LA LOGGIA DEL ROMANINO AL MAGNO PALAZZO

A cura di Beatrice Rosa

Introduzione

Il 25 febbraio 1528 venne posata la prima pietra del Magno Palazzo, l’edificio commissionato dal cardinale Bernardo Clesio che rinnovò l’aspetto del Castello del Buonconsiglio a Trento. Un palazzo che rivestì un ruolo fondamentale nel panorama storico artistico della Regione[i].

Nel 1531 i lavori architettonici del Palazzo stavano per concludersi: il cardinale cominciò così a ideare la decorazione pittorica e a reclutare artisti; per farlo si rivolse alla corte estense di Ferrara facendo arrivare a Trento importanti pittori tra cui Dosso Dossi con il fratello Battista, il bresciano Girolamo Romani, detto il Romanino, e il vicentino Marcello Fogolino. La presenza di questi artisti in città comportò la diffusione dell’arte rinascimentale in Trentino e data la varietà di provenienza dei pittori, il Magno Palazzo divenne fonte di uno stile artistico così peculiare da essere denominato “clesiano”[ii].

Bernardo Clesio, dato il suo ruolo di cardinale, fu spesso in viaggio per l’Europa; cosa che, tuttavia, non lo limitò nell’essere un committente molto attento. Ciò si evince dalla fitta corrispondenza tra lui e gli artisti; il Clesio scriveva infatti frequentemente per assicurarsi che i lavori procedessero positivamente e soprattutto per informarsi che le tempistiche e l’impegno economico fossero rispettati. Oltre a questo, Bernardo discuteva direttamente con i pittori sui soggetti delle opere, che dovevano essere adatti a un palazzo privato ma allo stesso tempo consoni a una sede diplomatica volta all’accoglienza di delegazioni straniere[iii].

Girolamo Romanino e la loggia

Tra gli artisti reclutati dal Clesio c’era il bresciano Girolamo Romanino, uno tra i più importanti interpreti della scuola lombarda. Alla sua iniziale formazione fra Brescia e Venezia su opere di Tiziano e Giorgione, si aggiungono presto alcune suggestioni derivate dal pittore milanese Bramantino, dal bergamasco Lorenzo Lotto e dal cremonese Altobello Melone[iv].

Bernardo Clesio, quando nel 1531 Romanino si propose per diventare parte dell’équipe impegnata nella decorazione del Magno Palazzo, scrisse in una lettera quanto fosse felice per “quello excellente pittore bressano che si ha offerto venire”[v]. Il pittore si presentò alla corte quando i lavori stavano per cominciare e il Clesio aveva già tessuto buoni rapporti con il ferrarese Dosso Dossi. Come sottolineato precedentemente, Bernardo Clesio fu un committente molto attento: per la decorazione pittorica redasse un programma con le sue indicazioni relative agli artisti impegnati e al suo progetto di decorazione per gli spazi principali della residenza, tutti affidati a Dosso[vi]. Una situazione destinata a cambiare con l’arrivo di Romanino, al quale vennero assegnati alcuni ambienti del palazzo. Il più importante è la loggia che si trova al primo piano del Magno Palazzo, aperta in cinque arcate sul cortile dei Leoni, che Bernardo Clesio definì “una delle principale parte atte ad rendere grandissimo ornamento a tutta essa fabbrica”[vii] (fig. 1).

Fig. 1 – La loggia del Castello del Buonconsiglio.

Per quanto riguarda il tema della decorazione pittorica della loggia, fu il committente stesso ad esprimersi scrivendo in una lettera:

Circa la pittura de la logia publicha, de la qual lui desidera che li demo un thema, vui sapete la nostra resolutione, desideremo sia fatto uno bellissimo friso et sia depento li cantoni solamente et li volti de sopra depinto de Azuro, cum cosse d’oro tirate dentro[viii]

Da queste parole si evince come il cardinale desse indicazioni precise per quanto riguarda la collocazione dei dipinti, e come lasciasse al contempo molte libertà ai pittori sul soggetto. Sono prescrizioni che il Clesio scrisse quando ancora l’artista scelto era Dosso Dossi e che, nel momento in cui arrivò Romanino, passarono direttamente a lui.

Già in questo breve brano si nota l’adesione puntuale al Trattato di architettura, uno scritto del 1460-1464 per il duca Francesco Sforza di Antonio di Pietro Averlino, conosciuto come Filarete[ix]. In una parte di questo trattato vengono date indicazioni sulla realizzazione di un “palazzo ideale” e con queste pagine si spiega la scelta tematica della loggia del Romanino che rispecchia ciò che Filarete considerava adatto per il palazzo ideale:

Alle volte di sopra voglio che sia come Fetonte mena i cavalli de Sole, e così Dedalo quando vola, così un poco più in basso, e come Bacco va per rapire Adriana, e come Giove e Ganimede.[x]

Posizionandosi al centro della loggia e alzando lo sguardo, si può ammirare il vasto riquadro centrale con la corsa attraverso il cielo di Fetonte sul carro del Sole, proprio come indicato da Filarete (fig. 2). L’iconografia di questo episodio deriva da Ovidio, il quale narra che Fetonte, per dimostrare la sua divina discendenza, un giorno si recò all’estremo Est per incontrare il padre Sole. Il dio promise al figlio che avrebbe fatto qualsiasi cosa per dimostrare che ne fosse il padre. Fetonte ottenne quindi il permesso di guidare il carro del Sole per un giorno; il giovane fu però avventato e si dimostrò inesperto, perdendo il controllo del carro e avvicinandosi troppo alla Terra asciugandone i fiumi e provocando incendi.

Fig. 2 – La volta della loggia.

Tale immagine può quindi essere letta sia con un intento moraleggiante, con l’invito a guardarsi dal troppo ardire che conduce alla rovina, sia come immagine allegorica del Sole stesso. Nella loggia del Romanino, il carro segue infatti il percorso del sole, partendo da Oriente e andando verso Occidente. Al centro è presente questo episodio mentre i due campi laterali contengono le figure allegoriche delle stagioni: la Primavera e l’Estate, l’Autunno e l’Inverno, tutte figurazioni stagliate sul cielo azzurro[xi] (fig. 3 e 4).

I lati della composizione centrale sono decorati con dieci pennacchi rappresentanti figure virili, dalle membra vigorose. Alcuni di essi hanno la barba e i capelli scompigliati dal vento, per alludere illusionisticamente a come la loggia fosse aperta agli agenti atmosferici[xii] (fig. 5).

Fig. 5 – Figura virile dei pennacchi.

Sulle vele tra i pennacchi sopra citati, Romanino dipinge venti ovali contenenti finte sculture stagliate su un fondo a finto mosaico dorato (fig. 6). Il pittore bresciano concepisce anche dieci lunette lungo le pareti che presentano immagini di carattere non unitario: episodi profani, alcuni tratti dal mito greco e dalla storia romana, altri dalla Bibbia[xiii].

Fig. 6 – Scultura su fondo in finto mosaico.

Gli episodi meglio conservati sono quelli delle parete occidentale, sulla sinistra un Concerto di flauti e sulla destra l’episodio di Giuditta e Oloferne (fig. 7). Dall’altro lato della loggia la parete orientale ospita invece la raffigurazione del Concerto campestre e Amore e Psiche (fig. 8). Il lato lungo della loggia, infine, presenta sei episodi: la Morte di Virginia uccisa dal padre, il Suicidio di Lucrezia, le Grazie, il Suicidio di Cleopatra, un Concerto e Dalila che taglia i capelli a Sansone addormentato[xiv] (fig. 9).

Romanino realizza anche un affresco molto interessante accanto alla scala di accesso al piano superiore che, a differenza degli episodi analizzati finora, è di dimensioni gigantesche: esso raffigura lo “Scacciaimportuni”, un uomo armato di bastone che allontana delle persone, impedendo loro di recare disturbo nella dimora privata del vescovo accendendo al piano superiore[xv] (fig. 7).

Girolamo Romanino rimase a Trento un solo anno, dal 1531 al 1532; in questo breve periodo riuscì a lasciare un segno nel panorama storico artistico della città con uno dei suoi capolavori, la loggia che noi tutti oggi conosciamo come loggia del Romanino.

 

Note

[i] https://www.progettostoriadellarte.it/2020/08/07/il-castello-del-buonconsiglio-a-trento/

[ii] https://www.progettostoriadellarte.it/2020/08/07/il-castello-del-buonconsiglio-a-trento/

[iii] https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento

[iv] Girolamo Romanino, in Enciclopedia dell’arte, a cura di P. de Vecchi e A. Negri, 2002, p. 1076.

[v] L. Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo  (MI) 2006, pp. 258-269.

[vi] L. Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo  (MI) 2006, pp. 258-269.

[vii] E. Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

[viii] L. Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo  (MI) 2006, pp. 258-269.

[ix] Filarete, in Enciclopedia dell’arte, a cura di P. de Vecchi e A. Negri, 2002, p. 402.

[x] L. Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo  (MI) 2006, pp. 258-269.

[xi] E. Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

[xii] E. Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

[xiii] E. Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

[xiv] E. Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

[xv] E. Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

 

 

Bibliografia

 Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

Filarete, in Enciclopedia dell’arte, a cura di P. de Vecchi e A. Negri, 2002, p. 402

Girolamo Romanino, in Enciclopedia dell’arte, a cura di P. de Vecchi e A. Negri, 2002, p. 1076.

Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo (MI) 2006, pp. 258-269.

 

Sitografia

 

https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento

https://www.progettostoriadellarte.it/2020/08/07/il-castello-del-buonconsiglio-a-trento/

 

REFERENZE DELLE IMMAGINI

  1. https://www.comune.trento.it/Aree-tematiche/Turismo/Conoscere/Citta-alpine/Citta-alpine-dell-anno/Trento/Castello-del-Buonconsiglio-Loggia-del-Romanino
  2. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento
  3. Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo (MI) 2006, pp. 258-269.
  4. Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo (MI) 2006, pp. 258-269.
  5. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento
  6. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento
  7. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento
  8. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento
  9. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Romanino_Loggia_Buonconsiglio_TN_3.jpg

IL CONVENTO DI SAN GIACOMO A SAVONA

A cura di Gabriele Cordì

“Sorge questo convento sul colle di Valloria, il più alto della valle, gode di grande respiro d’aria e di cielo, vasta è da qui la visione del ligure mare e, verso la città, dell’accogliente e sicuro porto”.

 Fra’ Dioniso da Genova, 1647.

Introduzione

Il convento di San Giacomo, o complesso conventuale del San Giacomo, si trova a pochi passi dal centro storico di Savona, adagiato su un colle ricco di verde e palazzine liberty che sovrasta il porto e gode di una vista privilegiata sulla costa ligure (fig.1). A distanza di circa cinque secoli è ancora nella stessa posizione, orientato con la facciata della chiesa a ponente, come doveva apparire ai tempi di Papa Sisto IV, Giulio II, Gabriello Chiabrera e altri grandi nomi della cultura italiana ed europea che hanno lasciato un solco profondo nella storia secolare del convento francescano. Oggi la chiesa e il convento sono in stato di abbandono, la facciata rischia di collassare su se stessa, gli affreschi absidali si stanno sbriciolando e, molto probabilmente, sotto lo strato di intonaco che ricopre le pareti della chiesa si potrebbero celare altre meraviglie a noi sconosciute. Dal 2016 il destino del San Giacomo è migliorato grazie alle numerose attività organizzate dall’associazione “Amici del San Giacomo”, ODV che si occupa principalmente della valorizzazione del monumento e della sensibilizzazione al suo recupero. Nel 2018 sono stati esposti i libri appartenenti all’antica biblioteca conventuale in una grande mostra allestita nelle sale della Pinacoteca Civica di Savona a cura di Romilda Saggini e GBM Venturino. I pannelli eseguiti in occasione dell’evento sono oggi conservati e visibili a tutti nell’aula studio del Campus universitario di Savona.

Fig. 1

Il convento di San Giacomo: 550 anni di storia

Nel 1470 l’Ospedale di Misericordia di Savona dona dei terreni in località Valloria ai Frati Minori Osservanti (mendicanti e zoccolanti) di San Francesco d’Assisi. Papa Paolo II, nato Pietro Barbo, consente l’edificazione della chiesa e degli edifici circostanti. Inizialmente i francescani predicano nelle piazze ma, con il passare del tempo, necessitano di spazi sempre più ampi per contenere i fedeli. Nonostante le regole dell’Ordine impongano dimensioni ridotte, il progetto della nuova chiesa prevede spazi tutt'altro che piccoli. I lavori iniziano nel 1471 e proseguono sotto la supervisione di Fra’ Angelo da Chivasso, autore di uno dei manuali più celebri del tempo: la Summa casuum conscientiae, soprannominata in seguito Summa Angelica.

La costruzione procede velocemente sotto il pontificato del savonese Sisto IV; la chiesa di San Giacomo diventa il luogo principale dove accogliere i sepolcri delle famiglie savonesi illustri del tempo. Le cappelle laterali vengono abbellite così da grandi quadri e affreschi. Grazie alle numerose donazioni, i lavori della chiesa si concludono nel 1476. Papa Sisto IV nel 1479 fa costruire un ponte a quattro archi per collegare il convento alla città.

Il convento di San Giacomo: la chiesa

La chiesa del convento di San Giacomo è caratterizzata architettonicamente da una sola grande navata coperta da un tetto “a capanna” sorretto da possenti capriate in legno di cipresso. La povertà dell’aula, tipica dei canoni dell’ordine francescano, entra in contrasto con le decorazioni pittoriche murali e la sontuosità degli altari delle dieci cappelle laterali di proprietà delle illustri famiglie savonesi, coperte su ambo i lati da una volta a crociera. In fondo alla navata è ancora visibile il pontile medievale che, prima di cadere in disuso con il Concilio di Trento (1545-1563), aveva la funzione di separare simbolicamente e fisicamente i fedeli dal clero, e architettonicamente l’aula dal presbiterio e dal coro, spazi essenzialmente riservati ai prelati. L’architetto GBM Venturino, grande studioso dell’antico complesso e autore delle famose ricostruzioni digitali di monumenti liguri medievali, ne parla chiaramente in termini tecnici: “[...] Nelle chiese ortodosse sopravvive ancora l’iconostasi, una parete ricca di immagini sacre che divide la parte riservata ai fedeli da quella del clero. Qui il pontile ne occupa lo stesso spazio; è molto leggero, diviso da tre archi a sesto ribassato sorretti da due colonnine con capitello.

Oltre alla primitiva funzione, diventa un rialzo praticabile per i musici ed i componenti della “schola cantorum”, tenuti in gran conto nelle funzioni dei francescani [...]”. Al di là del pontile si trova la zona praticabile solo dal clero, composta dal presbiterio rettangolare, che ospitava il coro dietro all’altare maggiore, e dall’abside semi-ottagonale, affrescata nel Cinquecento dal genovese Ottavio Semino, figlio d’arte di Antonio e fratello di Andrea, anch’egli pittore (fig.2,3). La chiesa accoglie tuttora le spoglie mortali del poeta savonese Gabriello Chiabrera.

La fornitissima biblioteca

Nel 1647 Fra’ Dioniso da Genova definisce la biblioteca del convento di San Giacomo con l’aggettivo “instructissima”, ovvero “fornitissima”, per via del lodevole numero di volumi che essa custodiva. È stata uno dei principali centri della cultura del tempo, famoso per i suoi numerosi codici e manoscritti preziosi, ed ha goduto di grande prestigio culturale per secoli. Molti dei volumi che conservava sono stati dispersi nel tempo e destinati ad altri conventi francescani nel resto d’Italia. I libri provenienti dal convento savonese sono riconoscibili a primo impatto: sono rilegati in pergamena e sul dorso mostrano l’inconfondibile scritta in caratteri gotici “Sancti Jacobi Savonae”.

Il declino

Nel 1810 i saccheggi e le ruberie napoleoniche colpiscono il complesso conventuale savonese. E’ solo l’inizio del degrado. Nel 1809 Papa Pio VII viene imprigionato a Savona da Napoleone Bonaparte, ma non riesce a far nulla per tutelare il convento. Con il passare dei secoli la sua struttura viene plasmata a seconda della funzione che gli attribuiscono le autorità: lazzaretto, ospedale, cimitero, reclusorio e infine caserma.

Bibliografia

GBM Venturino, La chiesa fantasma, Edizione speciale fuori commercio stampata con il patrocinio della Consulta Culturale Savonese, Grafiche F.lli Spirito. (http://amicidelsangiacomo.org/wp-content/uploads/2020/05/San-Giacomo1.pdf)

Romilda Saggini, GBM Venturno, I libri ritrovati, Edizione speciale, 2018, Grafiche Fll.i Spirito.

 

Sitografia

www.amicidelsangiacomo.org

 

Fotografie

Fig. 1,4,5: Fotografie aeree di Luigi Bertogli

Fig. 2,3: www.amicidelsangiacomo.org


IL MUSEO DELLA CERAMICA A RAITO

A cura di Rossella Di Lascio

Introduzione

La cittadina di Vietri sul Mare (SA), primo paese della Costiera Amalfitana, vanta un’antica e fiorente tradizione ceramica, ancora oggi uno dei cardini dell’economia locale. Il rapporto quasi “simbiotico” tra Vietri e la ceramica è visibile ovunque: all’interno (pavimenti e suppellettili) e all’esterno (mattonelle votive) degli edifici del centro storico, nelle numerose botteghe che perpetuano una tradizione artigianale così dinamica e vitale; nella splendida cupola maiolicata della chiesa principale di Raito, dedicata a San Giovanni Battista, di impianto seicentesco, che sorge nel punto più alto del centro cittadino; nella celebre e grandiosa Fabbrica di Ceramiche di Vincenzo Solimene, progettata e realizzata nel 1954 dall’architetto torinese Paolo Soleri e situata all’ingresso della città, che colpisce per il suo impianto originale e la sua vistosità cromatica, dovuti ai suoi tubuli cilindrici in cotto, di colore rosso mattone e verde.

In definitiva, la storia, le tradizioni, le abitudini, la vita quotidiana dei vietresi si possono “leggere” attraverso la ceramica, a cui è dedicato il Museo della ceramica, o Museo Provinciale della Ceramica, a Raito di Vietri sul Mare.

Il museo della ceramica a Raito di Vietri

Nel 1970 Raffaele Guariglia, ambasciatore d’Italia, cavaliere dell’Ordine di Malta e Ministro degli Esteri del governo Badoglio, dona all’Amministrazione Provinciale di Salerno la sua villa estiva a Raito di Vietri sul Mare. Il complesso è costituito da una grande villa a due piani, più un pianterreno e ampie soffitte praticabili per un totale di trentasei vani, con annessa un’antica cappella dedicata a San Vito, riaperta al pubblico nel 1931 per volontà del proprietario, all’interno della quale è custodito un grande presepe artistico del Settecento, di tradizione napoletana. Contiene una ricca biblioteca composta da circa quattromila volumi inerenti il settore storico-diplomatico ma anche le scienze politiche ed economiche, oltre che collezioni di oltre cento fra dipinti, acquerelli, stampe, disegni, ceramiche, porcellane ed argenterie preziose. Si aggiungono un vasto parco che, a sua volta, comprende giardini e terreni agricoli, e la Torretta Belvedere, destinata, su indicazione dell’allora direttore dei Musei Provinciali del Salernitano, Venturino Panebianco, ad ospitare il primo nucleo di un Museo della Ceramica.

La nascita del Museo della ceramica vietrese è stata possibile grazie alla collaborazione di gruppi di appassionati locali e di sensibili privati e collezionisti che, con cospicue donazioni di pezzi ceramici, hanno integrato le collezioni provenienti dai Musei Provinciali e dalla stessa Villa Guariglia. Esaminando la produzione degli ultimi quattro secoli, il Museo fornisce un’idea più esauriente della plurisecolare tradizione ceramica vietrese che, da tempi lontani fino ai giorni nostri, continua vitale ed ininterrotta. Il suo aspetto attuale è il risultato degli ultimi interventi compiuti negli anni ‘30 del Novecento: nel 1936, infatti, Raffaele Guariglia sposa in seconde nozze la spagnola Paz Mazzorra y Romero e, in suo onore, commissiona al geometra Napoleone Marano di Napoli il progetto di ristrutturazione della Torretta Belvedere e la realizzazione del viale d’accesso. Ciò spiega le merlature di coronamento di tipo aragonese e la finestra catalana che attualmente caratterizzano l’edificio.

Il primo nucleo espositivo del Museo è stato inaugurato il 9 maggio del 1981.

Il museo della ceramica di Raito: il percorso museale

Il percorso museale si articola secondo un criterio tematico - cronologico, suddividendosi in tre principali settori:

1) il primo comprende oggetti legati ad esigenze spirituali, come targhe, pannelli votivi ed acquasantiere domestiche, testimonianze di una produzione di carattere religioso e devozionale;

2) il secondo accoglie oggetti legati ad esigenze materiali, d’uso quotidiano, come vasi per olio detti “ogliaruli”, bottiglie, vasi per acqua, brocche, piatti, zuppiere, lumi ad olio, vasetti portafiori, etc., databili tra la fine del Seicento e gli inizi del Novecento;

3) il terzo è dedicato al “Periodo Tedesco”.

L’itinerario della visita è arricchito da riproduzioni fotografiche, bozzetti delle opere e da foto d’epoca degli artisti del Novecento al lavoro presso le fabbriche locali di ceramica I.C.S., Pinto, Cioffi. Nella sala intitolata a Venturino Panebianco è ospitata una piccola biblioteca fornita di testi relativi alla ceramica in generale e a quella di Vietri in particolare, mentre all’interno della Villa è presente un Auditorium che proietta video riguardanti il “periodo tedesco”.

Il Museo diventa, così, un luogo di conoscenza, di riflessione e di approfondimento della materia ceramica, capace di venire incontro alle esigenze, agli interessi, ai gusti di un pubblico variegato e di consentirgli un approccio più consapevole alla ceramica.

Il primo settore

Il primo settore è dedicato ad acquasantiere, targhe e pannelli devozionali, interessanti esempi di religiosità popolare e punto di riferimento indispensabile per i credenti. Sono espressione di “un’emotività collettiva”, di una “preghiera visibile”, un mezzo per instaurare con il sacro un rapporto più intimo ed esclusivo. Attraverso targhe votive e pannelli devozionali si invoca la protezione su case, rioni, strade, incroci, contro le avversità naturali ed i pericoli sociali; sui viandanti, ai quali indicano la giusta direzione; costituiscono una sorta di ex voto, ai quali si manifesta la propria riconoscenza per una grazia ricevuta. Le targhe votive non provengono solo da Vietri ma anche dalle frazioni vicine, come Marina di Vietri, Molina, Dragonea, Benincasa, Raito, la cui esposizione è integrata dalla documentazione fotografica di quelle che non possono essere rimosse dai loro luoghi originari, in quanto murate lungo le pareti esterne delle abitazioni o disseminate per le strade. Ciò rappresenta per il visitatore uno stimolante invito a passeggiare alla scoperta delle stradine, dei vicoli di Vietri. I caratteri peculiari di targhe e pannelli devozionali sono la gamma cromatica variopinta, la figurazione prevalentemente frontale, l’assenza della terza dimensione e l’angolosità dei tratti. Tra i Santi maggiormente ritratti spiccano due figure: San Giovanni Battista, patrono di Vietri, considerato dalla Chiesa precursore di Cristo, e Sant’Antonio Abate che, secondo l’iconografia tradizionale, è sempre accompagnato da un maiale e da una fiamma[1].

Le acquasantiere nascono come elemento devozionale proprio delle classi rurali, destinate ad essere appese al muro accanto alla testata del letto, come dimostrano i fori tutt’ora presenti sugli esemplari custoditi nel Museo. Con il tempo il loro utilizzo si è esteso anche alle classi più agiate, che hanno preferito modelli più complessi ed elaborati, per cui i ceramisti hanno rielaborato i modelli usati dagli architetti napoletani di età manieristica e barocca per la costruzione delle fontane. Ciò spiega le ricche cornici che la maggior parte di esse presenta, con capitelli decorati che sorreggono archi o architravi, colonne (spesso tortili), motivi floreali, palmette, conchiglie, putti reggenti drappeggi o baldacchini, etc.

Il secondo settore

Il secondo settore riguarda la ceramica popolare di uso comune, soprattutto dell’Ottocento, prodotta principalmente per la tavola. Questi oggetti, nonostante il prevalente scopo pratico (le forme variano, infatti, a seconda della funzione), non trascurano l’aspetto estetico, come si evince dalla vivace ed esuberante gamma cromatica ripresa dalla tavolozza classica dei “faenzari” (produttori di ceramiche) vietresi incentrata prevalentemente sulle tonalità del giallo, blu, arancio, rosso, verde ramina e manganese, e dalla maestria ed inventiva dei ceramisti che campiscono le superfici con le più svariate decorazioni: fiori, uccelli, pesci, vedute di paesi, scene campestri o di pesca, velieri, motivi geometrici o stilizzati, etc.

Tali caratteristiche si ritrovano, ad esempio, nell’ “ogliarulo”, il vaso monoansato per l’olio, una delle tipologie più diffuse. Esso possiede il caratteristico bordo “a piattino” con il beccuccio singolo o doppio, per facilitare il versamento dell’olio e ridurne la dispersione, ai cui lati sono collocati i motivi ricorrenti di due occhi, talvolta semplificati con veloci pennellate. Questo motivo antropomorfo, tutt’ora presente nella produzione ceramica delle regioni meridionali, potrebbe avere un significato apotropaico, cioè quello di evitare lo spreco, la perdita di liquidi considerati preziosi come l’olio, presagio di cattiva sorte. La gamma cromatica è basata prevalentemente sull’uso del blu, del rosso e del verde ramina e si attinge ad un repertorio floreale, prediligendo rose orientali o piccole roselline.

Altrettanto interessanti sono i cosiddetti “caponcielli”, grandi piatti dal diametro compreso tra i 40 - 43 cm., usati come piatti da portata unici, legati all’abitudine dei ceti più poveri di attingere il cibo comunitariamente oppure per essiccare al sole gli ortaggi destinati alla conserva invernale. Quando il diametro supera i 44 - 45 cm. il piatto è chiamato “realcapone”, la cui superficie più ampia consente una maggiore varietà di motivi iconografici, sia profani che religiosi. Il soggetto centrale attinge, principalmente, dal mondo naturale: uccelli, pesci, galli, frutta, fiori (in rari casi, anche scene bucoliche o figure femminili), mentre le fasce di margine presentano motivi geometrici o astratti.

Una sezione a parte è dedicata alle “riggiole”, tipiche dell’Italia meridionale ed insulare, a cui è stato dedicato uno spazio specifico dal 6 luglio del 2001 all’interno di Villa Guariglia. Così definite nel gergo dialettale, sono mattonelle in cotto dipinte a mano che si contraddistinguono per ricchezza decorativa e vivacità cromatica, adatte, per la loro resistenza, a rivestimenti parietali e pavimentali. Nel caso delle fabbriche vietresi la riggiola ha una forma quadrata, i cui lati misurano 19 cm., diversamente dalle altre fabbriche, anche regionali, dove ha un lato di 20 cm. Databili tra la fine del Settecento e gli inizi del Novecento, provengono da donazioni e da resti pavimentali di chiese dei dintorni. Agli impianti decorativi pavimentali a tema unico delle ampie composizioni settecentesche, si sostituisce, nell’Ottocento, la decorazione della singola mattonella, in cui un soggetto ricorrente è il rosone centrale, ma sono presenti anche motivi geometrici radiali o stellari, di derivazione orientale, come la caratteristica stella a otto punte, oppure arabeschi, derivanti dalla tipologia decorativa napoletana.

Le riggiole campane attingono anche dall'antichità greco - romana, nota attraverso i reperti degli scavi di Pompei, che rivive nei motivi a nastro circolare e ricorrente, a meandro, “ad onde correnti”, a scacchiera, etc.

In quelle risalenti agli ‘30 e ‘40 del Novecento riprese, principalmente, dal pavimento del Palazzo della Provincia di Salerno, prevalgono motivi floreali ed animali, questi ultimi dedicati a scene marine popolate da pesci, granchi, lumache, meduse, etc.

La gamma cromatica delle riggiole è vastissima e gioca su due o tre colori su fondo bianco o su ricche policromie. Questi pezzi presentano anche un certo interesse storico, in quanto recano il marchio di antiche e spesso scomparse aziende, i cui nomi più ricorrenti sono Cioffi, Cossa, Del Vecchio, Pinto, Punzo, Solimene, i fratelli Tajani, etc. Se, inizialmente, il Museo ospitava solo una trentina di riggiole vietresi e napoletane, oggi questo settore annovera oltre trecento esemplari, grazie a numerose donazioni italiane ed estere e a recuperi vari. Alcuni esemplari arrivano dal Portogallo e dalla Tunisia, donati da artisti quali il portoghese Manuel Cargaleiro e il tunisino Khaled Ben Slimane, entrambi nel 2002.

L’8 marzo del 1999, al pianoterra della Villa, in uno spazio originariamente usato come cantina e garage, è stata inaugurata una seconda sezione museale, che ospita le collezioni private acquisite dal Settore Beni Culturali della Provincia di Salerno, ossia le collezioni Di Marino, Camponi e Dölker. La loro acquisizione rappresenta una tappa fondamentale del programma di ricerca e di recupero della ceramica vietrese nel mondo (pezzi provenienti da Italia, Londra, Parigi, New York, Belgio, Uruguay, Argentina) e costituisce un’azione di potenziamento del Museo stesso, grazie all’introduzione di opere di alto valore storico ed artistico sempre più difficili da reperire sul mercato dei collezionisti, delle aste o presso gli antiquari ceramici. Si comprende, dunque, che lo scopo è fare di questo Museo un polo di riferimento per il Sud, un centro di studio e di conoscenza della ceramica del Meridione.

Il terzo settore: il periodo tedesco

Al cosiddetto “Periodo Tedesco” è dedicata la sezione più ampia e di maggiore interesse del Museo, che fornisce nuovi stimoli alla ceramica vietrese. Agli inizi del Novecento la produzione ceramica vietrese attraversa un periodo di stasi creativa e produttiva, ancorata a vecchi modelli ottocenteschi, a forme e a decori ripetitivi e sterili, che non comunicano più nulla, incapace di rinnovarsi. Datato tra il 1920 e il 1947, tale periodo è così chiamato per la presenza, nelle fabbriche di ceramica e nei laboratori artigianali, di artisti stranieri provenienti dal Nord Europa, soprattutto dalla Germania, i quali giungono in Italia alla ricerca non tanto della tradizione artistica italiana più alta, come quella rinascimentale, ma per approfondire la conoscenza delle tradizioni popolare e figurativa altomedievale. Quest’ultima, definita “primitiva”, viene guardata con rinnovato interesse all’inizio del XX sec. in area germanica, in quanto riabilitata dalla “Scuola di Vienna”. Il riferimento culturale del periodo tedesco è la stagione espressionista, un espressionismo che però, migrando al Sud, perde la sua carica drammatica, il senso di angoscia, di disperazione esistenziale, per incontrare e dialogare con la cultura locale. Si tratta di un linguaggio essenziale, estremamente semplificato e di comunicazione immediata, fondato sul prevalere della linea e su una gamma cromatica squillante (bruno manganese, blu oltremare, verde ramina, giallo solare) che evidenzia e costruisce le cose, i volumi, e di forte impatto visivo. Il rapporto tra i tedeschi e i vietresi ha portato, perciò, alla nascita di una lingua nuova, mista, un vietrese - tedesco, definito “tedeschiese”.

Le tecniche e le forme usate dagli artisti tedeschi sono ancora quelle locali, a cambiare sono i motivi decorativi ed iconografici che ciascuno di loro adatta alla propria sensibilità ed alle proprie capacità, stimolati dalla bellezza e dalle novità dell’ambiente con cui entrano in contatto.

Ai tradizionali motivi decorativi vietresi in voga fino agli inizi degli anni ‘20, quali fiori, frutta e Santi, si sostituiscono le scene di vita quotidiana del Meridione e le sue tradizioni, nuove ed affascinanti agli occhi degli stranieri, come ricorda Irene Kowaliska: “Le tecniche usate dagli stranieri erano quelle locali, tradizionali… Abbiamo invece rinnovato le decorazioni. Ai bordi tradizionali, agli ornamenti, ai fiori, ai frutti, abbiamo aggiunto le scene della vita primitiva del meridione che ci circondava e che era nuova per i nostri occhi. Abbiamo dipinto le barche, i pescatori, i pesci, i venditori con il cesto sulla testa, le donne con le brocche e con il bambino al petto, gli innamorati, le Marinelle, le feste con le processioni, i musicanti, il mare, la luna ed il sole e tanti asinelli! …”

Il loro merito è stato quello di aver riscoperto e portato sulla ceramica un repertorio umano e naturale che l’abitudine, la consuetudine della visione, impediva ormai di cogliere e di assaporare.

Richard Dölker e Irene Kowaliska sono due tra i maggiori esponenti del periodo tedesco.

Richard Dölker (Schomberg 1896 - Turingia, Germania dell'Est 1955) giunge a Vietri nel 1923 e vi trascorre otto anni, dando vita ad uno dei momenti più alti della storia della ceramica italiana, in cui mescola tradizione mediterranea e cultura mitteleuropea. Dölker è affascinato dal mondo e dalla cultura mediterranea, dalla luminosità dei suoi colori e dall’essenzialità delle sue rappresentazioni, come dimostrano i suoi viaggi nel Sud Italia (Sicilia, Sardegna) e nell’Africa del Nord. Il suo linguaggio è fondato sull’essenzialità e sull’estrema semplificazione delle forme, sulle immagini sobrie e spigolose, su una narrazione immediata degli eventi, senza alcun indugio descrittivo, e su di un segno nitido, incisivo, di tipo xilografico, che evidenzia i tratti fisionomici, le vesti, i volumi. Guarda con interesse sia alla figurazione altomedievale, attingendo i suoi soggetti di animali dai bestiari medievali o dai graffiti arcaici e riprendendo lo sviluppo verticale della narrazione dai bassorilievi romanici, sia all’arte paleocristiana, per ciò che riguarda le storie della Bibbia. In queste ultime, spesso il fondo è nero, per mettere in risalto la drammaticità delle scene raffigurate e, per contrasto, la vivacità dei colori impiegati.

Dölker è noto per aver creato, nel 1922, la caratteristica figura dell’asinello, piuttosto buffa, con le orecchie lunghissime e le zampe storte. L'asinello, caro all’iconografia cristiana, è figura ricorrente nell’arte tedesca che, sin dal Medioevo, lo ha idealizzato in sculture assai belle, a grandezza naturale. La predilezione dell’artista per questa figura appartiene ad un bagaglio di tradizioni sacra e popolare germanica, ma è anche un richiamo al Meridione mediterraneo. L’asinello è entrato a fa parte dell’immaginario collettivo di Vietri, tanto da diventare il simbolo della città e della sua ceramica.

Irene Kowaliska (Varsavia 1905 - Roma 1991), dopo essersi diplomata alla “Scuola di Arti Applicate” di Vienna, giunge a Vietri nel 1931. Nella sua produzione cessa “l’horror vacui”, quell’ossessione figurativa dei tedeschi che tendono a campire tutto lo spazio dell’oggetto, secondo i modelli altomedievali di riferimento. La Kowaliska, invece, “lavora per sottrazione, sul minimo assoluto, inaugura una sorta di linea anoressica in ceramica”. Le sue sono immagini isolate, eseguite con un tenero grafismo, dalle linee ampie e morbide, come in un disegno dell’infanzia, e collocate in uno spazio vuoto (o al massimo punteggiato da segni astrali e fiori), che rinviano al mondo fiabesco ed incantato della tradizione dell’est europeo, evocando una dimensione sospesa tra realtà e sogno. Sono esili silhouettes che si contraddistinguono per la loro fissità statica, l’arcaica compostezza, i gioiosi decori delle vesti e l’impiego di colori dalle tonalità delicate. Nell’agosto del 1932 l’artista compie un viaggio in Sardegna che la segna profondamente: all’epoca, la Sardegna era quasi un paese fuori dall'Italia, dal mondo, si entrava in contatto con una realtà completamente diversa dal proprio modo di vivere, fortemente legata alle proprie tradizioni arcaiche. Tracce di questo viaggio sono ravvisabili nel motivo ricorrente del copricapo, del velo in testa portato dalle donne, tipico della sua produzione, e nel motivo dell’asinello, ripreso proprio dal paesaggio sardo. I volti dei suoi personaggi, dai grandi ed espressivi occhi neri, suscitano serenità e tenerezza, mentre l’inserimento di parole come marina, amore, fortuna, o di nomi di persona ripresi dal popolo, quali Maria, Pietro, Anna, Rosa, Carmine, aumenta l’effetto colloquiale dell’opera.

Le parole diventano parte integrante della figurazione, conferendole un carattere ancora più intimo, familiare, privo di quell’accento duro, incisivo, proprio di Dölker.

In definitiva, i pezzi ceramici conservati nel Museo hanno il compito di assicurare la loro conoscenza alle nuove generazioni, che sia si espressione di una creatività contemporanea, ma che muova i suoi presupposti dalla storia, con cui instaura un rapporto dialettico. Ciò significa che la tradizione può arricchire il presente soltanto se dialoga con esso, se si cala e si confronta con la vita attuale, senza chiudersi in sé stesso, riducendosi a memoria nostalgica o a puro ripiegamento archeologico.

 

[1] La presenza del maiale rimanda ad un privilegio concesso nel 1095 all’Ordine dei monaci antoniani di allevare questo animale, in quanto il suo lardo veniva impiegato come medicina per curare l’herpes zoster, volgarmente detto “fuoco di Sant’Antonio”. Il fuoco, invece, ricorda le numerose guarigioni miracolose ottenute per intercessione del Santo durante un’epidemia che infestava la Francia, nel periodo della traslazione delle sue reliquie da Costantinopoli in Europa. A Vietri, il fuoco assume anche un altro significato, strettamente legato alla ceramica: la figura di Sant’Antonio Abate rinvia all’attività di lavorazione dell’argilla, essendo il protettore dei ceramisti, il “padrone del fuoco”, il benevolo custode del forno dove cuociono le terrecotte.

Il “ciucciariello” di Vietri sul Mare.
Torretta Belvedere.
Piastrelle quadrate (Napoli e Vietri, seconda metà e fine ‘800).
Richard Dölker.
Irene Kowaliska.

 

Bibliografia

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IL SANTUARIO DI SAN VITTORE E SANTA CORONA

A cura di Alice Casanova De Marco

A pochi chilometri da Feltre, sulle pendici del Monte Miesna nella località di Anzù, domina solitario il Santuario dei Santi Vittore e Corona, l’ultimo edificio romanico ancora intatto della provincia di Belluno nonché importante testimonianza storico-artistica del bellunese. L’esistenza del Santuario infatti, è simbolo del forte legame tra il territorio Trevigiano- Bellunese e la storia delle crociate, mentre gli affreschi al suo interno rientrano tra i più interessanti dell’alto Veneto.

Veduta del Santuario sullo sperone di roccia.

Il complesso monumentale dei Santi Vittore e Corona è costituito dal santuario, dal convento e dal chiostro, ed è raggiungibile sia percorrendo la lunga scalinata ottocentesca, costruita da Giuseppe Segusini, sia tramite un panoramico sentiero. Entrambi i percorsi terminano in corrispondenza dell’imponente facciata romanico-bizantina della chiesa, accanto alla quale si accede al chiostro, anch’esso in stile romanico.

Il chiostro si presenta come un ambiente semplice e pulito, arricchito soltanto da lunette seicentesche che illustrano la storia del Santuario e di Feltre.

Gli influssi veneti-bizantini che si denotano nella facciata, si ritrovano anche nell’impostazione planimetrica della chiesa: a croce greca inscritta in un rettangolo, a tre navate e con quattro robusti pilastri centrali. Alla croce greca si aggiungono poi un corpo architettonico orientale, costituito dall’abside- martyrium, ed uno occidentale, che contiene una rampa di scale ad addolcire il dislivello tra la parte interna e quella esterna della chiesa. La conformazione architettonica che si può vedere oggi è frutto di diverse modifiche che negli anni hanno cambiato l’assetto della chiesa. Il primo intervento fu a opera dei padri Fiesolani (1494 - 1668), seguiti dai Somaschi (1669 -1771) ed infine dai Francescani (1852 - 1878).

La Storia

Come testimonia un’epigrafe all’interno del santuario, la costruzione della basilica si deve a Giovanni de’ Castellani da Vidor - un ricco feudatario di Enrico IV - che secondo la tradizione aveva guidato i soldati di Feltre durante la prima crociata, nel 1096. A questa data infatti si fa risalire l’inizio del cantiere del complesso religioso, anche se altre fonti suggeriscono che Giovanni diede avvio ai lavori solo dopo il suo ritorno dalle crociate, come tributo per la grazia ricevuta. La costruzione della chiesa proseguì molto velocemente e il 14 maggio del 1101 l’edificio ultimato venne consacrato dal figlio di Giovanni, nonché Vescovo di Feltre, Arpone da Vidor.

I Santi Vittore e Corona

Come si evince dal nome, il Santuario è dedicato ai beati martiri Vittore e Corona, le cui reliquie si narra siano giunte a Feltre trasportate dai crociati di ritorno dall’Oriente. Una leggenda piuttosto fantasiosa racconta il preciso momento in cui il Vescovo di Feltre decise di affidare il santuario ai due martiri, in seguito al verificarsi di un evento miracoloso: si narra infatti che durante il viaggio dei crociati dalla Siria verso Belluno, quando questi giunsero alle pendici del Monte Miesna, le reliquie che essi trasportavano avrebbero manifestato in diversi modi sovrannaturali la volontà di rimanere in quel sito.

Fine del XV sec. Santi Vittore e Corona, prima lesena della porta nord.

La storia del martirio dei due Santi invece è affidata ad un’altra leggenda, secondo la quale entrambi furono martirizzati in Siria nell’anno 171 d.C. Si racconta che Vittore fosse un soldato cristiano, il quale subì pesanti torture ed infine la decapitazione, per essersi rifiutato di rinunciare alla fede cristiana. Corona invece era una giovane sposa, convertitasi al cristianesimo dopo aver assistito al supplizio di Vittore ed essere rimasta colpita dalla forza della sua fede. Sicuramente un atto di grande coraggio che però la condusse inevitabilmente alla tortura e alla morte. Oggi le reliquie dei due santi sono conservate all’interno dell’arca allocata nel martyrium - ovvero un piccolo edificio che in questo caso coincide con l’abside - che ha la generale funzione di custodire la tomba del martire.

Arca dei martiri.

Il martyrium del Santuario di Anzù è di particolare interesse per la storiografia artistica locale, in quanto presenta una loggetta a pianta quadrata con colonne marmoree e capitelli intarsiati: una soluzione architettonica unica in tutto il territorio. Tale loggetta si sviluppa armoniosamente sui tre lati dell’abside, circondando l’arca dei martiri in modo da esaltarne la presenza e renderla il punto centrale per i pellegrini che visitavano la chiesa. Un’altra caratteristica che la rende singolare è l’intricata rete di passaggi che si sviluppa dall’intercapedine nel doppio muro della parte bassa della loggia e che conduce al piano superiore, da dove si può osservare l’arca dall’alto. Dalla loggetta superiore poi, un altro corridoio conduce ancora più in alto e si conclude con una piccola finestra che affaccia sull’abside. Questo sistema di corridoi - tipico delle cripte di epoca proto-romanica (2) - era piuttosto funzionale: esso permetteva ai pellegrini di rendere omaggio alla tomba dei martiri, senza però disturbare le funzioni religiose che aveva luogo in chiesa.

Nonostante il dialogo tra l’arca dei martiri e la loggetta sia piuttosto armonioso, non vi è la certezza che quella sia la posizione originaria della tomba. Quella che osserviamo oggi infatti, deriva da un intervento compiuto nel XV secolo da Luigi Foscarini - Rettore di Feltre per la Repubblica di Venezia - il quale fece sollevare l’arca su quattro colonne. Tra le colonne e l’arca, Foscarini posizionò un lastrone lapideo, scolpito con l’effige di San Vittore e decorato con un fregio che riporta la data 1440.

L’innalzamento dell’arca dei santi viene raffigurato in una lunetta del Chiostro, XVII sec.

Gli affreschi

L’interno della basilica ospita una serie di affreschi di stile paleocristiano orientale, realizzati tra il 1100 e il 1400, che hanno come soggetto Santi, scene tratte dai testi sacri e gli episodi del martirio dei Santi Vittore e Corona.

La decorazione più antica risale appunto al XII secolo, ed è rappresentata dagli affreschi di San Pietro e San Paolo, allocati sulle lesene laterali del martyrium, rispettivamente a sinistra e a destra. L'immagine di San Pietro - raffigurata al di sopra di una piccola altura - riempie interamente lo sfondo, che appare delimitato da una serie di cornici geometriche e policrome. San Paolo invece è rappresentato in modo diverso: egli è posto all’interno di una serie di cornici (rosa, dorata e blu) che creano un gioco prospettico che indirizza lo sguardo verso la figura del santo.

Sul primo pilastro sinistro verso il presbiterio, sono raffigurati San Cristoforo, databile all’ultimo quarto del XIII secolo, e sul lato opposto la Madonna del latte, affrescata nel tardo Trecento.

In pieno Trecento si collocano gli affreschi più importanti del Santuario, realizzati in tre momenti diversi, che si distribuiscono in tre particolari zone della chiesa. In primo luogo le lunette del presbiterio, decorate a destra con la Madonna della misericordia ed in basso l’Ultima Cena, e a sinistra con il Giudizio Universale. Entrambi gli affreschi furono eseguiti da un pittore anonimo, probabilmente un allievo di Giotto, in quanto vi è una discreta somiglianza tra il Giudizio universale del Santuario e quello della cappella degli Scrovegni a Padova. Vi è infatti lo stesso modo giottesco di eseguire la cornice così come anche gli angeli che squillano le trombe.

Successivamente alla decorazione del presbiterio, è ascrivibile quella del transetto sinistro, suddiviso in diciotto semplici riquadri che racchiudono gli Episodi del martirio dei Santi Vittore e Corona.

La lettura del ciclo di affreschi inizia dall'alto a sinistra della parete nord, dove purtroppo solo i primi tre episodi sono rimasti integri. Il riquadro centrale e parte di quelli laterali infatti sono stati distrutti con l’apertura del grande finestrone e delle due finestrelle durante il rinnovamento seicentesco della chiesa. In sintesi, i primi sei riquadri mostrano le torture subite da Vittore - come l’amputazione delle dita e la combustione - mentre gli ultimi tre illustrano la conversione di Corona e la successiva morte. Le scenette continuano poi nelle pareti laterali del transetto dove però sono molto più danneggiate e perciò di difficile lettura.

Transetto sinistro del presbiterio, Santa Corona è convocata da Sebastiano.

Per quanto riguarda le maestranze che hanno realizzato gli Episodi del martirio e la datazione della decorazione, vi sono due distinte scuole di pensiero: da un lato si riconosce un’impronta bolognese e la realizzazione non è precedente al sesto decennio del Trecento. Dall’altro si attribuisce la decorazione ad una scuola artistica locale con collegamenti al Trentino Alto Adige ed il periodo in considerazione è tra gli anni Trenta e Sessanta del Trecento.

La terza fase di decorazione della chiesa vede protagonisti i Padri della Chiesa ed è affrescata nelle pareti del martyrium. Nelle pareti laterali vi sono due lunette che raffigurano a destra, S. Agostino e S. Gregorio, mentre a sinistra S. Gerolamo e S. Ambrogio. I quattro Padri sono raffigurati nell’atto di scrivere su tavoli lignei molto semplici su cui si posano vari libri e pergamene. Sopra le pareti si eleva una volta decorata con stelle e con i quattro evangelisti, una chiara rappresentazione del paradiso. A separare gli affreschi del martyrium da quelli della navata vi è un sott’arco affrescato con cornici mistilinee, che racchiudono nove mezze figure di angeli musicanti.

L’ultimo affresco di cui si parlerà è un’insolita Ultima Cena, presente nella parete sud del Santuario. Già la sua collocazione, quasi nell’ombra e alla fine della navata destra, fa notare la differenza tra questa Ultima Cena e la prima, posizionata sotto la Madonna della Misericordia e soprattutto vicino all’altare.

Ultima Cena con gamberi.

La seconda Ultima Cena è definita insolita per ciò che presenta sulla tavola: oltre ai simboli del sacrificio eucaristico - il pesce, il pane ed il vino - vi sono infatti anche alcuni alimenti che mettono in relazione il sacro episodio con il territorio locale. Tali alimenti sono ad esempio alcuni frutti, come pere, mele e castagne, ma soprattutto spiccano i ventisette gamberi rossi di fiume. Ad osservarli oggi, l’inserimento di tali crostacei sembra una scelta bizzarra, ma al tempo i gamberi erano un elemento caratteristico della zona e fruibile anche dai più poveri. Nelle vicinanze del Santuario infatti, scorre il Fiume Piave, le cui acque limpide ed incontaminate, ospitavano in passato una grande quantità di gamberi.

Particolare dell’Ultima Cena con gamberi.

Ma oltre al collegamento con la tradizione locale gli studiosi hanno cercato di comprendere se vi fosse anche un significato religioso riguardo all’inserimento dei gamberi nell’affresco. La prima ipotesi che si rifà alla tradizione cristiana, collega la muta del gambero al tema della resurrezione. Mentre una seconda ipotesi, si focalizza sulla caratteristica del gambero di camminare all’indietro, proprio come fanno gli eretici sempre secondo la tradizione. Nella zona di Feltre, ed in generale quella lungo le sponde del Piave, l’eresia era un tema piuttosto comune in quanto, al tempo in cui sono stati realizzati gli affreschi, la Chiesa Cattolica era particolarmente oppressiva: bastava mostrare il più lieve dubbio per essere considerati eretici.

Purtroppo, durante la reggenza dei padri Somaschi (1669-1771) l’intero edificio subì un pesante rivestimento barocco che per lungo tempo coprì gli affreschi medievali. Su alcuni di essi si notano ancora le martellinature eseguite per permettere una maggiore aderenza degli stucchi. La riscoperta dell’originaria decorazione avvenne solo durante gli interventi di restauro eseguiti tra il 1920-22 e il 1939 e promossi dal rettore Giuseppe Bortolon (Feltre, 1876 - 1939).

  • Il santuario domina l’unica strada che storicamente collegava il territorio feltrino a Venezia, un punto strategico per il controllo del transito e per proteggere la città di Feltre. Cfr. Archeologia dell’architettura.
  • La differenza tra i corridoi del Santuario e di quelli delle cripte antiche è il fatto di non essere sotterranei. Nel Santuario non era infatti possibile scavare sotto il terreno in quanto è costruito su un banco roccioso. Inoltre, tali corridoi non volevano essere tenuti nascosti, anzi, vi era un certa tendenza a voler spettacolarizzare il pellegrinaggio. Conte T.,Tesori d'arte nelle chiese del bellunese. Feltre e territorio, Editore Provincia di Belluno, 2008, p.230.

 

Bibliografia

Venezia e il Veneto: La Laguna, il Garda, le Ville, i Colli Euganei e le Dolomiti, Guide verdi d’Italia, Touring club italiano, 1999

NOVELLO A., La chiesa dei Ss. Vittore e Corona a Feltre, in «Arte Cristiana» IX (1921), 5, pp. 143-152.

MAGANI F., MAJOLI L. (a cura di) Tesori d'arte nelle chiese del bellunese. Feltre e territorio, Editore Provincia di Belluno, 2008

CODEN F., Agiografia e iconografia dei santi Vittore e Corona, in Il santuario dei SS. Vittore e Corona a Feltre. Studi agiografici, storico e storico-artistici in memoria di Mons. Vincenzo Savio, Belluno 2004, pp. 213-269.

Archeologia dell'Architettura XIX, 2014, All’Insegna del Giglio, 2015

 

Sitografia

http://www.infodolomiti.it/nqcontent.cfm?a_id=7161

https://www.qdpnews.it/veneto/37769-feltre-la-leggenda-delle-reliquie- dei-santi-martiri-vittore-e-corona-il-santuario-costruito-sullo-sperone-di- roccia

 

Immagini

Fotografie scattate da Alice Casanova De Marco, tratte dal documentario di Tele Pace e dal libro Tesori d'arte nelle chiese del bellunese. Feltre e territorio, di MAGANI F., MAJOLI L. (a cura di).


ISOLA DEL CANTONE: LA CHIESA PARROCCHIALE

A cura di Simone Rivara

Introduzione: storia e simbologia della chiesa di Isola del Cantone

Che la Valle Scrivia sia un’importante via di comunicazione tra Genova e la Pianura Padana è chiaro almeno da quando i romani hanno fatto conoscere le strade agli abitanti di queste montagne dell’entroterra ligure. Infatti è proprio lungo le rive del Torrente Scrivia (e non solo), ora scoscese e aspre, ora più ampie e pianeggianti, che Aulo Postumio Albino, console romano, fece costruire nel 148 a.C. la Via Postumia, per collegare Genova ad Aquileia in funzione prevalentemente militare. Una volta sottomessi i popoli della Gallia Cisalpina, la Via rimase come arteria commerciale per rifornire la città di Libarna (oggi interessante sito archeologico), almeno per quanto concerne la sua parte ligure. Con la caduta dell’impero d’Occidente gli scambi diminuirono fino al fatidico anno Mille (da sempre considerato il secolo della svolta e della ripresa economica) quando il percorso di fondovalle riprese ad essere trafficato, come dimostrano i numerosi ponti costruiti nel Basso Medioevo.

E certamente, lungo un canale di scambio così importante e trafficato, non poteva mancare la presenza di una delle istituzioni più potenti e celebri del medioevo: l'Ordine benedettino.

Ed infatti quella che oggi è la chiesa parrocchiale di Isola del Cantone, dedicata a San Michele e ai Santi Martiri Stefano ed Innocenzo, situata sul versante sinistro dello Scrivia, fu in origine una cella benedettina che rispondeva alla grande abbazia di San Michele della Chiusa in Val di Susa. Questa cella fungeva da presidio (da stazione di servizio) per l’accoglienza di pellegrini, mercanti e viandanti di ogni genere, in cambio di denaro. In quanto cella benedettina era abitata da monaci, che non si occupavano della salvezza delle anime degli abitanti di Isola (o Campolungo, come era anticamente chiamato l'insediamento urbano sulla riva sinistra dello Scrivia, mentre “Insula" era l’insediamento sulla riva destra, figura 1); questo compito infatti spettava ai sacerdoti della chiesa di Santo Stefano, sul versante opposto, questa sì, sotto il controllo della chiesa di Roma e della Diocesi di Tortona.

Come dimostra la colonnina con capitello corinzieggiante ritrovata sotto il vecchio intonaco durante i lavori di ristrutturazione dell'adiacente canonica (figure 2, 3), con ogni probabilità di fianco alla cella sorgeva un piccolo chiostro.

La prima notizia che dimostra la presenza dei benedettini a Isola risale al 1154 ed è una citazione nella bolla del 30 marzo di papa Anastasio IV che ne attesta i diritti al monastero clusino. Con la costruzione del borgo nuovo fra XIII e XIV secolo, i frati abbandonarono Campolungo lasciando la chiesa in gestione ai sacerdoti tradizionali (in seguito alla perdita di importanza della chiesa di S.Stefano), anche se ufficialmente rimase sotto il controllo di San Michele della Chiusa.

Nel 1582 Mons. Francesco Bossio, Vescovo di Novara, visitatore apostolico per l’osservanza dei decreti del Concilio di Trento, recatosi in loco, decretò alcuni interventi da effettuarsi, tra i quali è interessante riportare alcuni aspetti molto pratici descritti da Don Stefano Costa nella sua “Isola del Cantone in Valle Scrivia”, agli inizi del ‘900:

«alla finestra che è nella cappella si ponga un telaio. […] La sacristia sia ingrandita sufficientemente; il tetto sia riparato dove è rotto; il cimitero sia adornato di croce visibile a tutti: tempo un mese.» (Costa 41,42)

Ciò lascia intuire le condizioni non ottimali in cui la struttura riversava: finestre senza vetri (un telaio per riparare dal freddo i fedeli), tetto compromesso e nemmeno una croce a vegliare sulle anime dei defunti, sepolti nel cimitero circostante.

Nel 1650 il rettore Andrea Chioino, parroco in quel tempo, stese una relazione sullo stato della chiesa, consigliando lavori di restauro che si sanno eseguiti entro il 1680, poiché proprio in quell'anno un bollettino parrocchiale enunciava le ultime spese compiute. Gli interventi furono notevoli: anche se non si conoscono nello specifico, si ha notizia che la chiesa fu allungata di un terzo ricavando così lo spazio per due nuovi altari laterali e probabilmente prese, in gran parte, le fattezze attuali.

Ancora Stefano Costa ricorda che nel 1853 fu aperta la scalinata di fronte alla chiesa, e che il portale maggiore fu ornato con gli stipiti in pietre conce. Nel 1877 fu rinnovata la facciata, decorata nel 1882 con l'affresco di San Michele, pagato L. 300 (figura 4) sostituito durante gli anni Sessanta con un bassorilievo con lo stesso soggetto, di dubbio gusto (figura 5).

Altri interventi di restauro furono compiuti tra Otto e Novecento.

 

La chiesa di Isola del Cantone: la facciata

Ricostruita nel 1877 e decorata nel 1882, la facciata (figura 6) a salienti rispecchia l'organizzazione interna dell'edificio in tre navate ed è suddivisa in due registri. Quello inferiore è composto dal portale sovrastato dalla figura dell'Arcangelo Michele con la testa di Satana (figura 5), quattro lesene scanalate con capitello decorato con putti e melograni; tra motivi vegetali classicheggianti, negli intercolumni sono dipinte un’ancora (figura 7), simbolo della speranza, e una croce (figura 8), la fede, intorno alla quale svolazza un cartiglio con il motto “in hoc signo vinces” (dal latino “sotto questo segno vincerai”), che rievoca la visione di Costantino durante la battaglia di ponte Milvio. Una trabeazione decorata con motivi vegetali divide i due comparti; il registro superiore presenta al centro un rosone polilobato, quattro lesene a fusto liscio con capitello decorato a foglie d'acanto, simbolo della resurrezione e di vita eterna, dipinte tra gli intercolumni le immagini dei Santi Martiri Stefano ed Innocenzo (figure 9, 10), collocati in finte nicchie. Il primo reca in mano un piccolo contenitore, forse la sua stessa reliquia; il secondo un libro aperto sul quale si possono leggere i versetti 31 e 38/39 capitolo 8 delle lettere di San Paolo ai romani:

Si Deus pro nobis quis contra nos? Quis nos separabit caritate Christi?

Certus sum enim quia neque mors neque vita neque angeli neque principatus instantia neque futura neque altitudo neque profundum neque alia quaelibet creatura poterit nos separare a caritate Dei, quae est Christo lesu Domino nostro.

[Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Chi ci separerà dell’amore di Cristo?

Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore (figura 11).]

Entrambi hanno in mano la palma del martirio. La facciata culmina in un pesante frontone e sull’apice una croce. La facciata è fresca di restauro, completato nel 2019.

È interessante osservare il simbolo (figura 12) posto al centro del timpano: si tratta di uno stemma che celebra il matrimonio tra G. Battista Torre e Anna Maria Spinola. Lei era figlia di Gerolamo, feudatario di Isola, che finanziò i lavori di trasformazione della chiesa tra 1650 e 1680; il simbolo è composto dagli stemmi delle due casate giustapposti, ovvero una torre unita al simbolo araldico della casata Spinola. Potrebbe avere il significato di “Jus Patronatus", cioè diritto concesso per gratitudine dai fedeli verso i benefattori; la chiesa inoltre presenta i colori della casata Spinola, il giallo e il rosso.

Fig. 6 - Facciata della chiesa parrocchiale di Isola del Cantone.

L'interno della chiesa di Isola del Cantone

Lo stesso simbolo araldico presente sul timpano è replicato sopra al presbiterio e sulla balconata dell'organo (figure 13, 14), dove gli Spinola, prima della costruzione dell'organo, solevano assistere alla messa distaccati dal popolo.

Nel 1901 si avviarono lavori di ristrutturazione degli interni, le pitture furono affidate a Rodolfo Gambino di Alessandria. Le pitture del Gambino, non certamente definibili capolavori ma comunque di gradevole fattura, nascondono alcune interessanti curiosità. Il pittore affrescò le pareti con una quantità enorme di figure sacre (che devono ancora essere riconosciute e studiate nel dettaglio) mentre nella volta, divisa in grossi rettangoli come fossero quadri, narrò alcune vicende della parrocchia isolese, tra cui la più importante al centro della navata: la consegna alla chiesa dei resti dei “Corpi Santi” (così sono chiamati i Santi Martiri Stefano ed Innocenzo), avvenuta nel 1629 (figure 15, 16). Proprio in questa scena sono stati riconosciuti alcuni abitanti di Isola del Cantone che pagarono Gambino per essere ritratti; in alto a sinistra, invece, il pittore ritrasse sé stesso e il proprio figlio Luigi, in abbigliamento elegante e sorprendentemente moderno (figura 17). Sullo sfondo della sena si scorge il Monte reale con la sua cappella.

Ancora sulla volta, tra un dipinto e l'altro, si riconoscono gli stemmi dell’arcivescovo Tommaso Reggio (figura 18) e di Papa Leone XIII (figura 19), anche in questo caso un segnale di gratitudine rivolto dai cittadini ai benefattori che finanziarono il restauro.

Nel primo altare a sinistra entrando in chiesa si trova una sorprendente pala d'altare che raffigura la crocifissione (figura 20, 21), di gran lunga l'opera di maggiore interesse: è infatti attribuita al pittore secentesco Francisco de Burgos Mantilla (Burgos 1610-Madrid 1672), esponente del barocco spagnolo nonché allievo del celebre Diego Velásquez. In netto contrasto cromatico, dallo sfondo scuro emerge la figura di Cristo in croce, raffigurato secondo l'iconografia del “Cristo spirante", nel momento in cui pronunciò le parole “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito"; ai suoi fianchi due putti lo assistono, mentre sullo sfondo si intravede un drammatico cielo in tempesta, sempre secondo le scritture. La tela, fortemente teatrale, aderisce in pieno ai dettami della controriforma. La pala attende ancora di essere studiata nel dettaglio.

L’8 agosto 1629, come anticipato, Gerolamo Spinola consegnava ufficialmente le reliquie dei S. Martiri Stefano ed Innocenzo al Rettore Andrea Chioino, parroco di Isola del Cantone. Di S. Innocenzo non si hanno notizie; di S. Stefano (da non confondere con il più noto protomartire) il Costa ci tramanda che fu suddiacono della chiesa di Roma. Gli scheletri dei venerati Martiri furono collocati, a partire dal 1901, in un maestoso reliquiario neo-gotico in bronzo dorato realizzato dall'orafo Eugenio Broggi (figura 22). La “cassa" fu riposta su un altare laterale della chiesa, realizzato ex novo e pagato interamente dagli isolesi emigrati in America nel 1911, dei quali un'iscrizione ricorda il gesto (figura 23):

QUESTO MARMOREO ALTARE DEDICATO AI SS. MM. STEFANO ED INNOCENZO E L'URNA DI BRONZO CHE RACCHIUDE LE LORO OSSA VENERATE DONARONO A QUESTA CHIESA PARROCCHIALE I FIGLI EMIGRATI IN AMERICA

COSÌ VOLLERO AFFERMATA LA LORO FEDE RELIGIOSA RICORDANDO LA PATRIA LONTANA

Una volta all'anno, la seconda domenica di agosto, viene portata a spalla in solenne processione lungo le strade del paese.

Simbologia

Nel 1827 fu realizzato il piazzale che nel 1887 fu selciato e alberato con undici platani, su progetto dell’ing. Edoardo Mignacco (probabilmente un massone, come molti borghesi di fine ‘800). Si osservano sullo spiazzo i seguenti simboli: una clessidra tra la porta d'ingresso in chiesa e la scalinata che collega il piazzale alla strada provinciale (figura 24) e una stella a sei punte inscritta in un cerchio a sua volta inscritto in un rombo (figura 25). La clessidra è, per la massoneria, metafora di Saturno e perciò del tempo, invito alla pazienza e alla tolleranza, guida il pensiero a soffermarsi sulla natura transitoria della vita (polvere siamo e polvere ritorneremo). Il rombo, formato da due squadre, costituisce uno dei più antichi simboli massonici. La stella a sei punte, che è la stella (o scudo) di Davide, è costituita da due triangoli equilateri intersecati, e rappresenta l'unione del cielo e della terra.

Se si guarda alla chiesa dalla strada provinciale, si noterà che la facciata forma un ottagono, simbolo della vita eterna in rimando all'ottavo giorno (figura 26), mentre il rapporto tra le misure della facciata e del retrostante campanile altro non è che la sezione aurea (figura 27).

La chiesa, a croce latina, è orientata con l'abside ad est in modo tale che l'ingresso principale sia a ovest, ai piedi della croce; così facendo, il fedele che entra in chiesa, si dirige verso est, cioè verso l'abside (metafora del capo di Cristo crocefisso) e ripercorre simbolicamente la salita di Gesù sulla croce, secondo una tradizione secolare.

Inoltre il giorno della ricorrenza della consegna dei “Corpi Santi", l'8 agosto, il sole entra dall’oculo polilobato posto sull’abside e illumina l'ingresso (figura 28); durante il solstizio d’estate illumina l'angolo sud della parete ovest; durante gli equinozi l'angolo nord della parete ovest. La cristianità aveva ereditato questo “culto del sole" dai culti pagani pre-cristiani, ricchi di significati.

La chiesa fa parte della “linea di San Michele”, una linea immaginaria che, partendo da Mont-Saint Michael, passa per La Sacra di San Michele e per molte altre chiese dedicate all'Arcangelo, termina nel monastero di San Michele ad Haifa, Israele (figura 29).

Si invitano i lettori a visionare, nella IGTV di “Storia dell'arte”, le riprese realizzate con il drone.

 

Bibliografia

COSTA Stefano, Isola del Cantone in Valle Scrivia, 1913;

PEDEMONTE Sergio, Per una Storia del Comune di Isola del Cantone, Grafiche G7, Savignone 2012;

PEDEMONTE Sergio, In Margine a una Storia di Isola del Cantone, Libreria dell'Oltregiogo 2, Insedicesimo editori;

PEDEMONTE Sergio, Visita Guidata alla Chiesa Parrocchiale, 11 agosto 2019, Centro Culturale Isola del Cantone;

PEDEMONTE Sergio, La Tavola di Bronzo della Val Polcevera e la Via Postumia, Novinostra in Novitate n. 6, 2018;

DE SANTIS Henry, PEDEMONTE Sergio, ruderi della chiesa di Santo Stefano a Isola del Cantone, atti del XV seminario di archeoastronomia, Genova, 13-14 Aprile 2013.


IL CASTELLO DI MUSSOMELI

A cura di Antonina Quartararo

La storia: fascino architettonico e misteriose leggende

Il Castello di Mussomeli, o Castello Manfredonico Chiaramontano di Mussomeli, per la sua straordinaria tecnica costruttiva è considerato uno dei capolavori dell’architettura militare medievale siciliana. La fortezza si erge maestosa quasi a 2 km dal centro abitato, incastonata in un’imponente rupe in pietra calcarea alta 78 metri domina l’intera vallata sottostante (Fig.1). Il castello è stato costruito tra la fine del XII e l’inizio del XIV secolo sulle preesistenti rovine di un casale arabo durante la dominazione della famiglia D’Auria. La sua incredibile fama ha origine con Manfredi III di Chiaramonte, che ne prese possesso grazie al privilegio concesso dal Re Federico nella seconda metà del XIV secolo. Le opere murarie sono disposte a quote differenti e seguono la struttura naturale della roccia. Dotato di un solo ingresso e reso inaccessibile, assunse il nome di Castello Manfredonico Chiaramontano svolgendo sia il ruolo di presidio militare autonomo che quello residenziale (Fig. 2 -3). Si presume che per la sua distanza dalla città di Mussomeli, un tempo chiamata “Manfreda”, il castello non ebbe mai mansioni difensive dell’abitato. Fortemente scosceso a nord-est e a picco a sud-ovest, vi è solo un accesso sul lato nord (Fig.4) costituito da una stradina scavata nella roccia che attraversava un profondo fossato (poi richiuso) superabile grazie al ponte levatoio che caratterizzava l’impianto difensivo dei castelli dell’epoca. Nel 1374 il preesistente maniero diventò di proprietà di Manfredi III Chiaramonte, essendo egli il primo di Quattro Vicari che all’epoca governavano la Sicilia in vece della Regina Maria d’Aragona, nipote di Pietro IV, ancora bambina. La famiglia di Manfredi, di origine normanna, discendeva da Carlo Magno. Manfredi insieme a Francesco Ventimiglia conte di Geraci, Guglielmo di Peralta e Artale d'Alagona nominati “i Quattro Vicari” dovevano reggere lo Stato in nome della regina Maria. Iniziò così uno dei periodi più convulsi della storia della Sicilia, quello dei “Martini” (il Vecchio e il Giovane). In questo arco di tempo, frequenti furono le lotte baronali e le contese per il potere, tanto da ritenere necessaria la costruzione in Sicilia di luoghi fortificati. Nel 1391, morto Manfredi, i beni di famiglia ed il castello furono affidati al cugino Andrea Chiaromonte che continuò ad esercitare sull'Isola la stessa influenza politica del predecessore e a lottare contro gli Aragonesi.  Il 10 luglio 1391 all’interno del castello si tenne una riunione dei baroni siciliani nella sala del trono, che da questo evento prese il nome la “Sala dei Baroni”; in questa stanza i baroni promisero ad Andrea Chiaromonte di schierarsi contro la venuta in Sicilia dell’aragonese Re Martino il Giovane e della Regina Maria. In realtà, il patto non fu mantenuto, ritenendo più conveniente obbedire al nuovo Re Martino anziché ai quattro vicari che da anni davano vita a feroci guerre intestine. I baroni Ventimiglia, Peralta e d’Alagona tradirono Chiaramonte, scossi da rivalità personali e da conflitti tra vecchie e nuove famiglie, trattando segretamente con gli Aragonesi per ottenere tutti i privilegi possibili in cambio del loro appoggio.

Fig. 1 - Il Castello di Mussomeli e la sua rupe.
Fig.4 - Stradina di accesso.

Nel marzo del 1392, Martino il Giovane, la moglie e il padre sbarcarono a Trapani e ricevettero subito l'ossequio servile della nobiltà. Solo Andrea Chiaramonte si rifiutò di rendere omaggio agli usurpatori del Regno, e con un’armata giunse a Palermo rifugiandosi all’interno del suo palazzo, lo Steri, dove, assediato, fu costretto alla resa. Dopo la sconfitta, la regina Maria, dinanzi alla quale Andrea Chiaramonte era stato condotto a rendere omaggio, finse di perdonarlo nel maldestro tentativo di rendere pubblica la sua magnanimità nei confronti di un ribelle. Fu un falso perdono perché dopo due giorni Andrea fu fatto prigioniero e decapitato in piazza Marina a Palermo, proprio davanti il suo palazzo, vanto della sua potente famiglia, che da quel momento iniziò il suo inarrestabile declino. I beni di Chiaramonte furono confiscati e distribuiti, e il castello di Mussomeli venne assegnato a Guglielmo Raimondo Moncada. Qualche anno dopo il castello passò ai Conti di Prades, che lo vendettero poi a Giovanni Castellar di Valenza per il prezzo di 890 once: questi lo completò nella forma in cui appare oggi. Reintegrato nel demanio, nel 1451 il castello venne riacquistato insieme al paese di Mussomeli da Giovanni di Parapertusa, nipote del Castellar e signore di Favara, Tripi e Sambuca, che lo rivendette poco dopo a Federico Ventimiglia; da questi nel 1467 lo ricomprò Pietro Campo, genero del Parapertusa, insieme con Mussomeli frattanto divenuta baronia. Infine nel 1549 Cesare Lanza, signore di Trabia, acquistò la terra e il castello di Mussomeli, elevando la terra a contea. Nel XVII secolo il castello fu adibito a carcere, rimanendo proprietà della famiglia Lanza di Trabia fino al XX secolo. Dopo un importante restauro avvenuto nel 1911 a cura dell’architetto Ernesto Arnò divenne di proprietà pubblica. Nel 2019 è stato ultimato un altro importante restauro con un investimento di 2,2 milioni euro.

Il castello di Mussomeli: gli interni

Attraversato il primo portale ad arco acuto ricavato all’interno della cinta muraria merlata, si vedono i resti dell’antica scuderia, ampio corpo allungato trapezoidale, coperto con volta a botte ogivale. Proseguendo il percorso in salita, si giunge alla seconda cinta muraria, nella quale si apre la porta d’accesso al castello (Fig.5-6), anch’essa ogivale, dove sono ancora visibili in sommità e ai lati gli stemmi signorili. Su di essi sono raffigurati un giglio, un castello con tre torri e un’aquila con le ali spiegate. Le tre torri rappresentano la famiglia Castellar, mentre l’aquila è da ricollegare agli Aragonesi. Varcata la soglia si trova un ampio cortile eptagonale (Fig.7-8) sui quali lati si affacciano gli ambienti residenziali del castello, la cappella e i resti del maschio. Da un piccolo vestibolo si accede attraverso un portale ogivale modanato alla cosiddetta “Sala dei Baroni” (Fig.9), ampio vano rettangolare di cui rimangono due bifore da cui è possibile ammirare un bellissimo panorama a strapiombo sulla vallata (Fig.10).

Interessanti sono la “Camera del camino” e la "Camera da letto" del conte, a doppia volta a crociera (Fig.11). Da ricordare ancora l'armeria, la cosiddetta "camera della morte", con insidiose botole, la "stanza delle tre donne" e il carcere feudale.

Fig. 11 - Camera da letto.

La stanza delle tre donne è avvolta da una leggenda popolare: un re in procinto di partire per la guerra chiuse in questa stanza tre donne della propria famiglia. Dopo averle imprigionate si mise in cammino, pensando di averle lasciate in un luogo sicuro. La guerra però durò più di quanto lui credeva e al suo ritorno trovò le tre donne morte, che tenevano addentate le pianelle per gli stimoli atroci della fame. Un'altra versione di questa storia è che le donne vennero rinchiuse e fatte morire di fame per la loro infedeltà.

Accanto alla “Sala dei Baroni”, un vano di pianta triangolare immette in una successione di ambienti coperti a volte a crociera costolonate, e nei quali si aprono delle bifore; attraverso scalette interne si accede ai vani di servizio sottostanti. Uscendo nel cortile interno sono visibili, ad una quota superiore, i resti di una costruzione a pianta rettangolare con muri spessi 2 metri circa, comunemente definita “maschio”. L’ultimo corpo di fabbrica affacciato sulla corte interna è la cappella (Fig.12), caratterizzata da un elegante portale in pietra, ogivale, analogo a quello che immette nella Sala dei Baroni’. La cappella dedicata prima a San Giorgio, protettore dei Chiaramonte, custodisce la statua della Madonna della Catena collocatavi nel 1521, a cui i carcerati si rivolgevano per implorare la grazia. Internamente la cappella, di pianta rettangolare, è decorata da due crociere costolonate, poggianti su semi pilastri poligonali, analoghi ai precedenti, sormontati da capitelli con fogliame; profonde feritoie si affacciano sulla vallata circostante.

Fig.12 - Cappella.

Per il suo aspetto misterioso, il castello di Mussomeli è diventato ambientazione di leggende e storie incredibili. Si ricordano le tre donne murate vive, la tragica vicenda che portò alla morte la nobildonna Laura Lanza, conosciuta meglio con l’epiteto di Baronessa di Carini, effettivamente avvenuta e documentata in un atto del 1563 conservato nella chiesa parrocchiale di Mussomeli; proprio all’interno del castello di Mussomeli il padre della baronessa, Cesare Lanza, si rifugiò divorato dai rimorsi per espiare la propria colpa. Infine si menziona la storia del presunto fantasma dello spagnolo don Guiscardo de la Portes, cavaliere al servizio del re Martino I di Sicilia, morto durante un combattimento contro il ribelle Andrea Chiaramonte.

Il castello di Mussomeli è uno dei castelli medievali italiani tra i più suggestivi e meglio conservati: fa parte della “Società Internazionale dei Castelli” e nel 1982 è stato raffigurato su un francobollo della cosiddetta serie “Castelli d’Italia” (Fig.13). Inoltre è stato anche set per numerosi videoclip, pubblicità e film tra cui quello dedicato alla Baronessa di Carini del 2007 con protagonisti gli attori Vittoria Puccini e Luca Argentero.

Fig.13 - Francobollo.

Bibliografia:

Calà G., Ricerche storiche su Mussomeli, Caltanissetta 1995.


I BIAZACI DA BUSCA: IL VOLGO SULL'ALTARE

A cura di Francesco Surfaro

Riscoperti dalla critica soltanto in tempi relativamente recenti, i fratelli Tommaso e Matteo Biazaci da Busca furono artisti itineranti attivi tra la seconda metà del Quattrocento e i primissimi anni del Cinquecento in una vasta area territoriale che si estende dalla Granda fino alla zona costiera della Riviera di Ponente, portatori di un linguaggio pittorico estremamente armonioso ed equilibrato, dalla spiccata vena narrativa e carico di intenti paideutici. I loro modi, ancora tardogotici, nulla hanno a che vedere con la durezza dei modelli d'oltralpe ma, al contrario, sono caratterizzati da tenui e luminose cromie, tratti dolci e da un peculiare gusto per le coloriture legate al mondo popolare, il tutto arricchito dal preziosismo dei dettagli.

Fig. 1 - F.lli Biazaci da Busca: Sibilla Tiburtina, 1483, affresco. Albenga, Chiesa di San Bernardino.

Le notizie biografiche che si hanno a disposizione sui fratelli Tommaso e Matteo Biazaci (o Biasacci secondo il Rotondi) sono piuttosto lacunose. Di loro si sa per certo che nacquero - in date sconosciute - a Busca, un antico borgo del cuneese non lontano da Saluzzo che sorge sulle rovine di un insediamento romano, come da loro stessi scrupolosamente ricordato ogni qualvolta si palesavano come autori di un'opera firmandosi: "Thomas Biazacii de Busca et Matheus ejus frater pinxerunt" (letteralmente: lo hanno dipinto Tommaso Biazaci da Busca e suo fratello Matteo). L'esistenza di una famiglia "Biazacio" - traslitterata altrove anche come "Busaci" o "Biazacius" - nella succitata cittadina del Piemonte meridionale bagnata dal torrente Maira è suffragata per la prima volta da un atto custodito nell'archivio parrocchiale datato 1494. In esso si legge che un tale "Thoma Biazaci" (non ci sono prove sufficienti per sostenere che si tratti proprio del nostro Tommaso) svolge la funzione di testimone per la stipula di un contratto. In un altro documento riportante la data del 19 novembre 1546 viene citato un certo "Baptista Bia(z)iaci". A partire dall'ultimo decennio del XVI secolo questo cognome scomparve dai registri della parrocchia, ciò induce a pensare che la famiglia si fosse estinta.

Tommaso fra i due era il magister, ovvero il titolare di una bottega, pare anche assai fiorente, che per diversi decenni "(...) rivestì un ruolo non certo secondario in un’area vasta e complessa lungo le strade e le mulattiere fra la bassa pianura piemontese e il mare della Riviera, servendo committenze diverse ma tutt’altro che mediocri e dimostrando, nella sua operosa dinamicità, una struttura organizzativa e una attenzione ai dati culturali del tempo che le consentirono di reggere a lungo a concorrenze agguerrite e aggiornate, di varia provenienza" (Ciliento). Matteo, dal canto suo, doveva essere un assiduo collaboratore all'interno dell'éntourage familiare e, al contrario del fratello, dimostrò di essere sì abile, ma non eccellente. La sua mano si può riconoscere infatti per una certa rigidità del disegno. Nel 1956, la scoperta del codice miniato quattrocentesco degli Statuta Savilliani da parte di Mario Bressy presso l'Archivio Storico di Savigliano e l'assegnazione di alcune delle miniature a Tommaso, permise di ricostruire la prima formazione in patria di quest'ultimo nel campo della decorazione dei manoscritti. Tale ipotesi trova un ampio riscontro se si osserva attentamente un dipinto che, nel secolo scorso, fu cruciale per dare avvio agli studi volti a ricostruire l'attività dei fratelli di Busca, anche e soprattutto perché era tra le pochissime opere all'epoca note a riportare la firma di uno dei due. Si tratta di una Madonna col Bambino in trono eseguita dal solo Tommaso nel 1478, ed oggi conservata al Museo di Sant'Agostino a Genova dopo anni di permanenza nei depositi di Palazzo Bianco.

In origine, questa raffinata tavola a fondo oro doveva costituire lo scomparto centrale di un polittico destinato alla Chiesa di Santa Maria in Fontibus ad Albenga, poi smembrato e disperso. Osservando i sontuosi abiti indossati dalla Vergine e dal Bambino, i nimbi e i dettagli del trono minuziosamente descritto e finemente punzonato all'altezza della spalliera, è impossibile non notare una certa affinità con la tecnica miniaturistica. L'intera composizione denuncia le nuove suggestioni rinascimentali provenienti dall'ambito ligure e lombardo; in particolare, Giovanni Mazone e i fratelli Bonifacio e Benedetto Bembo sembrano essere delle felici fonti di ispirazione. Pur ostinandosi a mantenere un legame viscerale con la cultura tardogotica, Tommaso rifugge ogni tipo di esasperazione espressionista e permea le sue figure di "un'umiltà popolaresca" (Rotondi), una dolcezza mediterranea e una pacata compostezza sconosciute alle esperienze oltralpine.

Fig. 2 - Tommaso Biazaci da Busca, Madonna col Bambino in trono, 1478, tempera e foglia d'oro su tavola. Genova, Museo di Sant'Agostino. Copyright fotografico: Giorgio Olivero. Fonte: Comune di Busca.

A Marmora, nel 1459, Tommaso realizzò gli affreschi della parete esterna di destra della Chiesa dei Santi Giorgio e Massimo, i più antichi conosciuti a riportare la sua firma. In essi, entro riquadri trilobati, trovano posto le figure di san Gregorio, san Massimo, san Cristoforo - sovrapposto alle più antiche tracce di uno stesso san Cristoforo trecentesco di minori dimensioni e completamente picchettato - san Francesco che riceve le stimmate e, infine, all’estrema destra, un non meglio identificato santo cardinale, forse un san Bonaventura o più probabilmente un San Girolamo. Fra queste suscitano particolare interesse il san Francesco stigmatizzato sul monte della Verna e il santo cardinale, poiché palesano una cauta apertura verso gli ambienti monregalesi, liguri e nizzardi. Elementi come la resa realistica del panneggio inducono ad ipotizzare una conoscenza degli esiti artistici del nizzardo Giacomo Durandi.

Cronologicamente vicino alle pitture murali marmoresi è il ricco ciclo pittorico - firmato da Tommaso anch'esso - della chiesetta di San Pietro a Macra, figlio di una meditata scelta iconografica, la cui inomogeneità qualitativa può essere imputata ad aiuti di bottega. Sulle vele della volta a crociera conica costolonata campeggiano, fra complessi intrecci decorativi, le raffigurazioni di quattro Dottori della Chiesa. La parete orientale è ornata con alcune scene legate all'infanzia di Cristo (l'Annuncio ai Pastori, la Natività, l'Adorazione dei Magi e la Presentazione al Tempio), su quella opposta, invece, sono narrate alcune vicende tratte dalla Legenda di san Martino (l'Incontro col povero, il Dono del mantello, la Rinuncia alle armi). Sulla parete di fondo, alle spalle di un piccolo altare in muratura, erano verosimilmente dipinti su due registri una Madonna col Bambino in trono, il beato Pietro di Lussemburgo e i santi Pietro e Paolo. Di quest'opera non rimangono che lacerti, in parte coperti da un mediocre affresco del XVIII secolo. Domina la controfacciata un'Annunciazione fra un santo vescovo e una santa martire identificabile con Agata da Catania.

Fra il 1465 e il 1467 il Magister risulta documentato a Savigliano. Lì si occupò, coadiuvato dal proprio éntourage, della decorazione della Torre Civica e degli apparati ornamentali commissionatigli in occasione della visita in città del duca Amedeo IX di Savoia detto "il Beato". Sempre in questo periodo del soggiorno saviglianese si possono collocare la vela con la Deésis (Cristo entro una mandorla mistica tra la Vergine e san Giovanni il Precursore) in San Giovanni Vecchio e una Pietà all'esterno della Chiesa di San Giuliano, quest'ultima dipinta con l'ausilio di Matteo sulla falsa riga di modelli nordici.

La tecnica dei Biazaci raggiunse attorno agli anni 1470-1475 livelli sopraffini. Non si può far altro che constatarlo ammirando le strepitose pitture della Cappella di Sant'Orsola in fondo alla navata sinistra della Chiesa di San Giovanni a Caraglio, della prima arcata cieca posta a sinistra della navata centrale della Chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Sampeyre, della Cappella dell'Annunziata in borgata Chiot Martin a Valmala e della Cappella della Mater Admirabilis attigua al Santuario degli Angeli di Cuneo. Se i primi tre cicli risentono ancora della tarda maniera del Durandi, quelli di Chiot Martin e Cuneo sembrano già anticipare gli esiti liguri.

Seguendo l'esempio di altri colleghi conterranei, i due artisti con bottega al seguito imboccarono la via delle Alpi Marittime per dirigersi, verso il 1474, alla volta della Liguria, più precisamente ad Albenga. La città ligure era all'epoca un fecondo crocevia di nuove tendenze artistiche, una vera e propria mecca per chiunque volesse assicurarsi un committente e/o mantenersi aggiornato sulle ultime formule stilistiche e iconografiche. Alle calendae di maggio sempre del 1474, i Biazaci avevano già terminato una pala d'altare ed un primo ciclo di affreschi per l'abside della Chiesa di San Bernardino ad Albenga, oggi irrimediabilmente perduti. Appartengono forse a questo primissimo periodo del frenetico soggiorno ligure anche due problematiche figurazioni a fresco: un'Annunciazione col Padreterno e una Madonna in trono fra i santi Bernardino da Siena e Giovanni il Battista, ambedue eseguite sulla parete sud dell'Oratorio di Santa Croce a Diano Castello. A detta del Rotondi, per una carente fluidità delle linee del disegno e per la scarsa brillantezza dei colori, gli affreschi dianesi appena menzionati sarebbero da attribuirsi al solo Matteo; tuttavia, la finezza di alcuni dettagli puntuali smentisce tale affermazione, suggerendo piuttosto la presenza anche della mano del magister.

Negli anni Ottanta del Quattrocento i Biazaci firmarono, ad appena una manciata di giorni di distanza, due cicli pittorici tra i più onerosi e complessi della loro intera carriera di frescanti: quello della navata sinistra del Santuario di Nostra Signora delle Grazie a Montegrazie (datato 30 maggio 1483), e quello della parete destra della Chiesa di San Bernardino ad Albenga (datato 3 giugno 1483) dove, come già detto, avevano precedentemente affrescato l'abside maggiore. In entrambi i casi i soggetti trattati - tanto simili iconograficamente da far sospettare in alcuni punti il riutilizzo di cartoni - sono i Novissimi, ossia la Buona e Cattiva Ars Vivendi, le Virtù, la Cavalcata dei Sette Vizi Capitali, il Giudizio Universale, l'Arcangelo Michele che pesa le anime, la Gerusalemme Celeste, il Purgatorio e l'Inferno. A Montegrazie occupa un posto di rilievo la scena del Memento Mori dove, in una stanza spoglia, un uomo, al bivio fra il Diavolo tentatore che, proprio come in un fumetto ante litteram, per mezzo di un cartiglio svolazzante pronuncia le parole: "Ne timere peccatum... poteris emendare", e l'Angelo custode il quale, di contro, lo esorta a tenere una condotta virtuosa dicendo: "Fac bonum dum vivis si post mortem vivere vis", viene minacciato dai dardi dell'arco della Morte, pronta a scoccare da un momento all'altro. Con rara vivacità narrativa e sensibilità descrittiva, Tommaso e Matteo posero in essere simultaneamente (forse persino dandosi il cambio e dividendosi le giornate) due Bibliae Pauperum, sacrificando le loro tipiche eleganti soluzioni formali in favore di forme più sintetiche e monumentali, affinché il significato paideutico e soteriologico delle raffigurazioni fosse immediatamente comprensibile anche per il popolo analfabeta. Al fine di suscitare nella coscienza dell'osservatore un sentimento di autoidentificazione, i Buschesi diedero corpo a diversi tipi umani tratti dalla società dell'epoca e ne descrissero impietosamente i vizi e le virtù. La maggiore accuratezza della resa prospettica - che, va specificato, rimane ancora marcatamente intuitiva - l'ulteriore arricchimento delle consuete gamme cromatiche brillanti e l'evoluzione in senso monumentale delle composizioni tradiscono contatti con i nuovi modelli rinascimentali che andavano imponendosi negli ambienti ingauni.

Fig. 5 - Montegrazie, Santuario di Nostra Signora delle Grazie - visione d'insieme degli affreschi dei Biazaci.

Quattro anni più tardi Tommaso tornò nuovamente ad affrescare al Santuario di Montegrazie, essendogli stata affidata la decorazione dell'abside sinistra con le Storie del Battista. Del 1499 sono le pitture murali dell'abside destra della Chiesa di Santa Maria Assunta a Piani d'Imperia con le Storie di Maria tratte dai Vangeli Apocrifi.

 

Nel penultimo decennio del XV secolo i Biazaci lavorarono anche nella terra natìa, dove dipinsero le vele della Cappella di San Sebastiano con storie tratte dalla Passio del santo. Più tardi (prima metà degli anni Novanta del XV secolo) rispetto a quelli sopra citati sono i dipinti che ornano la facciata dell'Ospizio della Trinità a Valgrana, raffiguranti la Santissima Trinità secondo l'iconografia "orizzontale" (ossia con i busti delle Tre Persone – identiche nell'aspetto - che partono dallo stesso tronco) posta accanto ad una Madonna col Bambino in trono; e quelli della Cappella di Santo Stefano a Busca. Sembrano attribuibili ai due fratelli anche le pitture di Villa Elisa a Busca (già Chiesa di Santa Maria Assunta presso il Convento di Santa Maria degli Angeli). La Santa Chiara e la Santa Lucia sulla facciata della Chiesa di Santa Margherita a Casteldefino e le decorazioni delle cappelle laterali interne della medesima parrocchia, risalenti al 1504, sono le ultime opere conosciute a riportare la firma di Tommaso.

Fig. 8 - F.lli Biazaci da Busca, Santissima Trinità e Madonna col Bambino in trono, prima metà degli anni Novanta
del XV secolo. Valgrana, Ospizio della Trinità (facciata).

Le opere buschesi

Dopo aver ripercorso la biografia e ricostruito l'attività pittorica dei Biazaci, verranno adesso trattati due tra i cicli pittorici che fratelli di Busca hanno lasciato nella cittadina che ha dato loro i natali. Queste opere ornano l'interno e/o l'esterno delle cappelle di San Sebastiano e di Santo Stefano.

La Cappella di San Sebastiano

Fig. 9 - F.lli Biazaci da Busca, Santissima Trinità e Madonna col Bambino in trono, prima metà degli anni Novanta del XV secolo. Valgrana, Ospizio della Trinità (facciata).

Non lontano dal cimitero, lungo la strada che porta a Villafalletto, si trova la Cappella di San Sebastiano. Nel suo assetto attuale si possono leggere chiaramente gli interventi di rimaneggiamento che ha subito nel corso dei secoli: romanici sono l'abside interna e il lato sud, mentre il coro e il campanile risalgono al Settecento. Come già in precedenza accennato, Tommaso e Matteo Biazaci si occuparono di ornare la volta a crociera ogivale costolonata del portico - successivamente chiuso e inglobato - di questo oratorio negli anni Ottanta del Quattrocento, con episodi tratti dalla vita di san Sebastiano – martire frequentemente invocato nel Medioevo assieme a san Rocco come protettore dalle pestilenze - così come viene raccontata nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine. Quanto narrato si svolge tra il 303 e 310, negli anni delle feroci persecuzioni intentate dall'imperatore Diocleziano nei confronti dei Cristiani. Sulla vela collocata appena sopra l'attuale ingresso si vede Sebastiano, ufficiale della guardia pretoriana di Diocleziano e Massimiano, colto nell'atto di amministrare il sacramento del battesimo a dei catecumeni. Segue una scena in cui il santo visita in carcere i gemelli Marco e Marcellino con l'intenzione di liberarli, ma questi, desiderando subire il martirio, rifiutano di lasciare la loro cella. Nella medesima vela si vede il protagonista che, convocato da Diocleziano, viene condannato a morte. La vela principale è posta difronte all'ingresso: in essa il santo, impassibile, subisce il primo martirio ricevendo colpi di frecce. Una volta sopravvissuto al suo primo supplizio, nella vela a seguire viene nuovamente condannato a morte, questa volta per fustigazione. In quest'ultima scena la presenza divina si manifesta sotto forma di mano benedicente

circondata da un nimbo crociato. Nell'ultima raffigurazione, ambientata all'interno di un'architettura di scena, il corpo senza vita del martire viene gettato dai soldati nella Cloaca Maxima e poi recuperato da Santa Lucina, che gli darà degna sepoltura nelle catacombe. Ciascuna delle vele è scandita nella parte apicale da clipei con i Quattro Evangelisti. Di ottima fattura sono gli elaborati motivi ornamentali che incorniciano i vari episodi. Impressiona la minuzia con cui vengono descritti i particolari degli abiti, degli accessori, delle armi e delle architetture. Colpiscono inoltre le prolisse iscrizioni dei cartigli svolazzanti che, come nei fumetti, riportano le parole pronunciate in vernacolo dai vari personaggi. In tutto ciò è evidente il rimando alle sacre rappresentazioni. Appartengono agli stessi interventi decorativi le figure di santi ritrovate nei sottarchi e la Madonna col Bambino in pessimo stato di conservazione che si ammira all'esterno dell'aula cultuale.

La Cappella di Santo Stefano

Fig. 10 - Busca, Interno della Cappella di Santo Stefano con gli affreschi dei Biazaci (Prima metà degli anni Novanta del XV secolo). Fonte: Mapio.net.

Circondata da una distesa di verde lussureggiante, la Cappella di Santo Stefano trova la propria collocazione sul sentiero che conduce all'Eremo di Belmonte, in linea d'aria col Parco Francotto. Questo antichissimo luogo di culto, databile tra i secoli VI e X, sorge non lontano dal poggio su cui, in epoca romana, furono innalzati un castrum e una torre. Dopo il 1138, sulle rovine di queste architetture difensive, i Marchesi del Vasto, signori di Busca, edificarono la propria dimora - il "Castellaccio" - le cui mura di cinta giungevano fino all'oratorio preso in esame. Del complesso castrense medievale, oggi, rimane solo qualche rudere. L'interno della cappella fu affrescato da Tommaso e Matteo Biazaci nella prima metà degli anni Novanta del XV secolo. Al centro dell'arco trionfale, bordato da un'elegante fascia a torciglione, si scorge una Imago Pietatis (il Cristo morto all'interno del sepolcro con i simboli della Passione fiancheggiato dai dolenti), mentre nei riquadri laterali sono raffigurati un Angelo Nunziante ed una Vergine Annunciata. Domina il catino absidale un Cristo in gloria seduto sull'iride entro una mandorla mistica. Il Pantocrator è affiancato ai lati dal

tetramorfo, ovvero dai simboli dei Quattro Evangelisti, ciascuno dei quali recante un cartiglio con su scritto il nome e l'incipit del rispettivo Vangelo. Sullo sfondo, il brano paesaggistico prospetticamente descritto e il cielo sfumato verso la linea dell'orizzonte sono elementi inediti nella scena del Gotico Internazionale. La fascia inferiore presenta cinque riquadri, di cui quattro narrano episodi della vita del Protomartire Stefano, e uno, posto al centro, ospita una splendida Madonna orante seduta in trono col Bambino sulle ginocchia.

Nel primo episodio descritto sulla superficie absidale, una donna implora il diacono Stefano di riportare in vita il proprio figlioletto morto, il quale, ricevuta la benedizione del santo, riprende a respirare. All'accaduto assistono popolani, briganti, uomini altolocati, ognuno dei quali si palesa vestendo copricapi, abiti e accessori rispondenti alla moda rinascimentale. Degna di nota è la figura dell'uomo con la ghironda, uno strumento musicale diffuso nelle valli della Linguadoca, di cui questa costituisce una delle primissime rappresentazioni note. Nel riquadro seguente è dipinta la disputa del santo con i Giudei. Nelle altre due scene Stefano viene lapidato alla Presenza di Saulo - che, in disparte, regge i mantelli degli aguzzini - e, dopo il martirio, il suo corpo viene deposto all'interno del sepolcro da Gamaliele e Nicodemo.

Differentemente da quanto si è visto nella Cappella di San Sebastiano, ove le scritte sono tutte in volgare, qui ciascun cartiglio è iscritto in latino, all'infuori di uno soltanto, sul quale si legge l'estrema supplica del santo protomartire pronunciata al momento della lapidazione: "Padre in le tue mane recomando lo spirito mio. Padre perdona a quili che non sano che ce faceno".

Fig. 11 - F.lli Biazaci da Busca, Martirio di santo Stefano (particolare), Prima metà degli anni Novanta del XV secolo. Busca, Cappella di Santo Stefano.

Le raffigurazioni di santi interrotte dalla parete di fianco, rinvenute nel corso dell'ultimo restauro all'altezza dell'imposta dell'arco, fanno ipotizzare che il ciclo pittorico si snodasse anche lungo le pareti laterali.

Come di consueto, anche nelle scene più atroci e ricche di pathos, le figure delineate dal pennello dei Biazaci mostrano un dolore sempre contenuto, mai urlato, al contrario di quanto si può osservare in altri brani di pittura o scultura tardogotica realizzati da artisti coevi. I graffiti in caratteri gotici osservabili alla base degli affreschi, specie sulle scene del martirio e della sepoltura del santo, testimoniano che, in passato, il piccolo edificio sacro fu oggetto di una sentita devozione da parte del popolo.

 

Bibliografia

Anna de Floriani e Stefano Manavella: Tommaso e Matteo Biazaci da Busca, Nerosubianco, 2012.

Federica Natta: L'Inferno in scena. Un palcoscenico visionario ai margini del Mediterraneo, Edizioni Falsopiano, Alessandria, 2013.

 

Sitografia

https://www.comune.busca.cn.it/index.php?module=site&method=section&id=186

https://www.academia.edu/8396135/Proposte_di_aggiornamento_sulla_produzione_pittorica_dei_Biazaci_e_del_giovane_Pietro_Guido

http://www.treccani.it/enciclopedia/biazaci_(Dizionario-Biografico)/

http://www.uciimtorino.it/pittura_quattrocentesca.htm

http://www.museodiffusocuneese.it/siti/dettaglio/article/busca-gli-affreschi-deifratelli-biazaci/

https://books.google.it/books?id=RpJXAwAAQBAJ&pg=PA218&dq=santuario+di+montegrazie&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwid542jwrnrAhXGlIsKHQNyBmkQ6AEwBXoECAYQAg#v=onepage&q=santuario%20di%20montegrazie&f=false

http://archeocarta.org/busca-cn-cappella-di-santo-stefano-e-ruderi-del-castellaccio/

http://archeocarta.org/busca-cn-cappella-di-san-sebastiano/

https://www.comune.busca.cn.it/index.php?module=site&method=section&id=130

https://www.academia.edu/41601491/Le_tecniche_dei_Biazaci

 

Istituzioni di riferimento

http://www.museodiffusocuneese.it/siti/dettaglio/article/busca-gli-affreschi-deifratelli-biazaci/

https://www.comune.busca.cn.it/

http://www.diocesidialbengaimperia.it/

http://www.museidigenova.it/it/content/museo-di-santagostino


FERRARA: DAL CASTRUM AL XIV° SECOLO

A cura di Mirco Guarnieri

Prima di parlare di Ferrara bisogna citare Voghenza, centro di origine romana databile al III sec. d.C., col nome di Vicus Habentia o Vicus Aventinus situato sulla sponda del fiume Sandalo, un affluente del Po di Volano. Dal IV sec. d.C. Voghenza divenne sede della prima diocesi nel ferrarese, ma le continue invasioni barbariche che devastarono il centro tra il VII e VIII sec. d.C. portarono alla decisione di spostare la diocesi in un’area maggiormente difendibile, situata alla destra del fiume Po di Volano dove si trovava la biforcazione del medesimo con l’altro ramo del fiume Po, il Primaro. Il borgo fu chiamato “Ferrariola” e qui sorse la Basilica di San Giorgio, nei pressi del già presente Castrum bizantino situato poco più a nord, sulla sponda sinistra del ramo del Po di Volano.

Il Castrum bizantino o Castello dei Curtensi nacque attorno alla fine VI sec. d.C. come fortezza difensiva dell’Esarcato di Ravenna sulla riva sinistra del Po di Volano. La forma del Castrum è ancora facilmente riconoscibile nella mappa di Ferrara dalla forma a ferro di cavallo situata nella zona sud-est (via Cammello, via Porta San Pietro, Via Borgo di Sotto e Fondobacchetto).

Verso la metà dell’VIII sec. d.C. la città si trovò sotto il dominio dei Longobardi, come testimonia un documento in cui il re Longobardo Astolfo parlava di una città di nome Ferrara inizialmente facente parte dell’Esarcato di Ravenna. Successivamente la città venne donata da Carlo Magno alla Chiesa, e verso la fine del IX sec. d.C. venne conferita alla famiglia di Tebaldo di Canossa.

Con l’espansione della città verso ovest e lungo le attuali via Ripagrande e via delle Volte, il solo Castrum non poté più bastare per la difesa della città; si arrivò dunque alla costruzione il Castel Tedaldo alla fine del X sec. d.C. per il controllo del fiume, questo a testimoniare che lo sviluppo della città era legato alle attività commerciali che si svolgevano sulle rive del Po. Altra costruzione risalente al IX sec d.C. è la Chiesa di San Romano uno dei primi luoghi di culto all’interno della città, inizialmente sede dei monaci benedettini dell’abbazia di Fruttuaria, poi passata ai canonici regolari di Sant’Agostino.

Fig. 3 - Ex chiesa di San Romano. Foto: http://www.museoferrara.it/view/s/ae769e4723eb45f39a9f4a928105388d

Nel XII secolo, Guglielmo degli Adelardi, tornato dalla seconda crociata in Terrasanta contribuì economicamente alla realizzazione della Cattedrale di Ferrara dedicata al patrono San Giorgio e alla Madonna. Venne costruita dal maestro Nicholaus e consacrata nel 1135, con la parte inferiore della facciata in stile romanico e quella superiore conclusa poi in stile gotico. In contemporanea venne realizzata anche Piazza delle Erbe, l’odierna Piazza Trento e Trieste, che assunse il ruolo di centro politico, economico e religioso della città.

Altro anno importante da ricordare è 1152 con la rotta di Ficarolo. La rottura degli argini deviò il corso del fiume dando vita all’attuale ramo del Po: ne conseguì un minore utilizzo del ramo di Volano che causò un periodo di crisi economica all’interno della città.

In quel periodo a Ferrara, come nel resto della penisola centro-settentrionale ci furono lotte interne tra Guelfi e Ghibellini. A Ferrara i Guelfi erano capeggiati dalla famiglia Adelardi-Giocoli, mentre i Ghibellini dai Salinguerra-Torelli che si combatterono fino al XIII sec., quando Azzo VI d’Este prese in sposa Marchesella Adelardi e divenne di fatto capo della fazione guelfa. Ciò portò gli Este ad inimicarsi e combattere i Salinguerra-Torelli per il controllo della città. Dopo anni di lotte tra le due famiglie gli estensi ebbero la meglio, portando Obizzo II d’Este a diventare signore di Ferrara nel 1264 grazie all’investitura ricevuta dalla Santa Sede nel 1332.

Entrando nei domini degli estensi, Ferrara conobbe un’epoca di splendore, e diventò un importante centro artistico e culturale nei secoli a venire fino al 1598.

Negli anni 40’ del 1200 venne eretto il Palazzo comunale destinato a diventare la residenza della signoria Estense fino alla Devoluzione del 1598. Nel corso dei secoli l’edificio subì alcuni ampliamenti: nella seconda metà del XIV sec. con Nicolò II e nel XVI sec. con Ercole I d’Este, che diede al palazzo l’assetto planimetrico definitivo. Tutto il complesso si struttura attorno alla piazza, realizzata dall’architetto Pietro Benvenuto degli Ordini assieme allo scalone d’onore e al giardino delle duchesse situato dietro il palazzo.

Con il XIV sec. a Ferrara si assiste alla costruzione di alcuni degli edifici tra i più importanti della città, come il Palazzo della Ragione costruito tra il 1325-26: questo era il tribunale della città che comprendeva anche il Palazzo dei notai, la Torre dei Ribelli (eretta precedentemente) e le carceri, aggiunte dopo l’incendio che colpì l’edificio nel 1512.

Fig. 8 - Palazzo della Ragione. Foto: http://www.museoferrara.it/view/s/77c4b2deabb6452fbdae930fb0ae7596.

Nel 1385 venne posata la prima pietra del Castello Estense o Castello di San Michele, una vera e propria fortezza militare per la famiglia, così chiamato perché i lavori iniziarono il 29 Settembre, giorno dedicato al santo. La costruzione del castello venne affidata dal marchese Niccolò II d’Este all’architetto Bartolino da Novara. Il castello venne costruito incorporando la Torre dei Leoni, edificio già esistente che rappresentava l’estrema difesa delle mura che si trovavano lungo le attuali Vie Cavour e Giovecca.

Fig. 9 - Castello Estense. Wikipedia.

Sempre sotto il marchese Niccolò II vi fu la prima addizione della città, nel 1386 che portò all’urbanizzazione del “Pratum Bestiarium” (luogo dove pascolavano i bovini) che collegava tramite l’odierna Via Voltapaletto e Via Saraceno la Cattedrale all’Università fondata nel 1391 su concessione di Papa Bonifacio IX. In quest’area venne edificato Palazzo Schifanoia, fatto costruire da Alberto V d’Este, fratello di Niccolò II. Il termine Schifanoia deriva da “schivar la noia”: infatti era in queste Delizie che la famiglia estense si recava per allontanarsi dagli impegni politici ed economici della città. La Delizia venne ampliata da Pietro Benvenuto degli Ordini sotto Borso d’Este tra il 1465-67, e verso il 1493 da Biagio Rossetti sotto Ercole I. Celebri sono gli affreschi del Ciclo dei Mesi situati nell’omonima sala, realizzati da alcuni pittori dell’Officina ferrarese fra cui Francesco del Cossa e Ercole de Roberti.

Fig. 10 - Palazzo Schifanoia. Wikipedia.

Verso la fine del XIV sec. vennero costruite altre due delizie, quali Palazzo Paradiso (1391), divenuta ora Biblioteca Comunale, e la Delizia di Belfiore (1391), successivamente inglobata alla città con l’Addizione Erculea, oggi purtroppo non più esistente. All’interno della Delizia di Belfiore si trovava lo studiolo di Belfiore, fatto costruire da Leonello d’Este che ospitava il ciclo pittorico delle nove muse.

 

Bibliografia

Alessandra Guzzinati, "Benvenuti a Ferrara 2010", Edisai srl - Ferrara.

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/ferrara_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Medievale%29/

http://www.isco-ferrara.com/wp-content/uploads/2017/05/Sviluppo-urbanistico-di-Ferrara.pdf

http://win.liceoariosto.it/unpodiparco/cennistorici.htm

https://www.ferraraterraeacqua.it/it/ferrara/scopri-il-territorio/arte-e-cultura/chiese-pievi-battisteri/cattedrale

http://www.museoferrara.it/view/s/b1d78aaa43ad47e1b02c764972bdad4e

https://servizi.comune.fe.it/8113/palazzo-municipale

http://www.artecultura.fe.it/1618/il-palazzo-ducale-estense

https://www.castelloestense.it/it/il-castello/il-monumento/levoluzione


FOGLIANISE TRA DEVOZIONE E FOLKLORE

A cura di Stefania Melito

Introduzione

In provincia di Benevento, nel Parco Regionale del Taburno-Camposauro, esiste un piccolo paese chiamato Foglianise, che conta circa 3000 abitanti. Situato in collina, come tutti i paesi dell’entroterra beneventano offre una vista spettacolare su distese di ulivi secolari e sul monte Caruso, alto circa 600 metri e brullo in buona parte. La particolarità del luogo risiede nella presenza di un monumento fisico al suo interno, ossia un interessante eremo di formazione longobarda dedicato a San Michele Arcangelo, e nella tradizionale e singolare festa religiosa detta “Festa del grano”.

L’eremo di San Michele

L’eremo di San Michele è situato circa a metà del monte Caruso, ed è costruito aggrappato alla nuda roccia. Posizionato a ridosso di una naturale rientranza del monte e nelle vicinanze di una sorgente, si compone di una struttura a tre piani, di cui uno interrato, collegati tra di loro da una ripida scala a cui si ha accesso dopo una pronunciata salita.

Fig. 1 - Gianfranco Vitolo from Sarno (Sa), Italia / CC BY (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)

L’eremo fu costruito dai Longobardi dopo che costoro si convertirono al cristianesimo grazie a San Barbato, ed aveva al suo interno una piccola chiesa, probabilmente a navata unica, il cui altare maggiore, in pietra del Gargano, era appunto dedicato a San Michele. Al di sotto della chiesa vi era una piccola cella in muratura che ospitava l’eremita o l’anacoreta che avevano il compito di custodire e sorvegliare la costruzione. La chiesa presentava degli affreschi di un ciclo cristologico opera probabilmente del Piperno, ma non si hanno notizie certe al riguardo. Quello che invece è noto è il fatto che tale eremo fosse meta di numerosi pellegrinaggi, tant’è che veniva concessa l’indulgenza plenaria a tutti coloro che lo visitavano.

Fig. 2 - Di Fiore Silvestro Barbato - Flickr: Foglianise (BN), 2002, Eremo di San Michele., CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=21587092.

L’eremo di San Michele a Foglianise ricalca la struttura compositiva dei santuari micaelici: è infatti un santuario rupestre situato nei pressi di una grotta o di una cavità, nelle vicinanze di una sorgente d’acqua e in un luogo elevato. È interessante notare come San Michele sia una figura abbastanza presente e “trasversale” nelle varie culture, in quanto di volta in volta veniva identificato in maniera diversa pur conservando gli stessi attributi iconografici, spada o lancia. È infatti il dio Odino della tradizione nordica, signore della guerra; è il dio Mitra, culto romano ed elitario precedente al Cristianesimo; è identificato con il dio Hermes, il messaggero degli dei nella mitologia greca; è inoltre presente sia nell’Ebraismo che nell’Islam come principe degli arcangeli.

L’eremo è stato in funzione fino al 1949, quando i bombardamenti alleati lo colpirono, devastandolo e rendendolo inagibile. Da allora fu chiuso al culto, fino a quando recenti lavori generali di restauro ne hanno permesso la riapertura.

Fig. 3 - https://www.anteprima24.it/benevento/foglianise-carri-grano-2/.

La "Festa del Grano" si svolge tutti gli anni dall’8 al 18 agosto ed è una festa dedicata a San Rocco, patrono del paese. Fin qui nulla di speciale, se non fosse per il fatto che a Foglianise esiste un’antichissima tradizione, quella dell’intreccio della paglia, che ha raggiunto un tale livello di virtuosismo da consentire l’utilizzo di questi fusti di cereali per un qualcosa di totalmente incredibile.

Fig. 4 - https://www.fremondoweb.com/immagini-dal-sannio/immagini-dal-sannio-la-festa-di-san-rocco-e-del-grano-di-foglianise/.

La festa ha come particolarità infatti la sfilata dei monumenti, cioè la ricostruzione, fatta solo ed esclusivamente con paglia inumidita, dei monumenti d’Italia, perfetti in ogni dettaglio; ogni edizione è dedicata ad una Regione d’Italia. E così di volta in volta si è avuto l’omaggio alla Puglia con la ricostruzione delle chiese barocche pugliesi (ed. 2016), l’omaggio all’Italia intera con i Tesori d’Italia (ed. 2015) che sono stati esposti anche all’Expo, alla Regione Lombardia (ed. 2014), alla Calabria (ed. 2013) etc. Alla Campania è stata dedicata l’edizione 2012.

Fig. 5 -https://www.anteprima24.it/benevento/grano-foglianise-mastrocinque/.

I “monumenti” sui “Carri di grano”, vere e proprie opere d’arte, sono costituiti da steli di grano e paglia inumiditi ed intrecciati in vario modo, in maniera tale sia da sostenere la struttura sia da poter riprodurre con una fedeltà sbalorditiva le caratteristiche dei monumenti della regione protagonista dell’edizione. Nelle contrade Prato, Barassano, Leschito, Palazzo, Frasci, Utile, Iannilli e Cienzi lavorano i cosiddetti “artisti della paglia”, i veri artefici della festa, che tramandano i segreti dell’intreccio. La tradizione vuole che la prima costruzione sia stata alta 25 metri, ma adesso le dimensioni si aggirano intorno ai 4/6 metri. Le strutture sono poste su delle piattaforme o dei carri e vengono trainate con cautela per tutto il paese, seguite sia dal resto della processione che dalla statua del Santo.

Fig. 5 -https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/eb/Foglianise_carro_Orleans.jpg.

 

Sitografia

http://www.camministorici.it/it/user/11/punti-di-interesse/eremo-di-san-michele-arcangelo

https://sannio.guideslow.it/poi/eremo-san-michele-arcangelo/


GIOVANNI DELLA ROBBIA: FIRENZE E IL CONTADO

A cura di Luisa Generali

Introduzione

La lavorazione della terracotta invetriata, diffusa nelle forme rinascimentali dalla bottega dei della Robbia, venne aggiornata nel corso del Cinquecento da Giovanni della Robbia (1469-1530 c.), terzogenito di Andrea, che prese le redini della bottega ed estese ulteriormente a Firenze e nel contado l'arte di famiglia, incoraggiandone la fruizione in termini più popolari.

Allontanatosi dalla prima produzione robbiana, Giovanni ne rinnovò il linguaggio in base alle moderne tendenze cinquecentesche, accostandosi ad uno stile molto più esuberante, fondato su una vivace policromia di forte impatto visivo. Il grande cambiamento apportato dalle nuove generazioni, fra cui oltre a Giovanni si ricorda anche l’attività dei fratelli, Fra’ Mattia (1468-1532 c.) e Luca Bartolomeo (1475-1548), fu senz’altro l’uso totalizzante degli smalti colorati che ricoprivano e differenziavano le varie componenti dell’opera come in un dipinto, ricorrendo a un ricco repertorio cromatico, enfatizzato da vivaci contrasti. Svincolati dalla solennità scultorea delle figure bianche su fondale azzurro che aveva reso ben nota l’arte dei della Robbia nel Quattrocento, i soggetti rappresentati si animarono di policromie, accentuando gli effetti pittorici. La bottega rafforzò inoltre nella produzione l'utilizzo di motivi ornamentali derivati dall' architettura e dall'arte classica (quali ghirlande di frutta, racemi fitomorfi, candelabre, rabeschi ecc.), ricorrendo a un corredo di motivi sovrabbondanti che dovevano meravigliare per l'eccessivo decorativismo e i colori brillanti: la combinazione creata dall’unione di queste componenti, sebbene gli esiti siano spesso esagerati, è il vero timbro distintivo dello stile di Giovanni che troverà grande riscontro sul territorio fiorentino, soprattutto in contesti ecclesiastici. Tra le tipologie di opere più frequenti nel catalogo robbiano cinquecentesco si nota una particolare attitudine alla modellazione in rilievo che ben si prestava, alla stregua di un quadro tridimensionale, ad oggetti devozionali quali pale d'altare (sempre più monumentali e complesse), tabernacoli eucaristici, fonti battesimali ed edicole. Gestite come ampie specchiature dove accogliere icone mariane oppure storie del Vangelo, le superfici piane divenivano lo spazio ideale su cui costruire una minuziosa narrazione, spesso aperta su ambienti e paesaggi molto dettagliati, racchiusi in schemi decorativi altrettanto copiosi. Il dato descrittivo degli episodi, unito agli esiti realistici determinati degli smalti colorati, aveva il merito di avvicinare il fedele alla comprensione di tali immagini ed aumentarne il senso di compartecipazione emotiva e spirituale. Tali caratteristiche, volutamente devozionali, spiegano l’ampia diffusione sul territorio dei manufatti robbiani, declinati in una vasta gamma di varianti, pur rimanendo sempre inconfondibili nello stile.  Lo sviluppo della bottega dovette anche il suo exploit ai ritmi di lavoro sempre più celeri, grazie a stampi e calchi che permisero la serializzazione di alcuni pezzi, in modo da consentire una rapida esecuzione e costi contenuti.

Soffermandosi invece sui soggetti iconografici più ricorrenti si noterà come gran parte di questi siano spesso palesi citazioni tratte da opere di Andrea Verrocchio (1435-1488), Domenico Ghirlandaio (1448-1494), ed altri celebri artisti della cerchia fiorentina. Questi richiami iconografici, talvolta interpretati come prodotti artigianali privi di originalità, sono stati in tempi recenti riletti dalla critica e giudicati come parte integrante dello scambio fra le arti, in cui pittura e scultura dialogavano e si influenzano costantemente. Il recupero di tali fonti visive, ormai assunte dalla collettività come modelli insuperabili, era inoltre una prassi comune nel Cinquecento per ribadire la grandiosità del recente passato e renderlo fruibile anche in contesti più periferici.

Opere

La prima opera attribuita internamente a Giovanni della Robbia al di fuori dell’orbita paterna è il Lavamani in marmo e terracotta (1498), posto nella sagrestia di Santa Maria Novella, considerato un unicum tra le suppellettili di questo tipo (fig.1). La committenza degli stessi frati domenicani è rivelata dalla presenza del blasone centrale inserito nel soprarco della lunetta, appena sopra il rilievo raffigurante la Madonna col Bambino fra angeli, che denuncia ancora gli influssi della tradizione di famiglia, ed in particolare della maniera di Andrea. L’insistente decorativismo che unisce motivi classici a geometrie ripetitive, congiuntamente a ghirlande e vasi ricolmi di frutta, delinea fin da subito il netto cambiamento di rotta che distinguerà il nuovo linguaggio robbiano. Risalta centralmente, nella lunetta interna alla struttura, il delicato e colorito scenario lagunare in maiolica dipinta, allusivo alla purezza dell’acqua impiegata per gli abituali riti di abluzione (fig.2).

Tra gli arredi liturgici più richiesti alla bottega di Giovanni, i fonti battesimali esagonali furono una tipologia molto apprezzata soprattutto nel contado fiorentino, dove ancora si conservano alcuni esempi molto simili tra loro nel formato e nell’iconografia. La reiterazione di tali modelli fu una pratica molto in voga, come dimostrano i fonti battesimali di Galatrona, in provincia di Arezzo, riferibile all’anno 1510 e quello di San Pietro a Sieve (FI), datato al 1518, modellati entrambi nelle specchiature con Storie di San Giovanni Battista e classicamente smaltati di bianco (fig.3-4). Lo stesso schema, ma nella variante policroma, viene riproposto a Cerreto Guidi (FI) nel 1511 e a San Donato in Poggio (FI) nel fonte datato 1513. Prendendo a modello l’opera di Cerreto Guidi nella Chiesa di San Leonardo, immediate appaiono le citazioni tratte dal Battesimo di Cristo di Verrocchio (1472-1475), con il noto intervento di Leonardo da Vinci agli esordi (fig.5-6), e il San Giovannino nel deserto (1485-90) di Domenico Ghirlandaio nel ciclo di affreschi della Cappella Tornabuoni a Santa Maria Novella (fig.7-8).

Il sodalizio con l’architettura, già ampliamente sviluppato dagli avi di Giovanni (basti pensare ai celeberrimi tondi robbiani degli Innocenti), venne portato avanti dalla bottega che eccelse fra l’altro nella realizzazione di lunette: fra queste ricordiamo per il particolare pregio i pezzi oggi esposti a Villa la Quiete, un tempo nella chiesa di San Iacopo a Ripoli, raffiguranti l’Incredulità di San Tommaso e il Noli me tangere (primi decenni del XVI secolo). In origine realizzate a conclusione degli altari della chiesa, le due mezzelune congiungono l’uso dei colori nel paesaggio al nitore delle figure smaltate di bianco, secondo ancora le consuetudini tradizionali.

Nell’Incredulità di San Tommaso attribuita a Giovanni (fig.9), il dettagliato paesaggio esterno in cui è ambientata la scena, ricco di minuzie naturalistiche, vegetali e animali, sottolinea il candore del gruppo centrale, puntualmente derivato dall’opera di Andrea Verrocchio a Orsanmichele (fig.10). La medesima impostazione coloristica è adottata nel Noli me tangere (fig.11), attribuita alla collaborazione tra Giovanni e il fratello Marco (fra’ Mattia), in cui emerge un’attenta coerenza spaziale dello scorcio paesaggistico, molto ben calibrata nel lento degradare prospettico verso la città.

Un tono diverso assumono invece le lunette risalenti al secondo e terzo decennio del secolo: corpose nei volumi e nei colori, spiccano per il pittoricismo che vogliono imitare, ottenendo un immediato effetto decorativo. Di grande fascino è la lunetta della Visitazione (1517) al Museo Bandini di Fiesole (fig.12), in cui la soluzione policroma del cielo, disteso a pennellate sfumate, prepara l’atmosfera dell’incontro fra Maria e Elisabetta. Risalgono invece al 1521 le due lunette al Bargello raffiguranti Le Marie al sepolcro e l’Annunciazione (fig.13-14), attribuite a Giovanni nel suo stile più noto e popolare, improntato alla costruzione delle immagini secondo gli schemi pittorici del classicismo cinquecentesco.

Al secondo-terzo decennio del XVI secolo appartiene anche il Ciborio nella chiesa di Santa Maria Assunta a Bassa (FI), uno tra i molti esemplari esistenti della stessa tipologia, ricalcati e prodotti quasi serialmente per le chiese del contado (fig.15).  La struttura modellata sulle ormai assodate formule rinascimentali si sviluppa sui diversi piani della composizione, scandita da cornici dentellate ed eterogenei motivi decorativi. Ai lati dello sportello, due angeli in adorazione aleggiano su un pavimento rivestito di piastrelle scorciate prospetticamente.

Fig. 15 - Giovanni della Robbia, Ciborio, secondo-terzo decennio del XVI secolo, Bassa, Chiesa di Santa Maria Assunta. *La foto è tratta dal testo Visibile Pregare, pag.36.

Fra i vertici delle “robbiane” attribuite alla mano di Giovanni si trova anche il dossale raffigurante Adamo ed Eva (fig.16), commissionato per il passaggio di Papa Leone X in visita a Firenze nel 1515. La pala ritrae il momento della tentazione da parte del serpente, ritratto con una testa di donna dalle sembianze simili a quelle di Eva. I corpi nivei dei progenitori, modellati quasi a tutto tondo, si stagliano sulla parete arborea del fondale, occupata in gran parte dalla chioma dell’Albero della Conoscenza del bene e del male su cui posano diversi animali. Anche in questo caso la critica ha rintracciato come fonte visiva di confronto l’incisione del tedesco Albrecht Dürer (1504) di medesimo soggetto (fig.17). Tuttavia, fonti d’ispirazione simile non dovevano certo mancare nella stessa Firenze, come dimostra il brano ad affresco dipinto da Masolino da Panicale nel 1424-1425 nella Cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine (fig.18).

Fig. 18 - Masolino da Panicale, Adamo ed Eva, 1424/1425, Firenze, Santa Maria del Carmine, Cappella Brancacci.

Esemplare dell’opera di Giovanni nella sua maturità è la pala del Presepio (1521), proveniente dalla chiesa di San Girolamo delle Poverine, oggi conservata al Bargello (fig.19). L’opera, caratterizzata dall’evidente pittoricismo, sorprende per la monumentalità e la vividezza dei colori che distinguono l’ampio scenario aperto alle spalle della natività. Dello stesso periodo (1522) è il Tabernacolo delle Fonticine in Via Nazionale, così chiamato per la sua funzione di fontana pubblica, riportato all’antico splendore da un recente restauro (fig.20). La struttura si articola intorno al vano centrale occupato dalla grande pala raffigurante la Madonna col Bambino, affiancata dai Santi Jacopo, Lorenzo e Giovannino. Al di sopra il Padre Eterno e una teoria di angeli adoranti determinano una cornice interna che si conclude con le Sante Barbara e Caterina d’Alessandria, entrambe poste in due nicchie laterali. La densa concentrazione di elementi figurativi e ornamentali crea un effetto vicino all’horror vacui (terrore del vuoto), che trova un corrispettivo anche nella cornice esterna addobbata da festoni e teste di Santi.

Di questa tipologia si presenta anche la Madonna col Bambino e San Giovannino per il Castello dei Conti Guidi a Vinci, datata al 1523 (fig.21). Insieme all’immancabile ghirlanda di frutta che contorna la pala centinata, anche il fondale presenta una copertura ad arabeschi, formando un motivo decorativo molto elegante che vuole designare il drappo del trono su cui siede la Vergine.

Fig. 21 - Giovanni della Robbia, Madonna col Bambino e San Giovannino, 1523, Vinci, Castello dei Conti Guidi.

Avviandosi verso gli ultimi lavori di Giovanni della Robbia, a tutti gli effetti fra i protagonisti del XVI secolo, non possiamo non ricordare i sessantasei medaglioni per il cortile della Certosa del Galluzzo (1523), da cui sporgono magnifiche teste raffiguranti vari personaggi allegorici e cristologici di una bellezza ideale e antica. Secondo un revival bicromatico, l’incarnato lattiginoso delle teste si accompagna a note di colore gialle e celesti (fig.22-23-24-25). L’impresa del Galluzzo fu probabilmente coadiuvata dal fratello Luca Bartolomeo della Robbia e da Giovan Francesco Rustici (1475-1554), valente scultore e ceramista fiorentino, che sulle medesime linee cromatiche dei medaglioni sopracitati impostò anche il suo Noli me tangere con Sant’Agostino nella lunetta (secondo decennio del XVI secolo), oggi al Bargello; secondo il Vasari quest’ultima opera fu invetriata in collaborazione proprio con Giovanni della Robbia (fig.26). L’episodio dell’incontro fra Gesù e Maria è realizzato in smalto bianco mentre al colore giallo è assegnato lo spazio dell’orizzonte, metaforicamente allusivo agli sfondi dorati, segno della presenza della grazia divina. A Rustici va il merito di aver saputo lavorare la terracotta alla stregua del marmo, elaborando un finissimo stiacciato che delinea minuziosamente il contesto esterno in cui si svolge la scena.

Fig. 26 - Giovanni Francesco Rustici, Noli me tangere, secondo decennio del XVI secolo, Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

Dopo la scomparsa di Giovanni l’eredità della bottega, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non fu raccolta tanto dai figli, quanto piuttosto dalla famiglia Buglioni (in particolare da Benedetto e Santi), che oltre alle tecniche di lavorazione acquisì anche il tipico linguaggio artistico robbiano, detenendo il monopolio della terracotta invetriata fino alla seconda metà del Cinquecento.

 

Bibliografia

  1. Campigli, Scheda 1 (Bottega di Giovanni della Robbia, Tabernacolo eucaristico, Chiesa di Santa Maria Assunta, Bassa), in Visibile pregare, Ospedaletto 2000, p. 36.
  2. Campigli, Scheda 16 (Giovanni della Robbia, Fonte battesimale, Pieve di san Leonardo, Cerreto Guidi), in Visibile pregare, Ospedaletto 2000, pag. 64-65.
  3. Petrucci, Luca della Robbia e la sua bottega: Andrea della Robbia, Benedetto Buglioni, Marco della Robbia (Fra’ Mattia), Giovanni della Robbia, Luca della Robbia il "Giovane", Francesco della Robbia (Fra’ Ambrogio), Girolamo della Robbia, Santi di Michele Buglioni, Firenze 2008.
  4. Gentilini, F. Petrucci, F. Domestici, “Della Robbia”, in Art dossier; 134.1998, Firenze 2014.
  5. G. Vaccari, “La tecnica della terracotta invetriata”, in Art dossier; 134.1998, Firenze 2014, pp. 17-18.
  6. Galli, N. Rowley, Un vergiliato tra le sculture del Quattrocento, in Santa Maria Novella: Dalla "Trinità" di Masaccio alla metà del Cinquecento, a cura di A. De Marchi e C. Sisi, Vol. II, Firenze 2016, pp. 59-95.
  7. Visonà, R. Balleri, Dagli altari della chiesa di San Jacopo di Ripoli al Conservatorio delle Montalve a La Quiete: le terrecotte invetriate di Giovanni e Marco della Robbia e oltre, in Capolavori a Villa La Quiete, Catalogo della mostra a cura C. Giometti, D. Pegazzano, Villa la Quiete, Firenze,26 luglio-30 ottobre 2016, Firenze 2016, pp. 77-101.

 

Sitografia

  1. Gentilini, DELLA ROBBIA, Giovanni Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 37 (1989): http://www.treccani.it/enciclopedia/della-robbia-giovanni-antonio_%28Dizionario-Biografico%29/

Pala d’altare, Adamo ed Eva: https://art.thewalters.org/detail/35961/adam-and-eve/

Tabernacolo delle Fonticine: https://2017.gonews.it/2016/12/12/terminato-restauro-del-tabernacolo-delle-fonticine-via-nazionale/

Lunetta, La visitazione: https://www.piccoligrandimusei.it/blog/portfolio_page/museo-bandini-di-fiesole/

Certosa del Galluzzo: http://www.certosadifirenze.it/