LA CAPPELLA CHIGI IN SANTA MARIA DEL POPOLO

A cura di Federica Comito

 

Fig. 1 - Interno Cappella Chigi in Santa Maria del Popolo, Roma.

La Cappella Chigi: introduzione

Commissionata a Raffaello plausibilmente nel 1511 da Agostino Chigi, la Cappella Chigi ha funzione funeraria e prende il nome dal suo committente. Al 1513 risale il progetto del maestro urbinate che prevedeva il rifacimento della cappella quattrocentesca, ma i lavori verranno ufficialmente portati a termine solo nel 1661. La cappella occupa il penultimo ambiente della navata sinistra nella basilica romana di Santa Maria del Popolo. Probabilmente, l’idea di trasformare la semplice nicchia laterale in un mausoleo a cupola, impreziosito da marmi policromi e mosaici, deve essere giunta al committente dopo un viaggio a Venezia e la vista degli esempi di San Marco e Santa Maria dei Miracoli.

La struttura

Trattandosi di una struttura già esistente, Raffaello era vincolato nella creazione della pianta della Cappella Chigi e perciò decise di elaborare un progetto in altezza rifacendosi all’idea di Bramante in San Pietro. La struttura architettonica della cappella presenta una pianta centrale con quattro pilastri angolari arricchiti da nicchie. Questi sorreggono altrettanti arconi, sui quali si imposta il tamburo con otto finestre quadrate che illuminano l’ambiente. Su quest’ultimo si erge la cupola emisferica cassettonata. Il peso totale della copertura grava sui pilastri e questo espediente permise a Raffaello di assottigliare le pareti e di ingrandire lo spazio interno della Cappella Chigi, raggiungendo i sette metri di ampiezza. Decise, inoltre, di raddoppiare l’arcata d’ingresso e a quella interna diede lo spessore di tre paraste.

Fig. 2 - Cappella Chigi, particolare della cupola sui quattro pilastri.

A ridosso della parete frontale della cappella si trova il sepolcro, disegnato da Raffaello stesso, rialzato su un podio formato da tre gradini. Questo è a sua volta affiancato da nicchie, ricavate nei pilastri, contenenti statue. Infine, affiancano le nicchie paraste scanalate sormontate da capitelli di ordine corinzio. Tra i due capitelli corre una decorazione con festoni di fiori, frutta e un mascherone posto al centro in perfetta corrispondenza con la scultura collocata all’interno della nicchia sottostante. Quest’ordine fu scelto da Raffaello per essere accordato con quello in uso nelle navate laterali della chiesa.

Fig. 3 - Particolare della decorazione, festoni di fiori e frutta con mascherine tra capitelli corinzi.

Anche Francesco Salviati contribuì alla decorazione della Cappella Chigi. Gli sono attribuiti i tondi con le Stagioni collocati nei pennacchi e gli affreschi che narrano la Creazione e il Peccato Originale, posizionati tra le finestre del tamburo della cupola. Salviati collaborò anche con Sebastiano del Piombo per il dipinto a olio sull’altare raffigurante la Nascita della Vergine che andò a sostituire la pala dedicata all’Assunzione della Madonna, prevista da Raffaello, che però non fu mai realizzata.

La cappella è arricchita da marmi policromi e si distaccano dall’insieme colorato solo gli elementi architettonici in marmo bianco posti nei punti di snodo come gli archivolti, le paraste e le cornici, impreziositi da inserti pittorici e a mosaico. In origine, invece, il prototipo presentato risultava bianco e spoglio.

All’interno della cappella sono custodite, nelle quattro nicchie in prossimità dei pilastri, le statue di Giona che esce dalla Balena opera di Lorenzetto e di Elia, realizzata anch’essa dallo stesso artista tra il 1517 e il 1522 circa e terminata da Raffaello da Montelupo. Nelle due nicchie restanti si trovano i gruppi scultorei raffiguranti Abacuc e l’angelo e Daniele e il Leone ad opera di Gian Lorenzo Bernini e datate rispettivamente 1656-61 e 1655-57. Lorenzo Lotto, detto il Lorenzetto, lavorò presumibilmente anche al bassorilievo in bronzo con Cristo e la Samaritana che doveva essere collocato sulla tomba di Chigi ma che oggi si trova sull’altare.

Fig. 4 - Lorenzetto, Giona, scultura in marmo, 1520 (collocato a destra dell'altare) su disegno di Raffaello.

Sono altresì da attribuire a Raffaello le tombe piramidali in marmo rosso per Agostino Chigi e suo fratello Sigismondo, alle quali Bernini aggiunse dei particolari decorativi nei tondi marmorei. Queste preziosissime tombe si collocano in corrispondenza dei sarcofagi dei due fratelli e chiudono le arcate cieche laterali con lastre di marmo bugnato. La forma piramidale porta l’occhio dell’osservatore verso l’alto, fino a giungere all’oculo chiuso al centro della cupola. In passato si poteva osservare, attraverso una grata posta sul pavimento, un’ulteriore piramide che si trovava nel sepolcro sotterraneo insieme ai sarcofagi della famiglia Chigi. Opera di Raffaello furono anche i cartoni per la realizzazione dei mosaici sulla cupola, terminati nel 1516 dal veneziano Luigi de Pace, come ricorda la data incisa sulla cupola stessa.

Attraverso i costoloni dorati della cupola si apre uno spazio celeste dove Dio creatore a mezzo busto, al centro dell’oculo, è circondato da angeli e divinità pagane che rappresentano il Sole, la Luna e i pianeti ed è rappresentato mentre accoglie le anime che ascendono al cielo. I cartoni originali di Raffaello sono purtroppo andati perduti, ma si conservano all’Ashmolean Museum di Oxford alcuni studi preparatori databili al 1512-13 circa che confermerebbero l’autografia raffaellesca.

Fig. 5 – Cupola con mosaici.

Particolarissimo è il pavimento della cappella ideato da Bernini su commissione di Fabio Chigi, futuro papa Alessandro VII.  Al centro della pavimentazione, dove è collocata la tomba dello stesso Alessandro VII, c’è una decorazione che rimanda al tema del memento mori, confermato dalla Morte alata che cela nella scritta Mors aD CaeLos l’indizio della data di realizzazione in numeri romani (MDCL: 1650). Bernini realizzò anche la lampada in bronzo con tre cherubini in volo e le otto stelle simbolo della famiglia Chigi. Il modello della lampada rimanda alla corona della Madonna alla quale è dedicata la cappella. Infine, all’ingresso sono collocati due candelieri bronzei alti 1,5 m al di sopra di zoccoli lignei e decorati con simboli che rimandano alla famiglia dei committenti.

Fig. 6 - Dettaglio pavimento con "Morte alata".

Conclusione

La cappella Chigi è un’opera d’arte completa. Al suo interno si fondono diverse espressioni artistiche quali architettura, scultura, pittura e mosaico formando un insieme fortemente unitario. Sono presenti tematiche cristiane e richiami pagani che, tuttavia, creano un insieme armonioso. Diversi sono i rimandi all’antico: la forma piramidale delle tombe richiama un antico simbolo funerario, mentre l’uso di marmi e mosaici si rifà agli sfarzosi rivestimenti che ricoprivano anticamente i monumenti romani di età imperiale.

 

Bibliografia

C.L. Frommel-S. Ray-M. Tafuri, Raffaello e la sua carriera architettonica, in Raffaello architetto, Milano, 1984.

  1. Oberhuber, Raffaello: l’opera pittorica, Elemond Electa – Mondadori, 1999.
  2. Bruschi, Storia dell’architettura italiana. Il primo Cinquecento, Electa, 2002.

C.L. Frommel, L’architettura del Rinascimento italiano, Skira, 2007.

  1. Bertelli-E. Daffra-M. Pavesi, Invito all’arte. Dal rinascimento al rococò; Pearson Italia, Milano-Torino 2017.

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/lorenzetto_(Dizionario-Biografico)/


LA CARICATURA A ROMA

A cura di Federica Comito

 

Introduzione

Con il termine “caricatura” si intende un genere grafico che si diffonde in Italia a partire dal Seicento. Inizialmente questo genere spopola tra gli artisti bolognesi, guidati dall’esempio dei Carracci e della loro scuola, e solo successivamente approda a Roma, dove raggiunge il suo massimo sviluppo con la figura di Gian Lorenzo Bernini. La capacità straordinaria degli artisti che si dedicano a questa tipologia di disegno è quella di saper cogliere i tratti distintivi di un personaggio, potenziandone i difetti ed evidenziandone le particolarità fino all’assurdo. Il risultato è quello di un personaggio dalle sembianze contraffatte, ma facilmente riconoscibile per un particolare accentuato che lo rende oggetto di scherno.

Dialogando di categorie e classificazioni, è corretto dire che la caricatura rientra nella produzione del “disegno autonomo”, cioè quella tipologia di opere fini a sé stesse e senza legami con progetti precisi. Si tratta di un genere artistico che sfrutta, quasi esclusivamente, il disegno per la produzione e la stampa per una maggiore e rapida diffusione. Non si esprime, quindi, attraverso la pittura o la scultura ed è un genere rapido, diretto e “popolare”. Questa scelta è dovuta principalmente al fatto che il disegno è il mezzo più semplice e immediato per esprimere le idee scherzose e burlesche che stanno alla base della caricatura.

Già nel 1681 Filippo Baldinucci, conoscitore d’arte e collezionista fiorentino, scriveva, a proposito della caricatura, come di una tecnica disegnativa utilizzata soprattutto per i ritratti che presentano l’accrescimento dei difetti o l’alterazione dei tratti distintivi, che diventano sproporzionati.

 

Storia della Caricatura

Secondo alcuni studi, la presenza dei primi disegni caricaturali risalirebbe ad alcune opere di Leonardo Da Vinci, anche se al tempo questo genere non era conosciuto con il termine di caricatura. Infatti, Leonardo è il primo artista del quale ci siano giunte prove grafiche di schizzi in cui vengono accentuati e/o deformati i tratti delle figure. Si tratta della serie dei fogli con le “teste grottesche”.

Fig. 1- Leonardo da Vinci, Cinque teste grottesche (A man tricked by Gypsies), 1493 ca., penna e inchiostro su carta bianca, Windsor Castle, Royal Library.

Tuttavia, la differenza con la caricatura seicentesca non è l’inconfondibile grottesco risultato finale, bensì le motivazioni che hanno spinto l’artista a realizzare un’opera che rispetta tali canoni. L’obiettivo di Leonardo, infatti, non era quello di schernire il soggetto ritratto, ma quello di analizzare il modo in cui le emozioni umane si mostrano all’esterno attraverso lo studio dei particolari del volto, sfociando in diverse espressioni facciali che esprimono disgusto, gioia, rabbia, paura ecc.

Dunque, non si possono considerare queste opere delle caricature, ma piuttosto studi di espressione.

Per questo motivo, anche se teorizzata solamente nei trattati artistici del Seicento, la nascita della caricatura come genere autonomo si fa risalire alla fine del Cinquecento. Le prime prove di caricatura secondo l’accezione “moderna” si incontrano in ambito bolognese nella scuola Carraccesca, principalmente nell’opera giovanile di Agostino e Annibale e a seguire nell’attività di Guercino e Domenichino.

In breve tempo il genere spopola anche a Firenze, dove è conosciuto come “disegno giocoso”, a sottolineare il lato divertente che spinge gli artisti a realizzare le caricature. A Firenze però, a differenza di Bologna, si sceglie di realizzare personaggi caratteristici piuttosto che reali protagonisti della vita quotidiana, con l’obiettivo di prendere di mira e criticare la società del tempo.

 

La Caricatura a Roma

Circa alla metà del 1600 il genere caricaturale si diffonde a Roma, dove diventa rapidamente famoso e ottiene il suo massimo sviluppo. Anche gli artisti romani si ispirano agli insegnamenti della scuola emiliana che ha dato i natali alla caricatura, ma arricchiscono il genere con più grande arguzia e precisione nei dettagli.

Tra i maggiori esponenti romani del genere troviamo Pier Francesco Mola che, ispirandosi chiaramente al Guercino, realizza schizzi a penna e sanguigna di figure deformate e spiritose.

Anche Gian Lorenzo Bernini si dedica ampiamente al genere caricaturale, per il quale risulta essere particolarmente espressivo e comunicativo. A lui si deve il merito di avere portato alla sua massima espressione la caricatura a Roma e di averla introdotta poi in Francia, alla corte di Luigi XIV, esportando il gusto per quello che veniva chiamato “schizzo caricato”.

Bernini, forse anche aiutato e facilitato dall’occhio da scultore, riesce ad individuare ed enfatizzare quei tratti dei personaggi che sotto il suo tocco diventano subito spiritosi e ridicoli, ma estremamente caratterizzanti. Ne è un esempio il ritratto del Cardinale Scipione Borghese, che ci appare con il volto tondo e pieno, o ancora l’Innocenzo XI malato, ritratto a letto con fattezze scheletriche. Immediatamente si riesce ad immaginare i personaggi a pieno: non solo la loro fisionomia, ma anche la personalità diventa facilmente intuibile.

Tra le caricature seicentesche più conosciute a Roma ricordiamo la caricatura di Padre Sebastiano Resta, raffigurato mentre legge uno dei suoi amati libri con gli occhialetti bassi, ad opera del pittore classicista Carlo Maratta, che era solito ritrarre i suoi amici con elementi esagerati e ridicoli; o ancora lo schizzo con la caricatura di Mario de’ Fiori, pittore celebre appunto per le composizioni floreali e che viene qui omaggiato dall’amico Giovanni Battista Gaulli.

Una nota di racconto e descrizione è tipica invece dei disegni di Pier Leone Ghezzi, capace di raccontare alla perfezione la società romana di fine Seicento in pochi tratti veloci. Le sue opere, caratterizzate da tratti a penna sottili e tratteggi incrociati, danno vita alla corte pontificia: disegna abati, cardinali ed anche gli artisti che lavoravano per loro. Ritrae, inoltre, personaggi famosi come cantanti, musicisti e attori, ciascuno dei quali viene sbeffeggiato con l’aggiunta di brevi descrizioni agli angoli dei fogli per mettere ancora di più in ridicolo un difetto o un comportamento. È questo il caso della caricatura del Cantante Antonio Bernacchi, ritratto in abito orientale. Il Ghezzi regalò numerose sue caricature al cardinale Domenico Passionei, per ringraziarlo dell’ospitalità offertagli nella sua villa a Frascati. Passionei, straordinario connoisseur e amatore d’arte, raccolse i disegni nella sua ricca biblioteca e ciò ha permesso che questi pezzi, oggi conservati alla Biblioteca Civica di Fossombrone, giungessero fino a noi.

Fig. 6 - Pier Leone Ghezzi, caricatura del cantante Berardi, 1731, penna e inchiostro bruno su carta bianca, Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Conclusione 

Alla fine del Seicento la caricatura si diffonde in Europa, perdendo quel carattere semplicemente scherzoso e burlesco che era stato il simbolo della caricatura italiana. Infatti, in Francia e in Gran Bretagna tenderà ad interessare la satira politica e sociale, mentre in Spagna verrà usata soprattutto come strumento di denuncia contro gli orrori della guerra (come si può vedere nell’esempio di Goya). Questo nuovo ruolo della caricatura tornerà successivamente ad influenzare il gusto italiano, quando gli artisti se ne serviranno per commentare e denunciare la situazione politica durante la dominazione austriaca. Infine, con l’ausilio della stampa, la caricatura finirà per anticipare il moderno giornalismo europeo.

 

Bibliografia

Negri Arnoldi - S. Prosperi Valenti Rodinò, Il disegno nella storia dell’arte italiana, Roma, 1986.

Petroli Tofani-S. Prosperi Valenti Rodinò-G.C. Sciolla, Il Disegno. Forme, tecniche e significati, Milano, 1991.

Fusconi-A. Petroli Tofani-S. Prosperi Valenti Rodinò-G. C. Sciolla, Il Disegno. I grandi collezionisti, Milano, 1992.

Baldinucci, Vocabolario Toscano dell’arte del disegno, 1681.


LA GALLERIA BORGHESE

A cura di Federica Comito

 

Galleria Borghese.

Galleria Borghese: un'introduzione

La Galleria Borghese è allestita nel Casino Nobile, che rappresenta il punto centrale dell’intera Villa Borghese già dal momento in cui venne progettata. Lo scopo era quello di costruire uno “scrigno” che contenesse le opere d’arte appartenenti alla famiglia Borghese. il Casino, acquistato dallo Stato italiano e divenuto museo pubblico nel 1902, può vantare il primato di ospitare il maggior numero di opere di Caravaggio e Bernini.

L’edificio

L’idea iniziale di spazio espositivo doveva essere già suggerita dall’esterno. Il palazzo fu costruito dagli architetti Flaminio Ponzio e Giovanni Vasanzio e circondato da statue in marmo, busti e bassorilievi ospitati in nicchie poste su tutta la facciata. Prevedeva un ingresso con doppia scalinata, due torri a completare la facciata anteriore, una loggia con cinque arcate e una terrazza ornata da statue. Il loggiato venne dipinto da Lanfranco e arricchito da opere che venivano inviate al Cardinale Scipione come omaggio. Quasi tutti gli artisti e i committenti più importanti del periodo parteciparono con le loro opere ad abbellire la “casa dell’arte” voluta da Scipione.

Gian Lorenzo Bernini, Busto di Scipione Borghese, marmo di carrara, 1632.

Alla fine del Settecento il Casino Nobile fu modificato per volere di Marcantonio IV Borghese. Incaricò l’architetto Asprucci del restauro che, tra il 1770 e il 1780 progettò un arredamento su misura coinvolgendo le stesse opere d’arte posizionandole in maniera scenografica, in un equilibrio perfetto tra antico e moderno. Anche i camini fanno parte dell’arredamento raffinato: realizzati dalla collaborazione di più artisti, dai bronzisti agli scultori, si riconoscono per la decorazione a maioliche. A fare da cornice le sale ricoperte di marmi ricchissimi. A questo punto torna anche di moda un’arte scomparsa da 150 anni, il mosaico romano tradizionale che viene rivalutato e rimesso in voga tra 500 e 600 grazie agli scavi archeologi effettuati in quel periodo.

Galleria Borghese: la collezione

La collezione Borghese fu voluta dal Cardinale Scipione, grande collezionista e amatore d’arte che riunì un gran numero di opere di inestimabile valore antiche e moderne tra il 1605 e il 1620. In particolare si legò ai grandi nomi del suo tempo come Bernini e Caravaggio dei quali collezionò i lavori. In poco più di 50 anni Scipione Borghese creò un’immensa collezione, ammirata ancora oggi. Tale era la bramosia di acquisire opere d’arte da spingerlo a ricorrere ad ogni mezzo, incluso incarcerare il Cavalier d'Arpino per impossessarsi delle sue oltre cento tele e far arrestare il Domenichino per sottrargli la “Caccia di Diana”

La prima raccolta risale al 1607, composta dalle opere acquistate da Tiberio Ceoli. Negli anni successivi il Cardinale Borghese incrementò la sua collezione privata fino alla sua morte, avvenuta nel 1633. Dopo Scipione toccò a Marcantonio IV Borghese che acquistò nuove opere e aggiunse i tesori archeologici rinvenuti durante gli scavi sulla via Prenestina. Modificò anche l’allestimento originario voluto dal suo antenato scegliendo di collocare le statue al piano terra dell’edificio.

A seguito del matrimonio di Camillo Borghese e Paolina Bonaparte nel 1803, ben 695 dei pezzi più importanti vennero vendute al fratello di lei Napoleone Bonaparte che le fece immediatamente trasferire in Francia.

Le sale espositive all’interno della Galleria sono 20, suddivise tra il piano terra e il primo piano.

Le sale del piano terra

Il “salone Mariano Rossi” funge da ingresso al percorso museale. Prende il nome dalla decorazione sul soffitto eseguita tra il 1775 e il 1779 ad opera di Mariano Rossi. Si tratta di un salone di grandi dimensioni decorato con sculture monumentali e affrescato sul soffitto con la scena di Romolo accolto nell’Olimpo. Il pavimento è in battuto alla veneziana, un tipo di pavimento realizzato con frammenti di pietra e marmo incastonati nella malta. Questa tipologia si alterna a fasce di marmo e arricchito da inserti di mosaici antichi, tra i quali spicca il famosissimo mosaico con Scene di caccia e lotta di gladiatori e fiere datato circa al IV sec d.C. Sulle pareti si alternano cammei in succo e dipinti con motivi vegetali e animali, mentre nella fascia alta delle pareti delle nicchie ospitano i busti degli imperatori romani.

Mosaico dei gladiatori, particolare della lotta con fiere, IV sec. d.C.

La “sala della Paolina” ospita l’opera Paolina Borghese come Venere Vincitrice realizzata da Antonio Canova. Inizialmente denominata sala “del vaso” per un antico cratere neoattico, oggi non esibisce più il suo aspetto settecentesco, ma quello datogli da Luigi Canina nell’Ottocento.

La “sala del David” contiene la scultura omonima di Gian Lorenzo Bernini. Inizialmente era detta “del Sole” per la Caduta di Fetonte rappresentata sulla volta. All’interno vi sono esposte nature morte e a tele di vario genere. In passato erano anche presenti alcune statue di Eracle, poi spostate nella terrazza. Alle pareti sono addossate alcune sculture antiche e i resti del sarcofago a colonne con le Fatiche di Ercole, datato intorno al 160 d.C.

Al centro della volta della “sala di Apollo e Dafne” vi è la tela di Pietro Angeletti in cui Amore colpisce i due protagonisti con le frecce, collegata tematicamente al gruppo scultoreo di Bernini al centro della stanza.  È presente un’altra tela dello stesso soggetto realizzata, questa volta, da Dosso Dossi.

La “sala degli imperatori” deve il suo nome ai busti ottocenteschi dei Dodici Cesari in porfido e alabastro. Sulle pareti spiccano i cammei in stucco a contrasto con i mosaici e i marmi. Al centro della sala spicca il gruppo berniniano del Ratto di Proserpina.

La “sala dell’ermafrodito” prende il nome dall’omonima scultura del II secolo d.C., copia dell’originale di Policleto. Il soggetto della statua è ripreso anche nei dipinti della volta.

La “sala di Enea e Anchise” ospita al centro il gruppo scultore omonimo del Bernini, che ha sostituito la statua del Gladiatore dal quale la sala prendeva il nome in origine.

Le opere di provenienza egizia sono invece collocate nella sala seguente, progettata da Antonio Asprucci allo scopo di contenere proprio questo gruppo della collezione. Le statue egizie sono addossate lungo il perimetro della sala ad anticipare la moda dell’egittomania esplosa in Europa.

L’ultima sala del piano terra è la “sala del sileno”, dedicata alla scultura del Sileno e Bacco bambino, oggi però conservata al Louvre. Si distingue per la presenza di ben sei dipinti di Caravaggio, oltre a tele del Cigoli, Giovanni Baglione ed altri artisti. Anche in questo caso troviamo statue e busti di epoca romana a decorare le pareti.

Le sale al primo piano

Al primo piano si trova la “sala di Didone”, che ospita dipinti di artisti del calibro di Raffaello, Perugino, Pinturicchio e Fra’ Bartolomeo. Tra gli arredamenti spicca un tavolo di marmo intarsiato del XVIII secolo.

La “sala di Ercole” è così chiamata per i cinque dipinti resenti sulla volta, un ciclo interamente dedicato all’eroe e commissionato da Marcantonio IV Borghese. Anticamente era collocato nella sala un letto a baldacchino e per questo la sala era in origine conosciuta come la “Stanza del Sonno”.

Le tele della scuola Ferrarese sono collocate nella “sala della Pittura Ferrarese” e spiccano per i temi naturali e paesaggistici.

La “sala delle Baccanti” deve il nome all’affresco centrale sulla volta, eseguito da Felice Giani con chiari rimandi alle decorazioni presenti nella Villa Adriana e alle grottesche della Domus Aurea.

La stanza di piccole dimensioni che prende il nome di “Sala della Fama” venne decorata da Felice Giani con l’Allegoria della Fama con putti e aquile. La decorazione è geometrica e presenta cornici ed ornamenti vegetali tipici degli ornati delle ville romane.

La “loggia di Lanfranco” è così chiamata per l’affresco del Concilio degli Dei, eseguito dal maestro tra il 1624 e il 1625. Il loggiato era originariamente aperto sui giardini segreti attraverso cinque arcate, poi chiuse durante i lavori del Settecento per proteggere gli affreschi stessi. In questa sala sono conservate le due versioni del busto berniniano raffigurante il cardinale Scipione Borghese.

Il ciclo del tempo, opera di Domenico Corvi, è il protagonista della “Sala dell’Aurora” e descrive il mutare del giorno e della notte, delle stagioni e le loro divinità. Le pareti sono decorate a grottesche e medaglioni raffiguranti uomini antichi. All’interno vi si trovano esposti dipinti di artisti provenienti dal nord Italia quali Dosso Dossi, Jacopo Bassano e altri. Al centro della sala è esposta l’allegoria de Il Sonno, scultura in marmo nero opera di Alessandro Algardi.

La “sala della Flora” ospita sulla volta l’opera di Domenico De Angelis raffigurante Flora circondata da decorazioni vegetali, realizzate da Giovan Battista Marchetti. I quadri esibiti in questa sala, risalenti alla seconda metà del Cinquecento, sono di ispirazione michelangiolesca.

Il riconoscimento di Gualtiero conte di Angers, realizzato nel XVIII secolo da Giuseppe Cades, decora la volta della sala dedicata all’omonimo personaggio del Decameron. Nella stanza sono presenti dipinti di provenienza principalmente fiamminga e acquistati da Marcantonio IV.

La “sala di Giove e Antiope” è dominata la tela, dal medesimo soggetto, eseguito da Benigne Gagneraux. Tra le opere di scuola fiamminga e italiana esposte in questa sala, si annoverano anche lavori di Pietro da Cortona e Pieter Paul Rubens.

La “sala di Enea e Paride” è ricca di arredamenti e decorazioni tipiche della rielaborazione romana dell’antico. Anche in questo caso la sala prende il nome dalla decorazione della volta.

La “sala di Psiche” è caratterizzata da una decorazione illusionistica di Giovan Battista Marchetti con le storie di Amore e Psiche. In quest’ultima stanza si trovano opere di Tiziano, Antonello da Messina, Lorenzo Lotto e Paolo Veronese. Inoltre, vi è collocato anche il più antico dei camini che si trovano nel museo, insieme ad una coppia di tavolini in stile Luigi XVI.

I depositi di Galleria Borghese

Il deposito collocato sopra la Pinacoteca di Galleria Borghese ospita circa 260 opere esposte come in una quadreria e perciò visitabile. I dipinti esposti, ordinati per scuole pittoriche e aree tematiche, si trovano qui perché il nuovo assetto delle sale inferiori, avvenuto nel ‘700, non permetteva più l’esposizione dell’intera collezione.

Deposito della quadreria, Galleria Borghese.

Dal 2015 è possibile visitare anche il “Deposito delle sculture di Villa Borghese”, ospitato all’interno del Museo Pietro Canonica, dove sono esposte le opere della collezione Borghese che un tempo arricchivano le vie del parco.

Deposito delle sculture, museo Pietro Canonica.

Conclusione

Questo museo, nato dalla passione dei Borghese per l’arte moderna e antica, è l’esempio perfetto della volontà di affermare il prestigio familiare tramite il collezionismo. In questo, certamente i Borghese hanno centrato il loro obiettivo perché anche chi non è appassionato o conoscitore di storia dell’arte si rende conto della straordinaria bellezza della Galleria.

 

 

Bibliografia

Venturi, Il Museo e la galleria Borghese, 1893, Roma

I giardini storici di Roma, Villa Borghese, De Luca editori d’arte, 2000, Roma.

 

Sitografia

https://galleriaborghese.beniculturali.it/

https://www.youtube.com/watch?v=QBrqev9rzlk&ab_channel=arte%26pittura


VILLA BORGHESE- IL PARCO. SECONDA PARTE

A cura di Federica Comito

Introduzione

Quello che rende magica Villa Borghese, oltre alla concentrazione al suo interno di istituti culturali e musei, è sicuramente l’enorme spazio naturale: un vero e proprio polmone verde al centro di Roma.

Sin dal momento in cui venne progettato e realizzato l’intero spazio della Villa, fu data la massima importanza ai giardini, che vennero concepiti come un museo all’aperto, ricchi di statue, fontane, architetture preziosissime, nonché specie vegetali rare.

Fig. 1 - Il parco di Villa Borghese: il laghetto.

I giardini di Villa Borghese 

L’allestimento dei giardini fu affidato all’architetto Flaminio Ponzio, che suddivise lo spazio in riquadri, oggi solo parzialmente percepibili grazie alle siepi ancora presenti.

Di particolare interesse sono i Giardini segreti, che si rifacevano al modello dell’hortus conclusus medievale. Questi oggi non conservano più l’aspetto originale a causa delle trasformazioni subite nel corso dei secoli e dei danni inferti dalle guerre. Nel Seicento, per mantenere il loro stato di “segretezza” ed essere visitabili unicamente dal Principe e i suoi ospiti, i giardini furono completamente cinti da alte mura. Realizzati tra il 1610 e il 1633, i giardini erano inizialmente due, chiamati “dei melangoli” e “dei fiori”, e affiancavano il Casino Nobile. Soltanto alcuni anni dopo, nel 1680, venne realizzato un terzo giardino segreto tra l’Uccelliera e la Meridiana, costruite lungo la cinta muraria del primo e del secondo giardino. Al suo interno crescevano piante rare ed esotiche, talmente delicate e bisognose di attenzioni particolari da rendere necessaria la costruzione di un ulteriore giardino, detto “di propagazione”, che fungesse da vivaio.

Una sorta di riserva naturale era il Parco dei Daini, che ospitava daini e gazzelle, oltre ad una varietà eccellente di piante come alloro, eucalipto, ulivo e quercia rossa, alcune delle quali sono ammirabili ancora oggi. Il parco era recintato e decorato da erme realizzate da Pietro e Gian Lorenzo Bernini, recentemente restaurate, che avevano anche il compito di delimitare i viali.

Fig. 2 - Il parco dei Daini.

È forse il Giardino del Lago ad essere il più frequentato dai visitatori. Infatti, quando negli anni ’30 del Novecento venne avviato il progetto dei “Giardini di lettura”, proprio qui furono installate delle piccole biblioteche dalle quali era possibile prendere in prestito un libro, leggerlo in riva al lago e restituirlo entro il tramonto. Intorno al 1784 Marcantonio IV Borghese decise di trasformare questo luogo in un giardino all’inglese, molto di moda all’epoca, eliminando quindi gli oltre seicento esemplari di licini che popolavano il così detto “Piano dei Licini” e sostituendoli con piante esotiche, alberi rari e un laghetto artificiale. I lavori furono diretti da Antonio e Mario Asprucci, i quali si avvalsero della collaborazione del paesaggista Jacob More e di giardinieri e artisti che si occuparono di sistemare viali e arredi classicheggianti quali statue, colonne e tre templi in stile neoclassico: il tempio di Antonino e Faustina, il tempio di Diana e il Tempio di Esculapio.

Con la funzione di fondale prospettico, il Tempio dedicato ad Antonino e Faustina si trova sul finire del viale che conduce al Casino Nobile. Il progetto del monumento segue la moda inglese del tempo, che prevedeva l’uso di vere e proprie rovine per la costruzione di un’opera nuova: vennero utilizzate due colonne di granito e quattro capitelli antichi; sul timpano in rovina vennero applicate parti di sarcofagi autentici; ai lati del tempio, invece, vennero collocati due altari con incisioni in lingua greca, latina e italiana, copiate dalla Villa di Erode Attico. Marcantonio Borghese scelse per il progetto il pittore tirolese neoclassico Cristoforo Unterperger che, comprendendo perfettamente la passione per l’antico, diede vita a questa costruzione dal sapore erudito-archeologico nel 1792.

Fig. 3 - Tempio di Antonino e Faustina.

Il Tempio di Diana fu costruito nel 1789 presso il viale della Casina di Raffaello. Al centro del tempio, su una colonna tronca rimasta attualmente vuota, era collocata la statua di marmo di Carrara della dea, oggi conservata al Louvre. Il modello a cui il tempietto fa riferimento è il Tempio di Vesta (o tempio dell’Amore) di Versailles. Su una base di quattro gradini si erge la costruzione monoptera (cioè costituito da un semplice colonnato circolare) formato da 8 colonne sormontate da una cupola sotto la quale corre un fregio decorato. L’architrave che sostiene il fregio presenta un’iscrizione in latino che tradotta recita: “alla dea della luce notturna, signora delle foreste”. L’edificio è sormontato da una scultura a forma di pigna. Infine, l’interno è decorato in stucco bianco su fondo azzurro con scene di caccia in onore della Dea. Anche in questo caso, Marcantonio Borghese affidò i lavori agli architetti Asprucci.

Fig. 4 - Tempio di Diana.

Il Tempio di Esculapio, dio della medicina, è in stile ionico. Architettonicamente il tempio presenta un frontone triangolare e una trabeazione con incisione in greco, dedicata al dio, sorretta da quattro capitelli in stile ionico. Nel timpano è raffigurata la scena dello sbarco a Roma del serpente Epidauro che rappresenta il dio stesso. Il tetto è sormontato da statue ellenistiche di divinità e animali sacri. Ai lati della struttura furono poste due rocce con due statue di Ninfe, rappresentate come se uscissero dalle acque. Sul retro è collocata l’edicola con la statua del dio, che era stata rinvenuta negli scavi presso il Mausoleo di Augusto. Il tempio, che si riflette sul laghetto, si trova su una piccola isola artificiale ed è raggiungibile tramite un pontile di legno. Anche quest’ultimo tempio venne realizzato, tra il 1785 e il 1792, dagli Asprucci con l’aiuto di Cristoforo Unterperger e dedicato ad Esculapio a causa del recente ritrovamento, tra le rovine del Mausoleo di Augusto, di una statua del dio. Tra il 2013 e il 2014 sono stati realizzati lavori di manutenzione straordinaria per il risanamento del bacino nel Giardino del Lago e interventi di manutenzione del tempio di Esculapio stesso.

Fig. 5 – Il Tempio di Esculapio e il laghetto di Villa Borghese.

Le fontane di Villa Borghese 

Tra le costruzioni più decorative all’interno della villa, le fontane spiccano sicuramente per la bellezza dei giochi d’acqua e delle sculture. Inserite nel parco tra l’inizio del Seicento e l’inizio del Novecento, grazie alla loro varietà di tipologie sono, ad oggi, testimonianza dei cambiamenti della cultura nel corso dei secoli. Attualmente, tutte le fontane, così come i laghetti, sono irrigate direttamente dall’acquedotto del Peschiera, il principale acquedotto romano. Nel XVII secolo i lavori sull’acquedotto dell’Acqua Felice e sulle fontane della villa vennero affidati all’architetto e ingegnere Giovanni Fontana. Un secolo dopo, Marcantonio Borghese finanziò una serie di trasformazioni, concentrandosi con particolare interesse sulle fontane, che vennero spostate e riposizionate secondo uno stile più attuale. È opportuno citare alcune delle tantissime fontane presenti in tutto il parco. Tra queste, la Fontana del Sarcofago (conosciuta anche come Fontana delle Vittorie Alate) nell’estate del 2018 è stata vittima di un atto vandalico, riportando un danneggiamento al mascherone che sovrasta la fontana in pietra, copia dell’originale in marmo custodita nel deposito del museo Pietro Canonica. Realizzata nel 1917 e situata in viale Goethe, ha la forma di una vasca realizzata con un originale sarcofago di età romana, raffigurante le vittorie alate tra festoni vegetali e volti umani. Sul retro, ospita una seconda fontana chiamata Fontana con tazza baccellata.

Fig. 6 - La Fontana del Sarcofago: prima e dopo gli atti vandalici.

La Fontana di Venere si trova nel piazzale Scipione Borghese, sul retro del Casino Nobile, e prende il nome dalla statua marmorea di Venere, copia della Venere Medicea, posta su una roccia al centro della vasca. La fontana è composta da una vasca di forma rotonda e presenta, lungo tutta la circonferenza, dei portavasi. Probabilmente progettata da Giovanni Vasanzio nella prima metà del XVII secolo, la struttura recava originariamente al centro una statua in bronzo dorato di Narciso.

Conclusione

La presenza di elementi preziosi come le fontane, le piccole fabbriche e gli altri elementi di decoro, rendevano ancora più suggestiva l’atmosfera della Villa. Non a caso il parco è stato lo sfondo perfetto per le ascensioni aerostatiche del mongolfierista francese Arban per le esibizioni di acrobati e feste. L’effetto che si ha passeggiando per il parco è quello di un paesaggio vario, mai banale ed estremamente vivo. Le emozioni suscitate mutano di continuo, come muta il verdeggiare della villa, dalle acque malinconiche del laghetto all’allegria degli spruzzi d’acqua delle fontane. Ogni scorcio non è mai uguale a sé stesso, ma mostra un volto nuovo e diverso in base alla luce e alle stagioni.

 

Bibliografia

Finestre sull’arte (https://www.finestresullarte.info/attualita/roma-decapitata-fontana-del-sarcofago)

Autori Vari, I giardini storici di Roma, Villa Borghese, Roma, Edizioni De Luca, 2000

 

Sitografia

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romasegreta.it


VILLA BORGHESE - IL PARCO PARTE I

A cura di Federica Comito

Introduzione

L’immenso parco di Villa Borghese si estende per circa 80 ettari nel cuore della città eterna. Con l’aiuto della tavola realizzata da Simone Delino (fig. 1) siamo in grado di orientarci nella villa del 1600, capire in che modo erano organizzati i recinti al suo interno e che cosa ospitavano, mentre il raffronto con la mappa odierna (fig.1a) aiuta a capire le trasformazioni avvenute nel corso del tempo. Lungo tutto il perimetro sono disseminati ben 9 ingressi, di cui 6 monumentali, che racchiudono uno dei parchi più ricchi di testimonianze artistiche e naturalistiche. Soffermandoci su questi ingressi percorriamo quattro secoli di storia, immaginando cosa provassero gli ospiti dei Borghese a varcare quei meravigliosi portali.

La nostra passeggiata virtuale inizia dall’ingresso seicentesco situato in via Pinciana, la via pubblica più importante del tempo, dove si trova il portale Flaminio Ponzio (fig. 2). La struttura ad arco, arricchita con stemmi araldici da Flaminio Ponzio, si apre nel muro di cinta e venne inaugurata il 5 novembre 1609. A quel tempo questa fungeva da ingresso principale della Villa e pertanto era considerata la zona principale. Tuttavia, il portale oggi non si trova nel punto preciso in cui fu realizzato perché tra il 1910 e il 1912 venne fatto arretrare di qualche metro per l’esecuzione di alcuni lavori che prevedevano l’aumento delle dimensioni della strada adiacente.

Fig. 2 - Portale Flaminio Ponzio.

Su piazzale San Paolo del Brasile si trova il portale costruito negli anni ’90 del Settecento dall’architetto Asprucci con i famosi Propilei delle Aquile (fig. 3). A quel tempo era collocato lungo il Muro Torto e fungeva da ingresso di servizio, ma nel 1933 si decise di spostarlo all’altezza di Porta Pinciana seguendo la trasformazione urbanistica del tempo.

Fig. 3 - Ingresso con il Portale dei Porpilei delle Aquile.

Lo stile dei propilei venne ripreso su piazzale Flaminio quando nel 1827 venne realizzato da Canina il portale con i Propilei Neoclassici basati sui modelli dell’architettura greca.

Nel XVII viene costruito il Portale del Leone, sull’attuale via P. Raimondi. Attribuito a Flaminio Ponzio, della sua struttura oggi resta solo la testa di leone situata sulla chiave di volta a ricordare la ricca decorazione originale. Accedendo da questo portale ci si trova nel Parco dei Daini.

Su via Pinciana si trova poi l’ingresso con il Portale del Drago, che prende il nome dal soggetto protagonista dell’insegna dei Borghese che lo sormonta. Realizzato nel 1617, oggi è l’ingresso della scuola materna ospitata nell’ex Casino degli Uffizi.

L’ingresso originario della villa in zona Porta Pinciana è il Portale dei vasi, che però cambiò collocazione nel 1914 diventando l’ingresso del Giardino Zoologico, aperto al pubblico nel 1911.

La Villa quindi si trasforma e si adegua ai cambiamenti della città che la ospita.

Villa Borghese: gli edifici

Edifici di diverso stile architettonico ed epoca, nonché statue, fontane, opere d’arte, monumenti celebrativi e una vasta varietà botanica e faunistica, trovano armoniosamente spazio all’interno del parco di Villa Borghese. Tali fabbricati in molti casi sono stati trasformati in musei oppure reinventati. Questo perché, come abbiamo visto in precedenza, nel corso dei secoli la villa ha avuto più proprietari e ha attraversato periodi storici che hanno richiesto la ricollocazione degli spazi.

Tra i principali edifici l’Aranciera, oggi sede del Museo Carlo Bilotti di arte contemporanea, l’edificio di più antica proprietà dei Borghese. Il museo custodisce oggi i pezzi della collezione privata di Carlo Bilotti e comprende opere di artisti come De Chirico, Severini, Warhol e Manzù. L’edificio del 1650 era a due piani con torretta, logge coperte e un cortile quadrato, ma negli anni ha subito diverse modifiche. Alla fine del ‘700 era noto come il “Casino dei giuochi d’acqua” per la presenza di fontane e ninfei barocchi e, dopo una serie di restauri, da casale rustico divenne degno di ospitare i fastosi ricevimenti della famiglia. In questo periodo venne anche costruito un pergolato con una grande varietà di alberi di agrumi. Nel 1849 l’edificio venne distrutto dai bombardamenti francesi e fu poi ricostruito, con modifiche notevoli, per ospitare le piante di agrumi durante l’inverno, da cui prende il nome di “Aranciera”. Dopo diversi usi, negli anni ‘80 del Novecento venne restaurato per ospitare l’attuale museo.

La Casina del lago, oggi caffetteria Bilotti del museo omonimo, è un piccolo chalet databile agli anni ‘20 del Novecento.

La Casina delle Rose, oggi Casa del Cinema, era in origine parte del territorio dei Manfroni acquistato poi dai Borghese nel 1833. Inizialmente l’edificio si trovava in zona Porta Pinciana ed era strutturato in un loggiato con quattro archi corrispondenti a una loggia coperta sul piano superiore. Intorno alla Casina si trovava un giardino carico di alberi da frutto, una vigna, un’uccelliera, un pozzo e, tra le altre cose, una grotta. Inoltre, facevano parte della proprietà anche un fienile e l’alloggio dell’addetto alle vigne. Distrutta dai bombardamenti del 1849, la villa subì diverse trasformazioni e, una volta acquisita da parte dello Stato, finì in degrado. Fu poi restaurata e trasformata in un punto di ristoro con l’aggiunta di nuovi locali.

Il Cinema dei Piccoli, con soli 63 posti a sedere, è il più piccolo cinematografo al mondo.

L’Uccelliera  (fig. 4), chiamata così perché vi si potevano ammirare uccelli rari in particolare tra il 1616 e il 1619. La struttura, per richiamare appunto la sua funzione, è decorata all’interno con motivi vegetali arricchiti da varie specie di volatili. L’esterno, invece, presenta finestre con cornici che un tempo ospitavano busti su piedistalli oggi perduti. L’architetto che la progettò fu l’italiano Girolamo Rainaldi.

Fig. 4 - L'Uccelliera.

Dopo aver eseguito l’Uccelliera lo stesso Carlo Rainaldi costruisce la Meridiana (fig. 5) nel 1688, caratterizzata da una meridiana (orologio solare) decorata in marmo e stucco, che oggi ospita il centro informazioni e il centro documentazioni di Villa Borghese.

Fig. 5 - La Meridiana.

Il Casino dell’Orologio (fig. 6) fu costruito su progetto dell’ingegnere Nicola Fagioli sulla preesistente abitazione del giardiniere. La struttura si presenta su due piani e prende il nome dai quattro orologi posti su una torretta posta in cima all’edificio e sormontata da un tempietto a cupola con otto colonne di tipo dorico. Nella torre si trovano tre campane e sulla cima una banderuola. Per volere di Marcantonio Borghese, dal 1791 l’edificio divenne un museo di reperti archeologici rinvenuti nel sito di Gabii, collocato sulla via Prenestina e situato sul terreno di proprietà dei Borghese. Il museo venne successivamente smantellato, nel 1807, quando le sculture vennero vendute a Napoleone. Oggi è sede di uffici comunali.

Fig. 6 - Il Casino dell'Orologio.

La Fortezzuola  o Gallinaro, è così chiamata perché nel seicento fungeva da luogo in cui venivano allevati pavoni, anatre e struzzi utilizzati durante le battute di caccia. Dopo vari utilizzi, nel 1919 l’edificio venne abbandonato a seguito di un incendio. Tuttavia, il comune di Roma, decise, nel 1926, di ridare vita alla Fortezzuola donandola allo scultore Pietro Canonica che la trasformò nella sua dimora dopo averla restaurata adeguando le stalle in ambienti in cui esporre le sue opere.  Oggi è divenuto il Museo Pietro Canonica, inonore dello scultore a cui deve il nome. Inoltre, nei locali inferiori, ospita il “Deposito delle sculture di Villa Borghese”.

Infine, il più conosciuto degli edifici della Villa: Il Casino Nobile. Questo oggi è la sede della Galleria Borghese, ma della sua struttura ne tratteremo meglio in seguito.

Conclusione

Per l’alta concentrazione di musei e istituti culturali al suo interno (il Silvano Toti Globe Theatre, il Bioparco, il Museo civico di zoologia e quelli già citati) la Villa Borghese è oggi definita “Parco dei Musei”.

 

Bibliografia

I giardini storici di Roma, Villa Borghese, De Luca editori d’arte, 2000, Roma.

Iacomo Manilli, Villa borghese fuori di Porta Pinciana, 1650.

 

Sitografia

Sovrintendenzaroma.it

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VILLA BORGHESE A ROMA: LA STORIA

A cura di Federica Comito
Fig.1 - Villa Borghese, fotografia aerea.

Introduzione

Con i suoi 80 ettari e ben 9 entrate Villa Borghese è uno dei parchi più grandi di Roma e può essere considerato come un vero e proprio museo all’aperto. La Villa è un insieme di architetture, monumenti celebrativi, fontane, statue e giardini dalla ricca flora che desta particolare interesse (si pensi alle orchidee selvatiche che crescono nei suoi giardini o agli alberi secolari che risalgono al tempo della costruzione della villa), non a caso è uno dei parchi più conosciuti e frequentati. È proprio la fusione di arte e natura che fa di Villa Borghese un luogo di rara bellezza.

Ed è proprio questo il concetto che Scipione Borghese voleva sottolineare quando fece realizzare una lapide in marmo da collocare fuori dal proprio palazzo come un invito rivolto ai visitatori a godere delle bellezze della natura e dell’arte. L'iscrizione sulla targa, oggi custodita al Lapidario Vaticano, tradotta dal latino, suona pressapoco così:

“IO, CUSTODE DELLA VILLA BORGHESE QUESTO PUBBLICAMENTE

DICHIARO: CHIUNQUE TU SIA, PURCHÉ DA UOMO LIBERO NON TEMERE QUI

IMPACCI DI REGOLAMENTI, VA PURE DOVE VUOI, DOMANDA QUEL CHE

DESIDERI; VAI VIA QUANDO VUOI.

QUESTE DELIZIE SONO FATTE PIÙ PER ESTRANEI CHE PER IL PADRONE.

NEL SECOLO D’ORO IN CUI LA SICUREZZA DEI TEMPI RESE AURA OGNI

COSA, IL PADRONE PROIBISCE DI IMPORRE LEGGI FERREE ALL'OSPITE CHE

QUI SI INDUGI. L’AMICO ABBIA QUI IN LUOGO DELLA LEGGE IL BUON

VOLERE; SE INVECE ALCUNO CON MALVAGIO INGANNO, VOLENTE E

COSCIENTE, INFRANGERÀ LE AUREE LEGGI DELLA CORTESIA, BADI BENE CHE

IL CUSTODE ADIRATO NON GLI STRACCI LA TESSERA DELL’AMICIZIA”.

Questa è la chiara testimonianza del fatto che, già al tempo, la collezione di statue presente nel giardino era aperta a chiunque volesse visitarla e proprio su questo punto fece leva lo Stato Italiano per acquistare la Villa nei primi anni del Novecento.

Fig. 2 - La lapide marmorea con Lex Hospitalia incisa. Credits: https://www.radiocolonna.it/arte-e-cultura/2014/07/09/galleria-borghese-il-ritorno-della-lex-hospitalis-del-cardinale/.

Villa Borghese ha vissuto diverse fasi di trasformazione nel corso di ben quattro secoli, a partire dal tempo di Scipione Borghese fino ai giorni nostri. Trasformazioni che hanno interessato il carattere architettonico e paesaggistico assecondando il gusto e lo stile del tempo.

La storia

Fig. 3 - M. Greuter, Villa Borghesia incisione, 1623.

Villa Borghese nacque nel XVI secolo come residenza suburbana dei Borghese con il ruolo di sede di tutte le loro collezioni artistiche e la sua costruzione procedette fino al XX secolo. Papa Paolo V Borghese, nel 1606, affidò al nipote Scipione Caffarelli Borghese il compito di far costruire una villa extraurbana nella zona di Porta Pinciana, dove la famiglia aveva dei possedimenti terrieri acquistati nel 1580 che arrivarono ad estendersi fino a 50 ettari dopo l’acquisizione di alcune vigne circostanti. Una zona di alto valore storico se si pensa che è stata identificata come l'area dove sorgevano gli horti luculliani. La volontà di Scipione era quella di realizzare un luogo di svago e riposo circondato dal verde che accogliesse opere d’arte di ogni genere e che riflettesse il suo gusto e quello del suo tempo. Questo progetto concordava, non a caso, anche con il clima di rinascita urbanistica che aleggiava intorno al pontificato di Papa Borghese, ed aumentava la grandezza dell'intera famiglia. Nel cantiere di realizzazione del Palazzo principale o Casino Nobile (oggi Galleria Borghese), si susseguirono architetti del calibro di Flaminio Ponzio, Giovanni Vasanzio e Girolamo Rainaldi. Flaminio Ponzio lavorò direttamente sugli schizzi realizzati dallo stesso Scipione per costruire il palazzo al fine di rispettarne al meglio i desideri. Quando Ponzio morì subentrò Vasanzio e, sotto la sua direzione, si procedette con un ulteriore ampliamento, che comportò l’accorpamento di quella che oggi è conosciuta come Valle dei Platani e dell’attuale Bioparco.

I giardini

Grande importanza venne data ai giardini, infatti un ruolo fondamentale venne affidato al giardiniere Domenico Savini che, assieme a Pietro e Gian Lorenzo Bernini, affiancava gli architetti durante i lavori. Riflettendo i modelli barocchi il grande giardino fu delimitato da alte mura e suddiviso in tre zone che presero il nome di “recinti”. Il primo era lo spazio difronte al Casino Nobile ed era denominato giardino Boschereccio, il secondo era il Parco dei Daini; il terzo era chiamato Barco ed equivaleva alla parte più ampia delle recinzioni.

Non potevano mancare i “giardini segreti” ad uso esclusivo del Principe Borghese e dei suoi ospiti. In origine erano 2, chiamati "dei Fiori" e "dei Melangoli" per la presenza di specie floreali e degli alberi di arance amare che venivano lì coltivati al fine di mimetizzarne le mura. Al termine dei giardini vennero eretti due edifici: l’Uccelliera e la Meridiana.

Nel corso del XIX secolo furono aperte le porte dei giardini al passeggio dei cittadini, che vi organizzarono feste popolari.

Nel XVIII secolo, in concomitanza con il diffondersi del gusto Neoclassico, Marcantonio IV Borghese apportò alcune modifiche all’assetto della villa, in particolare nell’area del terzo recinto, dove fece costruire dei templi, aggiunse statue, fontane e arredi di vario genere, il tutto ispirato al mondo classico. Decise inoltre di abbattere i muri di cinta nella zona corrispondente a Via Flaminia e di migliorare le qualità estetiche e architettoniche della zona affacciata su Piazza del Popolo, in quanto stava diventando un luogo assai visitato. Per i lavori vennero incaricati nel 1776 gli architetti Antonio e Mario Asprucci, che si occuparono, tra le altre cose, dell’abbattimento del muro di cinta che separava l’area interessata dai lavori dagli altri due recinti.

Fig. 4 - Burghesiorum Villae Romanae ichonographia, 1776.

In generale tutti i lavori in stile neoclassico iniziati nel Settecento si protrassero nell’Ottocento. A questo momento di grande trasformazione appartengono i famosissimi propilei greci in stile ionico realizzati nel 1829, che costituiscono l’ingresso della Villa in zona Piazza del Popolo.

Col tempo la famiglia Borghese ampliò ulteriormente la villa, in particolare il principe Camillo Borghese acquistò dei terreni circostanti appartenenti ai Doria, ai Manfroni e ai Bourbon del Monte, che vennero riplasmati e integrati seguendo i progetti dell’architetto Luigi Canina. Nell’Ottocento il giardino all’italiana venne trasformato in un giardino all’inglese che si basava sull’accostamento di elementi naturali e artificiali quali grotte, tempietti, rovine ecc. A questo punto la sorte della Villa e delle sue bellezze si legò indissolubilmente alle figure degli uomini che la abitarono: Camillo Borghese sposò nel 1803 la sorella di Napoleone Bonaparte, Paolina. Il Generale, per un proprio rendiconto, convinse Camillo a vendere gran parte delle collezioni antiche al Louvre che oggi appartengono al Fondo Borghese del museo parigino. Questo momento segnò da una parte la fine del collezionismo della famiglia Borghese, dall’altra l’apertura del nuovo capitolo dedicato al ruolo dei grandi musei d’Europa.

Fig. 5 - Luigi Canina, pianta di Villa Borghese con gli interventi del 1828.

Nel 1861, con l’Unità d’Italia, la villa fu soggetta a un piano di lottizzazione e acquistata poi dallo Stato Italiano nel 1901 per "soli" 3 milioni e seicento mila lire (una cifra veramente irrisoria se si pensa che il Barone di Rothschild nel 1899 era intenzionato a pagare 4 milioni di lire per un solo quadro presente all’interno della Galleria Borghese cioè l’Amor Sacro e Amor profano di Tiziano). Solo due anni dopo, nel 1903, il Regno d'Italia cedette la proprietà della Villa al comune di Roma che la rese fruibile al pubblico. Lo Stato poi trasformò il Casino nobile con l’intera collezione di opere d’arte in un museo pubblico, l’attuale Galleria Borghese.

Una volta divenuta proprietà demaniale, la Villa fu interessata da lavori sia all’interno del parco che all’esterno. Nel 1908 venne inaugurato il ponte che ancora oggi collega la villa con il Pincio e venne arretrato di 10 m l’ingresso di Porta Pinciana per allargare il manto stradale. Nel 1911 venne celebrata l’apertura del Giardino zoologico, oggi Bioparco. Tra il 1904 e il 1905 all'interno parco furono innalzati i primi monumenti celebrativi. Negli anni Trenta il Giardino del Lago fu protagonista di un’iniziativa interessante, perché vennero progettati da Raffaele Vico dei chioschi con biblioteche da cui era possibile prendere in prestito libri da riconsegnare al tramonto.  Durante i due conflitti mondiali la villa fu lasciata in disuso e si decise di utilizzare i giardini segreti per la coltivazione di ortaggi. Nella seconda metà del Novecento sono iniziate le trasformazioni che hanno portato il parco di Villa Borghese ad assumere l'aspetto che tutti conosciamo oggi. Accanto alla Casa del Cinema, fondata nel 2004 e ospitata nella Casina delle Rose, viene infine costruito il Cinema dei Piccoli, entrato nel Guinness dei primati come il cinema più piccolo del Mondo.

Conclusione

La storia della Villa è legata indissolubilmente all’arte fin dal principio e, tuttora, traspare il carattere unitario con cui la natura si fonde alle opere d’arte. Una volta acquisita la proprietà della Villa, il comune di Roma cambiò il nome in “Villa comunale Umberto I già Borghese” in onore del Re d’Italia Umberto I di Savoia. Eppure, ancora oggi, è chiamata da tutti semplicemente Villa Borghese.

 

Bibliografia

Villa borghese, De Luca Editori d’Arte

 

Sitografia

Sovraintenzaroma.it

Villa borghese fuori da Porta Pinciana, descritta da Iacopo Manilli


LA SALA DELLE NOZZE DI ALESSANDRO E ROSSANE

A cura di Federica Comito

Subito successiva alla Sala delle Prospettive, si trova la camera da letto di Agostino Chigi conosciuta come la Sala delle Nozze di Alessandro e Rossane. Prende il nome dalle storie affrescate che vedono come protagonista Alessandro Magno e la principessa Rossane, figlia di Ossiarte satrapo della Battriana (una regione asiatica corrispondente più o meno all'attuale Afghanistan), che il giovane condottiero sposa nel 327 a.C. La storia scelta era destinata a glorificare il committente Agostino, paragonandolo all'eroe della classicità. Affrescata nel 1518-19, effettuarono i lavori nella sala prima l’architetto Baldassarre Peruzzi e poi il pittore Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma. Questo incarico offrì al Sodoma la possibilità di entrare a far parte del prestigioso circolo di umanisti di Agostino Chigi. Nella sala colpisce l’elaborato soffitto a cassettoni con forme geometriche dorate e blu che incorniciano dodici piccoli riquadri rappresentanti scene dalle Metamorfosi di Ovidio alternate a decorazioni vegetali. Disegnato da Baldassarre Peruzzi, è stato eseguito poi da Maturino da Firenze aiutato probabilmente da un giovane Polidoro da Caravaggio. Al centro si trova lo stemma araldico di Agostino Chigi su fondo azzurro.

Fig. 1 - Soffitto cassettonato con lo stemma di Agostino Chigi e decorazioni.

Gli affreschi della Sala delle Nozze

Sulle pareti sono affrescate alcune significative scene della breve vita del condottiero Alessandro Magno, morto a soli 33 anni.

Sull’intera parete nord della Sala delle Nozze è raffigurata la scena, particolarmente conosciuta e che dà il nome alla stanza, delle Nozze di Alessandro e Rossane. Nell'affresco sono frequenti i richiami al tema matrimoniale, dai puttini alati alla fiaccola accesa sostenuta dal dio Imeneo, emblema delle nozze, ritratto alle spalle del seminudo Efestione, fedele compagno del condottiero macedone. Da notare i giochi prospettici: in basso una sorta di balaustra dietro la quale si vede un pavimento in prospettiva con Alessandro che porge la corona alla bellissima sposa; sul fondo del padiglione del letto c’è uno specchio - tipico della cultura fiamminga - che ingrandisce otticamente la stanza; un loggiato sulla destra dona profondità alla scena. Il letto, probabilmente, riprendeva quello realmente presente nella camera, costato 1592 ducati perché realizzato in oro, avorio e pietre preziose. L'affresco con le Nozze di Alessandro e Rossane era il più importante perché dedicato al matrimonio tra Agostino e Francesca, ma anche il più difficile da realizzare in quanto avrebbe dovuto ricreare un antico dipinto del pittore greco Aezione. Purtroppo però tale dipinto non esisteva più, e non ne erano neppure reperibili delle copie. Per ricostruirlo si dovette far fronte a una descrizione letteraria contenuta nell'Erodoto dello scrittore latino Luciano. Il testo, in greco, venne tradotto in latino nel 1503, ma stampato e diffuso solo dopo il 1529. Secondo alcuni storici è probabile che inizialmente Agostino Chigi avesse affidato a Raffaello il compito di dipingere questa camera, infatti in alcuni passi dei trattati di Dolce e Lomazzo si accenna ad un disegno realizzato dal Sanzio ad acquerello e biacca con le storie di Alessandro il Grande. Tuttavia Raffaello in quel momento era già impegnato ad affrescare la Loggia di Psiche perciò l'incarico passò al Sodoma, già conosciuto dalla famiglia Chigi in quanto aveva lavorato a Siena per Sigismondo, fratello di Agostino. Prendendo in esame lo studio di Raffaello, il Sodoma ridefinì la composizione, seguendo scrupolosamente il testo letterario e arricchendo la scena di elementi narrativi. La mano raffaellesca è ancora evidente, come nella donna con la brocca a sinistra, ripresa dall'Incendio di Borgo nell’omonima Stanza Vaticana, ma anche nelle architetture tipicamente bramantesche e nella dilatazione spaziale. Il Sodoma però effettua anche interessanti variazioni personali, dettate dai suoi studi archeologici: la figura di Alessandro deriva dalla conoscenza dell'Apollo del Belvedere, quella di Vulcano ripropone il movimento ricco di tensione e dramma del Laocoonte.

Fig. 2 - Parete affrescata con la scena delle nozze di Alessandro e Rossane.

Sulla parete successiva è raffigurato Alessandro Magno che doma Bucefalo, dipinto in cui è riconoscibile, specialmente nella parte destra, la mano di un collaboratore. Si pensa che questo affresco sia stato realizzato per coprire i buchi lasciati dalla rimozione del letto a baldacchino che doveva trovarsi ancorato proprio a quella parete. Pare invece che il lato sinistro sopra l’entrata, dove si intravede sullo sfondo la Basilica di Massenzio e in primo piano la Lupa con Romolo e Remo, sia da attribuire al Sodoma.

Fig. 3 - Affresco con Alessandro che doma Bucefalo.

Nella parete tra le due finestre è affrescata una scena di battaglia con un paesaggio di campagna romana che si perde all'orizzonte, visto, anche in questo caso, oltre un parapetto come se ci si affacciasse sulla battaglia.

Fig. 4 - Scena di battaglia affrescata tra le due finestre.

Sulla parete destra è dipinta la Clemenza di Alessandro Magno nei confronti della famiglia di Dario, il re persiano sconfitto: Alessandro Magno, dopo la battaglia, riceve e perdona la vedova e le figlie del rivale. Tra le figure femminili si è voluta riconoscere una donna ispirata alla Galatea di Raffaello. Sotto l’affresco si trova il camino e ai lati è affrescata la fucina di Vulcano. Il dio si trova nella sua bottega a forgiare le frecce dell'amore per Cupido: è chiara l'associazione tra la fucina del dio e l'allume vulcanico alla base della ricchezza di Chigi, ma anche la volontà di alimentare il fuoco dell'amore. Infatti Chigi soffriva di idropisia (termine oggi sostituito da anasarca) che, in alcuni casi, influenza le prestazioni sessuali. Questo potrebbe quindi essere collegato all'approccio rinascimentale alla medicina, che coinvolgeva la teoria degli Umori secondo cui il loro squilibrio causava malattie. Pertanto l’incendio della fucina contrasterebbe l'effetto negativo dell’acqua legato all’idropisia.

Fig. 5 - Affresco raffigurante la Benevolenza di Alessandro. Sotto il camino e la fucina di Vulcano. Credit: Franco Cosimo Panini Editore.

Esiste anche una diversa lettura di questi affreschi del Sodoma che si basa sull’ermeneutica alchemica, citando le quattro fasi della Grande Opera (nigredo, rubedo, citrinitas, albedo; rispettivamente annerimento, sbiancamento, ingiallimento e arrossamento) descritte con simboli crittografici. Conosciuta in latino come Magnum Opus, la Grande Opera è l'itinerario alchemico di lavorazione e trasformazione della materia prima, finalizzato a realizzare la pietra filosofale.

Imperia e Francesca

Secondo una teoria meno considerata l’intera Villa, e in particolare la Sala delle Nozze, sarebbero stati realizzati non per Francesca Ordeaschi ma per omaggiare Imperia, una cortigiana di cui Chigi si era innamorato prima di conoscere Francesca. Imperia era considerata la donna più bella di Roma, al pari di una dea, però non era felice. Innamorata, infatti, di un nobile romano, Angelo Del Bufalo, non poteva sposarlo perché l’uomo era già coniugato. Quindi, dopo l’ennesimo litigio con l’amante, decise di uccidersi, assumendo un veleno mortale: a nulla valsero le cure dei medici più famosi di Roma chiamati da Agostino Chigi. Dopo due giorni di dolorosa agonia, Imperia morì. Agostino finanziò un maestoso funerale a Roma, sensazionale per una cortigiana. Il suo monumento funebre a San Gregorio al Celio non è sopravvissuto fino ai giorni nostri.

Questa sala, conosciuta come la "Camera delle Nozze", è stata incessantemente associata alla decisione di Chigi di sposare la veneziana Francesca Ordeaschi nel 1519, quando Imperia era già morta. Tuttavia recentemente è stato pubblicato un ritratto di Imperia e, se questo ritratto presenta le reali fattezze della donna, gli stessi lineamenti del viso possono essere chiaramente osservati in Rossane, in Galatea nel Trionfo di Galatea e in Venere nel pennacchio con Venere e Psiche nella Loggia di Psiche.

Quindi lo schema unificante per i dipinti di Villa Farnesina raffigurerebbe il grande amore di Chigi per una cortigiana, culminante in questa stanza finale, dove egli, attraverso la fantasia, potrebbe negare la realtà dei fatti e vivere un matrimonio immaginario, non reale, incarnato in parte nell'iscrizione originale che correva attorno alle pareti:

Vale et dormi; somnus enim otium est. Animae felices a miseris in dimidio vitae non differunt

(Addio e sonno; veramente nei sogni c'è tempo libero / pace / quiete / riposo. Gli spiriti della fortuna e della miseria nella vita vengono mandati via ma non dispersi.)

Nella Stanza delle Nozze tutto viene spazzato via a favore di una vita di fantasia, l'illusione del sogno dell'antichità e della classicità, dove tutto è bello oltre che eterno. Questo può forse essere il significato di fondo di uno dei tanti elogi a Imperia in occasione della sua morte, dove Chigi è identificato con l'Impero e Imperia con Venere e la loro storia d'amore elevata a un mito della Roma rinascimentale:

Dii duo magna dederunt munera Romae: Imperium Mavors et Venus Imperiam ... Hos contro steterunt Mors et Fortuna, rapitque Fortuna imperium, mors rapit Imperium. Imperium luxere patres, nos luximus ipsi hanc: Illi orbem, nos nos cordaque perdidimus.

(Gli dei fecero a Roma due grandi doni: Marte le diede l'Impero e Venere [diede] Imperia ... La morte e la fortuna erano contro di loro: la fortuna portò via l'Impero e la morte [prese] Imperia. I nostri padri piansero sull'Impero e noi piangemmo troppo su di lei: persero [l'Impero] mentre noi perdemmo il cuore.)

Così il poeta Giano Vitale piange la morte della cortigiana nell’Imperiae panegyricus nel 1512, anno della morte della fanciulla.

Conclusione

Si tratta della storia d’amore tra una ragazza di rango inferiore, anche in questo caso, e un uomo di successo, come la storia d’amore tra Francesca Ordeaschi e Agostino, perché anche Imperia era una cortigiana. Gli affreschi dipinti dal Sodoma raccontano delle nozze tra Alessandro Magno e Rossane, prima prigioniera e poi sposa. La scelta non è casuale, infatti gli affreschi non servono solo ad elogiare il matrimonio ma anche l’ascesa della moglie, Francesca Ordeaschi, da amante a moglie legittima. Quest’ultima versione è quella generalmente accolta.

Gli affreschi della Stanza, ritoccati da Carlo Maratta alla fine del ‘600, vennero restaurati nel 1974-1976 grazie ad un nuovo e fondamentale restauro.

 

Bibliografia

“A Fantasia Of Pagan Myth In The Villa Farnesina: Agostino Chigi’s Homage To His Lover, Imperia”, in Pagans and Christians- from Antiquity to the Middle Ages, ed., Lauren Gilmour, British Archaeological Reports, International Series 1610

Terenzio, La Farnesina, in “Bollettino d’arte del Ministero della Educazione Nazionale”, n. 24, 1930/31, pp. 76-85

 

Sitografia

http://www.travelingintuscany.com/arte/ilsodoma/villafarnese.htm

ww.villafarnesina.it

https://www.youtube.com/watch?v=eXPhhjkGLsI


LA SALA DELLE PROSPETTIVE

A cura di Federica Comito
Fig. 1 - Sala delle Prospettive, primo piano, Villa Farnesina.

L’occasione delle nozze con Francesca Ordeaschi convinse Agostino Chigi ad effettuare dei lavori di restauro all’interno della sua villa. In particolare si preoccupò di far allargare il salone al primo piano, conosciuto come Sala delle Prospettive, perché è questa la sala dove si sarebbe poi tenuto il suo banchetto nuziale il 28 agosto 1519, a cui parteciparono personaggi illustri e addirittura Papa Leone X. Agostino affidò tale compito, ancora una volta, al senese Baldassarre Peruzzi, architetto della Villa.

Nella cosiddetta Sala delle Prospettive si nota non solo un richiamo all’antico, ma anche quel desiderio di rapporto costante tra interno ed esterno che è il leitmotiv dell’intera villa e che vede nelle soluzioni di Peruzzi degli esiti straordinari. Infatti, la Sala delle Prospettive deve il suo nome al fatto che per le prime volte in pittura si utilizza la scenografia con effetto di trompe-l’oeil e illusionisticamente la stanza si apre a vedere quello che c’è fuori, ovvero la città che si estende attorno al Palazzo. Ai lati del salone l’architetto ha dipinto due finte logge con colonne affacciate su Roma, raffigurando un tratto di mura in primo piano con dietro la Chiesa di Santo Spirito, una basilica romanica, la Porta Settimiana e a sinistra Monte Mario con Villa Mellini (oggi Osservatorio Astronomico). Per rafforzare l’illusione, Peruzzi arriva a tagliare la lettera “A” del nome di “Agostino Chigi” in un’iscrizione per rendere reale l’effetto tridimensionale della colonna che sporge dalla parete.

Fig. 2 - Parete con espediente tridimensionale, lettera “A” mancante.

Questi affreschi fungono anche da testimonianza di come doveva presentarsi Roma al tempo. Una città ricca di torri i cui balconi venivano costruiti in legno, e che spesso finiva anche vittima delle esondazioni del Tevere. Infatti, in un punto sulla destra, l’Ospedale di Santo Spirito in Sassia è proprio stato ricoperto dalle acque esondate del fiume. I pavimenti delle finte terrazze affrescate sono identici al pavimento vero e proprio all’interno della Sala delle Prospettive, che non è mai cambiato in 500 anni. Le linee del pavimento sono perfettamente corrispondenti a quelle degli affreschi, come se la pavimentazione continuasse anche nella terrazza; tuttavia, se si cambia punto di osservazione il trucco viene svelato.

Fig. 3 - Particolare del pavimento, cambiando punto di osservazione si nota la differenza tra quello reale e quello affrescato.

Il fregio mitologico e i riquadri con gli dei

Appena sotto il soffitto a cassettoni blu con decorazioni vegetali dorate a rilievo, corre un ampio fregio in cui le scene mitologiche narrate sono scandite da cariatidi in monocromo. Il lungo fregio, che cinge l’ambiente nella parte superiore delle pareti, è stato realizzato da Baldassarre Peruzzi e bottega o forse da un giovane Giulio Romano. Sotto il cornicione affrescato vengono rappresentati gli dei sulle entrate e sui finestroni. Entrando a sinistra le figure femminili e a destra le figure maschili. In ordine riconosciamo: Cerere, Diana, Minerva, Giunone e Venere, a seguire Apollo, Saturno, Giove, Nettuno, Marte e Mercurio. Tra le figure di Minerva e Giunone, Sopra il camino, si trova l’affresco con la Fucina di Vulcano che dà vita ad una lunga tradizione che vede il dio del fuoco associato ai domestici caminetti di tutta Europa e che si ritroverà anche nella Sala delle Nozze.

Partendo da sinistra sono presenti sulla parete nord le dee Diana, Minerva e Giunone. Nel fregio vediamo:

  • la morte di Adone amato da Venere: dal sangue di Adone nascerà l’anemone, il fiore del vento, per non essere mai dimenticato (episodio presente nel decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio);
  • il trionfo di Arianna e Bacco, divinità molto presente nelle sale della villa;
  • la gara sui carri tra Enomao, che amava decorare il suo palazzo con i crani dei nemici sconfitti, e Pelope che, vincendo la gara, sposò Ippodamia, figlia di Enomao;
  • una scena sul monte Elicona, la sede delle muse in cui è presente il cavallo alato Pegaso che tocca con lo zoccolo la pietra facendo nascere una sorgente sul fondo, altri personaggi con la corona di alloro in testa sono in primo piano;
  • nell’ultimo quadro della parete viene illustrata una scena acquatica con Venere come personaggio principale.

Sopra il camino l’affresco raffigurante la fucina del dio Vulcano.

Fig. 4 - Parete nord, sopra le tre entrate le dee Diana, Minerva e Giunone. In alto il fregio. Al centro il camino con la fucina di Vulcano.

Nella parete est della Sala delle Prospettive sono raffigurati sulle due porte Venere e Apollo, nel fregio tre scene:

  • la prima, molto enigmatica, sembrerebbe rappresentare la dea Iride, riconoscibile a sinistra per la presenza dell’arcobaleno. Probabilmente si tratta della scena in cui la dea chiede a Ipno (il sonno) di mandare uno dei suoi tre figli, in questo caso Morfeo, in sogno ad Alcione per comunicarle che il marito Ceice è morto in mare;
  • nel riquadro centrale Cefalo, che ha dato il nome all’isola di Cefalonia, di cui Eos, la dea dell’Aurora si innamora, e di Procri la sua sposa che dopo tradimenti e riconciliazioni viene uccisa proprio da Cefalo stesso;
  • nell’ultimo affresco si vede il carro del sole.
Fig. 5 - Parete est, il fregio e sopra le due entrate gli dei Venere e Apollo.

Nella parete sud scompaiono le cariatidi; sono presenti quattro finestre sormontate dagli dei Saturno, Giove, Nettuno e Marte, ai cui lati troviamo dipinte le muse. Nei riquadri del fregio sono affrescati:

  • la toeletta di Venere;
  • Apollo che intreccia una corona nuziale;
  • Il mito di Arione di Metimna, leggendario cantore e suonatore di cetra, costretto a gettarsi in mare dai marinai che volevano derubarlo. Viene salvato dai delfini incantati dalla sua melodia, che lo riportano a riva (Erodoto, libro primo delle Storie);
  • Il mito di Pan e Siringa, una ninfa seguace di Artemide, che per sfuggire alle insistenze del dio venne trasformata in un fascio di canne palustri che, mosse dal vento, produssero un suono talmente armonioso da spingere il dio stesso a costruire il famoso flauto a canne conosciuto ancora oggi come “flauto di Pan” (Ovidio, libro primo);
Fig. 6 - Parete sud, il fregio interrotto da finestrelle e sopra le finestre gli dei Saturno, Giove, Nettuno e Marte.

Sulla parete ovest della sala si trovano le due porte sormontate da Mercurio e Cerere e sul fregio le ultime tre scene separate da cariatidi, partendo da sinistra:

  • L’episodio in cui Alcione vede il corpo del marito Ceice in mare;
  • Il mito di Deucalione e Pirra, unici sopravvissuti all’ira di Giove che, infuriato per la crudeltà degli umani, aveva mandato sulla Terra un terribile diluvio devastante. La coppia, sbarcata sul Parnaso, consulta l’Oracolo di Delfi ottenendo questa enigmatica risposta: "Uscite dal tempio e gettate dietro le vostre spalle le ossa della Gran Madre". Stettero a lungo a pensare a queste parole ma un giorno Deucalione si illuminò e capì che la Gran Madre era la Terra, e le ossa della Terra erano le pietre; così le pietre gettate da Deucalione, appena toccarono la terra, diventarono uomini e quelle gettate da Pirra, diventarono donne. In questo modo la Terra si ripopolò.
  • Il momento in cui Apollo deride Cupido il quale si vendica lanciando due frecce che colpiscono Apollo e Dafne ma che hanno effetti contrari. Una d’oro che fa innamorare, l’altra di piombo che lo impedisce. È così che Dafne, per sfuggire agli assalti del Dio, implora il fiume Peneo suo padre e la terra Gea sua madre, di aiutarla a cambiare forma. La sua disperata richiesta verrà esaudita e si trasformerà nell’albero di alloro di fronte al dio che, abbracciando disperatamente il suo tronco, giura che da quel momento in poi il lauro sarebbe stata la sua pianta sacra usata come corona dal dio e dai massimi poeti.
Fig. 7 - Parete ovest, in alto il fregio e sopra le due porte gli dei Mercurio e Cerere.

I restauri della Sala delle Prospettive

Gli affreschi vennero completamente coperti nel 1863 da nuove decorazioni, ma recuperati dai restauri del 1976-1983. Il fregio rimase intatto, seppur con alcune lesioni. I restauratori hanno effettuate delle ricerche e successivamente una pulitura che ha confermato il buono stato di conservazione delle superfici originarie. Nella parte bassa della sala sono stati però riscontrati diversi danni: zone originali fortemente abrase e alterazioni cromatiche in corrispondenza delle finestrelle causate da infiltrazioni di umidità. Si è quindi dovuto procedere, dove possibile, con reintegrazioni a tempera. In prossimità di consistenti lesioni si erano verificati anche dei distacchi dell’intonaco. La parete est in seguito ad un cedimento, subì una lesione ampia circa 8 cm. Il cedimento è tuttora visibile sia nelle due grandi fessurazioni oblique, una delle quali interessa parte della figura di Apollo e il viso dell’amorino sottostante, sia nella posizione degli architravi delle due porte, che pendono sensibilmente verso il centro. Si cercò di ovviare a tale cedimento già nel 1775, con l’inclusione di una catena, mentre nel 1863-66 il duca di Ripalda costruì al piano inferiore un muro di sostegno. Per poter controllare eventuali movimenti delle murature sono stati applicati degli estensimetri alle fessurazioni, peraltro già documentati in antico, che sono stati rimessi in luce con l’asportazione della ridipintura ottocentesca sulle finestre [1]. Il film pittorico del fregio, corroso da precedenti puliture piuttosto drastiche soprattutto nei fondi azzurri e nei verdi, era stato ritoccato ad olio e a tempera e successivamente ricoperto da uno strato di protettivo (o resina ‘ravvivante’). In questo caso ci si è limitati a rimuovere i ritocchi e il protettivo che col tempo si erano scuriti, ma non si è intervenuti sulla pellicola pittorica perché, anche se solo in parte conservata, consente comunque una buona lettura delle figurazioni e dello stile degli artisti. Le pesanti ridipinture di colore marrone-rossiccio delle nicchie sopra le porte e le finestre, con le figure di divinità, come pure i ritocchi a olio effettuati sopra la ridipintura a tempera ottocentesca dei paesaggi e delle vedute tra le finte colonne, sono stati asportati mediante solventi. A seguito di queste operazioni, l’affresco cinquecentesco sottostante è tornato in luce in condizioni più che soddisfacenti, rendendo possibile oggi ammirarlo.

Conclusione

Queste pareti sono particolarmente ricche di storia, anche drammatica. Interessantissime sono le scritte lasciate dai Lanzichenecchi, i soldati mercenari di Carlo V che invasero la villa, ne asportarono i beni e in parte la distrussero. Fu il momento in cui una parte del Rinascimento finì nel Tevere - letteralmente e metaforicamente.  Le scritte vandaliche, che hanno in parte rovinato gli affreschi, sono in lingua tedesca e sono datate al 1527; qualcuno dei soldati di Carlo V, con un pugnale o un altro strumento appuntito, ha inciso delle frasi sul muro affrescato. Una di queste recita più o meno: “Perché noi non dovremmo ridere, noi che abbiamo fatto scappare il Papa?”, riferendosi chiaramente all’episodio in cui Papa Clemente VII fu costretto a riparare a Castel Sant’Angelo. L’odio luterano fu quindi un aggravante in questa tragedia che colpì Roma, che subì un calo di popolazione notevolissimo tra la peste, le fughe e le uccisioni avvenute, appunto, durante il Sacco del 1527.

Fig. 8 - Parete est, scritte incise sugli affreschi dai Lanzichenecchi.

 

Note

[1] Cfr. http://www.icr.beniculturali.it/pagina.cfm?usz=5&uid=68&rid=94

 

Bibliografia

Gli interventi dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (già ICR) presso la villa Farnesina-Chigi a Roma, Francesca Romana Liserre

 

Sitografia

www.villafarnesina.it

https://www.vidlab.it/

https://www.youtube.com/watch?v=rgx1FeyPTdg


LA SALA DEL FREGIO

A cura di Federica Comito

Continuiamo il nostro viaggio alla scoperta di Villa Farnesina. Ci troviamo ancora al pian terreno e, oltrepassando la porta sotto il pennacchio con Mercurio nella Loggia di Psiche, si giunge alla Sala o Stanza del Fregio che prende il nome dal fregio che corre lungo tutto il perimetro della stanza e la decora. Si tratta di un ambiente molto più piccolo rispetto alle stanze precedenti e, presumibilmente riservato a trattare affari privati, fungeva da studiolo privato di Agostino. È la sala in cui sono state lette le ultime volontà di Agostino dopo la sua morte, avvenuta l’11 aprile 1520. È stato il primo ambiente ad essere decorato nella Villa ed è anche una delle prime opere pittoriche di Baldassarre Peruzzi a Roma, per questo motivo lo stile risente ancora delle esperienze senesi del pittore.

Fig. 1 - Sala del Fregio.

La decorazione

La stanza presenta un soffitto a cassettoni suddiviso in forme geometriche con all’interno motivi floreali e vegetali a rilievo, dipinti d’oro su fondo blu o rosso. Sono presenti due iscrizioni in latino con lettere dorate su fondo blu rispettivamente sul lato nord e sul lato sud; volute da Salvator Bermudez de Castro duca di Ripalda e ambasciatore di Spagna alla corte di Francesco II di Napoli, in cui dichiara ti aver effettuato dei restauri alla Villa nell’anno domini 1863. Alle pareti invece, erano forse appesi degli arazzi.

Una cornice dorata raccorda il soffitto alle pareti, sotto di essa il fregio dove vengono ripresi motivi mitologici affrescati dallo stesso architetto della villa Baldassarre Peruzzi e allievi intorno al 1508- 1509. Qui colpisce l’ampio uso del giallo e del dorato tra le pareti e il soffitto, il fregio è in forte contrasto con il resto per l’uso abbondante del nero che narra, dal lato nord al lato est, le gesta eroiche di Ercole e altri miti tratti da ‘’Le Metamorfosi’’ di Ovidio. I fondi scuri sul quale si stagliano i personaggi sono realizzati dall’applicazione a secco dell’azzurrite su base scura, questa tecnica permette di dare massimo risalto alla preziosità delle figure.

Nel fregio sulla parete ovest sono raffigurate le seguenti scene:

  • una ninfa con dei satiri.
  • Bacco e baccanti.
  • il satiro Marsia sconfitto con l’inganno da Apollo in una gara musicale mentre viene scorticato vivo per punirlo della sua superbia.
  • il mito di Meleagro: la caccia a un cinghiale spaventoso inviato da Atena arrabbiata per le mancate offerte. Alla caccia partecipa anche una ragazza di nome Atalanta non sopportata dagli altri cacciatori, mentre Meleagro se ne innamora. Una volta abbattuto il cinghiale le dona pelle e zanne come trofei, questo scatena l’ira degli zii. Meleagro li uccide dando inizio a una faida famigliare con altri omicidi. Le Parche, che avevano assistito alla nascita di Meleagro, ne avevano predetto la morte quando il tizzone che bruciava in quel momento sul fuoco fosse stato consumato. Allora Altea, madre del ragazzo, nasconde il tizzone per tenere al sicuro il figlio. Le Parche fanno visita a quest’ultima e la invitano a gettare il tizzone nel fuoco cosa che Altea, incollerita per l’uccisione dei fratelli, esegue per poi pentirsene quando Meleagro muore.
  • Il mito di Orfeo: Orfeo con uno strumento simile ad una viola, probabilmente la lira del mito, incanta gli animali grazie al meraviglioso suono che produce. Orfeo andato a riprendere Euridice negli Inferi, si volta a guardarla e, quest’ultima, viene quindi ritrascinata nell’ade a causa dell’impazienza dell’amato. Orfeo decidendo di non unirsi mai più ad altre donne, e forse preferendo i fanciulli come suggerisce Ovidio nel decimo libro delle Metamorfosi, viene picchiato a morte da un gruppo di Menadi. Anche se non è presente nell’illustrazione, il mito narra che la testa di Orfeo abbia continuato a cantare, dopo essere stata separata dal corpo e gettata nel fiume Ebro.
Fig. 2 - Fregio parete ovest. da sinistra Ninfa e satiri, Bacco e Baccanti, Apollo che scortica Marsia.

Nel fregio della parete nord sono affrescate dieci delle “dodici fatiche di Ercole” separate da tronchi d’albero:

  • Ercole e il leone di Nemea;
  • Ercole e i centauri;
  • L’uccisione degli uccelli Stinfalidi;
  • Ercole e l’Echidna, metà donna e metà serpente, madre del leone di Nemea, di Cerbero, dell’Idra di Lerna e altre mostruosità;
  • Ercole e Cerbero;
  • Ercole che combatte contro l’Idra;
  • Il re Diomede che lo dà in pasto alle sue cavalle;
  • Ercole contro il toro di Creta;
  • Ercole contro Anteo il gigante che, essendo figlio di Gea (la terra) da cui traeva la forza, dovette essere ucciso sollevandolo dal suolo;
  • La lotta con Gerione, al quale Ercole ha rubato i buoi.
Fig. 3 - Fregio parete nord, particolare con Ercole e i centauri, Ercole e il Leone di Nemea.

Nel fregio della parete est troviamo ancora, a completare il ciclo, le ultime due fatiche di Ercole:

  • Ercole che sostituisce Atlante per sostenere la volta del cielo;
  • Ercole e il cinghiale di Erimanto.

Una statua femminile chiude la saga Eraclea. Agostino Chigi fa rappresentare in diverse occasioni la figura di Ercole all’interno della loggia, probabilmente appassionato dai miti che lo vedono come protagonista. Baldassarre Peruzzi riesce proprio nell’intento di glorificare il padrone di casa attraverso le fatiche di Ercole.

Continuando le scene affrescate sul fregio troviamo:

  • Il ratto di Europa. Dall’unione tra Europa e Giove nascerà Minosse;
  • Danae adagiata sul letto accoglie Giove sotto forma di pioggia dorata, dall’unione nascerà Perseo;
  • Il mito di Semele: Semele, altra fanciulla amata da Giove che gli generò Dioniso, convinta da Giunone che aveva preso le sembianze della nutrice di far apparire Giove sotto le sembianze di Dio, muore colpita dal fulmine divino;
  • Il mito di Atteone, trasformato in un cervo da Atena e sbranato dai suoi cani da caccia.

Altri episodi riguardano Re Mida, che vanno letti da destra verso sinistra, concludono la parete:

  • Dioniso, mosso da pietà per il Re stolto che aveva chiesto di poter trasformare tutto ciò che toccava in oro, gli svela come liberarsi dall’incantesimo bagnandosi alla sorgente di un fiume;
  • L’episodio in cui Re Mida assiste alla gara musicale tra Apollo e Pan e mette bocca nella contesa che vedeva vincitore Apollo, tanto che il dio permalosissimo gli fa crescere due orecchie d’asino. Anche qui la cetra di Apollo ha piuttosto l’aspetto di una viola;
  • Un corteo marino con Poseidone, la moglie Anfitrite e il figlio Tritone su un carro che seguono il corteo che si snoda per l’ultima parete.
Fig. 4 - Fregio parete est. da sinistra Diana e Atteone trasformato in cervo, Re Mida con orecchie asinine, gara musicale tra Apollo e Pan.

Nell’ultima parete, quella a sud, è affrescato un corteo marino: amorini che si divertono a pescare o si trovano sul dorso di delfini, altri personaggi che portano anfore, gruppi di famiglie di tritoni. Suscita qualche dubbio la presenza di una divinità fluviale che ha fatto pensare che il corteo si svolgesse in un fiume piuttosto che a mare.

Fig. 5 - Fregio parete sud, particolare del corteo marino.

Le scene allegoriche raffigurate, probabilmente fanno riferimento ad alcuni aspetti del carattere del padrone di casa Agostino Chigi. Sono raffigurate nell’intero fregio oltre 150 figure, questo dimostra la capacità sintetica e pittorica di Baldassarre Peruzzi nell’illustrare le scene importanti e rappresentarle fornendo una linearità alle storie. L'interpretazione complessiva è generalmente riferita al contrasto tra ragione e passione, tra sfera apollinea e sfera dionisiaca.

Questi cicli pittorici sono stati di grande ispirazione per altre Ville Romane, pensiamo al fregio di Palazzo Leopardi a Trastevere in cui è raffigurato un fregio mitologico fluviale che ripercorre gli stessi modelli e, in qualche modo, accentua la dimensione plastica e dinamica di quello di Baldassarre Peruzzi. Ci sono alcune figure quasi identiche ma c’è un cambiamento di linguaggio, di cromia, quasi un’accentuazione grottesca, mentre Peruzzi è più legato ad un equilibrio classico e ad una ricerca di raffinatezza.

Il restauro della Sala del Fregio

Tra il 2003 e il 2011 si svolge un restauro ad opera dell’Istituto Centrale per il Restauro nella Sala del Fregio. Prima dell’intervento di restauro, nella sala era presente un tessuto monocromo fissato con una sorta di punti metallici alle pareti. Il tessuto che tappezzava l’intera sala era riconducibile circa agli anni 1950-60. Grazie però alla documentazione fotografica antecedente e a saggi effettuati all’inizio dell’intervento, è stato possibile recuperare l’immagine complessiva dell’ambiente di come questo appariva alla fine dell’800. Le pareti erano caratterizzate dalla presenza di una decorazione a finti drappi, dipinti su carta applicata al muro che, agganciati alla cornice dipinta sotto il fregio figurato, ricadevano a coprire quasi interamente le pareti per 150 cm da terra. Lo stato conservativo si presentava critico, in particolare nell’angolo nord-est della parete a causa di pregresse infiltrazioni d’acqua e per le ampie lacune della decorazione a finti drappeggi, dovute ad ampi rifacimenti delle murature. Dopo il restauro del fregio con le storie mitologiche è stato affrontato il completo recupero delle superfici dipinte della sala, ossia il soffitto e le pareti. Si è poi giunti, attraverso il lavoro interdisciplinare di un’equipe di specialisti (architetti, storici dell’arte, restauratori, chimici e fisici) a una riproposizione organica dell’aspetto della sala così come si presentava alla fine dell’‘800. All’epoca infatti, la decorazione a drappeggi con i parati in tessuto rendeva le quattro pareti monocrome solo in funzione di un’esaltazione e di un ‘isolamento’ del fregio cinquecentesco, in quanto brado decorativo più importante. L’intervento particolarmente delicato e complesso, perché tiene conto delle tecniche esecutive utilizzate in origine e del pessimo stato di conservazione delle superfici dipinte, ha richiesto la messa a punto di un procedimento tecnico sperimentale appositamente progettato e realizzato dopo numerosi studi e test.

La “Saletta pompeiana”

Accanto alla Sala del Fregio si trova un ambiente più piccolo che mostra delle decorazioni risalenti al tempo del duca di Ripalda, 1861-63. Questi due ambienti sono sempre stati utilizzati come uffici o come studi privati dei vari padroni di casa, fino a giungere agli anni Trenta con Guglielmo Marconi, presidente dell’Accademia d’Italia, che decide di usare la Sala del Fregio come studio, e fa trasformare l’ambiente più piccolo in un bagno privato con anticamera. La Sala, nel primo Cinquecento, era un semplice pianerottolo della scala che scendeva alle cucine di Agostino Chigi. Nell’Ottocento, grazie a una serie di interventi fatti eseguire dal Duca di Ripalta, Salvador Bermúdez de Castro, viene invece trasformata in una splendida camera ornata con decorazioni ispirate allo stile pompeiano, da qui il nome “Saletta pompeiana”.  In quegli anni infatti, gli scavi di Ercolano e Pompei, la riscoperta di Paestum, le sepolture con ricchi corredi messi in luce nell’antica Magna Grecia, appassionavano la nobiltà e la borghesia del XIX secolo. Da qui l'ispirazione per la realizzazione delle decorazioni ottocentesche della Villa, affascinanti riletture dei modelli antichi in chiave neoclassica e romantica.

Fig. 6 - Saletta Pompeiana.

Conclusione

In tutta la villa è forte il gusto rinascimentale di ritorno alla classicità rivisitato con i canoni del tempo, di cui Agostino Chigi si fa interprete, grazie soprattutto alla scelta di circondarsi di intellettuali e artisti di notevoli capacità. Peruzzi, per l’intera decorazione del fregio, si era ispirato a rilievi antichi, a sarcofagi e prototipi dell’età classica che Agostino Chigi, oltre ad amare profondamente, ha favorito grazie al suo mecenatismo che lo aveva addirittura portato a realizzare una tipografia nella sua Villa, trasformandola in un centro culturale di straordinario valore e di portata internazionale.

 

Bibliografia

Il fregio riscoperto di Palazzo Leopardi a Roma, Alessandro Zuccari.

Gli interventi dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, Francesca Romana Liserre.

Sitografia

http://www.romainteractive.com/ita/trastevere/villa-della-farnesina/sala-del-fregio.html

artemagazine.it

www.villafarnesina.it

https://www.youtube.com/watch?v=amw0UB7iif4


I RESTAURI ALLA LOGGIA DI PSICHE

A cura di Federica Comito

Introduzione

Gli affreschi di Amore e Psiche che oggi vediamo sono il risultato di una serie di restauri avvenuti nel tempo, che hanno modificato l’originale causando delle perdite irreparabili. In un percorso a ritroso analizzeremo tutto il percorso dell’opera, dalla sua ideazione a oggi, individuando eventuali interventi e manomissioni grazie allo studio dei materiali. Nel 1990 l’Istituto Centrale per il Restauro coordinato da R. Varoli Piazza procede al controllo degli affreschi della Loggia. Dopo aver indagato le problematiche strutturali, si è posta particolare attenzione ai restauri alla loggia di Psiche di Giovan Pietro Bellori e Carlo Maratti del 1693-94, eccezionali per l’innovazione concettuale e per la tecnica di intervento. È in questo momento storico che ci si pose il problema di quanto fosse lecito intervenire su un’opera così notevole, anche se lo scopo era di ripararne i danni. A guidare tale intervento il criterio, straordinariamente moderno, di utilizzare materiali reversibili affinché, come affermò Maratti “se qualcuno più degno di me di associare il suo pennello a quello di Raffaello, verrà un giorno, possa cancellare la mia opera e sostituirvi la sua”. In questo senso Bellori e Maratti precorrono l’odierna filosofia del restauro, inteso come rispetto della materia dell’opera d’arte.

Come avviene un restauro?

Il restauro contemporaneo si caratterizza per l’utilizzo di tecniche analitiche applicate alla chimica, fisica e biologia che permettono di non alterare l’integrità dell’opera e sono utilissime per lo studio diagnostico permettendo un’accurata indagine preliminare e un successivo prelievo di materiale per analisi più specifiche e approfondite. Tra queste, la tecnica fotografica; la riflettografia infrarossa; l’indagine radiografica; le tecniche spettrofotometriche. Il campionamento deve essere il più rispettoso possibile dell’integrità fisica dell’opera, limitato nel numero e nelle dimensioni dei prelievi. Lo studio di un campione richiede sofisticate metodologie analitiche, basate sull'impiego di tecniche strumentali altamente sensibili e selettive (tecniche microscopiche: microscopia ottica, mineralogico-petrografica, elettronica a scansione; microanalisi a raggi X; spettroscopia infrarossa; tecniche cromatografiche). Le successive tipologie di intervento sull'opera sono molteplici: la pulitura, la disinfestazione, la stuccatura e l’incollaggio, la foderatura dei dipinti su tela, il consolidamento, le reintegrazioni di dipinti, la stesura di protettivi.

Fig. 1 - Loggia di Psiche nel 1972, prima del restauro di Rosalia Varoli Piazza.

I restauri alla loggia di Psiche del 1990

Le campagne di indagine nella loggia iniziano nel 1989-90 e sono state esclusivamente di osservazione diretta al fine di individuare la tecnica di esecuzione e di stabilire lo stato di conservazione dei dipinti, i problemi connessi con il restauro marattesco e quali fossero gli interventi successivi. La fase esecutiva si è svolta tra il 1990 e il ‘97. Di rilievo l’indagine di quei frammenti superstiti dell’azzurro di Raffaello e di quello usato da Maratti per rifare i cieli che si erano anneriti e la loro rimozione successiva ad opera di un restauro avvenuto nel 1930, che volendo eliminare per sempre quello che veniva considerato l’azzurro di Maratti, aveva asportato anche quello sottostante di Raffaello. Al termine delle operazioni di pulitura e assestamento, ci si è concentrati sull'aspetto estetico. La loggia appariva totalmente sbilanciata per l‘asportazione violenta dell’azzurro che lasciava in vista il celeste di preparazione o addirittura l’intonaco e per la presenza di grandi lesioni sul testo figurativo.

Fig. 2 - Volta e arco, particolare delle lesioni.

L’attenzione degli studiosi si è concentrata sul percorso progettuale della decorazione: si iniziava dagli schizzi per la definizione della prima idea, seguiva lo studio di singole parti della composizione, con la definizione successiva di un primo disegno particolareggiato dell’insieme, si proseguiva poi con lo studio analitico e dettagliato di tutte le parti; infine si realizzava il modello definitivo in scala ridotta. A questa fase di studio seguiva la fase operativa del cantiere, cioè la realizzazione del cartone principale con dimensioni rapportabili alla superficie muraria da dipingere. Poi si ricavava un “cartone secondario” che, sezionato, permetteva il trasferimento del disegno sull'intonaco ancora umido, come previsto dalla tecnica dell’affresco (così chiamata perché si esegue su un intonaco appena steso e non ancora asciutto).

I moderni restauri alla loggia di Psiche hanno permesso di delineare una possibile organizzazione del cantiere dove operarono Raffaello e la sua bottega. Il ponteggio utilizzato, probabilmente posto alla stessa altezza di quello cinquecentesco, ha consentito di osservare la volta dalla stessa angolazione visiva dei pittori, apprezzandone così ogni dettaglio tecnico. In particolare si è posta l’attenzione sulle varie tipologie di tratteggio, distinti in tratteggi cosiddetti “liquidi”, ovvero quelli effettuati a pennello, e quelli a “secco” realizzati a sanguigna o grafite. Questi ultimi, riferibili ad un intervento di restauro, sono segni rapidi e poco precisi orientati a conferire maggiore incisività alle ombre. Su quelli a pennello, trovandosi principalmente su porzioni di volto, si è preferito non effettuare prelievi di campioni da analizzare, preferendo attendere tecnologie più avanzate. Il loro aspetto e colore, chiaramente estraneo e di sovrapposizione alla policromia degli incarnati, conferma che sono successivi alla stesura pittorica che presenta già una modulazione cromatica e tonale di chiari e di scuri. Invece, alcuni dei tratteggi dallo stile più libero potrebbero essere attribuiti ad uno o due artisti della bottega di Raffaello che avevano il compito di realizzare dei ritocchi in una sorta di revisione finale della decorazione. Sembrerebbe che questo compito, unito alla realizzazione di particolari decorativi, spettasse a Giovanni da Udine insieme alla stesura dell’azzurrite sui fondi.

Fig. 3 - pennacchio di Venere e Giove, particolare del volto di Venere. – Vela con Amore con bidente, particolare del volto del putto con bidente.

Il restauro di Maratti

Nel maggio 1693 hanno inizio i restauri alla loggia di Psiche a opera di Carlo Maratti, che si pone come il primo restauratore moderno in pieno rispetto della materia. Grazie alle indagini svolte negli anni ‘90 è possibile affermare che quello del Seicento fu un intervento scrupoloso e attento, in cui ogni fase pratica era preceduta da un’attenta valutazione. Gli affreschi di Raffaello coprono la parte centrale della volta, i dieci pennacchi e le quattordici vele, tutto il resto è posteriore. Bellori riferisce che i due o tre palmi inferiori dei pennacchi non erano dipinti, ponendo Maratti di fronte ad un problema di armonizzazione visiva. La sua integrazione delle parti mancanti è un’abile imitazione delle ghirlande e delle nubi dipinte da Giovanni da Udine; nonostante questo è evidente la discontinuità con l’originale che dimostra come Raffaello abbia realmente lasciato incompiuta la pittura, ma facendo intuire come intendesse completarla.

Fig. 4 - pennacchio con Amore e le tre Grazie, particolare della differenza pittorico sotto il piede della dea.

Il problema degli azzurri nei restauri alla loggia di Psiche

Il pesante intervento di rimozione degli azzurri operato durante il restauro del 1930, ha reso arduo lo studio dei cieli della Loggia di Psiche e di quelli sovrapposti nei secoli successivi. L’azzurro chiaro che costituisce lo sfondo su cui si stagliano le figure e i festoni vegetali è semplicemente la preparazione che Raffaello stese prima della finitura a secco in azzurrite, che doveva essere caratterizzata da una tonalità molto più intensa. Tale stesura preparatoria è stata eseguita a fresco a smalto (un pigmento a base di vetro colorato al cobalto), applicato su un sottile strato bianco ottenuto con calce e polvere di marmo posto a diretto contatto con l’intonaco con l’evidente funzionalità di costituire una base riflettente, che rendesse più luminosa la tonalità finale ottenuta attraverso le varie stesure di azzurro. Della finitura a secco in azzurrite, che ricopriva integralmente la preparazione a smalto, rimangono purtroppo solo i frammenti scampati alla violenta raschiatura degli anni ‘30. Si tratta di frammenti conservatisi al di sotto dello stucco che ricopriva le 850 grappe metalliche a forma di T o L lunghe dai 9 ai 13 cm applicate da Maratti e quindi in queste zone il pigmento è rimasto protetto dagli agenti esterni e si è conservato indenne da qualsiasi sostanza estranea.

Fig. 5 - Banchetto nuziale, particolare delle grappe metalliche inserite da Maratti nelle zone di maggiore distacco.

La finitura a secco in azzurrite è servita inoltre nel caso di alcuni ripensamenti, per correggere quei dettagli che l’artista voleva modificare, andando a coprire porzioni già realizzate.

Le analisi effettuate su prelievo e le selezioni stratigrafiche della finitura dei cieli della Loggia di Psiche hanno evidenziato che si trattava di un’azzurrite di origine naturale, di tono intenso, applicata a secco utilizzando la colla come legante. Il problema centrale relativo alle alterazioni degli azzurri della Loggia riguarda il fenomeno di annerimento dell’azzurrite. Tracce di azzurrite annerita sono presenti lungo i bordi dei festoni vegetali di Giovanni da Udine. È difficile identificare con certezza il fattore di degrado che ne ha causato l’annerimento: è possibile pensare a una pulitura aggressiva effettuata con sostanze chimiche, oppure a fonti di calore accese al di sotto della Loggia, come per esempio i grandi bracieri utilizzati per il riscaldamento dell’ambiente.

Fig. 8 - Pennacchio di Amore con le Tre Grazie, particolare della parte sovrastante l’ala destra di Amore dove è presente una consistente porzione di azzurrite originale interessata dal fenomeno dell’annerimento.

L’equivoco

Stando alle fonti storiche, Maratti effettuò una ridipintura dei fondi basandosi su quelle parti originali di azzurrite che non erano alterate. Il suo intervento fu soggetto a polemiche e giudizi negativi per secoli, relativi anche al cattivo stato di conservazione che mostravano gli affreschi. Tra il 1915 e il 1930 si giunse all'infausta decisione di liberare i fondi allo scopo di recuperare quello che si presumeva fosse l’azzurro di Raffaello coperto dall'operato di Maratti. L’intervento di rimozione, effettuato in maniera del tutto irrispettosa delle tecniche originali e dei precedenti interventi di restauro, si basò su un grosso equivoco: l’azzurro da rimuovere non era stato applicato da Maratti, ma risaliva all'Ottocento, come è risultato dall'esame chimico. Dalle tracce rinvenute nel corso dell’intervento diretto da Varoli Piazza è stato possibile evincere che Maratti effettuò la ripresa dei fondi originali utilizzando dello smalto, volendosi avvicinare il più possibile allo sfondo di Raffaello senza sconvolgerlo.

I problemi di stabilità e le indagini

Le indagini svolte dall’ICR dal 1994 sulla struttura architettonica della villa hanno confermato che le cause dei dissesti debbano essere imputate a fattori climatici e idrologici, ai difetti costruttivi e alla pericolosa vicinanza del Tevere. La novità, importantissima, che gli studi di stabilità hanno messo in luce è che sono ancora presenti movimenti strutturali nell'intera costruzione. È stato compiuto uno studio geognostico e geotecnico al fine di indagare le caratteristiche del suolo, e dai risultati è apparso evidente che potrebbe esserci nel tempo un peggioramento delle condizioni statiche della villa con la conseguente distruzione dei dipinti murali. Tra le probabili cause troviamo: la costruzione dei muraglioni del Tevere, la costruzione delle strade e le conseguenti vibrazioni provocate dal traffico incessante. Particolare attenzione è stata posta alla Loggia di Psiche che risultava particolarmente compromessa per la presenza di gravi lesioni trasversali alla volta, dalle quali derivano una serie di lesioni minori con andamento longitudinale alla volta. Grazie all'ultimo intervento di restauro sono state ristabilite la coesione e l’adesione del film pittorico, l’adesione delle dorature e degli strati preparatori, il distacco e la riadesione dei frammenti; la pulitura e i ritocchi (incarnati, festoni vegetali, bordi degli arazzi, sottarchi), la rimozione di stuccature e oggetti metallici non idonei, il trattamento delle grappe metalliche e, infine, è avvenuta la reintegrazione pittorica con acquerelli.

Conclusione

Tramite i restauri alla loggia di Psiche coordinati da Varoli-Piazza è stato dimostrato che Maratti, alla fine del Seicento, si preoccupò di proteggere gli affreschi eliminando le cause di deterioramento ambientale ed effettuando un restauro di tipo conservativo, una novità per il periodo. Inoltre è stato possibile smentire categoricamente tutte le accuse rivolte al rovinoso intervento marattesco, dimostrando che si trattasse di un restauro molto più tardo. È stato evidenziato invece un comportamento rispettoso dal punto di vista metodologico per l’organizzazione del lavoro, e dal punto di vista tecnico per la scelta dei materiali impiegati, molto più rispettoso di restauri più recenti.

 

BIBLIOGRAFIA

Shearman, Studi su Raffaello.

Varoli-Piazza, Raffaello, La Loggia di Amore e Psiche alla Farnesina.

Bellori, descrizione delle immagini dipinte di Raffaello d’Urbino.

Enciclopedia Treccani.