallero D., Il programma iconografico per la Divina Sapienza nel Palazzo Barberini: una proposta, estratto da Studi in onore di Giulio Carlo Argan, Multigrafica Editrice, Roma 1984, pp. 269 - 290

Mochi Onori L., Vodret R., Capolavori della Galleria Nazionale D’Arte Antica. Palazzo Barberini, Gebart, Roma 1998

Spagnolo M., I luoghi della cultura nella Roma di Urbano VIII, in Luzzatto S., Pedullà G. (a cura di), Atlante della Letteratura, vol. 2, Einaudi, Torino 2011, pp. 387 - 409

 

Sitografia

Sito delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica al link: https://www.barberinicorsini.org/ (ultima consultazione 06/10/20)

Dizionario Biografico degli Italiani alla voce:

Urbano VIII, papa (http://www.treccani.it/enciclopedia/papa-urbano-viii_%28Dizionario-Biografico%29/ (ultima consultazione 25/09/20)