IL SANTUARIO DI MONTE S. ANGELO A TERRACINA

A cura di Andrea Bardi

Storia del Santuario di Monte S. Angelo

La presenza di strutture architettoniche sulla sommità del Monte S. Angelo (Mons Neptunius per i romani) [fig.1] precede il periodo romano (l’Urbe sottomise l’insediamento volsco di Anxur – Tarracina nel 406 a.C, per poi farne una colonia nel 329 a.C.). Tra gli esempi più compiuti di santuario terrazzato tardorepubblicano [fig. 2], il complesso architettonico venne infatti ristrutturato a partire da preesistenze più antiche (IV secolo a.C).[1] L’attuale area, che ospita i resti dell’intervento romano sul monte, venne completata in tre tempi. Le fondazioni più antiche (II secolo a. C.) comprendono la cinta muraria poligonale in opus incertum [fig. 3] (tecnica edilizia romana consistente nell'assemblamento di blocchi di pietra irregolari), l’area del cosiddetto “Piccolo Tempio” e un sacello roccioso, l’auguraculum. Al periodo sillano (secondo quarto del I sec. a.C) vengono fatti risalire il “Campo Trincerato”, adibito ai magazzini e agli ambienti di stanziamento delle truppe e l’area del “Grande Tempio” con il portico retrostante. L’area originaria del “Piccolo Tempio” ospitò poi, in età altomedievale (IX – X secolo), il Monastero di S. Angeletto, dedicato all’arcangelo guerriero da cui il monte prende il nome. Chiuso verso la fine del ‘500 da papa Sisto V (1585-90), divenne un convento di suore clarisse. L’area – nonostante i rilievi proseguirono ininterrotti per i secoli a venire (conosciamo alcuni disegni di Antonio da Sangallo il Giovane e Baldassarre Peruzzi[2]) – venne sostanzialmente abbandonata a se stessa, e tale stato di incuria si protrasse, di fatto, fino alla fine dell’800. Strappata ai domini ecclesiastici in seguito all’unificazione nazionale, la sua gestione venne affidata dallo Stato all’amministrazione comunale per usufrutto. Sottoposta a vincolo archeologico, fu grazie alle sistematiche campagne di scavi condotte prima dallo studioso locale Pio Capponi (al quale venne intitolato il Museo Civico cittadino) e poi da archeologi quali Luigi Borsari e Giacomo Boni, che l’area sacra di Monte S. Angelo tornò ad essere materia di interesse per gli studiosi.

Fig. 3

Il “Piccolo Tempio” 

Le varie costruzioni nell’area del “Piccolo Tempio” sul Monte S. Angelo sono le più antiche dell’intero complesso (gli studiosi notano una maggiore approssimazione nella realizzazione dell’opus). Il tempietto è una platea rettangolare, orientata a sud – ovest, sostenuta in origine da nove arcuazioni (cinque quelle superstiti) [fig. 4] all’interno delle quali gli ambienti sormontati da volte comunicavano tra di loro tramite piccole aperture ad arco.

Fig. 4

Le ghiere degli archi in facciata erano decorate semplicemente da cornici modanate. Le poche pitture interne superstiti, invece, rivelano il sistema a finti stucchi e incrostazioni marmoree tipiche del cosiddetto “primo stile pompeiano” [fig. 5]. [fig. 6]

Nel corso del restauro del 1988 sono state scoperte pavimentazioni medievali con decorazioni a crocette nere, evidentemente afferenti al complesso monastico di S. Angeletto. Quest’ultimo, ricavato nel corridoio interno, era decorato da affreschi purtroppo perduti o, nel migliore dei casi, gravemente danneggiati. Sulla volta un Cristo clipeato[3] era circondato dai Quattro Evangelisti; sulle pareti laterali, un’Ascensione e una Trasfigurazione. La fascia superiore della parete est, infine, accoglieva una Madonna con Bambino tra i Ss. Gabriele e Michele[4].

Il “Campo trincerato” sul Monte S. Angelo

Il “Campo trincerato” manifesta chiaramente, già dal nome, la sua funzione difensiva. Questa struttura militare assumeva la forma di un portico a tre braccia che lasciava scoperto il lato sud alla vista della costa pontina. All’interno del portico gli ambienti di stanziamento delle truppe e i magazzini davano le spalle all’avancorpo nord, protetto ai lati da due imponenti torrioni, che accoglieva un sistema di dodici cisterne voltate. Ancora sul versante sud uno sperone di roccia, l’auguraculum,[5][fig. 7] affiancava un piccolo tempietto in antis[6]. Al XIII secolo, infine, risale l’aggiunta di un’ulteriore torre a base quadrata al centro dell’area, purtroppo andata perduta.

Fig. 7

Il “Grande Tempio”

L’area mediana delle evidenze architettoniche sul Monte S. Angelo, ultima per cronologia, venne realizzata a partire dalla realizzazione di imponenti sostruzioni in opus incertum. Molto diffuse nell’edilizia romana, le sostruzioni consentivano di creare una base di appoggio piana per strutture che, trovandosi in prossimità di dislivelli, non avrebbero potuto essere altrimenti completate. La terrazza era raggiungibile mediante una scala, posta nelle vicinanze del tempietto in antis, che conduceva ad un portico a doppio spiovente, chiuso su tre lati e sorretto da un colonnato corinzio [fig. 8].

Fig. 8

Davanti al portico, il Tempio vero e proprio. Circondato da una recinzione (temenos) atta a delimitare lo spazio sacro, esso fu costruito su di un podio lungo 32 metri, largo 19 e alto circa 7.  Chiuso sulle pareti laterali, su di esse era addossata una teoria di semicolonne (tempio pseudoperiptero). Il pronao, a sei colonne (tempio esastilo) era accessibile da una gradinata ricavata dal podio [fig. 9] [fig. 10]. Una volta all’interno, la cella (naos) conteneva, sulla parete di fondo, la statua della divinità, con una pavimentazione a mosaico bianco delimitata da una fascia di colore nero. Sulla destra del tempio una piccola edicola proteggeva un altro auguraculum, connesso – tramite un foro nella roccia – con una grotta naturale nel criptoportico. Proprio nei pressi dell’edicola Pio Capponi rinvenne, nel famoso scavo del 1894, in un ripostiglio sacro (favissa) numerosi ex voto (oggetti offerti in dono alla divinità in seguito all’adempimento di una promessa).

La sostruzione inferiore: criptoportico e galleria d’archi

Da una scalinata sul lato ovest della piana di mezzo, si accede a un corridoio che, accompagnando il dislivello del terreno, conduce alla terza terrazza, la più bassa, con le sue dodici arcate a tutto sesto che rappresentano, ad oggi, la parte meglio conservata dell’intero complesso. Al criptoportico (corridoio coperto), lungo 60 metri e largo circa 3, voltato a botte e aperto sul lato lungo da un’alternanza di porte e finestre [fig. 11] si addossa un ambiente voltato e aperto in facciata da dodici arcate a tutto sesto [fig. 12]. Ad ogni arcata corrisponde uno spazio delimitato da pareti divisorie aperte da una galleria prospettica di porte ad arco, una delle maggiori attrattive dell’intero complesso [fig. 13].

 

Lo scavo del 1894 e la questione attributiva

Il 1894 fu un anno cruciale per le sorti del tempio. Dopo essere stato sottoposto, agli inizi del decennio, a vincolo archeologico, il sito, erroneamente definito “Palazzo di Teodorico” fu oggetto di una campagna sistematica di scavi che sciolsero alcuni interrogativi cruciali.  Innanzitutto, l’area venne identificata nella sua doppia natura - cultuale e militare – grazie all’azione di Borsari, Boni e Capponi. Agli studiosi si deve anche il ritrovamento di un basamento templare, della sede oracolare e di altri edifici. Dalla tecnica costruttiva utilizzata, inoltre, fu possibile risalire alla datazione delle strutture. Anche l’attribuzione della titolarità del tempio a Iuppiter Anxur (Giove imberbe), dio di tradizione volsca menzionato da varie fonti latine (Virgilio, Tito Livio, medaglioni appartenenti alla Gens Vibia) fu messa seriamente in discussione grazie al ritrovamento, per opera di Pio Capponi, di alcuni crepundia, oggetti votivi in piombo offerti alla divinità durante i riti di passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Fu proprio attorno ai crepundia e alle iscrizioni incise su basi votive trovate da Borsari che la tradizionale attribuzione del tempio a Giove Anxur iniziò a mostrare i primi segni di cedimento. Alcune basi marmoree da statuette votive ritrovate nello scavo da Borsari recavano infatti l’iscrizione “VENUS OBSEQUENS”; altre, più semplicemente, “VENUS”[7]. Indizi del genere non potevano certo passare inosservati, e, alla lunga, grazie anche a riflessioni di carattere filologico su fonti letterarie (Plinio, Orazio, oltre a Virgilio e Tito Livio) portarono ad un deciso cambio di rotta nell’individuazione delle divinità titolari del complesso e, nello specifico, in quella del “Grande Tempio”. Mentre il “Piccolo Tempio” doveva coincidere con l’aedes Feroniae (“tempio di Feronia”) citato da Plinio in un passo della Naturalis Historia[8],la costruzione principale, sulla terrazza mediana, doveva inevitabilmente riferirsi a “Venere obbediente”, per una serie di ragioni. In primis, la committenza: si presume che a volere il tempio fu un influente nobile di fazione sillana, C. Memmio, in seguito alla vittoria di Silla su Caio Mario[9]. Venere era la divinità protettrice del dittatore, il cui attributo era Epaphroditos (“favorito a Venere”), e la costruzione del tempio poteva costituirne il degno atto di ringraziamento. In secondo luogo, l’orientamento del tempio: rispetto all’aedes Feroniae (“Tempio di Feronia”), rivolto alla città e alle campagne circostanti, il tempio di Venere si rivolgeva al porto, centro di gravità dei commerci e in particolare dell’esportazione del pregiato vino Caecubum. Il rapporto tra Venere e vino si era intensificato dal 295 a.C., quando la dea venne associata ai Vinalia Rustica; il vino era inoltre strumento dell’alterazione sensoriale necessaria alle adepte di Venere per la pratica di riti orgiastici connessi al culto della dea[10]. In ultima analisi, la struttura architettonica del santuario terracinese riflette chiaramente il modello del Tempio di Venus Ericina (Erice, Sicilia). Il ruolo di Iuppiter Anxur diviene, alla luce di tali considerazioni, certamente più marginale; tuttavia, la sua presenza è plausibile in virtù della consuetudine di abbinare ad una divinità principale un paredro, ovvero un dio giovane. Proprio la coppia Feronia – Giove Anxur era, al tempo, molto diffusa[11] (Servio, nel suo commento a Virgilio, identifica Feronia con Iuno Virgo). A Terracina, dunque, la presenza di Giove imberbe andrebbe riferita e limitata al piccolo tempietto in antis nel campo militare. Quanto a Feronia, infine, dea molto importante a Terracina[12], la sua natura “transizionale” (era la dea del passaggio dallo stato selvatico a quello civilizzato) andrebbe anch’essa risolta nell’orientamento del piccolo tempio, esattamente a metà tra la città e la campagna circostante.

 

Note

[1] Tuttavia, la campagna di scavi condotta da un team italo-tedesco guidato da Paul Scheding e Francesca Diosono nel 2019 ha portato al rinvenimento di oggetti in ceramica risalenti al IX secolo a.C.  (https://www.latinaoggi.eu/news/cronaca/77885/sul-monte-del-tempio-di-giove-scoperte-ceramiche-preromane).

[2] AA.VV, Il santuario romano di Monte S. Angelo a Terracina, p. 13.

[3] Nell’arte romana un’imago clipeata consisteva in un ritratto inscritto in una cornice tonda.

[4] AA.VV, Il santuario romano di Monte S. Angelo a Terracina, p. 55.

[5] Formazione rocciosa dalla quale i sacerdoti, gli àuguri, interpretavano il volere degli dèi a partire dall’osservazione del volo degli uccelli.

[6] costruzione in cui le pareti laterali si prolungano andando a formare delle antae delimitando la parte esterna del pronao.

[7] L. Boccali, Esempio di organizzazione delle fonti antiche per la ricostruzione del quadro della vita religiosa di una città e del suo territorio in età preromana e romana: Terracina, pp. 199-200.

[8] F. Coarelli, Il santuario di Monte S. Angelo a Terracina. Riflessioni vecchie e nuove, p. 30.

[9] Memmio sposò anche la figlia di Silla (L. Boccali, p. 194).

[10] F. Marcattili, I santuari di Venere e i “Vinalia”, p. 433; F. Coarelli, I santuari del Lazio in età repubblicana, pp. 131-132.

[11] M. Di Fazio, I luoghi di culto di Feronia. Ubicazioni e funzioni, pp. 385-386.

[12] Oltre all’aedes Feroniae citato da Plinio, Orazio cita il Fanum Feroniae, a 3 miglia da Terracina, nei pressi del Monte Leano (M. di Fazio, Angizia, Feronia, Marica. Divinità e culti italici nell’Eneide, p. 126).

 

Bibliografia

Coarelli, I santuari del Lazio in età repubblicana, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1987.

Longo, Studio guida dell’area sacra di Monte S. Angelo, in “Collana di studi sul Lazio meridionale del centro di cultura Palazzo Braschi, I, Subiaco, 1991.

Boccali, Esempio di organizzazione delle fonti antiche per la ricostruzione del quadro della vita religiosa di una città e del suo territorio in età preromana e romana: Terracina, in “Cahiers du Centre Gustave Glotz”, Vol. 8, Parigi, Boccard, 1997, pp. 181-222.

AA.VV., Il Santuario di Monte S. Angelo a Terracina, Terracina, BookCart Editore, 2005.

C.F. Giuliani, L’edilizia nell’antichità, Roma, Carocci, 2006, pp.148-151.

AA.VV., L’architettura del mondo antico, Bari-Roma, Laterza, 2006.

Di Fazio, I luoghi di culto di Feronia. Ubicazioni e funzioni, in Il Fanum Voltumnae e i santuari comunitari dell’Italia antica. Atti del XIX convegno internazionale di studi sulla storia e l’archeologia dell’Etruria, Roma, Quasar, 2012.

Di Fazio, Angizia, Feronia, Marica. Divinità e culti italici nell’Eneide, in “Mélanges de l’École Française de Rome, 129/1, 2017, pp. 121-137.

Marcattili, I santuari di Venere e i “Vinalia”, in “Rendiconti della Accademia Nazionale dei Lincei”, Serie IX, Volume XXVIII, 2018, pp. 425-444.

Coarelli, Il santuario di Monte S. Angelo a Terracina. Riflessioni vecchie e nuove, in L’architettura del sacro in età romana. Paesaggi, modelli, forme di comunicazione, a cura di M. Valenti, Roma, Gangemi, 2016, pp. 26 - 33.

 

Sitografia

Sito web del comune di Terracina al link:

https://comune.terracina.lt.it/contenuti/49704/tempio-giove-anxur (ultima consultazione 20/07/2020)

Sito web dell’Enciclopedia Treccani al link:

http://www.treccani.it/enciclopedia/iuppiter-anxurus_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Antica%29/ (ultima consultazione 20/07/2020)

Sito web dell’Enciclopedia Treccani al link:

http://www.treccani.it/enciclopedia/terracina_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Medievale%29/ (ultima consultazione 20/07/2020)

Sito web di Latina Oggi al link:

https://www.latinaoggi.eu/news/cronaca/77885/sul-monte-del-tempio-di-giove-scoperte-ceramiche-preromane (ultima consultazione 21/07/2020)

 


IL BATTISTERO DI SAN GIOVANNI DI AGRATE

A cura di Marco Roversi

“Basilica Sancti Victoris infra castro Agredade”

Introduzione: la Parrocchiale di San Vittore ed il Battistero di San Giovanni di Agrate Conturbia

L’attuale territorio del Comune di Agrate Conturbia, nel Medio Novarese, è frutto della fusione, avvenuta poco dopo l’unificazione d’Italia, tra le due antiche comunità di Agrate e di Conturbia. Nonostante le diverse vicende storiche e i diversi trascorsi come comunità disgiunte, il territorio è comunemente caratterizzato da una rilevante antichità, con i primissimi insediamenti nell'area risalenti all'Età Neolitica, per proseguire con le successive tracce abitative dell’Età del Bronzo, della Prima e Seconda Età del Ferro, con l’occupazione gallica prima e romana poi. Due terzi o più delle tracce archeologiche rinvenute in loco risalgono proprio all'Età Romana, specialmente tra il I e IV d.C., epoca in cui le comunità erano ormai assai ricche di presenza umana con anche due o tre luoghi di culto attestati e intitolati a Diana e Marte. A romanizzazione avvenuta si facilitò ancor di più l’edificazione di fattorie e latifondi lontano dai due villaggi principali, presenze che sopravvissero al crollo della romanità nel territorio, quando, con l’ingresso nell'Epoca “Barbarica” e Altomedievale, castelli, chiese e battisteri divennero i nuovi centri di potere e di aggregazione delle due comunità di Agrate da una parte (che deriverebbe il proprio nome dal latino Ager, ossia “campo”, e il suffisso –atum, non escludendo in alternativa la derivazione dal nome proprio Acrius), e di Conturbia dall'altro (il cui nome deriverebbe, invece, dal latino Caput Torbidae, ossia “Fine delle Torbiere”, a ricordare la natura estremamente paludosa del suo territorio primigenio, con distese di torbiere e paludi che, partendo dall'Area dei Lagoni di Mercurago, coinvolgevano anche i vicini insediamenti di Revislate e Borgoticino, terminando proprio nell'area dell’attuale Conturbia).

Fig. 1 Il Battistero di San Giovanni di Agrate Conturbia oggi.

Tra le più note e rappresentative testimonianze dell’Agrate altomedievale spicca certamente il Battistero di San Giovanni di Agrate, poco noto ai più, ma ad oggi uno dei più rappresentativi esempi di architettura romanica di notevole interesse artistico e storico. L’edificio è fronteggiato dal sagrato dell’antistante Parrocchiale di San Vittore, la cui prima notizia risale all’anno 976. Di questa non possiamo ricostruire la struttura originaria, anche se possiamo immaginarla come una piccola chiesa andata poi trasformandosi nel corso dei secoli in seguito a lavori di restauri e successivi ampliamenti, specialmente a fine 500 ed inizi 600. Allo stato attuale, nella chiesa odierna, quanto si può ammirare di maggior pregio storico artistico sono certamente l’affresco della Deposizione, seppur con parti mancanti, e sulla parete nord del complesso un affresco con scena di Crocifissione attribuibile a Tommaso Cagnoli, pittore del novarese operante a inizi 500. Importante ricordare come l’area ove attualmente sorgono la chiesa ed il battistero sia stata individuata quale terrapieno artificiale di antica realizzazione: ad oltre un metro di profondità, infatti, alcuni interventi di indagine e di scavo hanno portato all’individuazione di alcune strutture murarie forse facenti parte dell’antico “castro” di età romana, in ogni caso presenze certamente pertinenti ad un’epoca precedente a quella di realizzazione dell’attuale sagrato. Ulteriori recenti scavi (2003) intorno all’area di fondazione del battistero non hanno, tuttavia, apportato rilevanti novità in merito.

Fig. 2 Facciata della Parrocchiale di San Vittore.

Circa la datazione del Battistero di San Giovanni di Agrate ogni ipotesi circa una precisa e corretta data di realizzazione entro il X-XI e XII secolo resta alquanto vaga. Esse sono spesso contrastanti, ma si tende oggi a segnalare due principali epoche di costruzione, più un’ulteriore terza fase, qualora si tenga conto dei resti di una muratura diversa, più rozza, nei primi 40 cm dal suolo, il che darebbe valore all’ipotesi dell’edificazione del complesso sacro al di sopra dei resti di un precedente sacello pagano. Attualmente, in seguito all’eliminazione dei rifacimenti e delle aggiunte architettoniche di fine 500 (ossia un portichetto antistante l’ingresso e una cappella laterale), la struttura si presenta nel suo aspetto basso medievale, con la parte inferiore circolare e quella superiore ottagonale. Il vano inferiore internamente si presenta in pianta di forma circolare, con nicchie parietali a disposizione radiale. Sul lato est, ove si innesta il portale maggiore di ingresso, nonché l’unico accesso presente nella fase originaria, si trova una rientranza oblunga di non elevate dimensioni, utile all’individuazione volumetrica dei semi pilastri che separano le nicchie adiacenti. Queste ultime hanno una forma pressoché trapezoidale, con l’unica eccezione di quella posta a sud, di pianta semiellittica e di profondità maggiore rispetto alle altre. Tutte le nicchie sono inoltre separate tra loro da risalti murari quadrangolari, con le facce laterali di questi ultimi che coincidono con le pareti laterali delle nicchie stesse. Per quanto concerne l’elevato dell’interno i semi pilastri che separano le singole nicchie si raccordano con alte arcate a tutto sesto attraverso la mediazione di capitelli in muratura a forma di parallelepipedo piuttosto schiacciato. Al di sopra delle arcate si innalza una slanciata copertura a cupola dal profilo a spicchi, quest’ultima incastonata nella porzione superiore dell’edificio, ossia un possente tiburio ottagonale, la cui prismaticità è visibile solo esternamente, dalla regolare scansione degli otto lati che sorreggono la copertura dell’edificio a otto spioventi ribassati. Il sostegno della possente struttura di tamburo/tiburio è internamente affidato alla muratura del piano terreno, dallo spessore notevole, che esternamente non fu dotata di contrafforti, ma di sottili lesene. Uniche fonti di luce erano invece, almeno in origine, le due monofore a doppia strombatura e a terminazione arcuata del tiburio, le quali sono oggi visibili al di sotto delle trifore dei lati est ed ovest, quindi simmetricamente l’una con l’altra. Tuttavia, in seguito ai vari e continui rifacimenti dei paramenti murari esterni, non siamo in grado di stabilire se queste fossero le uniche fonti di illuminazione di tutto il battistero, oppure se vi si aprissero altre piccole trifore o soprattutto monofore.

Fig. 3 Sezione del Battistero.

Esternamente i paramenti murari della porzione inferiore evidenziano l’impiego di ciottoli posti a spina di pesce per il retro e le porzioni laterali del complesso, mentre la parte frontale con la porta e la sovrastante lunetta risultano in blocchi di pietra squadrata a corsi regolari, al pari del soprastante tiburio ottagonale. Nel corso dei secoli, ad ogni modo, i paramenti in ciottoli sono stati oggetto di rifacimenti e integrazioni, nonché di ispessimenti dei letti di malta, i quali rendono a oggi difficile l’interpretazione e la ricostruzione di come apparisse realmente all’esterno l’edificio originario romanico. È stata, inoltre, considerata l’ipotesi che nella sua fase iniziale il battistero fosse costituito dalla sola parte inferiore, e che quella superiore fosse poi stata aggiunta in seguito ad un terremoto che nel 1117 avrebbe distrutto parte della struttura, una tesi avvalorata anche da una nuova consacrazione operata da parte del vescovo Litifredo tra il 1122 e il 1148. I paramenti murari esterni presentano, infine, alcuni elementi decorativi, principalmente archetti pensili che si appoggiano direttamente alle cornici che mediano con le sovrastanti falde del tetto. Tali archetti, realizzati sia in pietra sia in cotto, sono così visibili nel sottogronda sia della parte inferiore sia del superiore tiburio. Completano l’ornamentazione esterna una serie di trifore cieche disposte nella porzione sommitale di tutti gli otto lati del tiburio e due strette e lunghe monofore a doppia strombatura, presenti lungo i lati est ed ovest e già sopracitate come le due possibili uniche fonti di illuminazione dell’originario battistero del XII secolo.

Fig. 4 Particolari dei paramenti murari esterni del tiburio.

Il Battistero di San Giovanni di Agrate: la decorazione interna

Pertinenti a rifacimenti successivi al XII secolo sono certamente gli affreschi visibili nelle nicchie interne, datati tra il XV e il XVII secolo e disposti a corona attorno alla centrale vasca battesimale, di forma ottagonale e ribassata di tre gradini rispetto al piano di calpestio (un tempo occupata dall’originaria vasca ad immersione in uso sino al Concilio di Trento), al centro della quale si erge a sua volta una più recente fonte in marmo bianco dalla vasca ellittica, unico piede a colonna e base a parallelepipedo schiacciato. Analizzando le nicchie più rilevanti ed i relativi affreschi si procede partendo dalla nicchia 1, posta sul lato ovest, la prima visibile frontalmente appena varcato l’ingresso della struttura. Qui l’attenzione è catturata dal grande affresco settecentesco che occupa la nicchia quasi per intero, le cui due paraste laterali che racchiudono l’immagine sono le uniche decorate a colonna tortile sormontata da un capitello lavorato. Soggetto è una scena del Battesimo di Gesù per mano di San Giovanni, unico tra tutti gli affreschi che presenti una fattura assai recente: lo stile dell’artista è ancora in parte barocco, con attrazioni verso un tratto ancora tipicamente seicentesco, il tutto riproducente il battesimo del Cristo al quale presenziano sulla sinistra un angelo, intento a trattenere nelle mani le vesti di Gesù, mente dall’alto incombe potente l’immagine di Dio Padre, ben visibile su di uno sfondo di nubi dai tratti quasi evanescenti.

Proseguendo in senso orario si incontrano la nicchia 2, che non presenta tracce di affreschi, e la nicchia 3, decorata, invece, con uno splendido affresco riproducente nuovamente un Battesimo di Gesù, tuttavia diviso in due registri: quello superiore, di fine 400, in cui è visibile il Battesimo del Cristo al quale presenziano, oltre al Battista, anche San Grato e Santa Apollonia (affresco che rientra nell’indirizzo dei maestri dominanti la scena del novarese tra la fine del XV e l’inizio del XVI, quali Giovanni Antonio Merli e Angelo de Orello, noto anche come “Anonimo di Borgomanero”); quello inferiore, invece, si presenta privo di tracce pittoriche, ma le analisi condotte in occasione degli ultimi lavori di restauro (2011-2013) hanno evidenziato tracce di un rifacimento pertinente al XVII secolo che, in occasione della stesura dello strato di intonaco, portò alla perdita pressoché totale del precedente affresco a graffito in continuità con il registro superiore. Di notevole interesse artistico sono poi gli affreschi della nicchia 6, relativi a due fasi di vita differenti del battistero: durante i lavori di restauro sono, infatti, stati portati in luce due strati pittorici differenti, uno risalente agli inizi del XVI secolo, e limitato alla sola immagine di una Madonna con Bambino, probabilmente la pala dell’antico altare cinquecentesco; il secondo, invece, di pieno XVI secolo, ritraente un San Giovanni monocromo che occupa tutto il volume della nicchia stessa, forse disegno preparatorio di un’ipotetica opera incompiuta. Coeva è, infine, la decorazione della volta, costituita da un clipeo con la raffigurazione centrale dell’Agnus Dei reggente il vessillo crucisignato, il tutto delimitato da una cornice intrecciata e dai raggi di un sole radiante, a oggi riportato ad un ottimale stato di conservazione in seguito ai più recenti lavori di restauro.

 

Crediti Fotografici: Chiara Del Sale, fotografie 2,4, 5, 6, 7, 8, 9, 10.

Bibliografia:

- “ANTIQVARIUM, G.A.S.M.A., Studi e Ricerche per i trent’anni di attività”, Gruppo Archeologico Storico Mineralogico Aronese, Arona, dicembre 2003.

- “Agrate e il suo battistero. Una storia millenaria”, testi di Giancarlo Andenna, Simona Gavinelli, Simone Caldano, Ivana Teruggi, Sergio Monferrini, Maria Grazia Porzio, Remo Julita, Giorgia Corso, Silvia Angiolini, Corrado Gavinelli, Raffaella Vecchi e Federico Barbieri, Interlinea Editore, luglio 2015.

 


CANALE D'AGORDO: IL BORGO DI PAPA LUCIANI

A cura di Mattia Tridello

Introduzione

“Egli è qui: col suo insegnamento, col suo esempio, col suo sorriso” (San Giovanni Paolo II, omelia a Canale D'Agordo). Parole più appropriate non poteva trovarle San Giovanni Paolo II in occasione dell’anniversario dell’elezione al soglio pontificio del suo predecessore, Giovanni Paolo I, il 26 Agosto 1979, quando giunse nel paese natale di quest’ultimo per celebrare, tra un’immane folla di fedeli e abitanti del luogo, una Messa commemorativa nella piazza principale. La frase sopracitata che Egli pronunciò nell'omelia rimase impressa nella popolazione, tanto da essere visibile tuttora a chiunque arrivi o si appresti a visitare Canale d’Agordo. Incise nel legno e affisse alla facciata dell’antica Pieve (Fig. 1), le commoventi parole rammentano eternamente quella memorabile giornata e si pongono non solo come segno visibile dell’affetto degli agordini nei confronti del loro più illustre compaesano, ma specialmente come eco di un sentimento comune di amore, gratitudine e riconoscenza nei suoi confronti.

Il paesino della Valle Biòis, contrassegnato fin dall'origine da incantevoli tesori artistici e naturali, l’inconfondibile scenario monumentale delle Dolomiti, la maestosa  cornice delle vette del Civetta, del Focobòn e dei Lastèi, il verde vivido e intenso dei boschi di conifere e il rombo discreto del torrente Biòis sono infatti solo alcune delle caratteristiche che rendono questi posti meta imprescindibile e irrinunciabile per gli amanti del panorama montano e per coloro che, in cerca di riparo dalla frenetica vita dei centri più popolati, vogliono ritrovare un momento di tranquillità e calma armonia all'ombra delle pinete. Oltrepassare il ponte ligneo che introduce alla piazza centrale del paese, tuttavia, non significa solamente assaporarne le bellezze naturalistiche, ma implica l’inizio di una visita tra le case che videro Albino Luciani formarsi, tra i luoghi che, più di tutti, ne conservano calorosamente la memoria e ne tramandano affettuosamente l’insegnamento evangelico.

Fig. 1 – Tondo ligneo sulla facciata della Pieve di San Giovanni Battista recante le parole dell’omelia di San Giovanni Paolo II.

All'interno del piccolo paese tutto parla e si fa testimone della permanenza del giovane agordino: ogni muro diventa un silenzio eloquente e trasmette il ricordo della giovinezza del pontefice, restituendone un ritratto fedele e ben documentato che cerca di far luce, più che sulle cause della morte (per le quali fiumi di inchiostro sono stati versati), sulla formazione che ha reso Don Albino il vescovo, il patriarca, il cardinale e infine il papa che tutti, chi in maniera diretta, chi per testimonianze, ha avuto modo di conoscere. Giovanni Paolo I non può quindi essere ricordato solo per la brevità del pontificato: prima dell’elezione al soglio di Pietro, nel Settembre 1978, trascorsero infatti ben 65 anni, il periodo di vita di un uomo di Dio che, fin dall'infanzia a Canale D'Agordo, orientò la sua esistenza al servizio nella Chiesa con impegno e virtù eroiche.

E’ per questo, dunque, che tale trattazione cercherà di approfondire il lato meno noto della vita di Luciani, ripercorrendone i luoghi dell'infanzia e della giovinezza arrivando, tramite la descrizione dei monumenti artistici e storici presenti nel paese natale, alla creazione di un vero e proprio itinerario attraverso i luoghi che hanno con Lui un rapporto diretto: la casa natale, la Pieve di San Giovanni Battista e il MusAL (Museo Albino Luciani).

Il contesto storico, geografico e sociale di Canale D'Agordo

“Il bacino di Agordo è uno dei più stupendi delle Alpi. Figuratevi  di essere in mezzo alla cerchia dentata  di una sterminata corona da re. Le montagne dolomitiche, ritte intorno come gruppi di torri e di aguglie di candido marmo, ne formano i raggi che si innalzano tanto da perdersi nell'azzurro del cielo”

Antonio Stoppani “Il bel Paese” 1876

 

In questo modo il presbitero, accademico, patriota e geologo italiano A. Stoppani, nel suo libro intitolato “Il bel Paese” (edito nel 1876), descrive il contesto geografico in cui è inserito Canale d’Agordo. La vallata del piccolo paese, al pari delle più note località turistiche di Falcade e Caviola, non era solo un vero e proprio gioiello naturale ma deteneva sia origini antichissime (basti pensare che una delle prime citazioni di Canale risale a una bolla di Papa Lucio III del 1185) sia uno stile di vita della popolazione assai laborioso, intriso da un forte senso del dovere e dell’onestà. Non può stupire quindi che il  motto episcopale e pontificale di Luciani, “Humilitas”, (Umiltà) rispecchiasse la condizione sociale e lavorativa degli agordini nella Valle del Biois. La parola, che deriva da “humus” (terra), probabilmente voleva riferirsi anche a quella sua stessa terra natale, contrassegnata dai ritmi del lavoro nei campi ove si praticava, seppur in un ambiente sfavorevole, l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, per secoli l’unico sostegno economico e alimentare delle numerose famiglie che, soprattutto in tempo di carestia, pativano spesso la fame. Verso il ‘300 le primitive attività di sostentamento vennero presto affiancate dall'industria mineraria nelle due miniere di ferro, piombo e mercurio della zona, Sass Négher e Sàis. Non tardarono quindi a nascere le prime fucine per fondere i metalli in località “I Forn” e “Medavàl”. Proprio per la presenza di numerosi forni (che fin dall'occupazione veneziana forgiavano ottime spade per l’esercito “da Mar” e “da Terra” della Serenissima) il paese iniziò ad essere denominato e chiamato “Forno di Canale”. L’antico toponimo rimase invariato per secoli, per poi essere cambiato in “Canale d’Agordo” nel 1964. Per quanto concerne l’amministrazione politica, fin dal 1411 la gestione territoriale era organizzata dalle Regole, ovvero da organismi politico-burocratici costituiti da tutti i capifamiglia che gestivano il patrimonio pascolivo e boschivo della collettività attraverso statuti che concedevano una privilegiata autonomia rispetto al potere centrale della Repubblica di Venezia. Tali organizzazioni sopravvissero sino al 1806 quando, con decreto napoleonico, vennero soppresse in favore dell’istituzione comunale. Nel paese di Luciani ve ne si trovavano ben tre, ma l’ultima testimonianza a noi visibile è un edificio datato 1640 (anche se si ipotizza un’origine antecedente) chiamato comunemente “Casa delle Regole” (Fig. 2). Situato nella piccola ma suggestiva piazzetta della frazione di Tancon, veniva utilizzato come luogo di riunione e assemblea dai rappresentanti della Regola di Forno di Canale, i cosiddetti “Capi Colmèl”.

Fig. 1a – Casa delle Regole di Canale d’Agordo.

Nel breve tragitto che dalla piazza principale di Canale arriva alla Casa in oggetto, si viene attorniati da numerosi fabbricati che hanno mantenuto, a discapito dei secoli o degli anni di costruzione, l’originario aspetto. Assieme agli altri Comuni della Val Biois (Falcade e Vallada Agordina), Canale d’Agordo vanta infatti un numero incredibile di “tabià”, i tradizionali fienili in legno delle Dolomiti. Queste suggestive opere artigianali, alcune centenarie e plurisecolari, si possono ammirare praticamente ovunque nella valle tanto da risultare difficile l’individuazione di un simile patrimonio nel resto del panorama dolomitico. Stupisce come, nel giro di poche centinaia di metri, si possa tornare indietro nel tempo, guardare gli stessi edifici in legno e muratura che anche Albino Luciani vide. D'altronde la sua casa natale, originariamente, doveva per certi versi assomigliare esternamente alle costruzioni rurali ancora visibili tra le vie del paese. Tuttora quest’ultima, grazie all'acquisizione da parte della Diocesi di Vittorio Veneto, è stata resa visitabile per permettere a qualsivoglia turista, fedele o semplice visitatore di poter osservare con i propri occhi le stanze nelle quali visse la famiglia Luciani e dove Albino soggiornò in numerose occasioni sia da Patriarca di Venezia che da cardinale pochi mesi prima del Conclave del ‘78.

La casa natale di Giovanni Paolo I a Canale D'Agordo

La casa, che dista circa 200 metri dal centro del borgo, si presenta attualmente come il frutto dei lavori di ristrutturazione avvenuti nel 1959 ad opera del fratello di Luciani, Edoardo, per ampliare la metratura interna dell’abitazione (Fig. 2-3-4). Quest’ultimo, vista anche la numerosa prole, fece abbattere il fienile che occupava interamente la parte sud del fabbricato per costruirvi i servizi igienici e altre stanze. Tuttavia la zona nord della casa rimase pressoché invariata, continuando a custodire gli ambienti originali dell’infanzia e dei primi momenti di vita del piccolo Albino.

L’itinerario di visita inizia dal piano terra dove, dopo essere entrati nella stalla, si vieni introdotti in un corridoio su cui si affacciano la cantina (utilizzata come ripostiglio e luogo di lavoro invernale da falegname del padre di Albino, Giovanni) e il vano scale. Salite le pedate in legno ci si appresta a visitare il primo piano, caratterizzato dalla “zona giorno” e dalla “zona notte”, il luogo che custodisce la memoria dei primi pianti da neonato del pontefice. Dopo aver oltrepassato il piccolo camerino si trova, infatti, la cosiddetta “stùa”, la stanza dove Bortola Tancon partorì Albino il 17 Ottobre 1912 (Fig. 5). Lo spazio, che all'epoca di Luciani era il più caldo della casa, veniva riscaldato dalla tipica stufa montana (fornèl) in ceramica (Fig. 6) alimentata a legna dalla cucina adiacente tramite un piccolo sportellino in metallo. Così facendo l’ambiente risultava idoneo per permettere il parto, tanto che qui vedranno la luce anche gli altri famigliari del papa, inclusi il fratello e i nipoti. La stanza, tuttavia, fu legata indissolubilmente ad Albino poiché, come si può leggere dall'atto di Battesimo, per imminente pericolo di vita vi fu anche battezzato da parte della levatrice Maria Fiocco, che aveva aiutato la madre durante i difficili momenti del travaglio. Il Sacramento del Battesimo fu completato due giorni dopo al fonte battesimale della Pieve del paese.

Continuando la visita, sullo stesso piano si può notare la cucina dove spesso i famigliari si ritrovavano attorno alla tavola e dove Luciani, prima da vescovo e poi da patriarca, era solito sedersi sulla sedia che dava le spalle alla finestra (Fig. 7). Proseguendo per il lato sud dell’abitazione si può trovare la stanza da letto dove il futuro papa riposava quando veniva in visita alla casa natale, l’ultima volta in cui la utilizzò fu pochi mesi prima del Conclave.

L’infanzia di Albino, che coincise con gli anni del primo conflitto mondiale e dell’immediato dopoguerra, trascorsa tra le mura di casa, la chiesa parrocchiale e la scuola, fu segnata innanzitutto dalla presenza della madre Bortola. Donna ispirata da una portentosa fede e forgiata dai retti valori dell’onestà, del duro lavoro e dell’attenzione al prossimo, divenne senz'altro un punto cardine nella formazione umana e cristiana di Luciani. Accanto alla figura materna, colui al quale il giovane fu molto legato fu senz'altro l’arciprete don Filippo Carli. Costui, dopo numerosi incarichi sparsi per la valle, venne chiamato dal vescovo a reggere l’importante e antica Pieve di San Giovanni Battista di Canale d’Agordo dove Albino svolgeva regolarmente il servizio di chierichetto. L’attenzione ai giovani e ai nuovi metodi della comunicazione del Catechismo fecero del parroco una profonda e presente guida spirituale per il ragazzo, sia prima sia durante gli studi in seminario a Feltre e Belluno. Durante i mesi estivi, ad esempio, don Filippo affidava a Luciani la stesura di articoli per il bollettino parrocchiale oppure la risistemazione dell’antica e pregiata biblioteca presente nella canonica della pieve. Quella stessa chiesa, ancora oggi, costituisce una tappa fondamentale per comprendere l’esperienza cristiana del futuro papa poiché custodisce, tra le sue navate ,oltre che preziose opere d’arte, in parte ispirate proprio alla sua figura, anche le memorie cruciali della sua formazione sacerdotale, culturale e umana.

La Pieve di San Giovanni Battista a Canale D'Agordo

Il territorio dell’attuale Valle del Biois era servito anticamente solamente dalla Cappella di San Simon (documentata già dal 1185 ma presumibilmente risalente all’VIII secolo). Tuttavia, come accennato in precedenza, con lo sviluppo dell’industria estrattiva delle miniere e l’accrescimento dei forni di fusione dei metalli, i Regolieri furono unanimi nella decisione di fondare una nuova cappella per esigenze sia di comodità che di centralità nella Valle. Perciò il luogo designato per l’edificazione della chiesa fu individuato nel punto di incontro tra la Val del Biòis e quella di Garès, su di un terrazzo alluvionale strategico poiché equidistante da tutti i villaggi che componevano la comunità montana. Proprio per la principale funzione sacramentale di essere sede di numerosi battesimi, l’edificio venne intitolato a colui che battezzò Cristo, San Giovanni Battista. Il 3 Settembre 1458 la Cappella di Canale D'Agordo, tramite decreto pontificio, venne elevata a Pieve autonoma con il diritto di possedere stabilmente un battistero e tutte le insegne parrocchiali mentre l’antica San Simon mantenne il diritto di comparrocchialità. La chiesa del Santo Precursore divenne dunque il centro religioso, civile e sociale dell’intera Valle, ove i paesani si riunivano per partecipare sia alle solenni funzioni religiose, sia alle attività che avevano luogo nella piazza antistante la pieve. A testimonianza di ciò, con l'accresciuta affluenza di paesani nel nuovo centro cittadino, a partire dalla metà del XV secol, iniziarono ad essere fondate, nei locali annessi alla chiesa, numerose confraternite, come quella dei Battuti (risalente al 1455), quella del Santissimo Sacramento (1637), quella del Rosario (1656) e infine quella del Suffragio dei Defunti (1687).

L’architettura e la decorazione artistica

L’edificio sacro, per quanto concerne l’architettura e la decorazione artistica, al momento della sua fondazione, si presentava molto diverso rispetto a quello che vide e frequentò Albino Luciani. Il fabbricato religioso fu infatti segnato da numerose ristrutturazioni e rimaneggiamenti che, a partire dal XIV secolo, lo videro mutare e ampliare fino ad arrivare alla dimensione attuale.

L’originaria cappella tre-quattrocentesca, presumibilmente, doveva occupare lo spazio centrale della navata attuale della chiesa, e presentava una copertura a capriate lignee a vista e un coro riccamente affrescato (Fig. 8). A cavallo tra la seconda metà del ‘400 e l’inizio del ‘500, l’altare maggiore venne impreziosito con la collocazione di un pregevole Flügelaltar di bottega brissinese, ora purtroppo andato perduto. Nel 1568 avvenne il primo ampliamento della zona absidale che comportò l’allungamento longitudinale e trasversale della pianta con la creazione di due navate laterali, una a destra e l’altra a sinistra (Fig. 9). La parte terminale della costruzione fu destinata ad essere rimaneggiata nuovamente nel 1689 e ad assumere un profilo planimetrico non più curvilineo ma poligonale (Fig. 10). Dopo i numerosi interventi stilistici e l’incendio avvenuto il 29 Agosto 1741, nel 1859 l’Arciprete, don Agostino Costantini, decise di restaurare la chiesa affidandosi all'intervento dell’architetto Giuseppe Segusini.

Il noto progettista feltrino elaborò schizzi e disegni ispirati alle forme neoclassiche e neo-rinascimentali, in voga all'epoca, per la ristrutturazione sia dell’interno sia della facciata principale esterna, la quale appariva ancora influenzata da un forte influsso stilistico di fusione tra gotico e barocco (Fig. 11).

L’interno venne contrassegnato da una notevole ristrutturazione volta sia a consolidare le strutture murarie già presenti (ad esempio venne ispessito l’arco trionfale che introduce il presbiterio) sia a crearne di nuove, come l’innalzamento delle due monumentali colonne all'ingresso dell’abside e l’apertura della nuova sagrestia, non più sul lato destro ma su quello sinistro del piccolo transetto. Gli apparati decorativi esistenti vennero altresì modificati o riconvertiti per renderli maggiormente consoni alle nuove forme neoclassiche dell’edificio, le finestre che illuminano le volte laterali vennero rese semicircolari mentre quelle gotiche dell’abside passarono dal terminamento ad arco acuto a quello a tutto sesto. La stessa sorte spettò agli altari laterali, che in gran parte vennero modificati e smantellati. Anche gli arredi subirono modifiche di collocazione come nel caso del fonte battesimale e del pulpito ligneo. Una delle ultime fasi dell’intervento consistette nella tinteggiatura delle pareti e dei motivi ornamentali posti all'incrocio tra le nervature delle volte e nei pennacchi delle stesse. Grazie all'importante restauro avvenuto nel 2017 è stato possibile non solo ripristinare gli antichi colori dell’intervento ottocentesco che col passare del tempo avevano subito ricolorazioni sempre più invasive e scarsamente fedeli alla tinteggiatura iniziale, ma anche constatare che le volte della chiesa sono le cosiddette “volte vere”, ovvero non costituite (come la maggior parte di quelle realizzate dal XVIII secolo in poi) da dei listelli intonacati in un graticcio ma da una possente struttura in pietrame e tufo. Tali dati sono risultati utili per comprendere che quindi Segusini non intaccò l’originaria volta cinquecentesca ma si limitò solamente a rivestirla.

La facciata principale

La facciata principale della Chiesa Arcipretale, come illustrato in precedenza, essendo il risultato della ristrutturazione ottocentesca, si presenta in forme neoclassiche e ripropone la scansione dello spazio interno in tre navate (Fig.12). L’esterno, scandito da una serie di paraste dalla colorazione tendente al rosa antico, è ripartito in tre parti, una centrale e due laterali simmetriche. La porzione al centro, di dimensioni maggiori, ospita l’ accesso principale al luogo sacro, ovvero un portale con la parte superiore architravata in aggetto sorretta da due mensole lapidee. Al di sopra di quest’ultimo trova spazio il rosone cieco, opera dello scultore Valentino Panciera Besarel (1859), che racchiude al suo interno un bassorilievo raffigurante il Battesimo di Cristo nel Giordano (Fig.13). Il livello inferiore della facciata si conclude con una cornice in rilievo sulla quale si instaura l’ampio timpano semicircolare che, riproposto nella forma di semitimpano nelle parti laterali, conclude finemente l’alzato della pieve precludendo e mascherando alla vista dell’osservatore i vari livelli delle coperture retrostanti.

Il campanile

Il campanile dell’edificio, a base per lo più quadrata e dalle tipiche forme stilistiche montane, essendo probabilmente inglobato nelle navate laterali della chiesa, risale a un periodo anteriore al XVI secolo. Al di sopra dell’orologio si trova la cella campanaria che custodisce al suo interno cinque campane, tra cui solo una, la più antica, rimase intatta durante la Prima Guerra Mondiale mentre le quattro, distrutte dall'esercito nemico, vennero rifuse al termine del conflitto. La copertura della torre, poggiando su di una piccola base ottagonale arcata, si presenta a bulbo e viene coronata con la presenza dell’angelo che permette al fabbricato di raggiungere l’altezza di 36 metri (Fig. 14).

L’interno

Lo spazio interno della Pieve di Canale D'Agordo è marcato da composte proporzioni (Fig. 15-16). Le navate laterali vengono divise da quella centrale tramite due successioni di monolitici pilastri. Quest’ultimi, di base quadrata, sono definiti da una serie di lesene in rilievo che culminano in capitelli corinzi policromi. Al di spora di questi si impostano le volte a crociera con nervature e rosone centrale decorato che fungono da copertura sia per la navata centrale che per quelle laterali. In quest’ultime, nello spazio tra i pilastri e i muri perimetrali dell’ambiente, trovano collocazione gli altari minori.

La navata destra

La navata destra della chiesa (Fig. 17) presenta, partendo idealmente dall'ingresso in facciata, il fonte battesimale, l’altare intitolato alle Anime Purganti con l’interessante tela tratta dal medesimo soggetto del Tintoretto e l’elegante pulpito in noce del XIX secolo addossato alla parete perimetrale del campanile.

Fig. 17 – Veduta della navata destra della chiesa.

La navata sinistra

La navata sinistra dell’edificio (Fig. 18), nelle medesime dimensioni di quella destra, presenta due altari laterali, uno dedicato a Santa Lucia e l’altro alla Madonna Immacolata in cui è presente una statua della Madonna di Lourdes acquistata nel 1900 in occasione dellAnno Santo e due piccole statuine, di ottima fattura, rappresentanti Santa Rita e Sant’Agnese provenienti dalla Scuola della Val Gardena.

Fig. 18 – Veduta della navata sinistra della chiesa.

Il presbiterio

Immaginando di proseguire l’itinerario di visita verso l’abside dell’edificio, tramite due maestose colonne laterali, si viene introdotti nel presbiterio (Fig. 19). Gli splendidi e artistici stalli in noce risalenti all'intervento del Segusini si pongono come lignea cornice attorno al maestoso altare maggiore che custodisce, a sua volta, due opere degne di nota. La prima di queste è senz'altro la pala maggiore che, incastonata in uno splendido e policromo dossale marmoreo, rappresenta San Giovanni Battista nella veste di “Vox clamantis in deserto” (Fig. 20) ed è attribuita al pittore Antonio Longo che vi lavorò dal 1808 al 1820. La seconda testimonianza artistica di rilevante valore viene rappresentata, senza dubbio, dal raffinato ed elaborato tabernacolo ligneo (Fig. 21-21 a) realizzato dall'abile intagliatore seicentesco, definito da Balzàc il “Michelangelo del legno”, Andrea Brustolon che, dopo gli incarichi lavorativi veneziani, ritornò nella Belluno natia per aprire una bottega e diffondere le sue opere in tutta la provincia dolomitica.

Fig. 19 – Veduta della zona absidale della chiesa.

Le tracce di Papa Luciani nella chiesa

Come già illustrato precedentemente, la chiesa parrocchiale di Canale D'Agordo rappresentò per Albino, fin dall'infanzia, un luogo di profonda formazione culturale spirituale e cristiana tanto da farne una meta costante nel tempo e anche durante le sue visite in paese per salutare i famigliari quando era ormai già vescovo. Come i tre luoghi che ci si sta attingendo a descrivere, nella chiesa sono presenti altrettanti tre punti chiave, tre tappe obbligate, tre memorie del passaggio fisico e evangelico di Giovanni Paolo I. Il primo elemento che ricorda quest’ultimo è senza dubbio il battistero (collocato difronte all'ingresso nella prima campata della navata destra) nel quale furono completati dal vicario parrocchiale, don Achille Ronzon, i riti battesimali di Luciani il 19 Ottobre 1912. A memoria di tale avvenimento è stata posta una monumentale lapide marmorea che rammenta non solo il Battesimo di Albino ma anche quello di molti altri personaggi illustri nati a Canale o nelle zone limitrofe, tra questi figura Padre Felice Cappello, valente gesuita, noto per esser diventato il “confessore di Roma”. Il fonte battesimale vero e proprio, formato da una base lapidea, risulta ricoperto da una costruzione lignea tronco-piramidale realizzata dallo scultore Amadeo Da Pos nel 1933 (Fig. 22-22a).

Proseguendo la visita verso la zona absidale, al di sopra dei pochi gradini che innalzano il presbiterio, si può vedere il secondo elemento che riconduce alla figura di Luciani e che raccorda quest’ultimo con gli avvenimenti seguenti alla sua scomparsa. In occasione dell’importante e attesa visita di San Giovanni Paolo II infatti venne fatto realizzare allo scultore di Falcade, Dante Murer “Moro”, un altare “verso il popolo” per la celebrazione liturgica che avrebbe presieduto il Santo Padre nella piazza antistante la chiesa. La mensa, utilizzata per l’occasione, venne poi posta all'interno della Pieve per essere utilizzata come altare maggiore. L’opera, intagliata con maestria, è formata da quattro pannelli massicci in legno di noce, tre dei quali rappresentano scene e episodi che riassumono magistralmente la vita di Luciani. Nel fronte (Fig. 23-23a) che si affaccia verso l’assemblea, lo scultore ha imperniato tutta la raffigurazione iconografica e iconologica nella parte centrale dove viene raffigurato Cristo (sulla destra) che, sorreggendone la mano, affida le chiavi del Regno dei Cieli (simbolo del Ministero petrino – “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”-A te darò le chiavi del Regno dei cieli: ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” Matteo 16,18-16,19) a Giovanni Paolo I (Fig. 24) il quale, fiducioso e sereno, accetta la consegna volgendo lo sguardo verso Gesù. Il gruppo dei due personaggi centrale divide ma allo stesso tempo diventa un legante tra gli episodi rappresentati nei due lati esterni. Lo scultore falcadino, con abile gesto scultoreo, è riuscito a condensare e racchiudere in poche scene il significato e l’insegnamento della vita del pontefice. A sinistra, infatti, tramite un accurato intaglio, viene rappresentata l’infanzia e la prima giovinezza di Albino quando, tra le sue montagne, pascolava le mucche, ascoltava il catechismo dalla madre e a sua volta lo spiegava ai bambini (Fig. 25). Sulla destra, invece, maggiore attenzione è posta sugli anni del Concilio Vaticano II, sull'incontro tra Luciani e Giovanni Paolo II, sui piccoli e umani gesti, come l’abbraccio con i fanciulli, che ne contrassegnarono il breve pontificato (Fig. 26). Nei due lati corti dell’altare trovano spazio le raffigurazioni delle tre Virtù Teologali: Fede, Speranza e Carità.

Volgendo le spalle all'abside e dirigendosi a ritroso verso l’ingresso nella contro-facciata (dove figura la cantoria con il pregiato organo di Gaetano Callido del 1801), nella prima campata della navata sinistra compare l’ultimo elemento simbolo della memoria del papa. Qui emerge l’imponente statua bronzea intitolata “l’humilitas” realizzata dallo scultore Riccardo Cenedese di Vittorio Veneto (Fig. 27-27a). Luciani, in veste di papa, è rappresentato con un bambino accanto a lui che regge la mitria (simbolo del potere spirituale). La composizione, di forte valenza rappresentativa, simboleggia la straordinaria e mirabile capacità di Giovanni Paolo I di essere vicino ai più bisognosi, ai piccoli della società, di essere in grado di farsi piccolo anche nel parlare per poter essere capito, come diceva il suo padre spirituale don F. Carli, “anche dall’anziana vecchietta che abita in cima al paese”. L’opera, inizialmente pensata per essere collocata nella piazza del paese, ha trovato una stabile posizione nella chiesa tanto da esser diventata meta di pellegrinaggi e devozione popolare. D'altronde la figura di Luciani, fin dalla scomparsa ritenuta eroica e santa, fu destinata ad essere protagonista di numerose opere artistiche disseminate nei luoghi che gli furono legati a seguito di soggiorni o speciali visite. Un esempio è senz'altro il busto presente nel piazzale di Santa Maria Assunta a Frassinelle Polesine (RO) (Fig. 28) opera dello scultore di Camisano Vicentino, Felice Canton. La scultura, realizzata in memoria della visita dell’allora patriarca Luciani nel paesino polesano (avvenuta nel ’76 per il ricordo del venticinquesimo anno dalla tragedia dell’alluvione del Po’ del ’51), ancorata a una possente roccia, rappresenta, con vivido e magistrale realismo, il volto del pontefice pervaso da una profonda serenità che conquista, prima ancora che gli occhi, il cuore dell’osservatore. Tali uniche caratteristiche fanno sì che il mirabile ritratto scultoreo risulti come una delle opere a lui dedicate più verosimiglianti e fedeli tuttora esistenti. Quest’ultimo esempio non è altro che uno dei tanti casi in cui la personalità di Luciani fu motivo di affetto e gratitudine da parte delle persone tanto che, proprio nel paese natale, già dagli anni successivi alla morte, vi fu l’idea di realizzare un luogo che fosse in grado di raccogliere, riunire ma soprattutto mantenere le memorie e la devozione alla vita del vescovo divenuto patriarca e papa. Uscendo dalla Chiesa, volgendo lo sguardo sulla destra, si incontra il fabbricato che custodisce affettuosamente tutto quello indicato, il MusAL, l’ultima tappa dell’itinerario proposto.

Il MusAL: il Museo Albino Luciani di Canale D'Agordo

Le prime idee per la realizzazione del museo giunsero già dal 2006 da parte dell’Amministrazione Comunale di Canale d’Agordo e da Mons. Sirio Da Corte (arciprete del paese). La concretizzazione di tali proposte avvenne con l’inaugurazione di una prima sede espositiva che trovava collocazione nei locali del palazzo della canonica. Tuttavia, sia per la ristretta metratura degli spazi che per la volontà di creare un luogo dove sviluppare pienamente gli episodi della vita di Lucaini e accogliere i pellegrini, si decise di spostare il percorso museale nell'attuale palazzo che lo custodisce. Inaugurato dal segretario di Stato Vaticano cardinale Pietro Parolin nel 2016, il MusAL viene ospitato in un fabbricato risalente al XV secolo che fungeva da sede dell’Arciconfraternita dei Battuti (Fig. 29). Sino al 1869 quest’ultimo appariva interamente affrescato sia all'interno, come testimonia l’unica porzione di affresco sopravvissuta, “La Resurrezione di Cristo” (Fig. 30), sia all'esterno. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento la struttura subirà numerosi interventi volti a designarne sempre nuove funzioni, da scuola elementare che frequentò lo stesso Luciani, a ufficio postale fino a spazio museale.

Il percorso

Il percorso di visita del MusAl si articola cronologicamente nei quattro piani del palazzo permettendo al visitatore di riscoprire e approfondire chiaramente il contesto storico e famigliare nel quale si formò la figura del futuro papa. L’esposizione permanente ha infatti il preciso obiettivo di descrivere la profonda importanza che rivestì Giovanni Paolo I nella storia ecclesiastica e umana del XX secolo, nonchè il compito di ricordare il pontefice non per i soli pochi giorni di pontificato, ma specialmente per l’insegnamento pastorale che ha donato a qualsivoglia persona che, per un attimo, lo abbia serenamente ascoltato.  Il percorso, che mostra oggetti da lui utilizzati, carteggi, vesti talari, effetti personali e gli abiti da cardinale e papa (Fig. 31-32), pone maggiormente l’accento, quindi, sul percorso spirituale, umano e sociale che il giovane seminarista fece fino ad arrivare alla nomina vescovile, patriarcale e infine pontificia. Lungo tutta la visita l’osservatore può vivere anche un significativo coinvolgimento emotivo per la presenza di numerosi filmati che illustrano i passaggi della vita di Albino e di numerosi altoparlanti che diffondono le frasi del pontefice in determinati punti delle sale.

La visita, che inizia dal seminterrato, prosegue poi ai piani superiori dove trovano spazio, in ordine, la sala dedicata alla prima infanzia di Albino e a quelle figure che furono fondamentali per la sua formazione; oltrepassata quest’ultima, nella successiva viene illustrato il periodo del seminario minore a Feltre e maggiore a Belluno (Fig. 31). Salendo le scale e arrivando all'ultimo piano del percorso ci si addentra nel racconto della vita di Luciani da Vescovo di Vittorio Veneto (Fig. 32), da Patriarca di Venezia e da Pontefice (Fig. 33-33a).

L’ultima sala del museo, per volere dei curatori, introduce ma non si addentra nelle numerosissime ipotesi che nacquero dopo che, il 28 Settembre 1978, Giovanni Paolo I lasciò questo mondo. Condividendo tale scelta, uscendo dallo spazio espositivo e ritornando nella piazza di Canale, si conclude idealmente questo itinerario tra i luoghi che videro crescere e formarsi la figura umile ma estremamente possente nella Fede, colossale nel suo sapere enciclopedico, umana nel rapportarsi con il prossimo, di Albino Luciani.

Le parole contenute in queste pagine costituiscono e vogliono essere, dunque, l’umile tentativo di raccontare, attraverso un percorso artistico-culturale, il contesto, i luoghi, le relazioni che forgiarono e contribuirono a formare un Papa che non sarebbe stato tale senza gli insegnamenti e le esperienze vissute nella Valle del Biois.  Seppur in pochi giorni, mostrando più che dando, Egli ha fatto progredire la Chiesa assumendosi convintamente il carico delle nuove strade indicate dal Concilio Vaticano II, ha aperto un sentiero che sarà percorso poi dai suoi successori. Tra quegli stessi sentieri che qui, nelle sue montagne, abbondano, non può non esserci quello della gratitudine nei confronti di colui che, con il suo sorriso e insegnamento magistrale, ha seminato fiori di speranza in un mondo segnato da conflitti e disuguaglianze. Quei fiori, quei virgulti di testimonianza evangelica sono già germogliati e di certo sbocceranno ancora per le generazioni che, in futuro, vorranno conoscerlo e farsi accompagnare dal suo esempio nel lungo percorso della vita.

 

Bibliografia

Serafini, “La Pieve di San Giovanni Battista a Canale d’Agordo (Dolomiti Bellunesi)-La chiesa di Papa Luciani”, tipografia Piave, 2018;

Serafini, F. Vizzutti, “Le chiese dell’antica Pieve di San Giovanni Battista nella Valle del Biois, documenti di storia e arte”, edito a cura delle dell’antica Pieve di Canale d’Agordo, tipografia Piave, 2007;

Serafini, “Sui passi dell’arte e della fede in Valle del Biois, itinerari tra le chiese dell’antica pieve di Canale d’Agordo”, Belluno, 2003;

Falasca, D. Fiocco, M. Velati, “Albino Luciani Giovanni Paolo I. Biografia «ex documentis». Dagli atti del processo canonico”, Tipografia Piave, 2018;

Lise, “Giovanni Paolo I, la speranza che nasce dall’umiltà”, Elledici, Velar, terza edizione 2018;

Luciani, “Illustrissimi”, Edizioni Messaggero di Sant’Antonio, nuova edizione 2018;

 

Sitografia

Sito web del MusAL;

Sito web del Comune di Canale d’Agordo;

Sito web del Messaggero di Sant’Antonio;

Sito web della parrocchia di San Giovanni Battista di Canale e di San Simon;

Sito web “Agordino Dolomiti”;

 

Fonti delle immagini

Fotografie scattate dall’autore dell’articolo;

Immagini tratte da: L. Serafini, “La Pieve di San Giovanni Battista a Canale d’Agordo (Dolomiti Bellunesi)-La chiesa di Papa Luciani”, tipografia Piave, 2018;

Immagini tratte da: L. Serafini, F. Vizzutti, “Le chiese dell’antica Pieve di San Giovanni Battista nella Valle del Biois, documenti di storia e arte”, edito a cura delle dell’antica Pieve di Canale d’Agordo, tipografia Piave, 2007;

Immagini di dominio pubblico tratte da: Google immagini e Google Maps;

Immagine di copertina: collage grafico realizzato da Mattia Tridello;


VIAGGIO NELLA CHIESA DELL'ARTE DELLA SETA

A cura di Ornella Amato

Un doveroso ed immenso ringraziamento all‘Associazione “Respiriamo Arte” per la preziosa collaborazione e a Raimondo Fiorenza per la concessione e l’utilizzo delle immagini

Fig.1 - Interno – ph. Raimondo Fiorenza.

L’Arte della Seta

L’arte della seta è una vera e propria arte che, ancora oggi, a distanza di secoli, è apprezzata e riconosciuta in tutto il mondo; sono le seterie di San Leucio vicino Caserta, infatti, che producono le sete delle bandiere che fieramente sventolano sugli edifici e sui palazzi nei quali quotidianamente si scrive la storia, come la Casa Bianca o Buckingham Palace, quelle seterie leuciane volute nel 1778 da Ferdinando IV di Borbone, anche se in realtà la storia serica, nel Regno di Napoli, ha radici ben più lontane.

Risale al 1477, sotto il regno degli Aragonesi, la fondazione della cosiddetta Corporazione della Seta, o “Consolato dell’Arte della Seta”, formata da tre consoli di cui un mercante ed un tessitore nati nel Regno di Napoli ed un mercante straniero, la quale aveva lo scopo di coordinare la lavorazione e la produzione della seta.

La Corporazione si rivelò sin da subito una delle più prestigiose della città distinguendosi dalle altre; vantava agevolazioni fiscali e commerciali, un proprio governo, un proprio Tribunale con annesse carceri nella Piazza della Sellaria, addirittura un proprio stemma, all'interno del quale erano presenti i tre fili di seta più pregiati.

La Chiesa dell’Arte della Seta

Il primo insediamento di quella che poi diventerà la Chiesa dell'Arte della Seta è databile intorno al 1581/82 in Piazza Mercato dove furono costruiti una Cappella dedicata ai Santi Filippo e Giacomo -protettori della Corporazione – ed un Conservatorio in cui erano ospitate le fanciulle dai 5 ai 14 anni che erano rimaste orfane o che erano disagiate, alle quali veniva garantita assistenza, ma nel 1590, accresciuto notevolmente il numero delle fanciulle, si rese necessaria una nuova collocazione. Fu così prima acquistato il palazzo del Principe di Caserta Acquaviva per la realizzazione di una struttura di dimensioni maggiori e poi il palazzo del Duca Spinelli Castrovillari, erigendo così la Chiesa grande (alla quale furono annesse anche le preesistenti chiese di San Silvestro e di Santa Maria delle Vergini) dedicandola ai Santi Filippo e Giacomo. L’inaugurazione avvenne nel 1641.

La struttura è di impianto seicentesco, ma all'interno vi sono magnifici esempi dello splendore del Settecento napoletano: le forme attuali sono le conseguenze del restauro che la interessò nel 1758 e delle scelte operate da Gennaro Papa ma anche di grandi artisti che vi lavorarono, come Giuseppe Sammartino che realizzò le statue dei Santi presenti sulla facciata.

La facciata è leggermente rientrata rispetto alla strada ed è caratterizzata da due ordini sovrapposti: quello inferiore – di ordine dorico - con le due nicchie contenenti le già citate statue dei Santi protettori della Corporazione e quello superiore – di ordine corinzio - con invece le statue raffiguranti la Religione e la Fede, opere di Giuseppe Picano, allievo del Sammartino, anch'esse inserite in apposite nicchie.

Tutte le statue risaltano col loro marmo bianco sulla facciata giallo – ocra sulla quale sono anche presenti conici e stucchi grigi e bianchi.

L’interno è a navata unica senza transetto e con lo spazio absidale coperto da una cupola.

Fig 6 - Interno – Fonte Wikipedia.

L’interno è maestoso, le otto cappelle laterali, disposta a quattro per ciascun lato, che fanno da contorno alla navata come ali protettrici e accompagnano il visitatore lungo il suo percorso, il pavimento è in cotto maiolicato - opera di Giuseppe Massa – e al centro trionfa lo Stemma della Corporazione.

Oltre al Sammartino ed ai suoi allievi ed ai fratelli Massa, nella chiesa lavorarono i migliori artisti del tempo, realizzando ricche decorazioni in stucchi e marmi policromi, gli affreschi sono opera di Jacopo Cestaro, così come suo è l’affresco del soffitto della navata.

Alla fine della navata e subito dopo la cupola si trova l’altare maggiore, sul quale troneggia una tavola con la Vergine ed i Santi.

Fig. 11 - Altare maggiore – ph. Wikipedia.

Percorrendo la navata per intero fino a giungere all'ultima cappella, alla destra dell’altare maggiore si scopre l’antica cripta, una vera e propria area cimiteriale che accoglieva i corpi senza vita dei membri più poveri della Corporazione, garantendo così una degna sepoltura.

Il rito della sepoltura avveniva in due fasi: una prima fase prevedeva che il corpo del defunto venisse calato dall'alto verso il basso e lasciato scolare di tutti i liquidi fino a sua completa essiccazione, successivamente, si procedeva al seppellimento delle ossa in una delle quattro fosse comuni. Alla cripta si arriva mediante una botola in bronzo finemente lavorata, alla quale si accede da una ripida scalinata.

Sotto la chiesa, oltre la cripta, sono visibili anche resti archeologici dell’antico asse viario della Napoli dei sec. XIV e XV: una pavimentazione a spina di pesce e mattoni, il piano di calpestio del palazzo del Duca di Castrovillari, un tratto di muro in opera reticolata e, probabilmente, resti di una Domus romana.

Fig. 14 - Resti archeologici – ph. Raimondo Fiorenza.

Ma la chiesa conserva ancora un’altra sorpresa: è la Sagrestia, meraviglioso esempio dell’artigianato napoletano, che conserva l’altare ligneo settecentesco.

Un vero e proprio scrigno d’arte al centro della Napoli turistica sconosciuto ai più, poiché è stata a lungo chiuso e dimenticato. Il suo recupero è frutto del lavoro dell’Associazione Respiriamo Arte, che non solo ha dato nuova vita all’intero complesso, ma ne ha permesso il recupero sia storico che artistico, riaprendo le pagine dei libri di storia dell’arte napoletana e della storia dell’arte serica a Napoli, di quanto successo ebbe la Corporazione ma anche il lavoro dei mercanti e dei tintori, i cui colori e le sfumature prodotte erano famosi e richiesti nell’intero Regno ed oltre.

Sitografia

Respiriamoarte.it

Chiesa dell’Arte della Seta

Wikpedia.com

Chiesa dei Santi Filippi e Giacomo (Napoli)

Napolitoday.it

napolitoday.it/cultura/chiesa-santi-filippo-e-giacomo-napoli.html

Cosedinapoli.it

Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo

Napoli-turistica.com

Arte e Cultura

Chiesa dell’arte della seta dei Santi Filippo e Giacomo -

Napoligrafia.it

Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo Storia e Architetture

ildenaro.it

La chiesa dei SS. Filippo e Giacomo: l'arte serica e la storia che non ti aspetti


CASA MUSEO JORN AD ALBISSOLA MARINA

A cura di Gabriele Cordì

Introduzione. Casa Museo Jorn: una terrazza sul mare

La Casa Museo Jorn sorge sulle dolci pendici della collina dei Bruciati ad Albissola Marina (fig.1), piccolo comune costiero a 2,5 chilometri da Savona. Si tratta di un ensemble di edifici che rompe il concetto tradizionale di abitazione e rappresenta un unicum a livello europeo nel grande mare dello sperimentalismo architettonico. I primi insediamenti di questa zona risalgono al Medioevo ed appartengono alla famiglia Della Rovere, dalla quale provengono gli illustri pontefici-mecenati Sisto IV e Giulio II. Nonostante le modifiche nel corso dei secoli, restano tutt'oggi evidenti i segni di un impianto più antico, come testimoniano chiaramente i muri perimetrali e le bifore. Tra l’ombra degli alberi e la brezza marina si esaudisce il sogno artistico del danese Asger Jorn, che trasforma questo lembo di terra in un’opera d’arte a cielo aperto.

Fig. 1 - Villa Jorn ad Albissola Marina, Gabriele Cordì.

Tutte le strade portano ad Albissola

Asger Jorn nasce il 3 marzo 1914 a Vejrum, nello Jutland danese (fig.2). Dopo aver conseguito il diploma per diventare insegnante, lascia la Danimarca per raggiungere Parigi con il sogno di entrare nel mitico ambiente artistico della capitale francese. Nel 1936, a 22 anni, inizia a seguire l’Académie Contemporaine retta da Fernand Léger. Inizia un forte sodalizio con l’architetto Le Corbusier, tanto che nel 1937 collabora alla realizzazione del Pavillon des Temps Nouveaux (Padiglione dei Tempi Nuovi) a Parigi, realizzando per quest’occasione due ingrandimenti di disegni di bambini (fig.3). Jorn imparerà molto dal famoso architetto sulla capacità dell’arte e dell’architettura di muovere le persone. Si tratta di un padiglione molto grande e facilmente rimovibile, costruito in occasione dell’Esposizione internazionale di Parigi come “museo di educazione popolare” con il fine di dimostrare le possibilità dell’urbanistica moderna. Prima di maturare una concezione opposta a quella di Le Corbusier, il giovane artista danese valuta positivamente questa collaborazione e la definisce di una “gioia inebriante”.

Nel 1946, dopo aver trascorso parte dell’estate in Svezia, Jorn torna nella capitale francese ed entra in contatto con i maggiori artisti del tempo: Costant, Lam, Goetz, Atlan, Hartung, Matta e Picasso. L’8 novembre 1948 nasce a Parigi il gruppo CoBrA, acronimo di Copenaghen, Bruxelles, Amsterdam (fig.4). Questo gruppo prende vita dalla scia dell’esperienza del “Surrealisme Révolutionnaire” di Christian Dotremont, il quale voleva far sposare l’arte surrealista rivoluzionaria con il pensiero politico marxista. Un altro modello a cui si ispira questo collettivo di artisti è Jean Dubuffet, per la sua visione grezza dell’arte denominata Art Brut. Faceva parte del gruppo lo stesso Asger Jorn, assieme ai belgi Corneille, Alechinsky, Dotremont, senza dimenticare gli olandesi Appel e Constant. Come ogni corrente avanguardista CoBrA tende a rifiutare la tradizione per accogliere qualsiasi sperimentalismo che denaturalizzasse l’arte e promuovesse un ritorno al primitivismo. CoBrA si opponeva saldamente al sistema di mercificazione dell’arte, ma nel 1951 il mancato rispetto di questo principio e gli interessi individuali di alcuni componenti portano il gruppo a sciogliersi.

Jorn in questo periodo vive in un appartamento nella banlieu parigina con la compagna Matie ed i loro figli.

Fig. 4 - CoBrA members, among them Constant, Eugène Brands, Tony Appel, Anton Rooskens, Karel Appel, Jacques Doucet, Gerrit Kouwenaar, Theo Wolvecamp, Lucebert and Jan Elburg, entering the Stedelijk Museum, Amsterdam in preparation for the CoBrA exhibition, November 1949. Photo: Unknown photographer.

In una lettera indirizzata a Enrico Baj del 7 marzo 1954, Jorn scrive: “Mio caro Baj, dal momento che il mese di aprile dovrò partire, credo sarebbe estremamente importante se potessimo andare immediatamente, nel momento in cui sarò arrivato a Milano, insieme ad Albissola”. Così, nel 1954, il pittore danese si trasferisce ad Albissola Marina, capitale italiana della ceramica, per alleviare la tubercolosi polmonare che lo tormenta da anni. In Liguria incontra gente accogliente con una tradizione artistica millenaria alle spalle.

Dal 1954 al 1957 non ha una fissa dimora: campeggia in una grande tenda in località Grana, in un prato in cui girava liberamente scalzo con i figli e nello studio di Lucio Fontana a Pozzo Garitta. Poco tempo dopo scopre l’esistenza di un piccolo feudo sulla collina dei Bruciati, e qui l’artista danese intravede le possibilità di un luogo magnifico, immerso nel verde e affacciato sul mare (fig.5).

Fig. 5 - Casa di Asger Jorn ad Albissola Marina, anni 60, www.amicidicasajorn.it.

Una casa “appassionante”

Alla fine degli anni Cinquanta prende vita il progetto di creazione di una dimora d’artista, provvista di studio e museo personale. In questo percorso di recupero svolge un ruolo fondamentale l’operaio albissolese Umberto Gambetta detto Berto, con cui Jorn collabora nella realizzazione del suo sogno artistico (fig.6). I due artefici stringono un profondo rapporto di amicizia, tanto da firmare insieme un camino esterno (fig. 7). La casa con giardino di Albissola, per il suo carattere eterogeneo e la sua natura dichiaratamente imperfetta, è figlia dell’emozionale piuttosto che del razionale. Sposa la semplicità dei materiali, la povertà degli stessi e il dinamismo della creazione in processo ludico che appassiona sorprendendo tutti gli attori in gioco in questa “architettura accidentale” (Feuerstein).

L'inaugurazione della Casa Museo Jorn

Asger Jorn, prima di morire nel 1973, esprime la sua volontà di lasciare la casa con giardino al Comune di Albissola Marina come gesto di ringraziamento verso l’accoglienza ligure, con l’accordo che diventi un luogo pubblico aperto agli artisti e ai cittadini. La casa rimase in usufrutto a Berto Gambetta fino alla sua morte negli anni Novanta. Nel 2000 inizia una stagione di restauri fortemente voluta dal Comune con la partecipazione dell’Università degli Studi di Genova. Nel 2014 viene inaugurata Casa Museo Jorn all'interno del percorso Museo Diffuso d’Albissola, oggi sotto la direzione di Luca Bochicchio. Qui vengono organizzate manifestazioni culturali, mostre e attività didattiche per bambini dall'associazione “Amici di Casa Museo Jorn”, a cura di Daniele Panucci e Stella Cattaneo.

 

Bibliografia

Le Corbusier reloaded: disegni, modelli, video; a cura di Alberto Sdegno, EUT Edizioni Università di Trieste, 2015.

Feuersten, Tesi sull’architettura accidentale, 1961.

 

Sitografia

http://www.museodiffusoalbisola.it/index.php/sedi/casa-museo-jorn

https://www.museumjorn.dk/en/upcoming_exhibitions/what-moves-us-le-corbusier/?utm_medium=website&utm_source=archdaily.com

https://www.google.it/amp/s/scialetteraria.altervista.org/il-gruppo-cobra/amp/

http://www.fondationlecorbusier.fr/corbuweb/morpheus.aspx?sysId=13&IrisObjectId=5070&sysLanguage=en- en&itemPos=42&itemCount=79&sysParentName=&sysParentId=64


IL PALAZZO DELLA RAGIONE DI BERGAMO

A cura di Michela Folcini

Introduzione: il Palazzo della Ragione e il Museo dell'Affresco di Bergamo Alta

Città Alta e Piazza Vecchia

Una delle caratteristiche più particolari della città di Bergamo è la presenza al suo interno di ben due “città”: Città Alta, conosciuta anche come la città antica e Città Bassa, la città più moderna.

L'antica città domina dall'alto tutti i territori bergamaschi fin dai tempi dell'Impero Romano,adagiata sopra i suoi alti colli ed incorniciata per 6 lunghi km dalle possenti e spettacolari mura difensive, progetto finanziato dalla Repubblica di Venezia a partire dall'anno 1561 e attualmente riconosciute come Patrimonio Mondiale dell'Umanità. Passeggiando lungo le caratteristiche vie dell'antica città il tempo sembra quasi essersi fermato, dando l'opportunità di ammirare con stupore negli occhi tutte le meravigliose opere storiche, artistiche e architettoniche di questo luogo sorprendentemente magico.

Cuore pulsante dell'antica città bergamasca è l'attuale Piazza Vecchia, la quale comincia a definire le proprie forme durante il corso del 1300, per poi assumere definitivamente la dignità di piazza municipale, indipendente ed ecclesiastica. Infatti è proprio attorno al perimetro di Piazza Vecchia che prendono forma e vita molteplici edifici promossi dai due principali poteri della città: il potere del Comune e il potere della Chiesa.

Fig. 1: Piazza Vecchia, Città Alta Bergamo. Fonte: Wikipedia 

Il Palazzo della Ragione: storia e architettura

Testimonianza ufficiale dell'architettura municipale e civile è il Palazzo della Ragione, antica sede del Comune di Bergamo e attualmente conosciuto come il più antico palazzo comunale d'Italia. Dal momento della sua costruzione, precisamente tra il 1183 e il 1198, questo edificio incarna per eccellenza tutti i valori e i simboli di libertà, di giustizia e del potere comunale. Proprio per questo la struttura è conosciuta ancora oggi come “palazzo della Ragione”, dove la parola ragione fa riferimento al fatto che in questo luogo veniva amministrata la giustizia e ospitate tutte le assemblee pubbliche della città di Bergamo. Dal punto di vista architettonico sorprende che l'attuale facciata principale dell'edificio si presenti completamente rivolta verso Piazza Vecchia, andando in questo modo a costituire quasi uno sfondo prospettico molto suggestivo che permette di fungere da cornice alla piazza; tuttavia è bene precisare che nell'originale progetto di epoca medievale il fronte principale era rivolto sul lato opposto, verso l'attuale Basilica di Santa Maria Maggiore, e questo testimonia quanto la struttura sia cambiata durante il corso dei secoli. Infatti sono molti gli interventi che hanno modificato l'originale volto del palazzo: nel 1453 vengono aperti i fornici (aperture rivolte verso la piazza) e le due trifore ogivali (finestre a tre aperture) verso Piazza Vecchia e costruito lo Scalone dei Giuristi che permette di accedere al piano superiore del complesso; in seguito ad un grave incendio del 1513, che causò gravi danni alla struttura, nell'anno 1520 prendono avvio i lavori di ristrutturazione e di ampliamento ad opera di Pietro Isabello. All'architetto viene commissionato il progetto di costruzione della loggia voltata del piano superiore, usata dal governo della Repubblica di Venezia per le comunicazioni cittadine, e della sala superiore della struttura, oggi conosciuta come Sala delle Capriate e raggiungibile attraverso lo Scalone dei Giuristi. Il fronte (facciata) architettonico principale viene completato con l'aggiunta di un finestrone centrale di gusto veneziano, il quale si presenta sormontato dal leone di S. Marco donato dalla Repubblica di Venezia nel 1554.

La Sale delle Capriate e il Museo dell'Affresco

La Sala delle Capriate, conosciuta con questo nome per le sette capriate lignee che sorreggono gli spioventi del tetto, non sorprende solo dal punto di vista architettonico, ma anche per la bellezza delle opere d'arte che conserva. Infatti non tutti sanno che la famosa Sala delle Capriate del Palazzo della Ragione è sede del Museo dell'Affresco della città (o Museo degli Affreschi bergamaschi).

Fig. 6. Sala delle Capriate, Palazzo della Ragione, Bergamo Alta. Fonte:https://www.archiportale.com/

Il Museo dell'Affresco ospita e conserva quasi un centinaio di affreschi, realizzati tra il Trecento e il Cinquecento, provenienti da differenti luoghi di culto e da case nobiliari della provincia di Bergamo. Gli affreschi sono stati letteralmente strappati dai loro supporti originali (lo strappo è una tecnica di restauro che consente di togliere l'ultimo strato pittorico dell'affresco dal supporto originale e trasferirlo su un secondo supporto) e a seguito di diversi interventi di restauro sono stati collocati in modo permanente all'interno di questo luogo. Passeggiando all'interno di questa sala lo sguardo si posa sui volti di Madonne e di Santi e sui gesti dei differenti personaggi che animano i paesaggi in cui essi sono collocati, andando ad arricchire con differenti sfumature cromatiche le quattro pareti dell'ambiente. Gli affreschi provengono da differenti luoghi collocati sia in Città Bassa, che in Città Alta: alcuni di essi facevano parte della decorazione dall'ex monastero domenicano di Santa Marta in Città Bassa, fondato nel XIV secolo e attualmente parte del complesso della Banca Popolare di Bergamo; altri originariamente conservati nella chiesa di Sant'Antonio in foris (in foro) di Bergamo Bassa; dell'antica città sono gli affreschi dell'ex convento francescano di Piazza del Mercato del Fieno ed infine quelli provenienti dall'antico Palazzo del Podestà. Ad ampliare la raccolta di affreschi presenti nella Sala delle Capriate sono i frammenti degli affreschi realizzati da Donato Bramante, scelto da Sebastiano Badoer come artista prediletto per la realizzazione di quest'opera pittorica. Bramante arriva nella città di Bergamo nel 1477 e lavora sulle pareti del Palazzo del Podestà, esaltando attraverso la sua arte la superiorità della Repubblica di Venezia. Dopo la caduta del dominio veneto avvenuta nel 1797, il Palazzo viene adibito a teatro e poi a biblioteca civica dal 1843 al 1928 e tutte le testimonianze della potenza della Serenissima vengono eliminate definitivamente.

Oltre a queste straordinarie testimonianze artistiche, il Museo dell'Affresco ospita un'altra opera altrettanto eccezionale: si tratta dell'Ultima Cena di Alessandro Allori (noto come il Bronzino e originario di Firenze), realizzata nel 1582 e commissionata da Don Calisto Solari nei due anni precedenti, collocata originariamente in un monastero bergamasco attualmente soppresso. L'Ultima Cena è un'opera dalle dimensioni monumentali e caratterizzata da una raffinata cromia, oggi visibile proprio grazie agli ultimi interventi di restauro.

Il Museo dell'Affresco viene tutt'oggi utilizzato come spazio per esposizioni e mostre, quasi sottolineando ancora di più il legame tra l'arte antica e l'arte contemporanea. In particolare modo le due istituzioni museali di Bergamo, l'Accademia Carrara e la GaMEC – Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea , promuovono molti eventi artistici durante il corso dell'anno, capaci di stimolare la posizione di Bergamo come città aperta all'arte e alla cultura, e allo stesso tempo di promuovere e valorizzare gli affreschi del Palazzo della Ragione. I tesori racchiusi all'interno di questo luogo testimoniano il percorso ricco di arte e di cultura della città di Bergamo, una città che vuole sempre di più far conoscere le proprie bellezze e la propria storia a tutto il mondo.

 

 

Bibliografia:

Gelmi B., Sacchiero V. Bergamo nella storia, nell'arte. Nuova guida pratica della città, Bergamo, Grafica & Arte, 2009.

Gelmi B., Sacchiero V. Bergamo passo passo, Bergamo,Grafica & Arte, 2008.

Rossi F., Lodola, Bergamo capolavori, Bergamo, Grafica & Arte, 2001 Bergamo e provincia. Le Orobie, le valli e la Bassa. Castelli, abbazie e terme. Guide d'Italia. Touring Club.

 

Sitografia:

https://www.comune.bergamo.it/

https://www.in-lombardia.it/it

http://www.lombardiabeniculturali.it/

https://cosedibergamo.com/

http://monasteroastino.smilevisit.it/

 


LA CHIESA DI SANTO STEFANO DI CARISOLO

A cura di Alessia Zeni

Introduzione: la “Danza macabra” e la “Leggenda di Carlo Magno”

Una delle chiese più importanti che si trovano in Val Rendena[1], nel Tentino occidentale, è sicuramente Santo Stefano nel comune di Carisolo, vicino Pinzolo. Una chiesa conosciuta per il celebre affresco della “Danza macabra” e il racconto della epica spedizione di Carlo Magno attraverso la Val Rendena.

La chiesa di Santo Stefano di Carisolo

Una leggenda racconta che la chiesa di Santo Stefano di Carisolo fu ampliata e sistemata alle porte della Val di Genova[2] per impedire a diavoli e streghe di evadere quando nel 1545, anno di caccia alle streghe nella regione, si diffuse la credenza che i padri della chiesa di Trento avessero relegato questi spiriti maligni nella selvaggia val di Genova, dov'erano rimasti immobilizzati e pietrificati nei grandi massi della valle. Infatti, chi si accinge ad imboccare la strada che da Carisolo conduce alla chiesa di Santo Stefano resterà estasiato dalla località: un colle a strapiombo sul fiume Sarca, all’imbocco della Val Genova, nel Parco Naturale Adamello Brenta, in un luogo privilegiato che permette all’uomo di entrare in contatto diretto con Dio. Un posto affascinante e molto suggestivo che è stato enfatizzato con la sistemazione di tre grandi croci in legno a ricordo del Golgota, quelle di Gesù Cristo e dei due ladroni nel giorno della loro crocifissione. Le croci sono state sistemate all’esterno dell’edificio religioso, sulla vetta dello sperone di roccia in cima a una stretta e ripida scalinata in pietra, nel punto più affascinante e panoramico del sito di Santo Stefano.

Si tratta del tipico edificio religioso dell’architettura alpestre trentina: semplice e robusta, conserva elementi dell’architettura romanica con richiami allo stile gotico. La chiesa è posizionata a oriente con abside rettangolare e campanile di impronta romanica, in pietra a vista, con quattro bifore. All'interno si accede tramite una lunga scalinata e, una volta entrati, ci si trova in un ambiente piccolo e spoglio, ma molto affascinante per i molti affreschi che decorano la chiesa.

Fig. 4 - Santo Stefano di Carisolo, prospetto fianco meridionale e spaccato interno (Chiappani, Trenti 2015).

La “Danza macabra”

Tra i molti affreschi che decorano l’interno e l’esterno della chiesa di Santo Stefano di Carisolo ci si soffermerà sul più importante e conosciuto, ovvero la “Danza macabra” dipinta sul fianco meridionale esterno di Santo Stefano. È opera di Simone II Baschenis, della famiglia di pittori della Val Averara in Lombardia, attivi in Trentino nei secoli XV e XVI. Simone Baschenis avrebbe dipinto la “Danza macabra” e gli affreschi della chiesa intorno al 1519, come indicato da un’iscrizione dipinta nell’intradosso della finestra meridionale.

La “Danza macabra” di Carisolo e quella della vicina chiesa di San Vigilio di Pinzolo sono celebri nel mondo della storia dell’arte per la rarità e la particolarità del soggetto, molto diffuso in Europa e in particolare nell'ambiente dell’oltralpe tardo medievale, ma purtroppo poco conosciuto perché molti esempi sono andati persi nel corso dei secoli. La “Danza macabra” si trovava dipinta soprattutto nelle chiese come monito al fedele, perché conducesse rettamente una vita cristiana ai fini della salvezza dell’anima: infatti questo affresco raffigura una danza fra uomini e scheletri, per ricordare al fedele che la morte colpisce chiunque, ricchi e poveri, vecchi e giovani. La “Danza macabra” di Carisolo è un affresco molto danneggiato, articolato per 12 metri e suddiviso in 20 riquadri. La scena raffigurata è suggestiva e terrificante per lo scheletro della morte che invita 17 personaggi all’ultimo traguardo, mentre gli scheletri musicisti con zampogna e trombe aprono le danze cantando una minacciosa preghiera “Io sonte la morte che porto corona, sonte signora de ogni persona”.

Dopo l’immagine di Cristo risorto, abbigliati secondo il costume dell’epoca e il rango sociale, si presentano in sequenza: il papa, il cardinale, il vescovo, il sacerdote, il monaco, l’imperatore, il re, il gentiluomo (duca), il guerriero, l’avaro, lo zerbinotto (giovane galante), il medico, il fanciullo, la monaca, la gentildonna e la vecchia a fine corteo mentre recita il rosario. Nell’ultimo riquadro l’epilogo della danza macabra: la Morte in sella ad un cavallo bianco alato scocca le frecce su chi è ancora in vita. La chiosa del grande affresco farebbe pensare che la morte ha vinto sulla vita, in realtà è il contrario perché il primo personaggio chiamato dalla Morte è colui che l’ha vinta, ovvero Gesù Cristo Risorto con il messaggio: “O tu che guardi, pensa di costei la me ha morto mi, che son signor di lei”.

La “Leggenda di Carlo Magno” e il “Privilegio di Santo Stefano”

L’affresco che ha reso celebre la chiesa di Santo Stefano di Carisolo è l’immagine del leggendario passaggio di Carlo Magno attraverso la Val Rendena. Una rappresentazione unica nel suo genere sia per le grandi dimensioni che per il tema trattato, tanto che ad oggi può essere considerato un unicum nel panorama artistico di tutta Europa. La leggenda del viaggio di Carlo Magno in valle Camonica e in Trentino è narrata in nove manoscritti latini, datati fra il XV e XIX sec. e in una settecentesca traduzione italiana. I testi sono quasi tutti uguali e l’unica differenza sostanziale è nei documenti conservati in provincia di Trento, dove vengono raccontate le tappe trentine del viaggio[3].

Fig. 8 - Santo Stefano di Carisolo, interno, parete occidentale, la “Leggenda di Carlo Magno” e il “Privilegio di Santo Stefano”.

La storia vuole che Carlo Magno durante la spedizione in Italia nel 774 d.C., chiamato da papa Adriano (772-795 d.C.) contro i longobardi avrebbe attraversato la val Camonica, in Lombardia, e, valicato il Passo del Tonale, sarebbe sceso lungo l’alta Valle di Sole, in Trentino, e risalito verso il passo oggi chiamato Campo Carlo Magno. Giunto in Val Rendena avrebbe convertito al cattolicesimo i signorotti della valle e una volta giunto a Carisolo, alla chiesa di Santo Stefano, avrebbero battezzato la popolazione locale.

 

Questa storia al limite della mitologia è stata diffusa grazie al contributo del pittore Simone II Baschenis con l’affresco dipinto nella chiesa di Santo Stefano di Carisolo, sulla parete interna di nord-ovest. L’opera sarebbe stata eseguita tra il 1534 e il 1555 per ricordare il passaggio di Carlo Magno e le numerose indulgenze concesse dal Papa e dai sette vescovi al seguito del sovrano. In una cornice architettonica dipinta, l’Imperatore del Sacro Romano Impero con la sua corte assiste al battesimo di un catecumeno. Il sacramento è amministrato da papa Urbano accompagnato da sette vescovi, sistemati al centro del dipinto nel presbiterio di una cappella. Carlo Magno è dipinto sulla sinistra in primo piano, abbigliato alla moda rinascimentale, alla testa della corte; sulla destra invece è raffigurato un gruppo di persone che attende di ricevere il battesimo. Nell’angolo destro, seduto in primo piano, davanti alla folla, un giovane in tunica bianca che si sfila i pantaloni per prepararsi alla cerimonia; una figura emblematica che è stata identificata nell’autoritratto del pittore, Simone II Baschenis. Infine particolare attenzione meritano il paesaggio e le molte piante dipinte sul terreno in primo piano, ai piedi dei personaggi: lo sfondo alpino delle valli attraversate da Carlo Magno, con varie specie di fiori di montagna dell’ambiente rendenese (il cardo, il ranuncolo giallo, i denti di leone, il garofano selvatico e anche un ciclamino).

Fig. 9 - Santo Stefano di Carisolo, interno, parete occidentale, la “Leggenda di Carlo Magno”.

Ma l’aspetto più significativo dell’affresco sta nella lunga scritta in volgare antico dipinta sotto la “Leggenda di Carlo Magno”, che narra le vicende del condottiero franco alla testa del suo esercito partito da Bergamo verso il Trentino. Il testo è conosciuto come il “Privilegio della Chiesa di Santo Stefano di Rendena”, e ricorda le numerose indulgenze concesse alle varie chiese e il frequente riferimento agli eretici, chiamati pagani e giudei, da combattere con ogni mezzo. Quest’ultimo aspetto segnala che la “Leggenda di Carlo Magno” e il “Privilegio di Santo Stefano” sono stati dipinti per la lotta contro le eresie e per legittimare la concessione delle indulgenze, messa in discussione dalla riforma protestante di Martin Lutero. Dunque, l’intento di chi aveva commissionato l’opera sarebbe stato quello di riaffermare l’autorità della chiesa ed elevare Carlo Magno a paladino della fede cattolica.

Fig. 10 - Santo Stefano di Carisolo, interno, parete occidentale, il “Privilegio di Santo Stefano”.

Per concludere, bisogna segnalare che la “Leggenda di Carlo Magno” e il “Privilegio di Santo Stefano” di Carisolo presentano delle incongruenze: al tempo della spedizione di Carlo Magno in Italia (774 d.C.) non è documentata una chiesa all’imbocco della Val di Genova e il papa al soglio pontificio era Adriano (772-795) e non Urbano, per cui stabilire la veridicità di questa leggenda è ad oggi molto difficile.

Una cosa però rimane certa: la “Leggenda di Carlo Magno” e la “Danza macabra” della chiesa di Santo Stefano di Carisolo rimangono degli affreschi unici nel loro genere e quindi importanti nelle vicende della storia e dell’arte italiana, ma anche europea.

 

Note

[1] La Val Rendena si trova nel Trentino occidentale ed è conosciuta per gli impianti sciistici di Pinzolo e Madonna di Campiglio.

[2] La val di Genova è una valle ai piedi dell’Adamello e la si raggiunge dal paese di Carisolo, in Val Rendena. È un’area naturalistica protetta dal Parco Naturale Adamello Brenta ed è conosciuta per la rinomata cascata di Nardis.

[3] Azzoni Giorgio, Bondioni Gianfranco, Zallot Virtus, La via di Carlo Magno in Valle Camonica e Trentino. Un itinerario di turismo culturale da Bergamo in Val Rendena seguendo l'antica leggenda, Brescia, Grafo, 2013, p. 14.

 

BIBLIOGRAFIA:

Chiappani Fulvia, Trenti Graziella, Santo Stefano in Carisolo. Storia arte fede, Tione di Trento, Antolini Tipografia, 2015

La Chiesa di S. Stefano a Carisolo, lezione dell’architetto Antonello Adamoli (curatore dei restauri)

Azzoni Giorgio, Bondioni Gianfranco, Zallot Virtus, La via di Carlo Magno in Valle Camonica e Trentino. Un itinerario di turismo culturale da Bergamo in Val Rendena seguendo l'antica leggenda, Brescia, Grafo, 2013


LA FONTANA DEL ROSELLO A SASSARI

A cura di Alice Oggiano

Cenni storici sulla fontana del Rosello

La fontana del Rosello, simbolo indiscusso della città sarda di Sassari e nota attualmente ai residenti come “funtana di Ruseddu”, venne fatta edificare nella valle del Rosello dinnanzi all’omonima porta. Prima della sua monumentalizzazione, avvenuta in età moderna, vi era la sorgente “di Gurusele”, conosciuta sin dall’età medievale e compresa all’interno delle antiche mura cittadine, ancora oggi parzialmente visibili. Lo straordinario sito trova tuttavia le sue radici in epoche ben più antiche. In età romana infatti l’acqua della fonte confluiva nell’acquedotto costruito per l’approvvigionamento di Porto Torres, fondata da Giulio Cesare nel 46 a.C e anticamente conosciuta come colonia Turris Libisonis. Alla fine del XVI secolo il comune sassarese affidò l’erezione della fonte a due noti artigiani genovesi, che le diedero forme tardo-rinascimentali. I lavori si conclusero tra il 1605 e il 1606.

Il complesso architettonico è dato dalla sovrapposizione di due parallelepipedi elegantemente rivestiti da motivi rettangolari dal colore verde e bianco che conferiscono un’apparente rigidità, controbilanciata tuttavia efficacemente dai due archi fasciati nascenti da angoli impreziositi con volute, culminanti in una statua equestre. La statua, realizzata anch’essa in marmo, ritrae il martire turritano San Gavino, tradizionalmente noto come protettore della città sassarese e di Porto Torres. È interessante, a tal proposito, notare come la presenza della sede vescovile in età altomedievale insistesse su quest’ultimo centro, fattore non secondario la progressiva ruralizzazione alla quale le città sarde andarono incontro. È utile inoltre, per chiarire i rapporti insiti tra i due centri, evidenziare come “Torres” fosse il porto prediletto dai sassaresi per l’importazione ed esportazione delle merci, e perciò fondamentale per lo sviluppo di Sassari e relativi ceti. San Gavino si eleva baldanzoso al di sopra di un podio anch’esso marmoreo, effigiato con lo stemma in rilievo della torre.

Altre torri merlate si ergono sul parallelepipedo maggiore, riportando le insegne della città sarda e della corona Aragonese, che impose progressivamente sulla Sardegna la propria egemonia a partire dal XIV secolo. Tra i due solidi si interpone una cornice sulla quale venne incisa per tre lati l’iscrizione celebratrice dei lavori svolti per la realizzazione dell’opera sotto Filippo III, sul quarto un motivo decorativo in fogliame. Il blocco maggiore presenta dodici marmoree bocche leonine cosiddette “cantaros”, inquadrate entro sagome squisitamente geometriche, dalle quali sorga sempre fresca ed abbondante acqua.

A conferire ancor più pregio artistico sono le quattro straordinarie statue, personificazioni delle stagioni, poste agli spigoli della struttura inferiore. Esse simboleggiano lo scorrere del tempo ed il rinnovarsi della speranza e della vita in seguito ad un lungo inverno, portatore di intemperie e del deperimento della carne. Ciò ritrova iconograficamente un riscontro, nel primo caso, nella Primavera e nell'Estate: una fanciulla nel pieno dei suoi anni sorregge una ghirlanda di fiori, ed una donna già più matura stringe tenacemente tra le braccia delle spighe, frutto di buon raccolto e prosperità. L’Autunno è rappresentato da un coraggioso Ercole, immortalato mentre si trova a sorreggere con il braccio destro la pelliccia del leone, con il sinistro un grappolo di vite che accosta al capo facendolo pendere in un silenzioso movimento. A chiudere il cerchio della vita l’Inverno, facilmente individuabile nell'anziano assorto in un sonno profondo, lontano dalla mondanità terrena.

Purtroppo, tre delle quattro statue andarono distrutte durante i moti antifeudali, verificatisi nella regione nel 1795. La loro presenza venne ripristinata da fedeli copie nella metà del ‘800, mentre l’Estate -unica superstite- fu posta per ragioni di sicurezza sottochiave presso Palazzo Ducale.

Oltre alle sculture finora menzionate, è di gran fascino quella della divinità fluviale posta a lato sud, al di sopra dell’iscrizione, in posizione supina e volta verso l’osservatore. Scrutandola, pare d’esser avvolti da un’aurea classicheggiante, resa ancor più esplicita dal panneggio, dalla ritrattistica e dalla posizione quasi “simposiaca” assunta dal dio.

La fontana del Rosello, per la prestigiosa valenza artistica nonostante i frequenti interventi che ne modificarono l’impianto originale, venne selezionata nel 1975 da Eros Donnini per far parte della serie di francobolli “Fontane d’Italia”, ideata da Poste Italiane e volta a rappresentare le ventuno regioni italiane, celebrandone il patrimonio culturale di ciascuna di esse.

Alimentato dalla fontana e posto accanto ad essa, vi è l’antico lavatoio (documentato sin dalla fine de 1200): costituito da due lunghe vasche longitudinali affiancate, verrà dotato nel corso del ‘900 di una copertura a capriate lignee. L’impianto antico è attualmente noto grazie ad un’incisione realizzata per mano di William Cook nel 1849. Qui le donne sarde si sono recate per generazioni a lavare i panni, abbeverarsi, far il bagno ai propri figli. La fontana, ricca di simbolismo e custode di tradizioni divenute ormai secolari, collega idealmente passato e presente, immersa in un’atmosfera suggestiva nella quale pare che a scorrere sia soltanto l’acqua: il tempo è cristallizzato.

 

Attualmente è possibile visitare la fontana, per la quale organizzano visite guidate in determinate fasce orarie previa prenotazione.

 

Bibliografia

La grande enciclopedia della Sardegna, Francesco Floris - Sardegna

Sitografia


PALAZZO GIO CARLO BRIGNOLE A GENOVA

A cura di Fabio D'Ovidio

Il palazzo Gio Carlo Brignole venne edificato dall’architetto Bartolomeo Bianco al termine degli anni ’20 del XVII secolo per la committenza di Giovan Battista Brignole di fronte ad un palazzo di proprietà della famiglia Grimaldi, abitato all’epoca da Gerolamo Grimaldi; con questi Giovan Battista Brignole stipulò un accordo affinché il futuro edificio non superasse in altezza Palazzo della Meridiana, nome con cui è nota questa residenza Grimaldi.

Nel corso degli anni ’70 dello stesso secolo, Gio Carlo Brignole – figlio di Giovanni Battista – avviò i primi grandi rinnovamenti estetici: commissionò a Pietro Antonio Corradi una revisione architettonica, e allo scultore genovese Filippo Parodi un ciclo scultoreo per conferire magnificenza al portale d’ingresso. Questo era – ed è tuttora – fiancheggiato da due possenti Telamoni quasi a proteggere coloro che entrano nel palazzo; al di sopra dell’architrave stava una coppia di putti con in mezzo lo stemma araldico della famiglia Brignole, oggi perduto a causa di modifiche all’intera architettura del palazzo e al successivo passaggio di proprietà, avvenuto nel 1854 a favore della famiglia Durazzo.

Questa famiglia genovese, che ancora oggi è proprietaria del palazzo, commissionò al pittore Giuaseppe Isola (1808-1893) gli affreschi del sontuoso atrio d’ingresso, realizzati secondo un linguaggio pittorico meramente accademico.

La volta ribassata, posta a copertura di questa prima sezione dell’atrio è stata pensata per omaggiare non solo alcuni viri illustres liguri –  ai lati, ma anche la volontà di indipendenza dell’ormai defunta Repubblica di Genova – al centro del soffitto. Tra gli uomini qui dipinti si possono citare Guglielmo Embriaco (1040-1102), eroe genovese durante la Prima Crociata (1096-1099) che stando agli annali cittadini fu il primo ad entrare a Gerusalemme, mentre secondo il poeta Torquato Tasso si distinse tra i vari cavalieri presenti durante la presa della Città Santa per le doti ingegneristiche. A seguire Caffaro di Rustico da Caschifellone (1080-1164) autore degli Annali, fonte storica principale per la ricostruzione degli eventi che segnarono la nascita e i primi anni di vita del Comune di Genova. Proseguendo in ordine cronologico sono presenti Simone Boccanegra, che nel 1339 istituì la carica dogale; il famosissimo navigatore Cristoforo Colombo (1451-1506); il pontefice Giulio II (1443-1513) che a Roma commissionò a Michelangelo la decorazione ad affresco della volta della Cappella Sistina, mentre a Raffaello  affidò il cantiere delle Stanze vaticane; Andrea Doria (1466-1560); e da ultimo si riconosce il massimo pittore genovese di secondo Cinquecento, Luca Cambiaso (1527-1585), i cui capolavori sono conservati nei musei cittadini, e nelle volte dei saloni dei palazzi Rolli e delle ville aristocratiche fuori Genova.

Al centro del soffitto invece si trova la scena dedicata ad Ottaviano fregoso che fa distruggere la fortezza della Briglia, roccaforte francese costruita per volontà di Re Luigi XII al tempo della dedizione francese, che fu impiegata come avamposto di controllo politico-militare di Genova diventando così un segno tangibile dell’oppressione straniera, con un richiamo al periodo storico coevo al pittore: nel 1849, i bersaglieri guidati da Alfonso La Marmora avevano represso nel sangue un’insurrezione indipendentista contro il Regno di Sardegna [2].

La seconda parte dell’atrio è coperta da una serie di volte a crociera tutte decorate con il motivo della grottesca, che si ricollega così stilisticamente alle decorazioni dei palazzi genovesi di pieno XVI secolo, realizzate da Federico Leonardi, pittore specializzato in questo motivo ornamentale.

Affreschi del primo piano nobile di palazzo Gio Carlo Brignole

Della grande decorazione ad affresco citata nelle guide cittadine di XVIII e XIX secolo restano oggi le scene mitologiche realizzate da Gregorio e Lorenzo De Ferrari (1647-1726; 1680-1744). Eseguiti sui soffitti dei quattro salottini che circondano il grande salone centrale, gli affreschi sono ascrivibili alla piena maturità di Gregorio e al momento in cui Lorenzo si fece interprete di un linguaggio figurativo estremamente elaborato, soprattutto nella finzione pittorica. Nonostante si sia privi di documenti d’archivio che attestino l’identità del committente e gli anni in cui i pittori si occuparono di tale cantiere, gli studiosi del sito hanno ipotizzato di collocare cronologicamente i lavori entro gli anni ’20 del Settecento, identificando il committente nella figura di Giovanni Carlo Brignole junior, che diventò poi senatore della Serenissima Repubblica di Genova nel 1721.

Dei quattro salotti sopracitati, tre si devono attribuire alla mano del De Ferrari più anziano. Nello specifico, i due vani che si aprono su Strada Nuova mantengono una decorazione perfettamente conservata non solo sotto il profilo dei colori ma anche sotto quello ideologico conferitogli da Gregorio stesso. Leggermente differente è invece lo stato conservativo del salotto dedicato alla Primavera, poiché a causa di infiltrazioni è stato oggetto di ridipinture di qualità non eccezionale nel XIX secolo; tuttavia la decorazione risulta ancora leggibile e si pone in un dialogo ideale con le altre scene.

Seguendo il tradizionale percorso di visita istituito durante i weekend dedicati ai Rolli Days, la visita del piano nobile ha inizio in un salotto le cui decorazioni si datano agli anni centrali del XVIII secolo: sia le pareti che la volta sono dipinte di verde, a conferire un tocco di brillantezza sono gli inserti in legno dorato posti nelle zone di congiunzione tra i muri perimetrali e il soffitto; ad adornare lo spazio delle pareti sono alcuni dei quadri che costituiscono parte dell’ormai dispersa quadreria Brignole, tra cui si possono osservare due ritratti di esponenti della famiglia – la loro identità ad oggi è ignota – e un’Adorazione dei Pastori di Francesco Bassano e allievi (1549-1592).

A questa piccola stanza segue il cosiddetto salotto di Prometeo, opera magistrale di Lorenzo De Ferrari, dipinto negli anni ’30 del XVIII secolo. Raffigurata al centro della volta, dentro una cornice mistilinea prospetticamente aggettante, la scena mostra Prometeo, abbigliato con vesti sgargianti, che con la fiamma del fuoco rubato agli dei infonde la vita ad una statua che sarà l’Uomo. A sovrintendere l’intero evento sta Minerva, dea protettrice dell’ingegno umano capace di domare e superare le avversità, che nella scena è personificato e simboleggiato dal titano stesso. La figura di Prometeo viene dipinta dall’artista con un particolare avvitamento; come se lui stesso fosse una lingua di quella fiamma che a contatto con la pietra marmorea ne trasforma il freddo grigio in rosa carne. Dando le spalle alla finestra che si trova nella stanza, il visitatore può osservare la personificazione del Valore: un giovane ragazzo alato, appoggiato al cornicione, con addosso la leonté erculea e un braccio teso nell’atto di porgere una corona di alloro. Dalla parte opposta dell’illusoria cornice, si trova una seconda figura maschile, questa volta stante con le gambe leggermente divaricate, che regge un globo armillare e un compasso: è l’allegoria dell’Ingegno. Questi due aspetti della mente umana, qui rappresentati dai due giovani, connotano come eccezionale il gesto di Prometeo, che pagherà cara la sua insubordinazione con una punizione esemplare, qui non raffigurata: incatenato ad un monte, un’aquila in eterno gli mangerà il fegato, che ogni notte si rigenererà per poter così ripetere quotidianamente il castigo.

L’intera scena vuole omaggiare attraverso il ricorso all’allegoria il ruolo e la figura del self-made man incarnato dalla famiglia Brignole, i cui membri furono ammessi all’interno dell’aristocrazia genovese non per lignaggio e sangue ma per merito, qualità che concerne anche il rischio: i loro esponenti sono quindi tutti novelli Prometeo, capaci di modificare il destino della città di Genova, così come la figura mitologica protagonista della scena ha influito sulla storia dell’umanità.

Il salotto contiguo, che si affaccia su via Cairoli (già Strada Nuovissima), è quello della Primavera, realizzato da Gregorio De Ferrari nella sua maturità artistica, collocabile tra il primo e il secondo decennio del Settecento. La scena presenta un impianto prospettico molto meno illusionistico rispetto a quello del salotto precedente. Al centro dell’intera scena si può osservare la personificazione dell’Abbondanza, una giovane ragazza bionda adagiata su una nuvola che tiene sotto il braccio la cornucopia – suo tipico attributo – da cui si intravede ogni genere di ricchezze, in particolare monete d’oro, a simboleggiare la potenza economica ottenuta con il duro lavoro dalla famiglia Brignole. In una sezione meno centrale della volta è presente una seconda giovane donna, in questo caso con i capelli castani, raffigurata con una corona di fiori a cingerle il capo, adagiata anch’essa come l’Abbondanza su una nuvola, mentre con le mani cinge un festone floreale che le passa dietro la schiena. A completare l’intera scena troviamo alcuni putti di pieno gusto barocco disposti lungo il cornicione, intenti a giocare con differenti animali: tra i vari rappresentati – soprattutto animali da compagnia – compare il pavone, animale esotico (dall’elevato valore economico), che nell'antica simbologia cristiana rappresentava la rinascita e la vita eterna.

Sulle pareti di questo raffinato salottino trovano posto alcuni quadri, tra questi si possono notare due paesaggi realizzati da due differenti pittori olandesi secenteschi, una Guarigione di Tobia e un Eracle e Onfale.

A concludere l’intero tour del palazzo durante i weekend dedicati all’evento è la visita del grande salone di rappresentanza; sotto il profilo artistico questo presenta sulle pareti più lunghe due grandi arazzi risalenti al XV secolo circa, la cui cromia risulta alterata (in particolare i rossi hanno virato ad un marrone pieno, mentre il rosa degli incarnati oggi risulta molto sbiadito e tendente al beige). Al di là di ciò le due scene – tratte dalla storia antica – risultano nel complesso leggibilissime. L’arazzo della parete destra (dando il volto verso Strada Nuova) raffigura Cambise intento ad uccidere il bue Api; secondo il mito e la tradizione storica, il re persiano fu colpito da una particolare malattia mentale che lo portò appunto a sacrificare il sacro animale; sulla parete opposta invece si può osservare l’incontro tra Cesare e Cleopatra. All’interno di questo ampio salone sono stati poi collocati i busti di Giovanni Battista Brignole di Giacomo Antonio Ponzanelli (1654-1735); di Giovanni Luca Durazzo, opera di Filippo Parodi (1630-1702); di Eugenio Durazzo, di Francesco Maria Schiaffino (1688-1783; di Marcello Durazzo ad opera di Nicolò Traverso (1745-1823). I busti degli esponenti della famiglia erano conservati in quello che è oggi noto come Palazzo Reale, proprietà dei Durazzo sino a quando i Savoia – dopo l’annessione dell’ex-Repubblica di Genova al Regno di Sardegna – non lo acquistarono per farne il loro palazzo ufficiale durante i periodi di residenza nel capoluogo ligure; così la famiglia genovese, tutt’ora proprietaria del palazzo sito in piazza della Meridiana, collocò questi tre busti nel salone del piano nobile.

 

Note

[2] Con il Congresso di Vienna (1° novembre 1814 - 9 giugno 1815), la Repubblica di Genova – o come era meglio nota al tempo, Repubblica Ligure – non riottenne la sua indipendenza in quanto fu annessa direttamente ai territori governati da casa Savoia che da secoli cercavano uno sbocco sul mare, ottenendo così uno dei principali porti del Mediterraneo.

 

Bibliografia

Alizeri, Guida illustrativa della città di Genova, Genova 1845

Colmuto, Palazzo Brignole-Durazzo, in Genova, Strada Nuova, a cura di Vagnetti, Vitali e Ghianda, Genova 1967

Gavazza, Lorenzo De Ferrari, Milano 1965

Gavazza, Lo spazio dipinto. L’affresco genovese del ‘600, Genova 1989

Poleggi, Una reggia repubblicana. Atlante dei palazzi di Genova 1530-1664, Torino 1998

Gavazza, L. Magnani, Pittura e decorazione a Genova in Liguria nel Settecento, 2000

Ciotta (a cura di), Genova. Strada Nuovissima. Impianto urbano e architetture, Genova 2005

Franzone, G. Montanari, Palazzo Brignole Durazzo alla Meridiana in Genova, 2018


LA CHIESA DEI MORTICELLI A SALERNO

A cura di Rossella Di Lascio
Fig. 1 - Chiesa di San Sebastiano del Monte dei Morti.

Introduzione e storia della nascita della chiesa dei Morticelli

Passeggiando nel centro storico di Salerno, in Largo Plebiscito e nei pressi del Museo Diocesano, è possibile imbattersi in un particolare edificio, purtroppo quasi sempre chiuso e dall'aspetto poco curato, che, tuttavia, ad un sguardo più attento, è certamente capace di suscitare curiosità, interesse e forse anche un po' di timore iniziale per la presenza di due scheletri con le falci posti ai lati del portale centrale d’ingresso e per il soprannome con cui lo stesso edificio è noto ai salernitani, ossia chiesa dei Morticelli.

Si tratta della chiesa di San Sebastiano del Monte dei Morti, in origine dedicata ai Santi Martiri Sebastiano, Cosma e Damiano, che sorge a ridosso delle antiche mura orientali della città, nei pressi dell’antica Porta Rotese, abbattuta nell’800, e le cui prime testimonianze sembrerebbero risalire al 994, in base ad un documento del Codice Diplomatico Cavese.

Tuttavia le prime notizie certe si hanno dal 1530, anno in cui la chiesa viene edificata o ristrutturata ad opera dell’architetto salernitano Antonio da Ogliara, come ex-voto della cittadinanza scampata alla peste che negli anni precedenti aveva decimato la popolazione salernitana. Secondo la leggenda, nel Seicento, sotto la chiesa furono seppelliti i cadaveri dei salernitani colpiti dalla peste, da cui il soprannome attribuitole, “Morticelli”.

Molto interessante è il suo impianto architettonico, di tipo tardo - rinascimentale, e la pianta ottagonale, caratteristica comune ad altre tre chiese presenti sempre nel centro storico salernitano, ovvero la chiesa di Sant’Anna al Porto, nei pressi del Teatro “Giuseppe Verdi”, la cappella di San Filippo Neri, presso l’ex convento dei Cappuccini, e la chiesa di S. Salvatore de Fondaco, sita lungo via Mercanti.

Monsignor Arturo Carucci, appassionato studioso della storia salernitana, ha elaborato un'ipotesi secondo cui la chiesa avrebbe le fattezze di un battistero paleocristiano tipico del IV - V sec. d.C., sia per la sua pianta ottagona, in quanto l’otto, nella simbologia cristiana, rinvia al tema della resurrezione, sia per la presenza di un vano sottostante il pavimento della chiesa, profondo circa due metri, al quale si accede tramite una scala con sette gradini, che doveva essere destinato al battesimo dei neofiti, poi adibito a luogo di sepoltura.

Nel 1615 la chiesa diventa sede dalla Confraternita del Monte dei Morti, legata alla devozione per le anime del purgatorio e, dunque, luogo deputato allo svolgimento delle messe in suffragio dei defunti, subendo, peraltro, nello stesso periodo, numerose modifiche.

Fig. 2 - Portale d'ingresso.

La chiesa dei Morticelli: descrizione degli esterni

Di originario resta l’impianto ottagonale della chiesa e la semplice cornice modanata cinquecentesca che inquadra il portale d’ingresso.

Quest’ultimo è stato arricchito dalle colonne laterali scanalate con i capitelli corinzi sormontate da un timpano curvilineo spezzato, caratteristica di molte chiese partenopee del XVII secolo.

Le colonne, a loro volta, sono affiancate da bassorilievi marmorei raffiguranti scheletri con la falce, mentre i loro basamenti ritraggono teschi e clessidre che rimandano ad una profonda riflessione sul tema del tempo, della morte e della caducità della vita, una sorta di monito richiamato anche negli stucchi delle pareti interne con la raffigurazione di teschi.

La chiesa dei Morticelli: descrizione degli interni

Se l’esterno si contraddistingue, sostanzialmente, per l’equilibro e la linearità delle sue forme, gli interni dovevano costituire una piacevole sorpresa.

Nonostante siano stati privati delle pale d’altare e di tele del ‘600 che impreziosivano gli ambienti (di cui restano tracce nelle schede di catalogazione della Soprintendenza), colpiscono la bellezza delle finiture, la policromia dei marmi del pavimento e degli altari e la ricchezza delle numerose decorazioni in stucco bianche e dorate. Il pavimento, risalente al XVII secolo e lungo il quale si distribuiscono una serie di lapidi commemorative, è composto da marmi e maioliche che ripetono lo schema geometrico della cupola a ombrello, a otto spicchi, sormontata da una lanterna.

Esso presenta, infatti, la divisione in otto spicchi raccordati in una rosa centrale posta in asse alla lanterna. La rosa è a sua volta circondata da un anello di marmo bianco lungo il quale si distribuiscono elementi decorativi romboidali.

Nella parte superiore della parete est è posizionata una grande lapide, datata 1623, che documenta la concessione di Papa Gregorio XV di una proroga di cinque anni per le celebrazioni di messe in suffragio dei defunti. Ai suoi lati sono posti quattro stemmi, dei quali i due di sinistra sono identificabili con quelli di Papa Gregorio XV e del Cardinale Lucio Sanseverino. Un altro stemma, simbolo della città di Salerno, è posto sopra l’arco dell’altare maggiore.

 

Al XVIII secolo risalgono, invece, i quattro altari minori e quello maggiore, rivestiti da marmi policromi ed inquadrati da grosse nicchie scavate nella muratura.
Ai lati dell’altare maggiore, due portali incorniciati in pietra conducono ad un piccolo ambiente e alla sagrestia a pianta quadrata con volta a vela.
Negli anni ’50 la chiesa viene concessa da monsignor Demetrio Moscato alla confraternita di S. Bernardino come sede delle loro riunioni; la confraternita esegue una serie di lavori di restauro alla struttura, che versava in pessime condizioni, soprattutto a causa dello stato di abbandono e dell’umidità.
In particolare sono da segnalare i lavori di rafforzamento nelle porte, o rivestite con pannelli di metallo decorati in ottone (la principale), o irrobustite inserendo una porta interna formata da una struttura in ferro munita di vetrate colorate con scene sacre, mentre davanti alla porta della sagrestia è stato posizionato un cancello. All'esterno il quadro della Madonna con Bambino, originariamente presente, è stato sostituito con un’effigie di San Bernardino su piastrelle, ripresa da un dipinto raffigurante lo stesso soggetto, eseguito dal pittore salernitano Giuseppe Avallone nel 1923.

Fig. 11 - Porta d’ingresso con vetrate colorate.

Stato attuale

Nel 1980 la chiesa viene dichiarata inagibile a causa del terremoto, pur restando aperta fino al 1986. Sottoposta a restauro conservativo, è riaperta al pubblico, ormai sconsacrata, nel 2011, per poi essere nuovamente richiusa.
A partire dal 2018, grazie all'opera del gruppo BLAM, collettivo di architetti, artisti, fotografi, appassionati di storia salernitana e studenti, in collaborazione con il DiARC - Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli Federico II- il Comune di Salerno ha avviato un progetto per la riqualificazione e la valorizzazione degli spazi della chiesa dei Morticelli. La ex chiesa, ora soprannominata spazio SSMMOLL (San Sebastiano del Monte dei Morti Living Lab), diventa luogo di condivisione di eventi, di laboratori creativi e di aggregazione sociale (performance artistiche e teatrali, mostre, attività per i bambini, aperture speciali con visite guidate, proiezioni filmiche nella piazzetta antistante) con l’obiettivo di coinvolgere il pubblico, cittadini e turisti, e di condurlo alla riscoperta di un pezzo di storia e di arte della città per troppo tempo lasciati nell'oblio.
Dal 2020 la ex chiesa dei Morticelli è candidata tra i luoghi del cuore FAI.

 

Sitografia

www.academia.edu

Oliva V., La chiesa del Monte dei Morti, un esempio di edilizia rinascimentale a Salerno

www.arcansalerno.com

www.blamteam.com

www.salernodavedere.it

www.salernonews24.com

Magliano D., La rinascita della Chiesa di San Sebastiano del Monte dei Morti