L'ICONOGRAFIA DI SANT'ANTONIO NEI SECOLI

A cura di Mattia Tridello

Introduzione: nella Padova del Santo

Venerdì 13 Giugno 1231. Fernando da Lisbona, colto da un malore e prossimo alla morte, viene trasportato su di un carro trainato da buoi dal piccolo paesino di Camposanpiero fino alle porte di Padova, città in cui chiede di emettere l’ultimo respiro. Giunto però alla periferia nord di quest’ultima, (all’Arcella), mormorate le parole “Vedo il mio Signore”, spirò. Moriva così all'età di 36 anni il francescano che, da lì a un anno, sarebbe salito agli altari con il nome di Sant'Antonio di Padova, uno dei Santi più amati della Cristianità. Con solenni funerali il frate viene sepolto presso la chiesetta di Santa Maria Mater Domini, luogo ove amava ritirarsi spiritualmente nei periodi di intensa attività apostolica. Quella chiesa, al tempo anonima per molti, relativamente periferica in confronto al centro cittadino, sarebbe stata destinata a diventare una grandiosa basilica che ancora oggi accoglie folle di devoti e pellegrini in visita al luogo che ospita “l’Arca del Santo”, il sarcofago che contiene le spoglie mortali di Antonio. La morte e la celere canonizzazione di quest’ultimo non lasciò indifferente la città padovana che, fin dagli albori della predicazione antoniana, accolse con entusiasmo la novità comunicativa introdotta dal frate, dall'uomo capace di attirare e convertire persone con l’uso esclusivo della parola. La vicinanza del popolo dell’urbe al francescano crebbe irrefrenabilmente culminando in un’aperta devozione. Ben presto, infatti, furono registrati molti fenomeni miracolosi sulla sua tomba ed iniziarono ad arrivare pellegrini, prima dalle contrade vicine e poi anche da oltralpe. Il progressivo aumento delle persone che quotidianamente sostavano nei pressi della piccola chiesetta di S. Maria Mater Domini portò alla posa della prima pietra (1240) di un tempio più vasto e capiente, appositamente progettato per contenere l’afflusso continuo di fedeli e pellegrini.

La basilica, terminata nel 1310, rimase perlopiù immutata nella composizione spaziale originaria, mentre, per quanto riguarda quella artistica, venne notevolmente decorata, attraverso i secoli, da numerose e diverse testimonianze pittoriche, scultoree e architettoniche. Queste, seppur di stili e caratteri differenti, furono e sono tuttora unanimi nel glorificare, attraverso l’arte, la figura del Santo. Nel corso del tempo si è andata sviluppando una rappresentazione visiva mutevole che, partendo dalla morte del Santo nel XIII secolo, è sempre cambiata, si è evoluta e aggiornata in base agli stilemi artistici di ogni epoca, arricchendosi di precisi riferimenti iconografici e simbolici che ne hanno determinato il volto, il corpo e le gesta fino alla creazione dell’immaginario collettivo dei giorni nostri. Per questo è mia premura oggi cercare di ripercorrere, tramite l’agiografia antoniana, alcune tra le più importanti e preziose testimonianze artistiche riguardanti il modo di rappresentazione del frate nel corso del tempo, contenute e ospitate nel territorio dove egli soggiornò fino alla nascita celeste, più precisamente nella città che, più di tutte, gli è legata indissolubilmente.

La Pontificia Basilica minore di Sant'Antonio

Vorrei dunque iniziare questo itinerario artistico partendo dal luogo che, solitamente, viene visitato per primo da fedeli, devoti e turisti all'arrivo a Padova, non solo perché vi riposano le spoglie di Antonio ma soprattutto poiché, proprio qui, è presente la più antica immagine esistente del Santo. Molti potrebbero ritenere scontata la presenza di quest’ultima nel luogo della sepoltura, tuttavia, dal punto di vista dell’iconografia antoniana, si osserva un fenomeno veramente singolare: nel tempio che più degli altri risulta legato all'ultimo periodo di vita del Santo e dove si è sviluppata una vasta e ininterrotta venerazione popolare nei confronti di quest’ultimo, si nota l’ assenza di immagini puramente duecentesche che lo raffigurino. Mancano del tutto rappresentazioni che potremmo definire “originarie”, “antiche” che, come in altri casi, la tradizione abbia reso “esemplari”,  oggetto esse stesse di venerazione. La più accreditata ipotesi di tale avvenimento e processo storiografico potrebbe spiegarsi con l’indiscussa centralità assunta dalla tomba di Sant'Antonio nella venerazione popolare.

La tomba del Santo: la necessità di un rapporto diretto tra fedele e sarcofago

Fin dalla prima testimonianza della vita antoniana a noi pervenuta, l’Assidua (testo agiografico composto nel 1232 da un anonimo frate francescano), ciò che appare muovere la devozione pubblica è il rapporto diretto che si instaura tra il devoto e la tomba. Proprio nei pressi di quest’ultima vengono attestati miracoli e grazie concesse dal Signore per intercessione del Santo, proprio in quel luogo i fedeli sostano costantemente, giorno e notte (come si evince da una frase dell’Assidua). Di fatto, dunque, è il sarcofago a imporsi come segno visibile e letteralmente palpabile di Antonio, l’arca diventa una sorta di rappresentazione di quest’ultimo che il pellegrino cerca fin dal suo primo ingresso in basilica, diviene quindi una vera e propria immagine che si lascia toccare, in un rapporto devozionale nel quale la fisicità è una componente essenziale. Può risultare utile, per chiarire maggiormente questo aspetto, confrontare la realtà antoniana di Padova con la situazione, ben diversa, presente invece nel santuario umbro dedicato al fondatore dei minori, San Francesco. Ad Assisi, infatti, la tomba del “Santo poverello” (Fig. 1) viene sistemata sotto l’altare della basilica inferiore e fino agli inizi dell’800 (dal 1820 si procederà alla ricognizione del Corpo e alla creazione di una cripta sotterranea ove poterlo venerare) rimase nascosta, celata agli occhi dei pellegrini. La fioritura di immagini, dipinti e affreschi di Francesco, fin dai primissimi anni dalla morte, appare dunque una necessaria risposta alla richiesta di maggior contatto tra fedele e Santo. Si può dunque dedurre, sia pur con la necessaria prudenza, che a Padova, nella basilica, la necessità di un’immagine di Antonio, almeno per i primi tempi, risultasse meno impellente, meno immediatamente necessaria visto la presenza fisica e visibile della tomba (Fig. 2).

L'iconografia di Sant'Antonio

La voluta citazione di San Francesco ci permette, inoltre, di addentrarci nel pieno della rappresentazione iconografica antoniana, poiché le prime rappresentazioni che iniziarono a comparire tennero presente e vivo questo legame tra fondatore e predicatore, tra maestro e discepolo. Non a caso la più antica immagine che ritrae Antonio, citata in precedenza, presenta anche la figura di Francesco. Si tratta della lunetta che sovrasta la porta, ora murata, dell’antica sagrestia (Fig. 3). L’immagine, seppur risalente agli ultimi anni del ‘200 e quindi collocabile alla fine del lungo cantiere basilicale e conventuale, ci tramanda uno dei primi tentativi a noi conosciuti di immortalare in pittura il Santo. Al centro della raffigurazione compare e spicca, sia per dimensioni che per monumentalità, la figura a mezzo busto della Mater Domini (titolare della primitiva chiesetta sulla quale sorge la basilica) in una variante del tipo dell’eleousa affiancata da santi a figura intera di più piccole dimensioni. L’impianto compositivo semplice e immediato, probabilmente di impronta bizantina-veneziana, dà vita ad uno schema speculare nel quale Francesco, a destra dell’osservatore e Antonio, a sinistra, sono presentati in pose simili, entrambi inginocchiati devotamente, con il volto a tre quarti e le mani alzate a palme aperte (Fig. 4). Il riconoscimento dei due personaggi diviene possibile grazie alla presenza delle iscrizioni con i rispettivi nomi, tracciate a pennello sulla cornice arcuata del riquadro sovrastante.

Fig. 4 – Lunetta del portale murato della sagrestia. A - Sant’Antonio; B – San Francesco.

Il senso di lettura di questa rappresentazione cela e racchiude numerosi significati che, a primo sguardo, potrebbero passare inosservati. Sant'Antonio, ad esempio, viene collocato alla destra della Vergine e del Bambino, nella posizione d’onore riservata solitamente al fondatore dei Minori nelle immagini più antiche legate alla devozione francescana. Anche la figura mariana, a sua volta, nel contesto padovano assume risonanze specifiche poiché non solo riflette una devozione molto sentita in ambito monastico, ma è anche, come accennato, trasposizione figurativa del titolo del locus francescano della città. L’iconografia della lunetta dunque, a dispetto dell’apparente ovvietà, compendia efficacemente la sostanza identitaria della comunità antoniana dell’urbe, marca l’accesso di un luogo chiave del santuario, la sagrestia appunto, indispensabile per la preparazione dei sacerdoti alle celebrazioni liturgiche e infine introduce efficacemente un connubio che, fino al XV secolo sarà una costante sempre presente del repertorio figurativo antoniano.

Potrebbe sembrare, anzi, risulta veramente unico e singolare il fatto che, come si è già illustrato, manchino completamente ritratti contemporanei al Santo o eseguiti a pochi anni dalla morte e canonizzazione di quest’ultimo. Non stupisce quindi che, dal ‘300, iniziarono a proliferare  raffigurazioni antoniane, per forza di cose non sempre concordanti tra loro per quanto riguarda lo stile figurativo e l’apparato simbolico. La necessità di dare un volto al santo si concretizzò con la raffigurazione di elementi simbolici che riassumevano sia gli episodi salienti della sua vita che le caratteristiche che lo resero tanto amato tra la popolazione. Per tale motivo, spostandoci nell'analisi al XIV secolo, l’iconografia si arricchisce di oggetti volti a rimarcare le doti predicatorie del giovane frate. Non a caso in mano a quest’ultimo iniziarono a comparire attributi materiali come il libro (simbolo dotto e aulico di predicazione e conoscenza teologica) e fisici come le vesti francescane e la giovinezza del volto. Un esempio significativo di questa evoluzione iconografica, dal Duecento al Trecento, lo si può ritrovare in una di quelle immagini che divenne oggetto di devozione popolare all'interno della basilica.

Si tratta di uno dei primi ritratti di Antonio a figura intera con la presenza del libro (Fig. 5). L’autore ignoto, probabilmente di scuola giottesca, raffigurò il Santo con il tipico abito francescano mentre con una mano impartisce una benedizione. La resa dell’incarnato, la stesura dei colori e la somiglianza iconografica con le fonti scritte riguardanti l’aspetto di Sant'Antonio conferiscono armonia alla composizione, tanto da farla ritenere come una delle più fedeli e verosimili rappresentazioni del volto reale di quest’ultimo. L’opera venne dipinta su uno strato di intonaco nel fianco est del colossale pilastro sinistro che, insieme ad altri tre, sorregge il peso di una delle cupole del santuario. Quest’ultima, prima della risistemazione quattrocentesca del coro, non faceva parte dello spazio presbiteriale e perciò poteva essere ammirata e venerata  non solo dai sacerdoti ma anche dai laici. A testimonianza di ciò si può notare che la parte bassa risulta notevolmente danneggiata, consunta e molto più scolorita rispetto a quella superiore, probabilmente perché l’immagine era oggetto di carezze devozionali e votive. Dopo la collocazione tra i pilastri dell’abside di un apparato marmoreo ospitante il coro dei frati la visione dell’affresco, ormai inglobato, risulta molto più difficile, tanto da essere parzialmente celato al visitatore (Fig. 6a,b).

Fig. 5 – Affresco raffigurante Sant’Antonio.
Ricostruzione ipotetica della posizione dell’affresco, come appare oggi e come doveva risultare nel ‘300.

 

Tuttavia la carica di novità nella rappresentazione portata da questa raffigurazione di certo non passò inosservata ai geni assoluti del primo Rinascimento che, proprio a Padova, soggiornarono per arricchire, con le loro opere, la basilica. Tra questi vorrei ricordare in primis Donatello e Andrea Mantegna

Il Sant'Antonio di Donatello

La commissione allo scultore fiorentino di realizzare il nuovo altare maggiore della basilica venne probabilmente decisa dopo aver visto il risultato del Crocifisso bronzeo (1443-1447), oggi collocato sopra l'altare ma originariamente realizzato e ideato forse per il coro. Grazie alla generosa donazione del cittadino padovano Francesco del Tegola, datata 3 aprile 1446, poté essere progettato un complesso architettonico scultoreo innovativo, in gran parte di bronzo(Fig.7). Originariamente l’altare, una volta terminato, doveva offrire una visione imponente grazie alla policromia e all'effetto abbagliante delle dorature e argentature. Gli elementi decorativi erano impostati in ricche varianti, che andavano dalle figurette dei rilievi alla pienezza plastica delle opere a tutto tondo, dalle pose più composte a quelle più freneticamente concitate. Con la ristrutturazione del presbiterio nel 1591, l'altare venne smembrato e le varie opere divise in più punti della basilica. Una nuova fase della mensa venne toccata quando, in pieno periodo barocco, vennero reimpiegate e sistemate nella complessa struttura architettonica solo alcune statue donatelliane (Fig. 8). L’ultima travagliata fase di ricostituzione spettò a Camillo Boito nel 1851. Sebbene vennero ricollocate tutte le statue realizzate dallo scultore fiorentino, la composizione quattrocentesca venne del tutto infranta optando invece per una sistemazione più lineare e molto diversa rispetto a quella delle intenzioni donatelliane (Fig. 9). Delle sette statue che creò Donatello, tre risultano particolarmente legate al discorso iconografico che si sta trattando. Se notiamo, infatti, quest’ultime sono collocate nella parte più alta dell’altare, sotto il Crocifisso. Si tratta delle figure bronzee a tutto tondo della Vergine con Bambino, in posizione centrale, di San Francesco, a destra dell’osservatore, e di Sant’Antonio a sinistra (Fig. 10).

Fig. 10 – Dettaglio della Sacra Conversazione tra la Madonna, San Francesco a sinistra e Sant’Antonio a destra.

Nella progettazione e realizzazione dei personaggi scultorei senz'altro Donatello aveva ben presenti i modelli iconografici ritraenti il Santo presenti in Basilica. Perciò risulta molto chiaro il riferimento nella disposizione del gruppo centrale (l’unica parte della risistemazione ottocentesca fedele al progetto quattrocentesco) alla medesima “Sacra conversazione” presente nella lunetta della sagrestia precedentemente illustrata. Come in quest’ultima anche qui i due santi dell’Ordine compaiono ai lati della Madonna, anche qui Maria viene raffigurata nelle vesti di Mater Domini, anche qui è presente il parallelismo tra “Santo fondatore” e “Santo predicatore”. L’artista, mirabilmente, coglie l’insegnamento dell’affresco trecentesco presente a poca distanza dall'altare: come in quello Antonio, in piedi e vestito con il saio francescano, è intento nel contemplare la scena sacra mentre regge con il braccio sinistro l’attributo simbolico del libro, che anche qui ritroviamo insieme però a un altro elemento che, da quel momento in poi, caratterizzerà la sua figura; il giglio. Quest’ultimo, nella cultura iconografica, è simbolo di purezza e lotta contro il male. Tale immagine del Santo è indubbiamente il frutto di un anelito popolare che Donatello percepisce, perfeziona e sublima conferendo vitalità e vigore al taumaturgo poiché comprende che la giovinezza è il primo attributo del suo apostolato, la garanzia della sua azione (Fig. 11).

Fig. 11 – Dettaglio della statua di Sant’Antonio.

L’iconografia antoniana che si sviluppò nel corso del ‘400 rimase fedele agli attributi simbolici e al modo di rappresentazione inaugurato da Donatello con l’altare della basilica: ne è un esempio la lunetta del portale centrale del tempio padovano commissionata al Mantegna nel 1452 (Fig. 12). Anche in quest’ultima la rappresentazione del Santo non subisce sostanziali trasformazioni ma anticipa, nella sua fierezza, i caratteri di un nuovo impulso figurativo che avverrà con la pittura del Vecellio. Tiziano, infatti, proprio a Padova realizzò alcuni dei suoi primissimi e indipendenti capolavori.

Fig. 12 – Lunetta con Sant’Antonio a sinistra, il Trigramma di Cristo e San Bernardino da Siena.

Tiziano alla “Scoletta del Santo”

Se ci spostassimo al di fuori della basilica e sostassimo nel sagrato antistante, ci accorgeremo della presenza, sul lato destro, di alcune costruzioni che delimitano teatralmente la piazza. Si tratta dell’Oratorio di San Giorgio e della cosiddetta “Scoletta del Santo”, ovvero, la sede dell’antichissima Arciconfraternita del Santo. Quest’ultima sorse pochi anni dopo la morte di Antonio ed acquisì ben presto una viva floridezza. Nel corso del Quattrocento infatti i confratelli, vista l’assenza di un luogo definito e unico per lo svolgersi di incontri e adunanze, presero la decisione di erigere una nuova costruzione ai margini del sagrato della basilica. Così come si presenta oggi, la Scuola è formata da due ambienti sovrapposti: quello al pianterreno, ospitante la chiesa, e quello superiore, edificato nel 1504, contenente invece la sala priorale (Fig. 13).

Fig. 13 – Da sinistra a destra: Oratorio di San Giorgio, scala di collegamento, Scoletta del Santo.

Nella parte cinquecentesca, la Sala priorale contiene 18 pitture eseguite nei primi anni del Cinquecento con scene della vita e dei miracoli di S. Antonio. Grazie a questo meraviglioso ciclo pittorico si può constatare un’evoluzione nella rappresentazione iconografica antoniana. A partire dal XVI secolo, infatti, l’attenzione nella raffigurazione del Santo muta, si sposta, pone maggiormente l’attenzione non sulla rappresentazione singola del frate ma su quella collettiva, che lo vede presente in mezzo alla popolazione in occasione delle sue predicazioni o dei miracoli compiuti in vita. Perciò, in questo modo, Antonio inizia ad assumere un carattere figurativo meno distaccato e astratto, di fatto, in alcuni casi, gli elementi simbolici importati dalla tradizione scompaiono lasciando spazio alla sua figura che, come in una rappresentazione teatrale, assume il  ruolo di protagonista della vicenda. La concretizzazione la si trova narrata nei tre affreschi giovanili di Tiziano (1511): “Sant'Antonio fa parlare un neonato” (Fig. 14), “Il marito geloso che pugnala la moglie”, “Sant'Antonio riattacca il piede a un giovane”. Anche se raffiguranti scene e miracoli differenti tutti e tre sono unanimi nel mostrare Antonio in veste battagliera, instancabile, evangelizzatrice, sempre pronto ad intervenire con la sua intercessione.

Fig. 14 – Tiziano, "Sant'Antonio fa parlare un neonato”.

Sant’Antonio e il “pane”

Un altro dipinto che ci introduce a una delle più consuete e amate raffigurazioni  di Antonio è sempre custodito nella Sala Priorale. Entrando in quest’ultima, immediatamente a destra, ad altezza d'uomo, accoglie i visitatori l’affresco realizzato da Tiziano e Francesco Vecellio rappresentante il “Guardiano” della Confraternita, Nicola da Strà, che fu il committente del ciclo di affreschi all'inizio del '500. (Fig. 15).

Fig. 15 – Pianta della Sala Priorale, accanto all'entrata, a destra, è presente l’affresco.

Il Guardiano (oggi detto Priore), rivestito dell'allora abito confraternale molto simile al saio dei frati, è effigiato nel gesto della distribuzione delle focacce benedette al portone dell'Oratorio della Scoletta del Santo, sul quale fa mostra di se una statua argentea di Antonio recante, anche in questo caso, gli attributi del libro e del giglio. (Fig. 15) La tradizione di raffigurare il Santo mentre porge le pagnotte ai bisognosi o, come in questo affresco, accanto a coloro che distribuiscono il pane deriva direttamente da un miracolo che suscitò enorme clamore nella Padova del Duecento tanto da essere riportato dettagliatamente nell'agiografia del Santo:

“Un bimbo di venti mesi, di nome Tomasino, i cui genitori avevano l’abitazione vicino alla chiesa del beato Antonio, in Padova, fu lasciato incautamente da sua madre accanto ad un recipiente pieno d’acqua. Si mise a fare nell’acqua giochi infantili e forse, vedendoci riflessa la sua immagine e volendo inseguirla, precipitò nel recipiente testa all’ingiù e piedi in alto. Siccome era piccino e non poteva sbrogliarsi, ben presto vi rimase affogato.

Trascorso breve tempo, la madre ebbe sbrigate le sue faccende, e vedendo la lontano i piedi del bimbo emergere da quel recipiente, si precipitò urlando forte con voce di pianto e trasse fuori il piccino. Lo trovò tutto rigido e freddo, perché era morto annegato. A tale spettacolo gemendo di angoscia, mise sossopra tutto il vicinato con i suoi lamenti ad alta voce.

Molte persone accorsero sul posto, e tra queste alcuni frati minori insieme con operai, che a quel tempo lavoravano a certe riparazioni nella chiesa del beato Antonio. Quando ebbero veduto che il bambino era sicuramente morto, partecipando alla sofferenza e alle lacrime della madre, essi si ritirarono come feriti dalla spada del dispiacere. La madre tuttavia sebbene l’angoscia le straziasse il cuore, prese a riflettere sugli stupendi miracoli del beato Antonio, e ne invocò l’aiuto onde facesse rivivere il figlio morto. Aggiunse anche un voto: che darebbe ai poveri la quantità di grano corrispondente al peso del bimbo, se il beato Antonio lo avesse risuscitato. Dal tramonto fino alla mezzanotte il piccolo giacque morto, la madre continuando senza sosta ad invocare il soccorso del beato Antonio e replicando assiduamente il voto, allorché, - cosa mirabile a dirsi! – il bimbo morto riebbe vita e piena salute.” Dalla Rigaldina (11, 69-79);

Nei confronti di questa testimonianza non stupisce che proprio il pane sia diventato un simbolo frequente nell'iconografia antoniana, sia per il fenomeno miracoloso avvenuto a seguito del voto, sia per il valore simbolico che esso ha assunto. Il pane, infatti, elemento più immediato e fruibile per saziarsi e sfamarsi, assurge a rappresentazione fisica della carità, non solo quella che ha avuto il Santo in vita ma più in generale quella di tutta la Chiesa.

Fig. 16 – Affresco della distribuzione del pane benedetto.

Sant'Antonio con il Bambino

Accingendomi a terminare questo itinerario nella storia artistico-devozionale di Sant'Antonio risulta più che opportuno, anzi, necessario, analizzare la rappresentazione che forse, più di tutte, si è diffusa nell'arte dal XVII secolo fino ai giorni nostri e ha progressivamente forgiato un preciso canone iconografico che ci permette di riconoscere il Santo in qualsivoglia raffigurazione sacra. Quest’ultima, infatti, come per le altre, trova origine a seguito degli episodi agiografici di Antonio. Per poterla comprendere al meglio è necessario dunque ripercorrere uno degli ultimi episodi della vita del frate. Sembra quasi paradossale pensare che l’ultimo toccante frangente della sua permanenza terrena sia poi diventato, nel corso del tempo, una costante figurativa che comunica tenerezza e amore, che la sua visione più famosa e tarda si sia inserita nell'iconografia antoniana in un periodo cronologicamente più recente. Con il diffondersi dei nuovi canoni artistici propri del tardo Barocco e ancor di più del Rococò, infatti, anche la figura di Antonio muta, si apre alla rappresentazione con il Bambino Gesù, si uniforma a una devozione di carattere poetico e affettuoso che trova riscontro nella vastissima produzione italiana e europea settecentesca, basti pensare alle numerose versioni del medesimo tema a opera del Murillo (Fig. 17a,b). Per conoscere l’origine di tale attributo rappresentativo occorre, come detto in precedenza, ricercare le origini nell'agiografia antoniana. Era, infatti, il 1231 quando il frate, poco prima di morire, ottenne di ritirarsi in preghiera a Camposampiero, un piccolo paesino della campagna padovana, nella dimora che il signore del luogo, il conte Tiso, aveva affidato ai francescani nei pressi del suo castello.

Una sera, il conte decise di recarsi nella cella del convento nella quale soggiornava l’amico francescano. Tuttavia, giunto in prossimità della porta, notò che, dall'uscio socchiuso, si sprigionava un intenso splendore. Temendo un incendio, spinse la porta e una volta entrato rimase immobile davanti alla scena prodigiosa: Antonio stringeva fra le braccia Gesù Bambino. Terminata la visione incantevole e vista la commozione di Tiso, Antonio lo pregò di non rivelare a nessuno l’apparizione celeste. Solo dopo la morte del Santo il conte racconterà quello che, per grazia, aveva potuto vedere.

Il Santuario della Visione

Nel corso degli anni la primitiva chiesa di S. Giovanni Battista e il vicino convento ebbero vari rifacimenti e ampliamenti, ma verso il luogo della Cella ci fu sempre grande venerazione e attenzione. La costruzione, pur con qualche ritocco, mantenne sempre quelle dimensioni di stile francescano, umile, povero ed essenziale. Costruendo l’attuale chiesa (1906) (Fig. 18), la Cella fu incorporata e trasformata in cappellina su due livelli. In quello superiore i fedeli possono visitare personalmente lo stretto vano coperto con volta a schifo per raccogliersi in preghiera nel luogo della visione prodigiosa (Fig. 19a,b).

Fig. 18 – Veduta della navata centrale del Santuario.

A destra una finestrella e al centro della parete di fondo si trova la tavola di Andrea Vivarini da Murano (1486) che ritrae la figura intera di S. Antonio con i simboli consueti del giglio e del libro (Fig. 20a,b). Secondo la tradizione si tratterebbe della rozza tavola di pioppo che serviva da giaciglio al Santo durante la sua permanenza nel convento di Camposampiero. Quest’ultima è difesa da una cornice con cristallo per impedire l’indiscreta devozione dei fedeli che, in passato, asportarono molti frammenti lignei da questa “reliquia antoniana”. E’ costante tradizione che il Santo, riposando sopra di essa, vi abbia lasciata impressa la propria effigie, ripresa dal pittore Andrea da Murano al principio del XVI secolo.

Proprio nella “cella della Visione”, il 13 Giugno 1231, verso mezzogiorno, Antonio venne colto da un malore che perdurò fino alle sue ultime ore quando venne trasportato, al calar della sera, all’Arcella, alla periferia nord di Padova. Ecco dunque che siamo ritornati al punto dal quale abbiamo iniziato questo viaggio iconografico e artistico alla scoperta di tutte quelle raffigurazioni contenute a Padova e legate, per un motivo o per un altro, alla figura antoniana. Rappresentazioni a volte simili, a volte diverse e mutevoli ma che, a ben vedere, non sono mai discordanti poiché la personalità di Antonio è stata -e continua a essere -universale, eccezionalmente ricca di storia e devozione, e quindi in grado di inserirsi in dimensioni diverse ma unite dalla profonda umiltà francescana, dal rigore e dalla coerenza di una vocazione estremamente semplice e fattiva. Forse fu proprio questo l’aspetto che più fece presa tra le folle accorse, durante le sue predicazioni, per vederlo, toccarlo, perché percepivano la presenza della sua santità e scorgevano, nella sua persona, un modello umano. Una figura presente e santa dalla quale l’arte e la devozione non hanno mai smesso di attingere per l’ideazione e la creazione di assoluti capolavori che, oggi come ieri, testimoniano assiduamente la vita, le opere e i miracoli di uno dei santi più amati della cristianità.

 

Bibliografia essenziale:

Andergassen, L’iconografia di Sant’Antonio di Padova, dal XII al XVI secolo, Padova, Centro studi antoniani;

Padova e il suo territorio, rivista di storia arte e cultura, 1995;

Il cantiere di Sant’Antonio a Padova (1877-1903) nella rilettura critica delle carte conservate presso l’Archivio Storico della Veneranda Arca, La Sapienza, 2017;

Baggio, Iconografia di Sant’Antonio al santo a Padova nel XIII e XIV secolo. Scuola di dottorato, UniPd;

Libreria del Santo, La Basilica di Sant’Antonio in Padova, 2009;

Il Messaggero di Sant’Antonio, numero di approfondimento del Giugno Antoniano, 2019;

 

Sitografia:

Sito web ufficiale della Basilica di Sant’Antonio;

Sito web dell’Arciconfraternita del Santo;

Sito web dei Santuari di Camposampiero;

 

Immagini:

Immagini di dominio pubblico tratte da Goggle immagini, Google maps e dal sito web della Basilica di Sant’Antonio.

La ricostruzione della pianta dell’assetto duecentesco del presbiterio è stata realizzata da Mattia Tridello con l’ausilio del programma Autocad;


LA SALA DEI GIGANTI A PALAZZO TE A MANTOVA

A cura di Silvia Piffaretti

Introduzione: la città di Mantova e Giulio Romano

Mantua me genuit, ovvero, “Mantova mi generò” è ciò che recita la tomba del poeta latino Virgilio che, nel XX canto dellInferno dantesco, descrisse brevemente le origini della città.

Nella presentazione dei dannati si soffermò sulla figura di Manto, una donna dalle lunghe trecce cadenti sul petto, che dopo lunghe peregrinazioni si stabilì in una terra disabitata in mezzo alla palude per praticare le sue arti magiche. E fu proprio nel luogo dove visse che, sulla sua tomba, fu edificata la città di Mantova che da lei prese il nome [1]. La città, di probabile origine etrusca, fu un piccolo centro fortificato che divenne nei secoli a venire dominio di grandi famiglie come i Canossa, i Bonacolsi ed i Gonzaga. In particolare sotto il dominio di quest’ultimi, durato dal 1328 al 1707, la città divenne uno dei massimi centri d'arte d’Italia dove accorsero artisti di grande talento come Giulio Romano.

Fig. 1 - Mantova.

Quest’ultimo, nato nel 1492 a Roma e morto a Mantova nel 1546, si affermò nella città eterna come uno dei principali collaboratori di Raffaello, infatti come attestò Giorgio Vasari nel suo capolavoro Le vite de più eccellenti pittori, scultori ed architetti: "seppe benissimo tirare in prospettiva, misurare gl'edifizii e lavorar piante e si poté chiamare erede del graziosissimo Raffaello sí ne costumi, quanto nella bellezza delle figure nell'arte della pittura. Ma il suo genio non si alimentò solo del maestro, egli risentì della lezione di Michelangelo nella possanza e nel dinamismo delle figure. Per Vasari la sua abilità tecnica fu tale da essere “sempre anticamente moderna, e modernamente antica.

L’artista ebbe anche un forte legame con il pittore Tiziano, questi eseguì perfino un suo ritratto [2] di tre quarti dall'espressione bonaria e arguta, cogliendone l’essenza signorile tratteggiata da Vasari che descrisse “Giulio di statura nè grande nè piccolo, più presto compresso che leggieri di carne, di pel nero, di bella faccia, con occhio nero et allegro, amorevolissimo, costumato in tutte le sue azioni, parco nel mangiare e vago di vestire e vivere onoratamente.

Fig. 2 - “Ritratto di Giulio Romano”, Tiziano.

Nell'ottobre del 1524 giunse, per mezzo dell’ambasciatore gonzaghesco Baldassarre Castiglione, a Mantova da Federico II Gonzaga [3]. Questi, figlio di Francesco II e Isabella d’Este, fu un condottiero di non grande abilità che si ritirò dalle armi per dedicarsi al governo cittadino e agli interessi personali, tra i quali figuravano le arti e la collezione di opere antiche. Egli trasmise il suo ambizioso progetto all'artista che creò, a detta di Vasari, “non abitazioni di uomini, ma case degli Dei” intervenendo nel campo dell’urbanistica, dell’edilizia privata e religiosa.

Fig. 3 - “Ritratto di Federico II Gonzaga”, Tiziano.

Fu così che Federico II lo condusse all'isola del Teieto, termine che potrebbe derivare da tiglieto, ovvero località di tigli, oppure essere collegato a tegia, dal latino attegia, che significa capanna.

Il capolavoro di Giulio Romano: Palazzo Te e la "Sala dei Giganti"

Il marchese lo incaricò di ristrutturare le scuderie esistenti per "accomodare un poco di luogo da potervi andare e ridurvisi tal volta a desinare, o a cena per ispasso. Ma, come riferì Vasari, alla vista del bellissimo progetto presentato diede incarico di iniziare la costruzione di Palazzo Te [4], eretto tra il 1525-1535, adibito a luogo d’accoglienza d’ospiti illustri.

Fig. 4 - Palazzo Te

Lungo il percorso all'interno del palazzo s’incontrano maestose ed eleganti sale, ma quella che più incanta il visitatore è la Sala dei Giganti [5] eseguita tra il 1532-35, su disegno di Giulio Romano, dai collaboratori Rinaldo Mantovano, Fermo da Caravaggio e Luca da Faenza.

Nella stanza è dipinta la Gigantomachia, ultima fase della Cosmogonia, ovvero del processo di costruzione di un cosmo armonico nato dagli scontri tra le intelligenze divine dell’Olimpo e la forza bruta dei Giganti che vengono sconfitti. Nella versione del mito proposta nell'opera Le Metamorfosi del poeta latino Ovidio, fonte privilegiata di cui si servì Romano, “si narra che i Giganti, aspirando al regno celeste, ammassassero i monti gli uni sugli altri fino alle stelle per costruire una scala con cui giungere all'Olimpo, ma Giove ne interruppe la corsa scagliando i suoi fulmini sulle montagne che crollarono su di essi.

La sala è famosa per la sua ideazione pittorica volta a negare i limiti architettonici dell’ambiente, infatti gli stacchi tra i piani orizzontale e verticale furono celati smussando gli angoli tra le pareti e la volta. Si realizzò inoltre un pavimento, oggi perduto, costituito da un mosaico di ciottoli di fiume che proseguiva dipinto alla base delle pareti. In questo modo, ma anche servendosi di persone nascoste che simulavano l’effetto sonoro con dei sassi e di un caminetto il cui bagliore amplificava la drammaticità, l’artista intendeva catapultare lo spettatore nell'opera suscitando in lui stupore e straniamento. Effetto che lasciò impressionato anche Giorgio Vasari che disse: “Né si pensi mai uomo vedere di pennello cosa alcuna piú orribile o spaventosa, né piú naturale. Perché chi vi si trova dentro, veggendo le finestre torcere, i monti e gli edifici cadere insieme coi Giganti, dubita che essi e gli edifizi non gli ruinino addosso”.

Fig. 5 - Sala dei Giganti.

Il protagonista incontrastato della scena è Giove [6] che, abbandonato il trono poco più in alto, scende dal cielo sulle nuvole sottostanti con i fulmini in pugno, chiamando a sé l’assemblea degli immortali, per punire i ribelli assistito dalla moglie Giunone. Tra gli dei si riconoscono: Apollo sul carro solare, Nettuno con il tridente [7], Marte che impugna la spada, Amore armato di arco e frecce e Venere che fugge [8]. Mentre ai quattro angoli si vedono delle figure che soffiano nelle tube, essi sono i venti che stanno scatenando il finimondo sulla terra.

Più in basso invece alcuni Giganti vengono travolti dal precipitare della montagna, altri da impetuosi corsi d’acqua o alcuni sono addirittura abbattuti dal crollo di un edificio [9.1][9.2][9.3]. Tra le ampie portefinestre si distinguono: Plutone con il bidente, le Furie dal capo ricoperto di serpenti e il gigante Tifeo [10] che sputa fuoco. Poco più sotto tra le rocce emergono delle scimmie [11], la cui presenza deriverebbe però da un errore di traduzione del testo di Ovidio: i traduttori al posto di tradurre che i giganti sono nati dal sangue lessero simiae, ovvero le scimmie sono nate dal sangue dei giganti. Fu così che questo dettaglio insolito rimase destinato a catturare l’attenzione dell’osservatore in eterno.

Per quanto concerne l’interpretazione della rappresentazione, si potrebbe scorgere in Giove l’incontrastabile imperatore Carlo V, che si recò in visita a Mantova qualche tempo prima, e nei Giganti vinti i principi italiani ribellatisi al suo Impero. Ma alcuni elementi hanno un significato ambivalente: l'Olimpo, il fulmine e l'aquila oltre ad essere attributi di Giove identificano anche imprese gonzaghesche, pertanto Giove vincitore potrebbe anche essere metafora del potere imperiale in cui i Gonzaga identificarono la propria fortuna.

In questo modo il capolavoro della Gigantomachia si presenta a noi come un’occasione per comprendere come la minaccia del caos e della distruzione, che turba l’armonia e l’ordine del mondo, sia sempre parte integrante della nostra esistenza. Ma cos'è che garantisce veramente all'essere umano l’armonia con sé stesso e di conseguenza col mondo che abita? La risposta a questo interrogativo potrebbe essere la bellezza, quest’ultima è in grado di appagare l’animo attraverso i sensi e distoglierlo da vie distruttive. Come disse Guido Piovene, giornalista ed autore di “Viaggio in Italia”, riferendosi alle meraviglie del nostro paese: Vi è chi distrugge il bello per sentirsi meglio e per mettere il mondo in armonia con se medesimo; ognuno ritrova la pace della coscienza come può.

 

 

Bibliografia:

  • “Giulio Romano”, Art Dossier, a cura di L. Frommel, S. Ferino Pagden, K. Oberhuber, Giunti 1989
  • “Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti” di Giorgio Vasari, a cura di Luciano Bellosi e Aldo Rossi, Einaudi, Torino 1986
  • “Le Metamorfosi” Publio Ovidio Nasone, a cura di Mario Scaffidi Abbate, Newton Compton editori, 2011
  • “Viaggio in Italia”, Guido Piovene, Edizioni Bompiani, 2019

 

Sitografia:

 

Immagini:

http://www.arte.it/notizie/mantova/spaesamento-e-meraviglia-la-sala-dei-giganti-di-giulio-romano-17045

https://www.arteworld.it/analisi-iconografica-sala-dei-giganti-di-giulio-romano/


BERTINORO: “IL BALCONE DELLA ROMAGNA”

A cura di Jacopo Zamagni

Bertinoro: storia e origini

Fig. 1 - Panorama del borgo di Bertinoro.

Bertinoro è un borgo di origine medievale che sorge sulla cima del Monte Cesubeo, situato a metà tra le città di Cesena e Forlì. Grazie alla sua posizione panoramica, tra la pianura e le colline, Bertinoro è soprannominata “Il balcone della Romagna”.

Le origini di Bertinoro sono varie e discordi, a causa di errate ed arbitrarie interpretazioni basate su elementi insufficienti. Quello che si può definire con certezza è la presenza dell’uomo fin dall'età primitiva: ciò è stato dedotto da alcune serie di scavi effettuati nell'anno 1886, quando furono rinvenuti resti di uno scheletro insieme a vasi ridotti in frantumi, e negli anni 1902 e 1911. Grazie a queste scoperte si è potuto dedurre che Bertinoro fu abitata prima dai Liguri e poi dagli Etruschi, i quali furono poi cacciati via dai Romani nel 192 a.C. Giunti a Bertinoro, i Romani trovarono un terreno invivibile per l’uomo a causa della forte presenza di paludi, radure erbose e foreste, così bonificarono il terreno rendendolo il “giardino” che adesso tutti noi possiamo ammirare.

Poco dopo l’anno 1000 e con il cessare delle invasioni barbariche, Bertinoro divenne una contea, fu cinta da nuove mura e prese il nome di Castrum Britannorum (Castello dei Britanni), sembra come derivazione dai pellegrini della Britannia francese.

I conti bertinoresi appartenevano quasi tutti all'illustre famiglia degli Honesti di Ravenna. Successivamente l’imperatore Federico I di Svevia, dopo la sconfitta nella famosa battaglia di Legnano, scelse Bertinoro come sede e si fermò nella Rocca con la sua corte nell'anno 1177, per poi ripartire per la Germania.

Dopo essere stata contesa da varie Signorie, nel 1382 Bertinoro, per disposizione di papa Innocenzo VI, divenne Civitas e sede vescovile. Seguì un periodo turbolento, arrivarono i Malatesta, poi gli Ordelaffi, Cesare Borgia, e poi fu annessa definitivamente allo Stato della Chiesa alla caduta del Valentino.

Negli anni del XVIII secolo Bertinoro era abitata da circa tremila persone, era sede vescovile, di un seminario e di ben otto Ordini religiosi, oltre a numerose Confraternite. Seguì tutte le vicissitudini della Romagna durante il periodo napoleonico fino all'Unità d’Italia e poi fino ai giorni nostri.

Il centro storico è formato da uno borgo di origine medievale racchiuso all'interno di possenti mura, anche se purtroppo la maggior parte delle storiche porte di accesso sono state demolite nel secolo scorso per consentire un più facile accesso alle auto. Questa “sorte” è toccata a Bertinoro come purtroppo a tanti altri borghi italiani.

La Rocca

Fig. 2 - Rocca di Bertinoro.

La Rocca di Bertinoro sorge sulla cima del colle di Bertinoro. L’origine della Rocca si attesta intorno all'anno 1000 e fu considerata una delle opere difensive più temute, oltre che sicuro rifugio per i conti, da Federico Barbarossa, Novello Malatesta e Cesare Borgia.

Durante la Contea, la Rocca fu testimone della sua trasformazione dal suo umile inizio fino all'apogeo della potenza e della gloria, dopo di che la Rocca venne abbandonata dopo la caduta della Contea da parte dei Bulgari e dei Mainardi.

La fortezza contava quattro torri che sorgevano agli angoli. La torre maschia all'angolo nord-est, la torre all’angolo nord, munita di un ponte levatoio che dava accesso a un viadotto il quale portava alla sottostante porta del Soccorso. Particolare rilievo aveva la torre rivolta a sud, trasformata nell'ingresso principale alla Rocca, poiché qui si trovava un sistema difensivo di mura e di torrioni. Nel cortile interno della Rocca era collocato un vasto cisternone che raccoglieva le acque piovane, mentre le stanze intorno al cortile erano abitate dai soldati.

Nel 1496 un fulmine dimezzò la torre grande, che cadendo distrusse in parte il fabbricato interno e la cisterna. Dal 1584, anno del trasferimento della sede vescovile, la Rocca subì continue trasformazioni da parte dei vescovi che modellarono la fortezza secondo i loro gusti.

Dal 1985 la Rocca è centro per lo studio e la conservazione dell’arredo liturgico e del costume religioso, mentre dal 1994 il rivellino della Rocca e la sala nobile del castello ospitano il Centro Residenziale Universitario con servizi avanzati per attività formative, convegni, incontri di studio e ricerca per studiosi e professionisti di paesi di tutto il mondo.

La Cattedrale di Santa Caterina

La Cattedrale di Santa Caterina è situata nella piazza principale di Bertinoro. La sua costruzione fu voluta fortemente dal Vescovo di Bertinoro monsignor Gian Andrea Caligari, che finanziò i lavori di costruzione della Cattedrale con le proprie risorse finanziarie e con il sostegno della comunità bertinorese. La costruzione si concluse nel 1601 quando il vescovo pose una lapide a memoria dell’impresa. La cattedrale fu costruita accanto al Palazzo Comunale perché sembrava che dovesse crollare e quindi “la chiesa sarebbe apparsa in tutta la sua bellezza nella nuova e più ampia piazza”. Ancora oggi la facciata della Cattedrale risulta costruita a ridosso del Palazzo Comunale, dal quale la separa uno spazio di soli tre metri; in questo interstizio murario si trovano il portico e la scala ad unica rampa che dà accesso all'interno del tempio.

La pianta della Cattedrale è a pianta longitudinale, costituita da tre navate definite e ritmate da pilastri a sezione cruciforme alternati a colonne di ordine ionico. L’abside è illuminata da due grandi finestre rettangolari e una serie di dipinti ne decora il catino e le volte a crociera e a botte. Il pavimento della cattedrale è un mosaico alla veneziana, risalente all'Ottocento, disposto a formare delle stelle inscritte in circonferenza entro cornice quadrilatera.

Tra le opere d’arte collocate all'interno della Cattedrale si trova la spaziosa tela (550 X 300 cm.) in fondo all'abside raffigurante Le nozze mistiche di Santa Caterina del pittore forlivese Giuseppe Marchetti (1722-1801). Nell'altare del braccio sinistro del transetto si trova un grande Crocifisso ligneo a cui i devoti bertinoresi si affidano per ottenere grazia; si narra che un pellegrino giunto a Bertinoro recasse sottobraccio qualcosa di davvero prezioso. Fermatosi nei pressi di una casupola alla quale si appoggiava un albero di fico, il pellegrino avrebbe chiesto alla persona che viveva in quella casa di avere quell'albero di fico per intagliarlo, in cambio di una stanza vuota al piano terra della casa. Tre giorni dopo il proprietario della casa trovò, al posto dell’albero, il magnifico crocifisso che si può ammirare oggi.

Nella terza cappella di sinistra si trova il quadro di Francesco Longhi (1544-1618), la Madonna col Bambino e gli Apostoli Pietro e Paolo, mentre nella prima cappella di sinistra è presente un complesso d’altare con due statue in stucco e angeli dislocati alla sommità, ai lati del timpano.

Fig. 10 - Prima cappella di sinistra della Cattedrale.

Il Palazzo Comunale di Bertinoro

Fig. 11 - Veduta esterna del Palazzo Comunale.

Il Palazzo Comunale fu edificato nel 1306, fra l’Oratorio di Santa Caterina e la vecchia torre, su volere di Pino degli Ordelaffi in accordo con Alberguccio Mainardi. Le otto colonne del portico, di stile tra il bizantino e il romano, sembrano anteriori al 1300 e tutti i muri risultano interamente composti di materiale di residuo di altri fabbricati. L’edificio si alza di un solo piano su un fronte di 40 metri ed è poggiato su otto colonne dalle quali si staccano ampie arcate.

Fig. 12 - Colonnato del Palazzo Comunale.

Il lato rivolto a est costituiva l’abitazione del governatore ed era composto di quattro camere; questo lato fu quello che subì più modifiche a causa dei diversi usi a cui fu adibito. Il piano terra era occupato dal corpo di guardia e dal personale di servizio.

Fig. 13 - Interno del Colonnato del Palazzo Comunale.

Lo scalone d’ingresso conduce nella sala centrale denominata “del popolo”, dove i cittadini si riunivano per esprimere la loro volontà in occasione di grandi avvenimenti. Da qui si passa alla sala “dei quadri”, chiamata così perché qui si possono ammirare sei tele dipinte dal pittore forlivese Antonio Zambianchi nel XVIII secolo, che ritraggono avvenimenti di storia locale. Oltre a queste sale, si trovano la sala magna che era riservata al governatore e la sala “del fuoco” perché è l’unica che abbia conservato il vasto focolare.

Accanto al Palazzo Comunale si trova la torre del Comune, la quale serviva ai naviganti; si vuole preesistesse al palazzo e che sia stata dimezzata in altezza, inoltre sarebbe stata imposta una cella campanaria in stile barocco in stridente contrasto con lo stile artistico del complesso.

Fig. 14 - Torre del Comune

La Colonna dell’Ospitalità

Fig. 15 - Colonna dell’Ospitalità.

La Colonna dell’Ospitalità fu elevata il 5 Settembre 1926 sulle fondamenta antiche della Colonna degli anelli. La colonna sorse a metà del XIII secolo come simbolo di cortesia e di amore, per togliere motivi di dissensi e litigi tra le migliori famiglie bertinoresi.

Rimossa nel 1570 per far posto ad una fontana, nel 1922 si scoperse una nicchia dove era riposta la base di una colonna. Nel 1926 si identificò la base di quella colonna come le fondamenta della Colonna degli anelli e ciò accrebbe nella cittadinanza bertinorese il desiderio di veder risorgere l’antico monumento, il quale fu esaudito il 5 settembre 1926.

Sul lato nord-est della colonna è collocato il motto “omnibus una” che l’Accademia letteraria dei Benigni aveva scritto sulla sua insegna riproducente la Colonna. Sul lato nord-ovest si trova la scritta “Hic constitit viator” che significa “qui si fermò il viandante”, mentre nel lato sud è rievocata la data d’inaugurazione.

Colle di Monte Maggio (Ex Cappuccini)

Fig. 18 - Monte Maggio.

Monte Maggio dista poco più di un chilometro da Bertinoro e la sovrasta raggiungendo l’altezza di 328 metri s.l.m. Sul finire dell’anno 1000, sulla cima del monte, sorgeva un castello che fu poi fatto demolire dal Conte Ugo degli Honesti. Nel 1297 Galasso di Montefeltro, per vendicare l’affronto fatto ai ghibellini da Alberguccio Mainardi, assediò Bertinoro e, per facilitarne la resa, fece costruire la bastia di Monte Maggio che fu poi distrutta.

Nel 1393 la bastia fu ricostruita dagli Ordelaffi per tentare di riconquistare Bertinoro, tentativo che fallì per il tempestivo intervento di Galeotto Malatesta.

Nel 1539 i frati Francescani si trasferirono dal loro convento di Piazza Cavour al Monte Maggio e così prese il nome di Monte dei Cappuccini; sulle fondamenta della bastia, i frati edificarono un convento e lo recinsero di bellissime mura. Nel 1597 la chiesa fu consacrata dal Vescovo Caligari.

Il convento possedeva una ricca biblioteca, perciò il convento fu scelto dall’Accademia dei Benigni per le manifestazioni letterarie. I Cappuccini praticavano l’ospitalità e spesso i poveri salivano al convento per essere ristorati.

Nel 1867 il convento e il terreno furono incamerati dallo stato che ne fecero dono al Comune di Bertinoro. I frati se ne andarono e lasciarono gran parte dei loro libri pregiati alla biblioteca comunale.

Dopo essere stato utilizzato come luogo ricreativo, oggi quel che rimane dell’ex convento, ancora di proprietà del Comune, giace in stato di abbandono.

 

 

BIbliografia

LUIGI GATTI, Bertinoro, notizie storiche, a cura dell’Accademia dei Benigni, Bertinoro 1979.

STEFANIA MAZZOTTI, Storia di Bertinoro, testi di M. Graziella Bazzocchi, Laura Bezzi, Anna Fabbri, Anna Maria Leoni, Kira Zama, Elisabeth Zezza, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena 1998.

GIORDANO VIROLI, Chiese ville e palazzi forlivesi, Cassa dei Risparmi di Forlì S.p.A., Nuova Alfa Editoriale, Forlì 1999, pp. 39-46.

Viaggio attraverso le regioni italiane: Romagna, Le guide di 888.it, Fininternet S.p.A., 2002, pp. 134-135.


LA CHIESA DI SAN ROCCO A CANEVE DI ARCO

A cura di Beatrice Rosa

A pochi chilometri dalla cittadina di Arco di Trento, nella frazione di Caneve, vi è la chiesa di San Rocco (fig. 1), un edificio liturgico molto piccolo che nasconde però un grande tesoro: quando vi si entra, non si può infatti che rimanere estasiati dalla bellezza e ricchezza degli affreschi e delle pale d’altare che lo decorano.

Fig. 1 - Chiesa di San Rocco di Caneve.

L’edificazione della chiesa risale al XV secolo, in occasione del matrimonio tra Odorico d’Arco e Susanna Collalto avvenuto nel 1480; ipotesi confermata dalla presenza delle sigle e stemmi dei due nobili affrescati nell’arco santo (fig. 2). Dalle fonti si evince come i Conti d’Arco fossero particolarmente affezionati a questa chiesa, probabilmente per la presenza di un palazzo dei conti proprio nella frazione arcense. Degno di nota il fatto che l’edificio non sia citato nell'elenco delle chiese del luogo per decenni, probabilmente perché fino al 1537, anno della prima visita pastorale, aveva la funzione di cappella privata[i].

Fig. 2 – Stemma di Odorico e Susanna.

L’accesso alla chiesa è favorito da due ingressi: quello principale a sud e quello secondario ad est. Come già anticipato, è un edificio di piccole dimensioni con l’aula rettangolare  larga 9 m, lunga 6 m e alta 7 m e l’abside a pianta quadrata con lato lungo 5 m e alta 4 m[ii]

La decorazione interna

La peculiarità della chiesa di San Rocco è la decorazione ad affresco su tutte le pareti, sia la parte del presbiterio che della navata, frutto essenzialmente di due campagne decorative: una di fine Quattrocento e l’altra di metà Cinquecento.

Gli affreschi del presbiterio

La prima campagna lavorativa, coeva con la costruzione dell’edificio di fine Quattrocento, riguardava gli affreschi del presbiterio, molto probabilmente ad opera del pittore rivano Gaspare Rotaldo[iii]. Accedendovi, non si può non notare la raffigurazione sulla parete di fondo di S. Antonio Abate e S. Agostino affiancati dai parzialmente visibili S. Sebastiano e S. Rocco (fig. 3). Gli affreschi sono molto rovinati perché, sicuramente dopo il 1519, è stata presa la decisione di dotare la chiesa di un vero altare e di una sacrestia, il che ha portato all'introduzione di una nicchia nella parete di fondo per contenere l’altare ligneo con il gruppo scultoreo della Madonna con i santi Rocco e Sebastiano e sulla parete di sinistra l’introduzione della porta per la sacrestia. Attualmente nell'altare ligneo c’è una Madonna con Bambino in marmo, in quanto sfortunatamente le tre sculture lignee sono state rubate nel 1987[iv].

Fig. 3 – Parete di fondo.

I quattro santi citati precedentemente sono inseriti in un paesaggio esteso sulle pareti laterali, un’immagine familiare se si visita la chiesa di San Rocco dopo essere stati nella cittadina di Arco: nell'angolo tra la parete sinistra e quella di fondo è infatti rappresentato il borgo di Arco e sotto il fiume Sarca[v].

La parete più interessante del presbiterio è sicuramente quella di sinistra, dove è raffigurato un personaggio ben abbigliato sdraiato sullo stipite dell’ingresso alla sacrestia (fig. 4). Questo giovanotto non è un semplice pellegrino, ma è San Rocco: sdraiato con la testa appoggiata al braccio destro, lo sguardo languido rivolto verso di noi, come se non si stesse accorgendo dell’arrivo del cane che gli sta portando una pagnotta. Il santo è raffigurato con tutti i suoi attributi più comuni: l’abbigliamento e il bastone da pellegrino, la piaga sulla gamba destra indicata da lui con la mano sinistra e appunto, il fedele amico. Sulla stessa parete, si vede sbucare anche un altro personaggio, un ragazzo biondo, dal naso prominente e le labbra carnose che sembra salutarci con la mano destra. Si è molto discusso sull'identificazione di questo giovane, con la conclusione che si tratti dello stesso Odorico d’Arco in atteggiamento di saluto alla moglie, la cui effige era con tutta probabilità raffigurata sulla parete opposta, lato del presbiterio sfortunatamente molto rovinato e manomesso[vi].

Fig. 4 – San Rocco.

Se si alza lo sguardo verso la volta a crociera, si noterà la rappresentazione dei quattro evangelisti in tondi, attorniati da dei simpaticissimi putti festosi occupati in svariate attività (fig. 5). La presenza di questi bambini alati è un meraviglioso esempio di convivenza di iconografia sacra e profana in un edificio liturgico[vii].

Fig. 5 - Putti.

Gli affreschi dell’aula

Molto diversi sono invece gli affreschi caratterizzanti l’aula, frutto di una campagna decorativa di metà XVI secolo attribuita a Dioniso Bonmartini e aiuti. Dioniso Bonmartini era un pittore di Arco, che già nel 1537 aveva firmato gli affreschi del sottogronda del Palazzo del Termine. Tramite questa testimonianza e lo stile peculiare del pittore, riconoscibile per i tratti fisionomici caratterizzati, la varietà di atteggiamenti e movenze e l’attenzione particolare alla gestualità delle mani, è stato possibile attribuirgli il ciclo pittorico di Caneve[viii].

La volta a crociera è decorata, come nell'abside, con quattro medaglioni che iscrivono le figure degli Evangelisti con i loro attributi, essi sono poi circondati da un motivo a grottesche caratterizzato da fiori e rami che si tramutano poi in vasi e in uccelli (fig. 6)[ix].

Fig. 6 – Volta sopra l’aula.

Gli affreschi parietali hanno come soggetto la Passione di Cristo. Il racconto va letto partendo dalla parete di destra dove è raffigurato l’ingresso di Gesù a Gerusalemme: vediamo Cristo in groppa a un asino, accompagnato da vari personaggi tra cui S. Pietro, riconoscibile dalle chiavi nella mano destra e dalla tunica blu e il mantello giallo. A destra di questo episodio, c’è la scena successiva raffigurante l’Ultima Cena, più precisamente il momento in cui Gesù disse: “In verità io vi dico, uno di voi mi tradirà” (fig. 7). La narrazione prosegue sulla parete di fondo con la scena della lavanda dei piedi sulla sinistra e Cristo nell'orto del Getsemani sulla destra, episodi sfortunatamente molto rovinati a causa dell’apertura della finestra in facciata[x].

Fig. 7 – Parete di destra.

Dalla parete di fondo ci si rivolge poi alla quella di sinistra dov'è presente la vicenda della cattura di Cristo (fig. 8): Gesù è nell'atto di rimproverare S. Pietro che ha reciso con la spada l’orecchio destro ad uno dei convenuti. A destra, sul medesimo registro, si scorge un gruppo di soldati romani che scortano Gesù verso Anna, suocero di Caifa, per il giudizio preliminare.

Fig. 8 – Parete di sinistra.

Il racconto riprende poi nel registro inferiore della parete di destra (fig. 7): nel primo episodio vediamo Caifa in trono, vestito sontuosamente mentre discute con uno dei tanti sacerdoti al suo fianco; sta aspettando Gesù che arriva da sinistra scortato dai soldati romani, con lo sguardo affranto rivolto verso il basso. I soldati ritornano anche nella scena seguente sulla destra, in questo caso stanno conducendo Cristo davanti a Pilato. Il pittore sceglie di illustrare in questa parte di parete un episodio narrato dall'evangelista Matteo, cioè il momento in cui Pilato si fa portare da due inservienti dell’acqua e un catino che utilizza per lavarsi le mani. La narrazione prosegue poi sulla parete di fondo dove si possono ammirare due episodi commoventi della Passione: sulla sinistra la flagellazione con Cristo alla colonna, sulla destra l’incoronazione di spine[xi].

A differenza degli affreschi visti finora, gli episodi nel registro inferiore sulla parete sinistra, gli ultimi due prima della crocifissione, sono molto rovinati ma ancora perfettamente leggibili: sulla sinistra è raffigurato Cristo davanti ad Erode e a destra l’affollata salita al Calvario (fig. 8)[xii].

La narrazione si conclude poi sopra l’arco santo con la straordinaria Crocifissione (fig. 9), episodio che occupa lo spazio che nelle altre pareti sarebbe stato investito per rappresentare due scene. Al centro vediamo Cristo crocifisso, con il corpo candido, la testa reclinata verso il basso in un atteggiamento di rassegnata accettazione. Al suo fianco i due ladroni in croce, con il corpo più rosaceo, in pose contorte e divincolate, probabilmente a causa del dolore che rende anche i loro volti quasi grotteschi. Ai piedi della croce si notano Maria Maddalena e S. Giovanni Evangelista con gli occhi rivolti verso l’alto; un dettaglio meraviglioso è quello in primo piano con le quattro donne che reggono la Vergine svenuta dal dolore nel vedere il figlio crocifisso[xiii].

Fig. 9 – La crocifissione.

Oltre al ciclo della Passione, è degno di nota anche l’affresco alla destra della porta laterale (fig. 10). Esso raffigura una mensa d’altare sulla quale, tra i candelabri, è presente un ostensorio in oro al cui interno si può scorgere l’eucarestia con il Cristo crocifisso, il tutto coperto da un leggerissimo velo trasparente[xiv]. Tra le due colonne sullo sfondo, è compresa la pala d’altare: essa ha come soggetto due santi, di cui noi oggi vediamo solo dal busto fino ai piedi, nonostante ciò, sono perfettamente riconoscibili come S. Sebastiano sulla sinistra e S. Bernardino sulla destra. Inginocchiati davanti all'altare riconosciamo S. Rocco, indicante con la mano destra la piaga sulla gamba, e S. Girolamo in vesti di eremita in preghiera, come i tre giovinetti al centro della composizione. Questo affresco non presenta discontinuità nella stesura dell’intonaco, il che fa pensare, considerate anche le molte analogie stilistiche, che sia stato realizzato dalla stessa mano degli affreschi della Passione di Cristo[xv].

Fig. 10 – Mensa d’altare.

Osservando le pareti dell’aula, si potrebbe rimanere invece perplessi nel vedere degli affreschi molto diversi rispetto a quelli descritti finora. Gli affreschi “anomali” sono essenzialmente tre: raffiguranti la Resurrezione di Cristo (fig. 11), le pie donne al sepolcro (fig. 12) e l’Assunzione in cielo di Maria (fig. 13). Essi sono atipici sia dal punto di vista stilistico che dal punto iconografico: basti pensare all'Assunzione della Vergine, un episodio alquanto slegato dal contesto della Passione in quanto non sono presentati altri fatti quali, per esempio, la Pentecoste[xvi].

Con tutta probabilità la narrazione comincia con la Resurrezione, un affresco molto rovinato e poco leggibile in cui si vede ancora Cristo che risorge con in mano il vessillo crociato, la sagoma del sarcofago e di un soldato. Contrariamente a quello appena citato, l’affresco della Pie donne al sepolcro verte in un ottimo stato conservativo che permette di leggerne tutti i dettagli: in primo piano si vede il sepolcro scoperchiato e l’angelo che lo indica. Alla scena assistono ben undici figure femminili, la più visibile e facilmente identificabile è Maria Maddalena, con il vasetto degli unguenti in mano e il canonico abito rosso. Questa scena è particolarmente interessante anche perché è “un episodio nell'episodio”, infatti con un po’ di attenzione, si può notare in basso a sinistra Gesù, nelle vesti di ortolano, che appare alla Maddalena. La coesione di due scene in una, è un fatto inusuale nella chiesa di San Rocco, come anche peculiare è lo stile utilizzato che fa pensare a una mano diversa rispetto a quella di Dioniso Bonmartini e aiuti. Sulla parete opposta è invece presente l’Assunzione della Vergine, il più rovinato degli affreschi dove si può solamente scorgere la figura sbiadita di Maria[xvii].

Gli altari laterali

Oltre ai meravigliosi affreschi, la chiesa di San Rocco è di grande importanza per le due pale d’altare che decorano gli altari ai lati del presbiterio di cui però vi parlerò in un’altra occasione![xviii] (fig. 14-15)

 

BIBLIOGRAFIA

Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994.

Il paesetto di Caneve d'Arco e la sua chiesina di San Rocco, a cura di F. Zendron, Trento 1964.

Podetti, Gli affreschi cinquecenteschi del Palazzo del Termine ad Arco, in “Sommolago”, XXV, 2008, 3, pp. 5-114.

 

CREDITI FOTOGRAFICI

  1. https://www.gardatourism.it/chiesa-di-san-rocco/
  2. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  3. https://www.tripadvisor.it/Attraction_Review-g670770-d11963970-Reviews-Chiesa_di_San_Rocco-Arco_Province_of_Trento_Trentino_Alto_Adige.html
  4. https://elenaedorlando.wordpress.com/2013/10/20/passeggiate-domenicali/
  5. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  6. https://www.tripadvisor.it/Attraction_Review-g670770-d11963970-Reviews-Chiesa_di_San_Rocco-Arco_Province_of_Trento_Trentino_Alto_Adige.html
  7. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  8. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  9. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  10. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  11. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  12. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  13. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  14. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  15. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994

 

Note

[i] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 246.

[ii] Il paesetto di Caneve d’Arco e la sua chiesina di S. Rocco 1964, pp. 11-12.

[iii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 36-43.

[iv] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 55-56.

[v] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 44-53.

[vi] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 44-53.

[vii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 36-43.

[viii] E. Podetti, Gli affreschi cinquecenteschi del Palazzo del Termine ad Arco, in “Sommolago”, XXV, 2008, 3, pp. 21-29.

[ix] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[x] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[xi] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[xii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[xiii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[xiv] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 91-98.

[xv] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 91-98.

[xvi] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 91-98.

[xvii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 91-98.

[xviii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 57-63.


LA CAPPELLA SANSEVERO DI NAPOLI

A cura di Ornella Amato

BAROCCO, ESOTERISMO, ALCHIMIA, ESALTAZIONE DINASTICA

La cappella è glaciale.

Pavimento di marmo, marmo alle pareti,

tombe di marmo, statue di marmo”.

E ancora:

 “Non ornamenti di oro, non candelabri, non lampade votive, non fiori,

 tutto vi è gelido, tranquillo, sepolcrale“ - Matilde Serao

Napoli - Decumano Inferiore -  Via Francesco de Sanctis 19/21:una segnalazione stradale turistica indica che si è giunti alla “Cappella Sansevero di Raimondo di Sangro”.

Il committente e l'origine della cappella Sansevero

Raimondo di Sangro, ottavo duca di Torremaggiore, settimo principe dei Sansevero, committente, mecenate generoso ma estremamente esigente, intellettuale, alchimista, esoterico, Gran Maestro massone, uomo carismatico per eccellenza, inventore, progettista,  gentiluomo di camera al servizio di Sua Maestà il Re Carlo di Borbone, Cavaliere dell’Ordine di San Gennaro.

La Cappella oggi è un museo privato tra i più noti e visitati della città di Napoli  (nel 2019 le presenze sono state ben 750.000), ma soprattutto è un tempio carico di simbologia. Eppure l’origine stessa della Cappella ha la dolcezza della chiesetta gentilizia che fu edificata  per voto e  successivamente per accogliere le tombe di famiglia. I lavori edili per la costruzione della chiesa  iniziarono nel 1593: si narra  che un uomo innocente, incatenato e trascinato lungo San Domenico Maggiore, vide crollare una parte del muro di cinta del giardino dei Di Sangro e lì vi vide apparire un’immagine della Madonna, alla quale fece voto di donarle una lampada d’argento e un’iscrizione qualora fosse stato scarcerato e dimostrata la sua innocenza e così fu: l’uomo tenne fede al voto fatto.

Molte altre grazie furono elargite dall'immagine sacra e ne fu testimone anche il Duca di Torremaggiore Giovan Francesco di Sangro che, gravemente ammalato, fu miracolato dalla Madonna, dalla quale ottenne la totale guarigione: per gratitudine fece innalzare  la cappella  proprio dove era apparsa la Vergine e fu denominata “Santa Maria della Pietà” o “Pietatella”, ma successivamente, suo figlio Alessandro di Sansevero, Patriarca di Alessandria e Arcivescovo di Benevento, decise di ampliare la preesistente e piccola costruzione, per renderla degna di accogliere le spoglie di tutti componenti della famiglia di Sangro, come testimoniato dalla lapide marmorea datata 1613 posta sopra l'ingresso principale dell'edificio:

“ALEXANDER DE SANGRO PATRIARCHA ALEXANDIAE TEMPLVM HOC A FUNDAMENTIS EXTRVCTVM BEATAE VIRGINI SIBI AC SVIS SEPOLCRUM ANNO DOMINI MDCXIII “

Ovvero:

“ALESSANDRO DI SANGRO PATRIARCA DI ALESSANDRIA DESTINO’ QUESTO TEMPIO, INNALZATO DALLE FONDAMENTA ALLA BEATA VERGINE, A SEPOLCRO PER SE E PER I SUOI NELL'ANNO DEL SIGNORE 1613”.

Della fase Seicentesca della Cappella non resta quasi nulla, poiché il suo assetto attuale e le opere presenti sono il frutto dei lavori che volle realizzare Raimondo di Sangro.

Raimondo di Sangro nacque il 30 Gennaio 1710 a Torremaggiore in Puglia da Cecilia Gaetani dell’Aquila di Aragona e da Antonio di Sangro, duca di Torremaggiore. A causa della prematura scomparsa della madre e degli impegni del padre, fu ben presto trasferito dalla Puglia a Napoli nel palazzo di famiglia in largo San Domenico Maggiore, dove poi si stabilirà definitivamente nel 1737 a seguito della morte del padre.

La cappella Sansevero: descrizione interna

Il principe diede ben presto prova del suo intelletto e delle sue invenzioni, per le quali suscitò anche l’ammirazione degli ingegneri dello Zar di Russia Pietro il Grande, fu insignito delle cariche più elevate del regno di Napoli guidato da Carlo di Borbone, ma soprattutto, ampliò e arricchì la “Cappella di famiglia” che, a grandi linee, mantenne la struttura seicentesca con un’unica navata a pianta longitudinale e quattro archi a tutto sesto, al di sopra dei quali corre un cornicione, costruito con un mastice di invenzione del Principe, ed una volta a botte interrotta da sei finestre che illuminano l’intera Cappella ed una finta cupoletta all'altezza dell’abside, opera di Francesco Maria Russo di cui è certa la paternità anche della volta.

Francesco M. Russo - dettaglio dell’affresco dell’abside - copyright museosansevero.it.

La volta della Cappella è stata infatti firmata da Francesco Maria Russo e datata dallo stesso al 1749 ed è un affresco noto come la “Gloria del Paradiso” o “Paradiso dei di Sangro” . E’ caratterizzato da squarci di angeli e figura varie che tendono a convergere verso il centro dove esplode la luce della colomba dello Spirito Santo.

Francesco M. Russo, 1749 - Affresco della Volta - Gloria del Paradiso - copyright museosansevero.it.

Lungo il perimetro si trovano le finestre che rischiarano l’affresco e sono intervallate dai medaglioni nei quali sono raffigurati i Santi del Casato.

La pavimentazione settecentesca della cappella è estremamente complessa: anch'essa inventata dal Principe, presentava un motivo labirintico (da qui la denominazione corrente di “pavimento labirintico”) che è andato quasi completamente perduto nella notte tra il 22 ed il 23 settembre 1889, quando un’infiltrazione d’acqua provocò il crollo del ponte che collegava la Cappella al Palazzo stesso dei Sansevero.

I restauratori chiamati al ripristino della pavimentazione originale non riuscirono a risolvere e, nel 1901, si videro costretti a sostituire il preesistente pavimento con uno in cotto napoletano, realizzando al centro lo Stemma dei di Sangro in smalto giallo ed oro, riprendendo i colori della casata.

Del pavimento labirintico originale è possibile vederne i resti  nel passetto antistante la tomba di Raimondo. Il pavimento labirintico, probabilmente, doveva rappresentare le  difficoltà che s’incontrano sul cammino della conoscenza e di certo era parte integrante del “percorso” che all'interno della Cappella si snoda attraverso le statue presenti, che seguono un progetto iconografico voluto proprio da Raimondo di Sangro, di cui elementi fondamentali sono le 10 Virtù, di cui 9 di esse sono dedicate alle mogli degli esponenti della famiglia di Sangro e addossate a 9 pilastri, mentre la decima, il Disinganno, è dedicata al padre.

I monumenti funebri del casato, alla cui accoglienza la Cappella era da sempre destinata,  si trovano invece all'interno delle cappelle laterali e tra le statue delle Virtù, nelle quali è anche possibile notare una serie di significati allegorici riferiti al mondo della massoneria, a cui il principe apparteneva in qualità di Gran Maestro.

Di tutte le sculture presenti, di certo  la “triade d’eccellenza “ è rappresentata dal “Cristo Velato” che troneggia al centro della navata della Cappella,  dalla “Pudicizia” alla sua  sinistra e il “Disinganno” alla sua destra, tutte e tre che precedono l’Altare maggiore con l'altorilievo marmoreo della “Deposizione” di Francesco Celebrano.

L'opera raffigura l'episodio della Deposizione di Cristo dalla croce e, tra le figure, spiccano Maria e la Maddalena che assistono alla scena mentre sotto di loro si trovano due putti che sorreggono il sudario sul quale risalta un'immagine metallica del volto di Cristo.

Al di sotto del piano dell'altare altri due putti scoperchiano una bara, ormai vuota. La composizione dell'altare è completata lateralmente da due angeli in stile barocco realizzati da Paolo Persico, autore anche della cornice di angeli in stucco che circonda il dipinto della Pietà.

La datazione e l'autore del dipinto sono ignoti: probabilmente fu realizzata da un manierista napoletano prima del 1590 poiché a quella data risale infatti la prima testimonianza della sua esistenza, con il miracolo della sua apparizione all'uomo erroneamente arrestato ed alla cui storia è legata poi l’origine della cappella, sicché si tratta di un quadro a cui si è legati soprattutto per il significato intrinseco che esso stesso ha, piuttosto che per la qualità artistica.

Il Cristo velato: il capolavoro centrale della cappella Sansevero

Il Cristo Velato di Giuseppe Sammartino, datato 1753, è tra le opere più studiate, più controverse della storia dell’arte.

Il corpo esanime del Cristo è disteso su di un materasso marmoreo che diventa il giaciglio non  solo  del corpo senza vita del Redentore ma anche delle sofferenze patite nelle ore della Passione, e soprattutto di tutte le sofferenze dell’umanità intera, che  Cristo ha salvato, nel momento in cui ha esalato l’ultimo respiro; il peso del corpo morto è delicatamente ricoperto dal velo.

Il velo, appunto, discusso e controverso. La diceria più famosa afferma che il velo fosse in origine in vero tessuto  che sia stato trasformato il marmo attraverso un misterioso processo alchemico, con speciali prodotti, la cui formula sarebbe tutt'oggi segreta, un velo che conferisce leggerezza, una leggerezza che, in concreto, non ha.

E’ poggiato su un basamento su cui poggia un primo velo marmoreo su sui risalta il merletto lungo tutto il perimetro e sul quale, ai piedi del Cristo, sono poggiati la corona di spine e le tenaglie con le quali erano stati tolti i chiodi. Il capolavoro del Sammartino ha alimentato anche diverse dicerie, non solo legate al modo di realizzazione, ma si racconta che il Principe, dopo la realizzazione dell’opera, accecò il Sammartino per evitare che potesse realizzare opere di valore pari o addirittura superiori.

La sua imponente maestosità è tutta nelle parole di Antonio Canova quando, dopo averla vista, dichiarò che “…avrebbe rinunciato a ben 10 anni di vita, per averla tutta per sé…”.

In un primo momento pare che la statua fosse destinata ad essere collocata nella cavea sotterranea  e sarebbe dovuto essere illuminato da una lampada di luce perpetua, ma l’imponente peso ne rese impossibile lo spostamento, sta di fatto che non sempre è stata al centro della navata, poiché, come dimostra uno scatto ottocentesco del fotografo tedesco Giorgio Sommer, era posta ai piedi della statua della Pudicizia.

G. Sommer – interno della Cappella Sansevero - copyright Wikipedia.

Le statue laterali

Alla sinistra del Cristo Velato, maestosa, s’innalza la statua della Pudicizia, dedicata alla madre del Principe Raimondo di Sangro, una delle dieci Virtù rappresentate.

La Pudicizia – copyright Wikipedia.

E’ considerata il capolavoro di Antonio Corradini e raffigura un nudo di donna ricoperto da un velo trasparente, il cui straordinario virtuosismo tecnico inaugura il genere delle “statue velate”; è datata 1752. La scultura raffigura una donna completamente coperta da un velo semitrasparente, cinta in vita da una ghirlanda di rose che le scende lungo il fianco destro, sfiorato dalla mano e, nella parte alta, il velo avvolge il capo lasciando intravedere le forme e i tratti del viso.

La Pudicizia – dettaglio – copyright museosansevero on Twitter.

La composizione è carica di significati: la lapide spezzata sulla quale la figura appoggia il braccio sinistro, come  - stando a diverse letture fatte da più critici – se fosse avvenuta una scossa di terremoto, magistralmente realizzata dallo scultore, lo sguardo come perso nel vuoto e l'albero della vita che nasce dal marmo ai piedi della statua simboleggiano la morte prematura della principessa Cecilia.

Di fronte ad essa, invece, si eleva la statua del Disinganno, realizzata da Francesco Queirolo.

Il Disinganno – copyright Wikipedia.

E’ un corpo di uomo avvolto in una rete. Ma è semplicemente così? O forse è molto di più?

Il Disinganno – dettaglio - copyright museosansevero on Twitter.

La scultura è opera del Queirolo è dedicata ad Antonio di Sangro, padre del principe Raimondo e raffigura sì un uomo che si libera da una rete, ma nella lettura più accettata vuole simboleggiare il peccato da cui era oppresso: in seguito alla morte della giovane moglie, il duca iniziò a condurre una vita disordinata e dedita ai vizi e ai viaggi, mentre il giovane Raimondo era stato affidato al nonno.

Ormai anziano, Antonio di Sangro tornò però a Napoli e, pentito dei peccati commessi, abbracciò la fede e si dedicò a una vita sacerdotale.

L’opera è di una straordinarietà disarmante. I nodi della corda con cui è fatta la rete, gli stessi nodi che la reggono, le dita delle mani infilate all'interno dei vuoti tra un nodo e l’altro rendono il tutto di un realismo stupefacente. Si dice che nessun aiutante dello scultore avesse il coraggio di dare le ultime rifiniture ai nodi della rete per paura di romperli.

La cappella Sansevero, però, è soprattutto il luogo in cui  si trovano le tombe degli esponenti del casato e, ovviamente, tra di esse, si trova  anche la tomba di Raimondo di Sangro, eretta quando lo stesso committente era ancora in vita e realizzata da Francesco Maria Russo nel 1759.

Tomba di Raimondo di Sangro – copyright museosansevero.it.

L’aspetto è semplice e sobrio, è composta da una  grande lapide in marmo rosa sulla quale è scritto l’elogio funebre del Principe: le lettere bianche che lo compongono non sono incise, ma sarebbero state realizzate con un composto di solventi chimici di invenzione del Principe che, probabilmente, dovevano risaltare sul fondo rosa.

Sovrasta l’elogio un ritratto in età avanzata dello stesso di Sangro, raffigurato con indosso una corazza e all'interno di una cornice di marmo, mentre il tutto è sormontato da un grande arco decorato con armi, libri, strumenti scientifici, emblemi commemorativi e militari che celebrano le glorie del Principe.

Interessante è poi la presenza dell’Altare di Santa Rosalia, che sebbene la tradizione la voglia patrona della città di Palermo per aver  salvato la città dalla peste, è “presente” nella Cappella di famiglia, in quanto apparteneva proprio alla nobile famiglia dei di Sangro, poiché figlia di Sinibaldo, conte dei Marsi e di Sangro.

Sotto la cappella Sansevero si trova la Cavea sotterranea dove sono conservati, all'interno di due teche, la cosiddette “Macchine Anatomiche”, ovvero gli scheletri di un uomo e di una donna in posizione eretta con il sistema arteo-venoso perfettamente integro.

Macchine anatomiche - cavea sotterranea copyright Wikipedia.

Per quel che concerne tali strutture, molto si è detto e ancora si dirà e si scriverà, poiché leggende, studi ed oscurità ruotano intorno a questi due scheletri.

La storia ufficiale racconta che sono state realizzate dal medico palermitano Giuseppe Salerno e sarebbero state acquistate nel 1756 dal Principe a seguito di una esibizione pubblica dello scheletro maschile che l’anatomopatologo palermitano tenne e Napoli e, a seguito di questo acquisto, gli fu commissionato la realizzazione di quello femminile e lo scopo era legato a studi di anatomia e per questo era stato riprodotto un sistema arto venoso con diversi materiali, in particolare la cera d’api colorata.

Sta di fatto che leggende popolari giunte fino a noi raccontano – e lo stesso Benedetto Croce riferisce di tali credenze popolari – che non si tratti di “macchine anatomiche ” ma di veri e propri corpi di essere umani, in particolari di due servi del Principe che il di Sangro “fece uccidere e imbalsamarne stranamente i corpi in modo che mostrassero nel loro interno tutti i visceri, le arterie, le vene”; si racconta addirittura che i due poveri sventurati, ancora in vita abbiano subito un’iniezione contenente particolari antidoti che avrebbero indurito i vasi capillari, il ché avrebbe anche consentito lo studio anatomico su scheletri veri. A conferma di tale teoria, sarebbe il segno profondo di una corda su uno dei due scheletri, quasi a voler bloccare un uomo in fuga da morte certa.

La storia delle “macchine anatomiche” non fa altro che aggiungere altro mistero ad un luogo già di per sé particolare, che attira sempre più turisti e visitatori, tanto da raggiungerne la quota dei 750.000 , divenendo il museo più visitato di Napoli.

L’ultima parte della cappella Sansevero, posta alla fine dell’intero percorso espositivo, è la Sagrestia, oggi bookshop del museo.

Ad essa si accede attraverso un passaggio, posto accanto alla nicchia all'interno della quale è collocata la tomba dello stesso Raimondo.

Completamente  rinnovato nel 2017, con arredi ultramoderni e dal layout funzionale, ma ispirati all'originale pavimento labirintico di cui in essa sono conservate grandi lastre di marmo.

Sagrestia – copyright museosansevero.it.

Ospita non solo due monumenti funebri anch'essi dedicati a membri della famiglia, ma espone nelle vetrine strumenti di laboratorio probabilmente appartenuti allo stesso principe, oltre che conservare grandi lastre di marmo dell’originario pavimento labirintico.

Dal 2005 conserva la “Madonna col Bambino “ che fu commissionata dal di Sangro per farne dono a Re Carlo di Borbone.

Madonna col Bambino – copyright Wikipedia.

Nella Sagrestia è in fase di collocazione il Ritratto di Raimondo di Sangro principe di Sansevero del pittore napoletano Francesco De Mura, che recentemente è entrato a far parte della collezione permanente delle opere esposte nel museo e che è stato presentato al pubblico ed alla stampa il 28 Gennaio 2020, in concomitanza del compleanno del principe che ricorre il 30 Gennaio.

F. De Mura “Ritratto di Raimondo di Sansevero”
Copyright museosansevero on Instagram.

L'opera, acquisita nel settembre 2019 dall'istituzione museale, proviene dal mercato antiquario madrileno, è databile intorno all'anno 1750, è stato acquistato dal museo Sansevero dalla Galleria Porcini di Napoli.

La nostra “visita” alla Cappella Sansevero, che era nata ed era stata concepita anzitutto come “cappella di famiglia”, e che oggi è un polo museale noto all'intero mondo dell’arte per essere divenuta  lo scrigno di inestimabili capolavori, finisce qui.

Uscendo fuori dalla Cappella, volgendo lo sguardo al cielo – direbbe Dante – “per riveder le stelle” ci si sente arricchiti dentro, ma delle domande restano :

“Chi era realmente Raimondo di Sangro?”

“La mano dell’uomo, dell’artista che magistralmente muove e guida lo scalpellino, come ha potuto realizzare tutto ciò?”

“La mano dell’artista e quella dello scultore sono realmente guidate da Dio?”

Ai posteri l’ardua sentenza.

 

Sitografia:

museosansevero.it

ilmattino.it

repubblica.it

repubblica.napoli.it

napolimagazine.com

napolike.it

wikipedia.it

10cose.it

Vesuviolive.it

 

Social Network di riferimento:

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museosansevero on Instagram

 

Bibliografia:

F. Negri Arnoldi “Storia dell’Arte Vol. III” Fabbri Editori – Milano 1997


I RESTAURI ALLA LOGGIA DI PSICHE

A cura di Federica Comito

Introduzione

Gli affreschi di Amore e Psiche che oggi vediamo sono il risultato di una serie di restauri avvenuti nel tempo, che hanno modificato l’originale causando delle perdite irreparabili. In un percorso a ritroso analizzeremo tutto il percorso dell’opera, dalla sua ideazione a oggi, individuando eventuali interventi e manomissioni grazie allo studio dei materiali. Nel 1990 l’Istituto Centrale per il Restauro coordinato da R. Varoli Piazza procede al controllo degli affreschi della Loggia. Dopo aver indagato le problematiche strutturali, si è posta particolare attenzione ai restauri alla loggia di Psiche di Giovan Pietro Bellori e Carlo Maratti del 1693-94, eccezionali per l’innovazione concettuale e per la tecnica di intervento. È in questo momento storico che ci si pose il problema di quanto fosse lecito intervenire su un’opera così notevole, anche se lo scopo era di ripararne i danni. A guidare tale intervento il criterio, straordinariamente moderno, di utilizzare materiali reversibili affinché, come affermò Maratti “se qualcuno più degno di me di associare il suo pennello a quello di Raffaello, verrà un giorno, possa cancellare la mia opera e sostituirvi la sua”. In questo senso Bellori e Maratti precorrono l’odierna filosofia del restauro, inteso come rispetto della materia dell’opera d’arte.

Come avviene un restauro?

Il restauro contemporaneo si caratterizza per l’utilizzo di tecniche analitiche applicate alla chimica, fisica e biologia che permettono di non alterare l’integrità dell’opera e sono utilissime per lo studio diagnostico permettendo un’accurata indagine preliminare e un successivo prelievo di materiale per analisi più specifiche e approfondite. Tra queste, la tecnica fotografica; la riflettografia infrarossa; l’indagine radiografica; le tecniche spettrofotometriche. Il campionamento deve essere il più rispettoso possibile dell’integrità fisica dell’opera, limitato nel numero e nelle dimensioni dei prelievi. Lo studio di un campione richiede sofisticate metodologie analitiche, basate sull'impiego di tecniche strumentali altamente sensibili e selettive (tecniche microscopiche: microscopia ottica, mineralogico-petrografica, elettronica a scansione; microanalisi a raggi X; spettroscopia infrarossa; tecniche cromatografiche). Le successive tipologie di intervento sull'opera sono molteplici: la pulitura, la disinfestazione, la stuccatura e l’incollaggio, la foderatura dei dipinti su tela, il consolidamento, le reintegrazioni di dipinti, la stesura di protettivi.

Fig. 1 - Loggia di Psiche nel 1972, prima del restauro di Rosalia Varoli Piazza.

I restauri alla loggia di Psiche del 1990

Le campagne di indagine nella loggia iniziano nel 1989-90 e sono state esclusivamente di osservazione diretta al fine di individuare la tecnica di esecuzione e di stabilire lo stato di conservazione dei dipinti, i problemi connessi con il restauro marattesco e quali fossero gli interventi successivi. La fase esecutiva si è svolta tra il 1990 e il ‘97. Di rilievo l’indagine di quei frammenti superstiti dell’azzurro di Raffaello e di quello usato da Maratti per rifare i cieli che si erano anneriti e la loro rimozione successiva ad opera di un restauro avvenuto nel 1930, che volendo eliminare per sempre quello che veniva considerato l’azzurro di Maratti, aveva asportato anche quello sottostante di Raffaello. Al termine delle operazioni di pulitura e assestamento, ci si è concentrati sull'aspetto estetico. La loggia appariva totalmente sbilanciata per l‘asportazione violenta dell’azzurro che lasciava in vista il celeste di preparazione o addirittura l’intonaco e per la presenza di grandi lesioni sul testo figurativo.

Fig. 2 - Volta e arco, particolare delle lesioni.

L’attenzione degli studiosi si è concentrata sul percorso progettuale della decorazione: si iniziava dagli schizzi per la definizione della prima idea, seguiva lo studio di singole parti della composizione, con la definizione successiva di un primo disegno particolareggiato dell’insieme, si proseguiva poi con lo studio analitico e dettagliato di tutte le parti; infine si realizzava il modello definitivo in scala ridotta. A questa fase di studio seguiva la fase operativa del cantiere, cioè la realizzazione del cartone principale con dimensioni rapportabili alla superficie muraria da dipingere. Poi si ricavava un “cartone secondario” che, sezionato, permetteva il trasferimento del disegno sull'intonaco ancora umido, come previsto dalla tecnica dell’affresco (così chiamata perché si esegue su un intonaco appena steso e non ancora asciutto).

I moderni restauri alla loggia di Psiche hanno permesso di delineare una possibile organizzazione del cantiere dove operarono Raffaello e la sua bottega. Il ponteggio utilizzato, probabilmente posto alla stessa altezza di quello cinquecentesco, ha consentito di osservare la volta dalla stessa angolazione visiva dei pittori, apprezzandone così ogni dettaglio tecnico. In particolare si è posta l’attenzione sulle varie tipologie di tratteggio, distinti in tratteggi cosiddetti “liquidi”, ovvero quelli effettuati a pennello, e quelli a “secco” realizzati a sanguigna o grafite. Questi ultimi, riferibili ad un intervento di restauro, sono segni rapidi e poco precisi orientati a conferire maggiore incisività alle ombre. Su quelli a pennello, trovandosi principalmente su porzioni di volto, si è preferito non effettuare prelievi di campioni da analizzare, preferendo attendere tecnologie più avanzate. Il loro aspetto e colore, chiaramente estraneo e di sovrapposizione alla policromia degli incarnati, conferma che sono successivi alla stesura pittorica che presenta già una modulazione cromatica e tonale di chiari e di scuri. Invece, alcuni dei tratteggi dallo stile più libero potrebbero essere attribuiti ad uno o due artisti della bottega di Raffaello che avevano il compito di realizzare dei ritocchi in una sorta di revisione finale della decorazione. Sembrerebbe che questo compito, unito alla realizzazione di particolari decorativi, spettasse a Giovanni da Udine insieme alla stesura dell’azzurrite sui fondi.

Fig. 3 - pennacchio di Venere e Giove, particolare del volto di Venere. – Vela con Amore con bidente, particolare del volto del putto con bidente.

Il restauro di Maratti

Nel maggio 1693 hanno inizio i restauri alla loggia di Psiche a opera di Carlo Maratti, che si pone come il primo restauratore moderno in pieno rispetto della materia. Grazie alle indagini svolte negli anni ‘90 è possibile affermare che quello del Seicento fu un intervento scrupoloso e attento, in cui ogni fase pratica era preceduta da un’attenta valutazione. Gli affreschi di Raffaello coprono la parte centrale della volta, i dieci pennacchi e le quattordici vele, tutto il resto è posteriore. Bellori riferisce che i due o tre palmi inferiori dei pennacchi non erano dipinti, ponendo Maratti di fronte ad un problema di armonizzazione visiva. La sua integrazione delle parti mancanti è un’abile imitazione delle ghirlande e delle nubi dipinte da Giovanni da Udine; nonostante questo è evidente la discontinuità con l’originale che dimostra come Raffaello abbia realmente lasciato incompiuta la pittura, ma facendo intuire come intendesse completarla.

Fig. 4 - pennacchio con Amore e le tre Grazie, particolare della differenza pittorico sotto il piede della dea.

Il problema degli azzurri nei restauri alla loggia di Psiche

Il pesante intervento di rimozione degli azzurri operato durante il restauro del 1930, ha reso arduo lo studio dei cieli della Loggia di Psiche e di quelli sovrapposti nei secoli successivi. L’azzurro chiaro che costituisce lo sfondo su cui si stagliano le figure e i festoni vegetali è semplicemente la preparazione che Raffaello stese prima della finitura a secco in azzurrite, che doveva essere caratterizzata da una tonalità molto più intensa. Tale stesura preparatoria è stata eseguita a fresco a smalto (un pigmento a base di vetro colorato al cobalto), applicato su un sottile strato bianco ottenuto con calce e polvere di marmo posto a diretto contatto con l’intonaco con l’evidente funzionalità di costituire una base riflettente, che rendesse più luminosa la tonalità finale ottenuta attraverso le varie stesure di azzurro. Della finitura a secco in azzurrite, che ricopriva integralmente la preparazione a smalto, rimangono purtroppo solo i frammenti scampati alla violenta raschiatura degli anni ‘30. Si tratta di frammenti conservatisi al di sotto dello stucco che ricopriva le 850 grappe metalliche a forma di T o L lunghe dai 9 ai 13 cm applicate da Maratti e quindi in queste zone il pigmento è rimasto protetto dagli agenti esterni e si è conservato indenne da qualsiasi sostanza estranea.

Fig. 5 - Banchetto nuziale, particolare delle grappe metalliche inserite da Maratti nelle zone di maggiore distacco.

La finitura a secco in azzurrite è servita inoltre nel caso di alcuni ripensamenti, per correggere quei dettagli che l’artista voleva modificare, andando a coprire porzioni già realizzate.

Le analisi effettuate su prelievo e le selezioni stratigrafiche della finitura dei cieli della Loggia di Psiche hanno evidenziato che si trattava di un’azzurrite di origine naturale, di tono intenso, applicata a secco utilizzando la colla come legante. Il problema centrale relativo alle alterazioni degli azzurri della Loggia riguarda il fenomeno di annerimento dell’azzurrite. Tracce di azzurrite annerita sono presenti lungo i bordi dei festoni vegetali di Giovanni da Udine. È difficile identificare con certezza il fattore di degrado che ne ha causato l’annerimento: è possibile pensare a una pulitura aggressiva effettuata con sostanze chimiche, oppure a fonti di calore accese al di sotto della Loggia, come per esempio i grandi bracieri utilizzati per il riscaldamento dell’ambiente.

Fig. 8 - Pennacchio di Amore con le Tre Grazie, particolare della parte sovrastante l’ala destra di Amore dove è presente una consistente porzione di azzurrite originale interessata dal fenomeno dell’annerimento.

L’equivoco

Stando alle fonti storiche, Maratti effettuò una ridipintura dei fondi basandosi su quelle parti originali di azzurrite che non erano alterate. Il suo intervento fu soggetto a polemiche e giudizi negativi per secoli, relativi anche al cattivo stato di conservazione che mostravano gli affreschi. Tra il 1915 e il 1930 si giunse all'infausta decisione di liberare i fondi allo scopo di recuperare quello che si presumeva fosse l’azzurro di Raffaello coperto dall'operato di Maratti. L’intervento di rimozione, effettuato in maniera del tutto irrispettosa delle tecniche originali e dei precedenti interventi di restauro, si basò su un grosso equivoco: l’azzurro da rimuovere non era stato applicato da Maratti, ma risaliva all'Ottocento, come è risultato dall'esame chimico. Dalle tracce rinvenute nel corso dell’intervento diretto da Varoli Piazza è stato possibile evincere che Maratti effettuò la ripresa dei fondi originali utilizzando dello smalto, volendosi avvicinare il più possibile allo sfondo di Raffaello senza sconvolgerlo.

I problemi di stabilità e le indagini

Le indagini svolte dall’ICR dal 1994 sulla struttura architettonica della villa hanno confermato che le cause dei dissesti debbano essere imputate a fattori climatici e idrologici, ai difetti costruttivi e alla pericolosa vicinanza del Tevere. La novità, importantissima, che gli studi di stabilità hanno messo in luce è che sono ancora presenti movimenti strutturali nell'intera costruzione. È stato compiuto uno studio geognostico e geotecnico al fine di indagare le caratteristiche del suolo, e dai risultati è apparso evidente che potrebbe esserci nel tempo un peggioramento delle condizioni statiche della villa con la conseguente distruzione dei dipinti murali. Tra le probabili cause troviamo: la costruzione dei muraglioni del Tevere, la costruzione delle strade e le conseguenti vibrazioni provocate dal traffico incessante. Particolare attenzione è stata posta alla Loggia di Psiche che risultava particolarmente compromessa per la presenza di gravi lesioni trasversali alla volta, dalle quali derivano una serie di lesioni minori con andamento longitudinale alla volta. Grazie all'ultimo intervento di restauro sono state ristabilite la coesione e l’adesione del film pittorico, l’adesione delle dorature e degli strati preparatori, il distacco e la riadesione dei frammenti; la pulitura e i ritocchi (incarnati, festoni vegetali, bordi degli arazzi, sottarchi), la rimozione di stuccature e oggetti metallici non idonei, il trattamento delle grappe metalliche e, infine, è avvenuta la reintegrazione pittorica con acquerelli.

Conclusione

Tramite i restauri alla loggia di Psiche coordinati da Varoli-Piazza è stato dimostrato che Maratti, alla fine del Seicento, si preoccupò di proteggere gli affreschi eliminando le cause di deterioramento ambientale ed effettuando un restauro di tipo conservativo, una novità per il periodo. Inoltre è stato possibile smentire categoricamente tutte le accuse rivolte al rovinoso intervento marattesco, dimostrando che si trattasse di un restauro molto più tardo. È stato evidenziato invece un comportamento rispettoso dal punto di vista metodologico per l’organizzazione del lavoro, e dal punto di vista tecnico per la scelta dei materiali impiegati, molto più rispettoso di restauri più recenti.

 

BIBLIOGRAFIA

Shearman, Studi su Raffaello.

Varoli-Piazza, Raffaello, La Loggia di Amore e Psiche alla Farnesina.

Bellori, descrizione delle immagini dipinte di Raffaello d’Urbino.

Enciclopedia Treccani.


LA BASILICA DI SAN GAVINO A PORTO TORRES

A cura di Alice Oggiano

Cenni storici sulla basilica

La basilica di San Gavino si erge sul tratto di costa a sud dell’abitato della colonia medievale di Turris Libisonis, attuale Porto Torres. La chiesa si configura nel territorio isolano come un unicum, complici non solo la maestosità ed ampiezza delle sue forme, ma soprattutto l’assoluta singolarità nell'impianto longitudinale a due absidi opposte. Tale iconografia, rarissima nell'Italia continentale, fu soggetta a studi particolarmente arditi sotto il profilo storico-artistico, nel tentativo di restituirne una genesi strutturale il più attendibile possibile. Sappiamo con certezza che San Gavino fu cattedrale arcivescovile dal 484 d.C, anno durante il quale un suo vescovo partecipo’ al concilio di Cartagine. La sede verrà trasferita a Sassari nel 1441 d.C.

Le fonti più antiche inerenti alla basilica sono rintracciabili nella carta n.43 risalente al regno di Barisone I o Mariano I. Passando al vaglio delle testimonianze leggendarie ed agiografiche, particolarmente interessante è l’inventio del rinvenimento dei corpi dei Santi Gavino, Proto e Gianuario, risalente al XIII-XIV secolo. L’inventio doveva costituire l’appendice della Passio relativa ai tre protomartiri turritani ai quali venne titolata la chiesa. La venerazione nei confronti dei tre santi in età giudicale deriva da una più ampia devozione risalente all'età paleocristiana. L’erezione della basilica e la presenza delle reliquie insite in essa vengono attribuite al giudice Comita, come ex voto pronunciato da quest’ultimo a San Gavino per la guarigione dalla lebbra. Comita, per adempiervi, oltre alla costruzione della basilica, vi fece traslare le reliquie dei santi dalla basilica di Balai nella quale subirono il martirio, detta di S.Gavino iscabittatu (‘’decapitato”). L'edificazione venne commissionata a maestranze pisane, già presenti in Sardegna in altre fabbriche. Altre preziose nozioni ci vengono fornite dal Condague (documento amministrativo in uso nella Sardegna bizantina e giudicale) di fondazione e consacrazione, apografo del 1620. Stando ad esso, la fabbrica venne edificata in due tempi distinti, a cavallo tra il regno di Comita e di Barisone I (fig. 1).

Fig. 1

Recenti studi hanno inoltre rilevato il carattere cimiteriale della chiesa. Recenti indagini archeologiche attestano, oltre a lacerti musivi ed elementi di corredo funebre, la presenza di due basiliche erette in una fase precedente a quella romanica. Una di esse, causa l’abside rivolta ad ovest, si postula essere stata certamente edificata in periodo precedente al V secolo, durante il quale entrò in uso la norma liturgica dell’abside orientata. Nei pressi della chiesa, contrapposta alla seconda fabbrica preromanica con abside ad est, furono rinvenute sufficienti costruzioni e fondamenta per classificarla come adibita ad uso cimiteriale. Venne tuttavia scartata dagli studiosi l’ipotesi relativa all'eventuale condizionamento da parte delle fabbriche poste nell'area di costruzione della fabbrica romanica, in quanto durante l’epoca in cui quest’ultima venne edificata non furono più visibili. Questi dati ci permettono però di restituire maggiore veridicità agli scavi intrapresi tra il 1614 e il 1616 dall'arcivescovo di Sassari Gavino. Manca nell'ambito della ricerca dei corpi santi, durante i quali venne rinvenuto il sacello cruciforme contenente le reliquie dei martiri posto al di sotto dell’altare maggiore ed identificabile come memoria.

La basilica di San Gavino

La basilica romanica, realizzata in blocchi di pietra calcarea posti magistralmente in opera, presenta una pianta longitudinale a tre navate (laterali voltate a crociera e centrale a capriate lignee), con absidi opposte sui lati brevi. Collocati all'interno vi sono sette altari, successivamente andati perduti. L’ingresso avviene mediante il portale realizzato in forme gotico-catalane posto a sud, o tramite il portale romanico situato a nord (fig. 2 e 3).

La presenza delle due absidi deve essere letta alla luce delle vicende storiche in cui la basilica sorse: tra l’XI-XII secolo il giudicato logudorese si trovava ad esprimere una sempre più marcata autonomia da Bisanzio e da Cagliari (fig. 3a).

Fig. 3a

È possibile perciò che si scelse, nell'edificazione di San Gavino, di volgersi a stilemi di tipo imperiale con un forte richiamo all'arte di tipo carolingio-ottoniano, nonostante vi siano ipotesi tese a naufragare questa tesi, vedendovi assonanze con prototipi renani. Accese discussioni videro inoltre coinvolto il portale romanico, dalla dubbia e ormai suffragata attribuzione all'ambito gotico. D’estremo interesse la lunetta del portale romanico, la quale riporta una scena di combattimento realizzata con la tecnica del basso rilievo, probabilmente parte di un ciclo iconografico più complesso e denso di significato (fig. 4).

Fig. 4

Dovevano essere inoltre comprese nel progetto le mensole-capitelli riportanti sculture ad altorilievo, chiaramente identificabili come un uomo e una donna (Adamo ed Eva?). Si osservino inoltre i girali fitomorfi posti sulla superficie esterna delle mensole-capitelli, in cui possibili chiavi di lettura hanno voluto identificare la presenza di un serpente, con un rimando perciò dell’intero ciclo scultoreo all'Eden, connotato da un evidente horror vacui (fig. 5).

Fig. 5

Caratteristiche peculiari della basilica di San Gavino sono l’utilizzo di elementi e materiali di reimpiego a fine antiquario con un forte richiamo alla classicità e l’evidente legame ai modelli pisani. Le colonne e capitelli antichi provengono da epoche diverse e sono organizzati con cura: la maggior parte tardoromani, quattro bizantini e uno altomedievale. Notevole il riutilizzo di tre capitelli isiaci, rilavorati con colombe affrontate alla croce che spuntano da foglie d’acanto. Riportanti colombe anche altri due capitelli di reimpiego, uniformati alla lavorazione bizantina “a due zone”, assai diffusa tra la fine del III e la metà del IV secolo d.C (fig 6 e 7).

Nel corso del XVIII secolo verrà posta all'interno della chiesa la statua equestre, con anima lignea e superficie policroma, di San Gavino, patrono di Porto Torres, ad opera di bottega romana (fig. 8).

Fig. 8

Sono presenti inoltre tre simulacri lignei policromati che ritraggono i SS. martiri Gavino, Proto e Gianuario, realizzate da anonimi intagliatori-pittori, verosimilmente appartenenti ad una bottega napoletana dei primi anni del 1600. Le statue raffigurano i martiri distesi sul letto funebre, coi polsi legati e con un netto taglio alla gola, dalla quale sgorga un rivolo di sangue in riferimento al martirio subito. Secondo la tradizione agiografica, i tre santi vennero decapitati poiché cristiani durante le persecuzioni ad opera degli imperatori Diocleziano e Massimiano. Le statue, oltre a costituire un'importante opera d'arte, sono motivo di culto popolare: ogni anno, il 3 Maggio, vengono trasportate dalla basilica di San Gavino sino alla chiesetta di Balai ove rimangono sino alla Pentecoste (fig. 9).

Fig. 9

Al di sotto della basilica è situata la cripta, alterata dal restauro sei-settecentesco ma tutt'oggi accessibile al pubblico (fig. 10).

Fig. 10

E' preceduta da una maestosa anticripta che richiama per forme e stilemi l'età rinascimentale classica. Poste entro edicole intervallate da lesene scanalate vi sono le statue marmoree di martiri e vescovi locali, realizzate con abile maestria, connotate da una grande resa plastica ed estremamente naturalistica. Tramite una scalinata d'accesso qui posta, si raggiunge la cripta. L'ambiente, lungo e basso, è interamente voltato a botte. All'estremità occidentale è collocata la cappella con alcuni sarcofagi contenenti le reliquie dei martiri turritani. Altri sarcofagi d’epoca classica sono posizionati all'interno dell’ambiente. Tra essi, esemplari il sarcofago romano delle muse ed il sarcofago romano strigilato con la figura del buon pastore, entrambi ascrivibili alla fine del III secolo d.C. L'utilizzo dello strigile come mezzo e tecnica incisoria, oltre all'utilizzo stesso del marmo, è un ulteriore dato teso a dimostrare come la Sardegna fosse perfettamente inserita in uno scenario storico-artistico nel solco della tradizione classica e di quanto accadeva nell'Urbe, dalla quale importava marmi probabilmente già parzialmente lavorati da botteghe ostiensi. Elemento che ci aiuta a collocare temporalmente il sarcofago è la presenza del buon pastore, teso a rappresentare la presenza divina di Cristo senza tuttavia servirsi di un'iconografia propriamente cristiana, ma nel solco del paganesimo (fig. 11 e 12).

E' importante ricordare a tal proposito che la religione cristiana venne riconosciuta ufficialmente solo a partire dall'editto di Costantino del 313 d.C, divenendo religione di stato con Teodosio I nel 380 d.C con la promulgazione dell'editto di Tessalonica. Notevole la presenza dell’architrave marmoreo riportante l’epigrafe marmorea in greco bizantino, databile alla metà del VII secolo. Quest’ultima celebra la vittoria del dux Costantino sui Longobardi e “altri barbari”, rimandandoci all'ormai evidente indipendenza del regno logudorese da Costantinopoli, secondo una direttiva tutta occidentale dei giudici bizantini. La basilica di San Gavino è attualmente la più importante di Porto Torres e sede parrocchiale, oltre ad esser la chiesa romanica più grande della Sardegna. Al nome del santo è inoltre legata la festa più sentita dell'intero paese: la Festha Manna (festa grande), volta a onorare i santi martiri turritani. Durante la celebrazione, indice di grande devozione, la traslazione delle menzionate statue lignee dei santi nella chiesetta di San Gavino "decapitato" (fig 13).

Fig. 13

 

Bibliografia e sitografia essenziale:

Sardegna preromanica e romanica, Roberto Coroneo - Renata Serra

Treccani, enciclopedia dell'Arte Medievale

Sito ufficiale del comune di Porto Torres


FRANCESCO COLELLI PITTORE

A cura di Felicia Villella

Introduzione: la famiglia di Francesco Collelli

Le notizie relative alla famiglia Collelli e al suo arrivo nella città di Nicastro non sono del tutto chiare. Dai registri della Cattedrale di Nicastro è possibile risalire ai nomi di alcuni componenti della famiglia a partire dalla fine del 1500, ma con molta probabilità si tratta di una famiglia nobile proveniente dalla città di Rieti, trasferitasi in Calabria. Di sicuro si sa che Francesco Colelli nasce a Nicastro il 27 gennaio del 1734, figlio di Domenico e di Teodora De Napoli. Anche Domenico quasi certamente faceva il pittore, ma non ci sono giunti documenti che lo attestino, dunque è difficile attribuire delle opere alla sua mano.

La famiglia era fregiata del titolo di magister, già il nonno Antonio aveva questo appellativo, sicuramente perché aveva familiarità con pratiche artistiche o forse artigianali: è possibile ipotizzare una professione come architetto o capomastro.

La casa in cui abitava la famiglia di Francesco si trovava in Contrada San Francesco, in quella definita ruga di Blasco, di fianco al giardino di don Francesco Blasco, padrino, tra l’altro, dell'artista.

Francesco Collelli visse in questo quartiere fino al giorno del suo matrimonio, ed è proprio nella chiesa di San Francesco che troviamo l'opera più antica a lui attribuita, oltre che ad una serie di affreschi e tele più tarde che testimoniano la sua continua affezione nei confronti di questo luogo sacro.

In seguito ritroviamo una firma del Colelli nell'anno 1758 su documenti notarili che rimandano ad un gruppo di affreschi andati perduti realizzati nella chiesa di Santa Caterina a Nicastro.

Gli anni che succedettero a queste prime committenze segnarono profondamente il territorio; il 1764, ricordato come l’anno della fame a causa di una segnante carestia, portò la famiglia D’Ippolito a commissionare una Ultima Cena all'artista, perduta anch'essa, da presentare in Cattedrale al posto della consueta offerta in olio e noci.

Tra il ‘68 e il ‘70 morirono sia Domenico Colelli che la moglie Teodora, lasciando ai figli l’intera eredità; la famiglia possedeva all'interno della chiesa di San Francesco una sepoltura, in cui furono seppelliti oltre al nonno Antonio anche i genitori del nostro artista, fuorviando ogni dubbio sull'attaccamento per questo luogo.

Nel 1770 sposò Costanza Gigliotti, originaria di Falerna, che da anni viveva presso la sorella a Nicastro; dal matrimonio nacquero due figli, Domenico Antonio, nato 10 anni dopo il matrimonio, e Giovanna, nata nel 1792.

L'attività artistica

Iniziano gli anni di fervente attività artistica: Francesco Collelli realizza la Madonna del Carmine di Carlopoli con lo stesso stile pittorico riconducibile alle opere presenti a San Domenico a Nicastro; seguono la Madonna del Carmine di Castagna e gli affreschi presenti nella chiesa di San Giovanni Battista a Nocera Terinese ed un ciclo pittorico di Badolato.

A causa dell'alluvione del torrente Piazza che distruggerà parte del quartiere di Terravecchia, Francesco fa richiesta alla Cassa Sacra di un terreno nel Boschetto dei Riformati, ma con molta probabilità non usufruirà mai di tale donazione proprio perché in quegli anni il figlio Domenico Antonio sposa la catanzarese Mariangela Scalfaro; ne seguirà un definitivo trasferimento dell'artista nella città di Catanzaro.

Il suo trasferimento non dipende solo dal matrimonio del figlio, ma è dovuto soprattutto all'avvio delle opere di ricostruzioni del capoluogo che sono seguite al terremoto del 1783, che devastò diversi edifici ecclesiastici e civili, richiamando a sé numerose maestranze.

Non era la prima volta che Francesco si recava nel comprensorio catanzarese, anzi aveva in passato intrapreso diversi viaggi tra cui quello a Taverna, città del Cavaliere Calabrese, un incontro quello con le opere del Mattia Preti che lo segnerà sicuramente nella sua esecuzione stilistica.

Il problema è che in questo periodo di veloci restauri raramente i lavori eseguiti vengono riportati nei registri delle ristrutturazioni causate dal terremoto del 1783, di fatti, tranne che per il ciclo di affreschi di Marcellinara di cui l’attribuzione è sicura, per le altre opere si può ragionare solo per paragoni tecnico esecutivi e resa stilistica.

La fama del Colelli cresce e l'artista ormai anziano continua ad avere un elevato favore sia per commissioni di impronta religiosa che privata; a lui è attribuito un altro ciclo pittorico presente nella Matrice di Magisano del 1813; si tratta di un vasto affresco, forse il più grande da lui eseguito, in cui probabilmente si può riscontrare l'intervento non solo del figlio, che nel frattempo ha intrapreso la via paterna, ma anche di artisti minori.

È recente l’attribuzione di due dipinti che raffigurano Maria Carolina d’Asburgo e Ferdinando IV di Borbone, attribuzione concepita dal prof. Mario Panarello a cura della mostra "Riverberi pittorici" tenuta nella città di Lamezia Terme nell'autunno del 2019. Con molta probabilità la realizzazione delle opere dei due coniugi si rifà ad alcune stampe che proponevano il sovrano all'età di otto anni, quando ascese al trono, e la regina ripresa con molta probabilità dal frontespizio dell’opera enciclopedica del monaco Benedetto Tromby che tratta la storia dell’Ordine Certosino dei primi anni del 1770 [1].

Il 6 gennaio del 1820 muore nella sua casa di Gimigliano il figlio Domenico Antonio Colelli, ed esattamente 11 giorni dopo, il 17 gennaio 1820, morirà anche Francesco Colelli a Zagarise, dopo che la nuora si era ivi trasferita insieme alla figlia [2].

 

Note

[1] M. Panarello, Riverberi pittorici. Gli artisti del settecento calabrese e la figura di Francesco Colelli. Corigliano – Rossano 2019, pp.197 -199;

[2] M. Panarello, Francesco Colelli. Pittore 1734-1820. Documenti di cultura artistica su ‘700 calabrese, Soveria Mannelli (CZ) 1999, p.26.

Bibliografia

Panarello, Riverberi pittorici. Gli artisti del settecento calabrese e la figura di Francesco Colelli. Corigliano – Rossano 2019, pp.197 -199;

Panarello, Francesco Colelli. Pittore 1734-1820. Documenti di cultura artistica su ‘700 calabrese, Soveria Mannelli (CZ) 1999, p.26.


IL COMPLESSO DELL'EPISCOPIO A OSIMO

A cura di Giulia Pacini

STORIA DELL'EPISCOPIO

BREVI CENNI STORICI SULL'EDIFICAZIONE DEL COMPLESSO DELL'EPISCOPIO A OSIMO

Il complesso monumentale del duomo di Osimo, chiamato anche complesso dell’Episcopio, è stato creato nel corso del tempo dagli interventi dei vescovi osimani che ne hanno voluto la realizzazione, e che hanno dato vita alla attuale diocesi. Gli interventi che caratterizzano questo insieme sono vari, perché riflettono appunto le varie fasi storiche che ne hanno visto la graduale realizzazione. La documentazione che racchiude in sé la storia di questo edificio è stata raccolta e sistemata da Monsignor Carlo Grillantini, uomo di chiesa e storico, a cui si deve la più completa indagine storiografica riguardante la città di Osimo e la sua cattedrale. La residenza vescovile, edificata, si ipotizza, dal vescovo Leopardo e diventata poi dimora del vescovo Berardo (1283-1288), crollò, venne ricostruita e poi crollò nuovamente. Tra il 1295 ed il 1320, sotto Giovanni Ugoccione, vescovo al tempo di Bonifacio VIII, furono compiuti i lavori di rifacimento, in quanto alcune parti del palazzo vescovile erano andate distrutte in seguito a eventi naturali (si registrarono scosse di terremoto che distrussero tale area). Non abbiamo tuttavia alcuna notizia di restauri o di ampliamenti consistenti. I grandi lavori che invece portarono la struttura ad essere quella che oggi conosciamo sono dovuti a due vescovi della nota famiglia osimana Sinibaldi, ossia Antonio (1498-1515) e Giovan Battista (1515-1547): dopo la ribellione di Boccolino di Guzzone, nel 1484, e i danni all'Episcopio che ne seguirono, al loro servizio episcopale fu riservato il compito della ricostruzione della cattedrale in primo luogo, e successivamente dell’Episcopio. Tale impegno ed operosità fu riconosciuto affiggendo una lapide con lo stemma Sinibaldi all'esterno delle mura a nord, all'altezza del Presbiterio, dove tuttora si trova (fig. 1 e 2).

Giovan Battista Sinibaldi si occupò in special modo dei lavori dell’Episcopio, che consistettero nell'unione dei due corpi di fabbrica già costruiti da Berardo ed Ugoccione, e cioè quello caratterizzato dai grandi finestroni che anche oggi sono visibili da nord-est e quello che corrispondeva alla cucina ed al tinello dei vescovi finché vi ebbero la loro abitazione. Furono costruiti anche altri corpi di fabbrica facilmente individuabili per la presenza di scritte e di stemmi dei Sinibaldi: l’architrave di una finestra del cortile interno del duomo, altri architravi delle finestre rivolte verso il palazzo comunale e, all'interno del palazzo, stipiti in pietra del piano nobile. Il Cardinal Anton Maria Gallo (1591-1620) fece costruire la parte che unisce il fabbricato dei Sinibaldi alla cattedrale; costruì anche la sacrestia con balcone a nord. Il Cardinale Agostino Galamini (1620-1639) ingrandì a nord il palazzo vescovile, innalzò un torrione per venerare la Basilica della Santa Casa di Loreto, costruì la cancelleria: l’opera del Galamini riguarda il corpo di fabbrica addossato al battistero da ogni lato. Lo stemma del Cardinale, collocato nella lunetta di ferro battuto che sovrasta l’attuale portone di entrata dell’episcopio, testimonia che la sua opera ha riguardato, sia pur marginalmente, anche il corpo centrale del fabbricato. Opera del Vescovo Pompeo Compagnoni (1740-1774) è il portone in legno massiccio, come indicano i due stemmi in legno e l’anno (1770). Un documento di eccezionale importanza per comprendere meglio le fasi di costruzione e la storia del complesso Duomo-Episcopio-Battistero, è stato rintracciato a Jesi, presso la Biblioteca comunale. Si tratta di un disegno che mostra nel dettaglio la planimetria del Duomo, del Battistero e del Palazzo Episcopale di Osimo, così da farci notare le differenze e le modifiche che sono state apportate all'antico complesso al tempo del Cardinal Bichi (1656-1691). Sulla base degli studi effettuati da Claudia Barsanti, è possibile pensare che la planimetria della nuova ala fosse stata eseguita su richiesta dello stesso Cardinal Bichi e destinata forse a suo fratello, Vescovo di Todi, che, non a caso, ebbe come successore Mons. Giuseppe Painetti, di cui ampiamente trattano i documenti jesini. La datazione di questo intervento pertanto si propone intorno al 1680.

IL COMPLESSO DELL'EPISCOPIO A OSIMO: PRINCIPALI INTERVENTI ARCHITETTONICI

Da un confronto dei dati acquisiti attraverso l’attenta lettura del disegno e di quelli già noti, emergono significative novità, come ad esempio la collocazione dell’altare maggiore del Duomo in posizione sopraelevata di alcuni gradini all'interno dell’abside, una sistemazione questa tra l’altro inedita. Solo qualche decennio dopo il Cardinale Giacomo Lanfredini (1734-1740) lo farà spostare verso la fronte del Presbiterio sostituendo quello del Bichi con un sontuoso manufatto incrostato di marmi policromi. Si deve al Cardinal Bichi anche lo spostamento della cattedra-trono episcopale che nel disegno compare addossata all'angolo sud dell’abside. Va inoltre segnalata la presenza di sei altari addossati alle pareti delle navate laterali, rimossi alla fine del XIX secolo, e di una scala esterna, addossata al campanile ed in parte alla parete sud del Duomo, attribuibile con ogni probabilità agli interventi del Card. Galamini: si notino i due archetti “faccia a vista” della parete attuale della Curia verso il cortile dell’Episcopio che potrebbero denunciare una relazione con tali rifacimenti. Altre novità, ma non di natura architettonica, riguardano il disegno, fino ad oggi sconosciuto, del giardino, con la esatta ripartizione degli spazi, dall'altezza della costruzione sopra Porta S. Giacomo. Anche se in forma schematica, il disegno appare piuttosto accurato ed è accompagnato da legende esplicative, corrispondenti ai numeri arabi posti nella planimetria. Troviamo riscontro dei lavori, specie per quanto riguarda il Palazzo episcopale, grazie alle informazioni che ci lascia Flaminio Guarnieri (1604-1684), il quale descrive nel dettaglio i lavori fatti eseguire dal Cardinal Bichi, a completamento di quelli precedentemente realizzati dal Cardinal Galamini, al cui nome si deve infatti ricondurre l’erezione di tutto il corpo di fabbrica meridionale addossato al Battistero, destinato al Vicariato ed alla Cancelleria. Non è difficile, commenta Grillantini, individuare quel nuovo corpo di fabbrica: Bichi costruì infatti il piano superiore che sovrasta la vecchia sacrestia del Vescovo Gallo, dando nuovo assetto agli ambienti settentrionali dell’ Episcopio fatto costruire dal Sinibaldi, creando una serie di stanze sopra le mura castellane, corrispondenti agli ambienti a nord segnati nella pianta al n. 24. Per quanto riguarda i sotterranei Grillantini fa notare che in quei camminamenti vi era uno stemma dei Bichi su una colonna di tufo. Viene infine descritto tutto il corpo di fabbrica annesso all'Episcopio che guarda la piazza del Comune, cioè l’alto palazzo addossato a levante del giardino, dove ora hanno sede gli uffici e gli ambulatori dell’ Unità sanitaria locale e la Banca Popolare di Ancona. Sullo spigolo sud-orientale di quella sorta di sperone che fronteggia il lato occidentale del Palazzo Comunale, risalta un’iscrizione fatta porre proprio dal Bichi che così recita: PARTEM HANC ARCIS / IAM DIRUTAE NOVUM / REDEGIT IN OPUS / ANT(onius) BICHIUS / EP(iscop)US AUX(imanus) / 1668 (Antonio Bichi Vescovo di Osimo ha trasformato in una nuova costruzione questa parte della Rocca già demolita Anno 1668). Un’altra iscrizione, posta in passato verso l’interno del giardino ed ora nell'androne della Curia, recita: D(eo) O(ptimo) M(aximo) / AD SUCCESSORUM COMMODA / HORREA CRIPTAS EQUILIA CARCERES / NOVAE MOLIS ACCESSIONE CONSTRUXIT / / ANTONIUS CARD BICHIUS EP(iscop)US / ANNO MDCLXX (A Dio Ottimo Massimo. Il Vescovo Antonio Cardinal Bichi costruì, con l’aggiunta di nuovi grandi edifici, i magazzini, le cantine, le scuderie, le carceri, per utilità dei Successori Anno 1670). Dopo il Bichi non furono realizzate altre grandi costruzioni: l’intervento dei vari Vescovi riguardò solo lavori complementari, tra i quali ricordiamo alcuni interventi significativi: il Cardinal Guido Calcagnini (1776-1807) abbellì l’interno dell’ Episcopio e fece costruire la loggia che dal giardino guarda la Piazza del Comune; Michele Seri-Molini (1871-1888) destinò il piano superiore dell’Episcopio a sede di un piccolo seminario da lui direttamente curato; Egidio Mauri (1888-1893) trasformò il piano superiore dei magazzini del Bichi in teatro. Qualche intervento lo fece anche Monalduzio Leopardi (1926-1944); si devono al Vescovo Domenico Brizi (1954-1964) un completo restauro, la ristrutturazione interna della parte dell’edificio vicina all'ingresso e la nuova sistemazione del cortile interno del Duomo, abbassato con il ripristino della vera da pozzo.

Fig. 4 - Pianta del Duomo di Osimo ritrovata a Jesi, nella biblioteca comunale. Archivio Pianetti, Fondo piante e disegni, 3/2
1. scale e loggia del Domo; 2. Chiesa del Domo; 3. Choro;
4. Sedia trono episcopale; 5. Stallo sedie de canonici; 6. Sedie de benefitiati;
7. Sedie de Magistrati; 8. Loco da far Credenza 9. Per li coristi – Scala di mezzo per andar al presbiterio, scale laterali per andare al medesimo e per di sotto di una chiesa sotterranea devota;
10. Ingresso al palazzo; 11. Cortile dove gira la muta; 12. Sala de staffieri;
13. Anticamera; 14. Cappella; 15. Camera d’udienza;
16. Retrocamera; 17. Screteria; 18. Camerini d’estate e d’inverno;
19. Appartamento da levante bono in ogni tempo per dormire nell’ultima camera verso il giardino; 20. Studiolo secreto; 21. Camera per la guardia;
22. Camera per robba da vestir; 23. Libraria senza libri; 24. Anticamera forestaria;
25. Corritore vicino alla sacrestia dove si va in chiesa nei tempi cattivi, e di dove si cala segretamente di sotto alle officine 26. Sacrestia della chiesa; 27. Stanza del capitolo;
28. Cortile; 29. Cimiterio; 30. Cancelleria del piano;
31. Di sopra appartamento per il vicario; 32. Galleria sopra vi sono tre camerini da sole; 33. Chisa di San Giovanni con un battistero di bronzo singolare;
34. Campanile; 35. Salone da passeggio, e per comedie, e per granaro; 36. Porta della città di San Jacopo. Dalla detta porta e strada sarà alto il detto piano delli detti appartamenti , circa quattro picche per esser nel colle. Sopra il numero 12, 14, 19 sino al 24 verso il cortile vi è commodo per tutti li cortigiani, di sotto le officine. Il giardino al piano nobile, come si è detto è attorniato di pergole di ferro;
37. Cortile basso; 38. Archivio secreto; 39. Pollaro e gallinaro;
40. Granari e per le biade; 41, Stalle capaci, e sopra pagliare e fenile; 42. Cortile della stalla. Sotto il numero 35, 38, 39 vi è un magazzeno detto de pilastri e più sotto habitat ione per li sbirri e carcere civili, e più sotto altre carcere e secreti al pian del cortile della stalla, dal quale per una scaletta è commodo pubblico si va al cortile del n. 11;
43. Altre rimesse per le carrozze. Sotto il palazzo vi è una grotta riguardevole, è con la cantina vi era circa cento botti. Stanze solide appararsi sono del numero 15, 16, 19, 24.

LO STATO ATTUALE DELLA STRUTTURA: IL MUSEO DIOCESANO

Nel 1978-79 furono rinnovati tutti i tetti; qualche anno dopo, nel piano superiore furono ricavati alcuni piccoli appartamenti per il Clero, usati poi per finalità di solidarietà e di carità, mentre nei primi anni ’90 alcuni importanti interventi hanno trasformato i piani seminterrati in accogliente sede per l’esperienza scoutistica, giovanile ed adulta; negli anni 1995-98 il piano nobile fu totalmente restaurato e dotato degli impianti a norma di legge per ricavarne la sede del Museo Diocesano, inaugurato il 24 ottobre 1998: sono 15 sale più un atrio ed un salone per il Museo e per gli usi pastorali della Parrocchia. La finalità museale degli ambienti recuperati ha guidato fin dall'inizio la progettazione del restauro, l’inserimento degli impianti negli ambienti e la predisposizione dei percorsi e dei servizi nel modo più funzionale possibile alle problematiche espositive delle opere del Museo, evitando le relazioni di conflittualità tra contenuto e contenitore tipiche di questo genere di realizzazioni in edifici storici a forte caratterizzazione architettonica. L’intervento architettonico progettato per l’ex sede vescovile, luogo naturale per la storia della Chiesa osimana e dei suoi vescovi, è stato intrapreso quindi dopo uno studio attento della collezione, avendo già stabilito percorsi, organizzazione degli spazi, ed una sufficiente definizione di quello che sarebbe stato l’allestimento, permettendo una precisa e corretta realizzazione del restauro. La situazione delle sale prima di tale intervento era quella di ambienti disomogenei e fortemente compromessi da precedenti modifiche ed alterazioni negli anni settanta, soprattutto nei pavimenti, con materiali diversi ed incongrui su tutta la superficie. Nel progetto di recupero, quindi, oltre al restauro conservativo delle decorazioni, pittoriche dei soffitti delle sale è stato introdotto, con l’applicazione di un pavimento di legno posato a secco dalle coloriture neutre a calce delle pareti, quell'elemento ulteriore che potesse costruire un contesto di continuità il più possibile omogeneo per lo svolgersi dell’esposizione. Per l’allestimento, il lavoro di ricerca storica e di selezione dei materiali svolto dalla committenza osimana è stato la base per la prima fase del progetto, svolto insieme ai progettisti con la precisa volontà di rendere comunicativa la nuova organizzazione delle opere da esporre, con le caratteristiche dimensionali ed architettoniche degli spazi, con l’unico obiettivo di rendere armonica la presenza dei materiali storici ed artistici all'interno degli ambienti recuperati. Un certo principio di mimesi sembrava essere, in questo caso, l’unico modo per poter superare l’innaturalità della raccolta museale in stanze di palazzo, e chiave di accesso alla relazione simbolica tra i materiali della storia religiosa osimana e la sede vescovile che li ospita. L’esposizione è organizzata in modo da indurre il visitatore a muoversi, da opera in opera, lungo lo sviluppo del racconto storico e gli spazi che furono della sede vescovile. Lungo il percorso compaiono i ritratti dei principali vescovi osimani, esposti con un pannello – cornice per contraddistinguerli dalle altre opere, contestualizzando la fruizione estetica con un ulteriore spunto di analisi in relazione alle figure della committenza. Tutte le strutture espositive e le vetrine sono state eseguite su misura e disegnate in modo da costituire un fondo neutro per il maggior risalto delle opere e, al tempo stesso, per una loro armoniosa presenza all'interno del museo, così fortemente caratterizzati dal punto di vista architettonico. Il coordinamento in fase di progettazione e realizzazione delle strutture espositive ha permesso di ottenere una perfetta omogeneità degli elementi che vi sono contenuti al suo interno.

Bibliografia

M. Massa, E. Carnevali Opere d' Arte nella città di Osimo, Ancona, 1999.
C. Grillantini Storia di Osimo, Recanati, 1985.


LA CHIESA DI SANTA TERESA A GALLIPOLI

A cura di Stefania Pastore

Introduzione

La chiesa di Santa Teresa rappresenta uno dei tanti esempi di Barocco leccese, uno di quelli non troppo conosciuti perché situata nella città di Gallipoli, nota meta turistica estiva nel Salento per divertimenti giovanili, spesso sottovalutata dal punto di vista artistico. La città, infatti, offre numerose testimonianze storiche perché affonda le sue radici in un passato lontano, risalente al 1000 a.C., e ha visto nel corso dei secoli la dominazione di diverse etnie.

Fig. 1

La chiesa di Santa Teresa: la struttura

La chiesa di Santa Teresa vede la sua costruzione, insieme al Monastero delle Carmelitane scalze, tra il 1687 e il 1690 a cura del vescovo Perez de la Lastra. A discapito dell’interno barocco, l’esterno è molto lineare e conta due ingressi, di cui quello principale è sovrastato dalla statua di Santa Teresa con una lunga epigrafe che narra della nascita della chiesa, mentre l’altro ingresso presenta lo stemma dell’ordine dei Carmelitani scalzi.

L’interno è costituito da un’unica navata che conta ben quattro altari in stile barocco, di cui tre in pietra e il quarto marmoreo. Sul lato destro della navata, rispetto alla porta principale, vi sono la tela di S. Agostino e di S. Ignazio di Loyola, attribuita alla scuola leccese del pittore Antonio Verrio, sull'altare più vicino all'entrata, mentre sull'altro altare la tela dell’Immacolata insieme ai santi Giovanni Evangelista e Luigi Gonzaga. Sul lato sinistro della navata si trova l’altare con la tela di S. Maria Maddalena e quello con la statua lignea di S. Teresa del Bambino Gesù. Inoltre, sempre sul lato sinistro, la chiesa custodisce il busto in onore del vescovo De la Lastra, sepolto sotto l’altare maggiore. Sulla cantoria del presbiterio è collocato l’imponente organo settecentesco, attribuito al maestro organaro pugliese Carlo Sanarica.

Fig. 2

L’altare maggiore

Il maggiore degli altari, sempre in pietra, era dedicato all'Immacolata. Tuttavia, già dal 1753 si ebbe la necessità di inserire nella grande struttura lapidea, che già accoglieva la tela con la Sacra famiglia, un altare marmoreo. L’opera fu commissionata ad Aniello Gentile, famoso maestro napoletano marmoraro. Egli sfrutta al massimo le potenzialità della chiesa, trasformando il tabernacolo in una quinta scenica. Fedele alla tradizione dei maestri marmorari napoletani, Gentile scolpisce bouquet di gigli nei pilastri dell’altare, putti capi-altare che riprendono quelli dell’altare del Sacramento a Brindisi. La tradizione napoletana della lavorazione dei marmi vede il suo apice nella prima metà del ‘600 con Cosimo Fanzago a Napoli, per poi diffondersi nelle province del Meridione e in alcune della Spagna, in maniera più capillare, nel ‘700 con l’affermarsi del gusto per l’altare marmoreo.

Fig. 3

La storia della chiesa di Santa Teresa

La chiesa vede la sua intitolazione a Santa Teresa di Lisieux, altrimenti conosciuta come Santa Teresina per distinguerla da Teresa d’Avila. Teresa di Lisieux fu dichiarata Santa proprio a seguito di un miracolo accaduto a Gallipoli nel 1910, miracolo che permise alla chiesa di continuare a sopravvivere. Nel 1861, infatti, fu emanata una legge con cui si stabiliva che molti beni ecclesiastici, soprattutto meridionali, fossero espropriati e soppressi. Tra questi vi era anche il monastero delle Carmelitane di Gallipoli con l’annessa Chiesa. Questo negli anni si era mantenuto economicamente grazie ai contributi della facoltosa gallipolina Ida Piccinno, poi diventata priora del monastero con il nome di madre Carmela. Nel 1909, come testimoniano i libri dei conti, la chiesa si trovava economicamente in passivo per trecento lire. Madre Carmela decise, così, di rivolgersi alla beata Teresa (non ancora diventata Santa) con un ciclo di preghiere.

La priora aveva conosciuto la Santa grazie ad una sua biografia, nota con il nome “Storia di un’anima”, che le era stata donata dalla priora delle suore Marcelline di Lecce. Poco prima della fine del triduo, quando madre Carmela era a letto a causa di una pleurite, avvenne il miracolo: le apparve in sogno Teresa di Lisieux, la quale la invitava a recarsi presso la cassetta delle offerte perché lì avrebbe trovato ciò che le occorreva. Infatti madre Carmela trovò le cinquecento lire promesse. Questo fatto prodigioso permise di avere dati sufficienti alla beatificazione prima, e alla canonizzazione poi, della Santa. che avvenne nel 1925 ad opera di papa Pio XI.

Nel 2010, in occasione del centenario del miracolo della Santa, è stata esposta l’urna di Santa Teresa a coronare un ciclo di manifestazioni ed eventi.

 

Sitografia

http://www.cattedralegallipoli.it/il-monastero-di-s-teresa/

http://www.salento.info/1975-chiesa-santa-teresa-in-gallipoli-storia-miracoli/

http://www.parrocchiascalzibari.it/index.php?option=com_content&view=article&id=186:centenario-del-miracolo-di-santa-teresina-a-gallipoli&catid=57:santi-carmelitani&Itemid=78

http://www.ilcomuneinforma.it/viaggi/2031/il-miracolo-di-santa-teresina-a-gallipoli/

http://www.centrossannunziata.it/index.php?option=com_content&view=article&id=21:monastero-di-gallipoli-a-lecce&catid=19&Itemid=149

Bibliografia

Pasculli Ferrara M., L’arte dei Marmorari in Italia meridionale, De luca editori d’arte, Roma 2013.