LA CASINA CINESE: UNA DIMORA PER GLI SVAGHI

A cura di Antonina Quartararo

La storia della Casina cinese: un amore a prima vista

Ferdinando IV di Borbone e la moglie Maria Carolina arrivarono a Palermo nel 1798, in fuga dalla città di Napoli, dopo 40 anni di regno, per i tumulti provocati delle truppe francesi e per trovare protezione sotto il protettorato inglese in Sicilia. Esule e lontano dalla sua residenza napoletana, per il re le battute di caccia e le sperimentazioni agricole rimanevano sempre una grande passione. Per far fronte a questo suo interesse per l’arte venatoria, il re diede l’incarico al viceré Giuseppe Riggio, principe di Aci, di acquistare i terreni situati nella cosiddetta “Piana dei Colli” sotto le pendici di Monte Pellegrino (Fig.1). All'interno di questi terreni (che corrispondono all’attuale Parco della Favorita) sorgeva un edificio ligneo dallo stile “stravagante” di proprietà dell’avvocato Benedetto Lombardo, che piacque molto al re Ferdinando IV che decise di ristrutturarlo per adibirlo a seconda residenza dopo il Palazzo reale. Per comprendere l’aspetto della preesistente casina lignea, ci rimane un importante acquerello realizzato da Pietro Martorana nel 1797, oggi conservato presso il Palazzo Reale del capoluogo siciliano (Fig.2). Da questo disegno si denota come l’originaria costruzione lignea, dagli evidenti caratteri orientali, aveva una pianta quadrata con tre elevazioni sormontati da tetti a pagoda e da ringhiere che ne ornavano il perimetro.

L’edificio attuale

Gli interventi ottocenteschi di trasformazione in residenza regale furono affidati all'architetto palermitano Giuseppe Venanzio Marvuglia che si occupò anche di sistemare i giardini. L’architetto organizzò la casina a più livelli aggiungendo due terrazzi simmetrici cinti da colonnati e da un seminterrato (Fig.3). Dal 1802 la direzione dei lavori fu affidata al figlio di Marvuglia, Alessandro Emanuele, che concluderà i lavori. Partendo dall'ultimo livello dell’edificio si trova una grande terrazza coperta da un tetto a pagoda e una loggia ottagonale denominata “Sala della Specola” o “Stanza dei Venti” decorata all'interno dall'artista Rosario Silvestri. Al primo e al secondo piano vi sono delle balconate continue da cui si accede anche da due torri esterne con scale elicoidali realizzate da Giuseppe Patricolo nel 1806 (Fig.4).

Il seminterrato presenta dei portici ad archi acuti che ricordano lo stile gotico. I pronai dei prospetti nord e sud, a sei colonne di marmo, sono coronati da cornice a pagoda da cui si ricavano due piccoli terrazzi (Fig.5). Elementi tratti dallo stile Neoclassico sono le cornici di colore rosso, verde e ocra che delineano le porte e le finestre della facciata esterna. Le cancellate sono decorate con campanellini e i lampioni sono di gusto orientale (Fig.6).

Gli interni della Casina cinese

Per quanto concerne la decorazione degli interni, essa spazia tra lo stile cinese, quello turco e il gusto neoclassico (per lo stile pompeiano e le raffigurazioni di rovine). Il secondo piano adibito ad uso della regina Maria Carolina è composto da un “Salottino alla turca” (Fig.7 a-b) e dal “Salottino all’Ercolana”, di chiaro gusto neoclassico e ispirato alle scoperte archeologiche, decorato dal Silvestri (Fig.8). Un piccolo ambiente soprannominato “gabinetto delle pietre dure” aveva la funzione di studiolo ed è ornato da motivi ad intarsio (Fig.9 a-b). Sullo stesso piano è collocata la camera da letto con spogliatoio in stile neoclassico, decorata da piccoli medaglioni dove sono raffigurati i ritratti monocromi dei membri della famiglia reale ornati da didascalie dai toni amorevoli e affettuosi attribuiti al pittore napoletano Cotardi (Fig.10).

Fig. 8 - Salottino all’Ercolana.
Fig. 10 - Medaglione con autoritratto della regina Maria Carolina con scritto “Me stesso”.

Nel piano intermedio troviamo le stanze della servitù, delle dame e dei cavalieri decorate in stile neoclassico e da figure mitologiche. Al primo piano, da cui si accede tramite le due scalinate esterne del prospetto sud, troviamo la zona di rappresentanza con il “Salone delle Udienze” (Fig.11 a, b, c, d, e) impreziosito da pannelli in seta decorati con motivi cinesi e delle scritte in varie lingue: arabo, cinese ed ebraico (le scritte non possiedono alcun significato) e il “Salottino da gioco” decorato da Velasco con scene tratte dal mondo cinese e uccelli intrecciati a motivi ornamentali. A destra dell’entrata si trova la sala da pranzo con la “tavola matematica” progettata dal Marvuglia, dotata di un dispositivo a corde con il quale faceva salire e scendere le portate dalla cucina per evitare l’intervento fisico della servitù (Fig.12 a,b,c,d). Un tavolo simile si trova nel Petit Trianon situato all'interno dei giardini della Reggia di Versailles fatto installare da Luigi XV. Le pareti della sala da pranzo sono decorate con scene di vita quotidiana cinese in un’ambientazione campestre. A sinistra dell’entrata, invece, è disposta la stanza da letto del re Ferdinando IV delimitata da un’alcova con otto colonne in marmo bianco. Il soffitto fu dipinto da Velasco e Cotardi con figure di pavoni simbolo della fertilità e con personaggi cinesi abbigliati con vesti multicolori in atto di rendere omaggio ai dignitari seduti sotto grandi pagode (Fig.13).

Fig. 11e - Dettagli.

Nel seminterrato si trovano la camera da bagno in marmo con una grande vasca ovale incassata nel pavimento e la “Sala delle Rovine” con un tromp-l’oeil che raffigura nella volta una finta rovina avvolta dalla natura selvaggia e dall'umidità (Fig.14) attribuito a Raimondo Gioia, e la “Sala da Ballo” con due vani orchestra e ornata in stile Luigi XVI da Velasco (Fig.15). Dopo aver subito un accurato restauro la Casina cinese è stata riaperta al pubblico nel 2009.

Il gusto per le cineserie

La costruzione mostra con disinvoltura l’accostamento e la fusione di elementi esotici e orientali all'arte neoclassica, dando vita a quello stile che prende il nome di “eclettismo ottocentesco”.  All'epoca la Cina non era una terra molto conosciuta, ma la sua cultura raggiunse l’Europa, in particolare la Francia e poi Napoli soprattutto attraverso l’Inghilterra, mediante l’importazione di testi, stampe, porcellane e tessuti. Di questa cultura “cinese” se ne fece un’interpretazione artistica propria ed in Sicilia questo stile ebbe molto slancio, soprattutto nella città di Palermo, dato l’avvicinamento con l’Inghilterra durante la guerra napoleonica. Ulteriori testimonianze sono: la “Sala Cinese” dipinta dai fratelli Giovanni e Salvatore Patricolo all'interno degli appartamenti del Palazzo Reale di Palermo che veniva utilizzata spesso dai regnanti come sala da tè e il “Salottino alla cinese” decorato dal pittore Giovanni Lentini con sete e dipinti con temi d’ispirazione orientale realizzato presso il Palazzo Filangeri di Mirto a metà del XIX secolo (Fig.16).

Fig. 16 - Salottino alla cinese di Palazzo Filangeri Mirto (particolare).

 

Bibliografia

Bajamonte C. et al., Palermo l’arte e la storia. Il patrimonio artistico in 611 schede, Palermo 2016.


LA CATTEDRALE DI SANTA MARIA DI ANAGNI

A cura di Vanessa Viti

La Cattedrale di Santa Maria si trova ad Anagni, comune della regione Lazio denominato "Città dei Papi" poiché diede i natali a quattro pontefici: Innocenzo III, Alessandro IV, Gregorio IX, Bonifacio VIII, inoltre per lungo tempo è stata sede papale. La cittadina di Anagni è altresì famosa per il celebre "schiaffo di Anagni", episodio avvenuto l'8 settembre del 1303 ai danni del papa Bonifacio VIII, un oltraggio morale più che un vero e proprio schiaffo

La Cattedrale di Anagni: esterno

I lavori di costruzione iniziarono intorno al 1072 e terminarono nel 1104 circa, la chiese venne eretta per volere del Vescovo Pietro da Salerno. La mole dell'edificio domina con la sua presenza la cittadina dall'alto del colle su cui è stata costruita. Esternamente possiede le caratteristiche dello stile romanico emiliano-lombardo. La possente facciata in pietra tartara si erge maestosamente sul sagrato insieme al poderoso campanile con aperture a monofore, bifore e trifore che svetta arrivando 30 metri di altezza. A sud-ovest la cattedrale è di grande impatto visivo e troneggia piazza Innocenzo III con la Loggia delle Benedizioni, l’esterno della Cappella Caetani e la scenografica scalinata che curva dietro le absidi. Un numero molto limitato di aperture ed una serie di archetti in pietra bianca sono gli unici elementi architettonici che ne alleggeriscono la struttura. Più movimentati sono i cilindri absidali scanditi da lesene unite tra loro da coppie di archetti. L'abside maggiore è coronato da una loggetta la cui decorazione marmorea risalta sul colore ocra del paramento murario. Una serie di colonne eterogenee sorreggono gli archetti pensili che in maniera alternata si appoggiano su delle mensole figurate. Il cilindro dell'abside maggiore è aperto da un'unica monofora con archivolto a doppio rincasso e con colonnine laterali. Dal fianco destro della chiesa si intravede un'alta cappella laterale ed una terrazza sostenuta da una loggia su arcate, al di sopra della terrazza sporge un'edicola contenente la statua di Bonifacio VIII. Le volte inferiori della loggia si intersecano con una sequenza di archetti pensili risalenti a costruzioni precedenti, i cui peducci appaiono rozzamente scolpiti. Queste teste di lupo, leone, montone rappresentano uno dei pochi esempi di scultura figurata che si può trovare nell'edificio. La facciata ha una struttura tripartita con tre portali di tipo campano. Le navate laterali sono illuminate da due semplici monofore, altre finestre uguali sono allineate nella parte superiore. Le semi-colonne addossate sono la testimonianza dell'esistenza di un portico probabilmente mai costruito. Il portale ha un archivolto con la ghiera esterna sporgente, due stretti capitelli poggiano su un'architrave costituita da elementi di spoglio. Interessante è l'espressione volutamente caricaturale degli animali che costituiscono l'ornamentazione del portale. Di fronte alla facciata sorge isolato il bellissimo campanile, risalente al XII secolo, di stile lombardo la cui base è aperta sui quattro lati da alte arcate a tutto sesto.

La Cattedrale di Anagni: interno

All'interno i caratteri romanici, come l’alternanza di pilastri e colonne di separazione tra le navate, incontrano elementi architettonici tipicamente gotici frutto dei restauri commissionati dai vescovi Alberto e Pandolfo che si conclusero nel 1250: costoro fecero sostituire le capriate in legno della navata centrale con archi a sesto acuto a sostegno del nuovo tetto e fecero realizzare la nuova copertura a volte ogivali costolonate su pilastri a fascio nel transetto. Gli archi della navata centrale furono decorati con immagini di pavoni e draghi. Le navate conservano il pavimento eseguito da Cosma tra il 1224 ed il 1227. Nella navata il percorso verso l'altare è definito da una serie continua di figure circolari unite da nastri. La zona presbiteriale, rialzata su un basso gradino, è decorata da due serie di tre dischi allineati separati da una composizione in cui il cerchio centrale è racchiuso da un quadrato. Ai lati del percorso centrale si allineano elementi di forma rettangolare, i "tappeti di preghiera", che nelle navate laterali sono intercalati dagli elementi circolari. Nel presbiterio si conservano gli arredi che furono eseguiti intorno al 1250. Lo spazio sacro è isolato da transenne marmoree con intarsi cosmateschi. All'interno di una struttura marmorea trovano spazio riquadri in marmi pregiati bordati con tarsie eseguite con paste vitree, pietre e lamine d'oro. Sull'altare si trova il ciborio, di tipo romano con multiple loggette su colonnine sovrapposte, alla bottega del Vassalletto possono essere attribuite il candelabro pasquale e la sede vescovile. Il candelabro consta di una colonna tortile ricoperta con tarsie, che poggia su una base sorretta da sfingi e da un telamone che sorregge il basamento del cero. Sulla sinistra della navata si apre la cappella Cajetani, costruita alla fine del XIII secolo per ospitare i resti di autorevoli membri della famiglia cui apparteneva Bonifacio VIII. Si tratta di una struttura cuspidata su colonnine e pinnacoli che ricopre due sarcofaghi decorati con lo stemma dei Cajetani e con altri disegni cosmateschi.

Pochi sono i resti di pittura medievale superstiti nella basilica: una Vergine con il Bambino affiancata da san Magno e santa Secondina nella lunetta sopra il portale maggiore appartenente al XIV secolo, una Vergine con il Bambino e la testa di san Pietro sul pilastro sinistro vicino al presbiterio risalente a circa metà del XIII secolo e una Madonna in trono col Bambino tra santa Caterina d’Alessandria e sant'Antonio abate all'esterno, dietro una grata sul muro sinistro dei primi anni del XV secolo. Di epoca moderna sono invece le pitture presenti nelle tre absidi: nelle due laterali,  a sinistra troviamo la Cena in Emmaus, a destra la Morte di San Giuseppe.  Nel XIX secolo i pittori Pietro e Giovanni Gagliardi realizzarono le opere pittoriche presenti all'interno della chiesa, sempre a loro sono attribuiti i lavori pittorici che si trovano  nella calotta dell’abside maggiore: l’Annunciazione e i Santi venerati dalla Chiesa anagnina. I Santi Apostoli con san Giovanni Battista su fondo scuro nell’emiciclo absidale è stato invece realizzato nel 1837 (tecnica dell’olio su muro).

 

Sitografia

https://www.cattedraledianagni.it/cattedrale

 

Bibliografia

La Cattedrale di Anagni-I Edizione-Orvieto.


LA CHIESA DI SAN ROCCO A CANEVE DI ARCO

A cura di Beatrice Rosa

A pochi chilometri dalla cittadina di Arco di Trento, nella frazione di Caneve, vi è la chiesa di San Rocco (fig. 1), un edificio liturgico molto piccolo che nasconde però un grande tesoro: quando vi si entra, non si può infatti che rimanere estasiati dalla bellezza e ricchezza degli affreschi e delle pale d’altare che lo decorano.

Fig. 1 - Chiesa di San Rocco di Caneve.

L’edificazione della chiesa risale al XV secolo, in occasione del matrimonio tra Odorico d’Arco e Susanna Collalto avvenuto nel 1480; ipotesi confermata dalla presenza delle sigle e stemmi dei due nobili affrescati nell’arco santo (fig. 2). Dalle fonti si evince come i Conti d’Arco fossero particolarmente affezionati a questa chiesa, probabilmente per la presenza di un palazzo dei conti proprio nella frazione arcense. Degno di nota il fatto che l’edificio non sia citato nell'elenco delle chiese del luogo per decenni, probabilmente perché fino al 1537, anno della prima visita pastorale, aveva la funzione di cappella privata[i].

Fig. 2 – Stemma di Odorico e Susanna.

L’accesso alla chiesa è favorito da due ingressi: quello principale a sud e quello secondario ad est. Come già anticipato, è un edificio di piccole dimensioni con l’aula rettangolare  larga 9 m, lunga 6 m e alta 7 m e l’abside a pianta quadrata con lato lungo 5 m e alta 4 m[ii]

La decorazione interna

La peculiarità della chiesa di San Rocco è la decorazione ad affresco su tutte le pareti, sia la parte del presbiterio che della navata, frutto essenzialmente di due campagne decorative: una di fine Quattrocento e l’altra di metà Cinquecento.

Gli affreschi del presbiterio

La prima campagna lavorativa, coeva con la costruzione dell’edificio di fine Quattrocento, riguardava gli affreschi del presbiterio, molto probabilmente ad opera del pittore rivano Gaspare Rotaldo[iii]. Accedendovi, non si può non notare la raffigurazione sulla parete di fondo di S. Antonio Abate e S. Agostino affiancati dai parzialmente visibili S. Sebastiano e S. Rocco (fig. 3). Gli affreschi sono molto rovinati perché, sicuramente dopo il 1519, è stata presa la decisione di dotare la chiesa di un vero altare e di una sacrestia, il che ha portato all'introduzione di una nicchia nella parete di fondo per contenere l’altare ligneo con il gruppo scultoreo della Madonna con i santi Rocco e Sebastiano e sulla parete di sinistra l’introduzione della porta per la sacrestia. Attualmente nell'altare ligneo c’è una Madonna con Bambino in marmo, in quanto sfortunatamente le tre sculture lignee sono state rubate nel 1987[iv].

Fig. 3 – Parete di fondo.

I quattro santi citati precedentemente sono inseriti in un paesaggio esteso sulle pareti laterali, un’immagine familiare se si visita la chiesa di San Rocco dopo essere stati nella cittadina di Arco: nell'angolo tra la parete sinistra e quella di fondo è infatti rappresentato il borgo di Arco e sotto il fiume Sarca[v].

La parete più interessante del presbiterio è sicuramente quella di sinistra, dove è raffigurato un personaggio ben abbigliato sdraiato sullo stipite dell’ingresso alla sacrestia (fig. 4). Questo giovanotto non è un semplice pellegrino, ma è San Rocco: sdraiato con la testa appoggiata al braccio destro, lo sguardo languido rivolto verso di noi, come se non si stesse accorgendo dell’arrivo del cane che gli sta portando una pagnotta. Il santo è raffigurato con tutti i suoi attributi più comuni: l’abbigliamento e il bastone da pellegrino, la piaga sulla gamba destra indicata da lui con la mano sinistra e appunto, il fedele amico. Sulla stessa parete, si vede sbucare anche un altro personaggio, un ragazzo biondo, dal naso prominente e le labbra carnose che sembra salutarci con la mano destra. Si è molto discusso sull'identificazione di questo giovane, con la conclusione che si tratti dello stesso Odorico d’Arco in atteggiamento di saluto alla moglie, la cui effige era con tutta probabilità raffigurata sulla parete opposta, lato del presbiterio sfortunatamente molto rovinato e manomesso[vi].

Fig. 4 – San Rocco.

Se si alza lo sguardo verso la volta a crociera, si noterà la rappresentazione dei quattro evangelisti in tondi, attorniati da dei simpaticissimi putti festosi occupati in svariate attività (fig. 5). La presenza di questi bambini alati è un meraviglioso esempio di convivenza di iconografia sacra e profana in un edificio liturgico[vii].

Fig. 5 - Putti.

Gli affreschi dell’aula

Molto diversi sono invece gli affreschi caratterizzanti l’aula, frutto di una campagna decorativa di metà XVI secolo attribuita a Dioniso Bonmartini e aiuti. Dioniso Bonmartini era un pittore di Arco, che già nel 1537 aveva firmato gli affreschi del sottogronda del Palazzo del Termine. Tramite questa testimonianza e lo stile peculiare del pittore, riconoscibile per i tratti fisionomici caratterizzati, la varietà di atteggiamenti e movenze e l’attenzione particolare alla gestualità delle mani, è stato possibile attribuirgli il ciclo pittorico di Caneve[viii].

La volta a crociera è decorata, come nell'abside, con quattro medaglioni che iscrivono le figure degli Evangelisti con i loro attributi, essi sono poi circondati da un motivo a grottesche caratterizzato da fiori e rami che si tramutano poi in vasi e in uccelli (fig. 6)[ix].

Fig. 6 – Volta sopra l’aula.

Gli affreschi parietali hanno come soggetto la Passione di Cristo. Il racconto va letto partendo dalla parete di destra dove è raffigurato l’ingresso di Gesù a Gerusalemme: vediamo Cristo in groppa a un asino, accompagnato da vari personaggi tra cui S. Pietro, riconoscibile dalle chiavi nella mano destra e dalla tunica blu e il mantello giallo. A destra di questo episodio, c’è la scena successiva raffigurante l’Ultima Cena, più precisamente il momento in cui Gesù disse: “In verità io vi dico, uno di voi mi tradirà” (fig. 7). La narrazione prosegue sulla parete di fondo con la scena della lavanda dei piedi sulla sinistra e Cristo nell'orto del Getsemani sulla destra, episodi sfortunatamente molto rovinati a causa dell’apertura della finestra in facciata[x].

Fig. 7 – Parete di destra.

Dalla parete di fondo ci si rivolge poi alla quella di sinistra dov'è presente la vicenda della cattura di Cristo (fig. 8): Gesù è nell'atto di rimproverare S. Pietro che ha reciso con la spada l’orecchio destro ad uno dei convenuti. A destra, sul medesimo registro, si scorge un gruppo di soldati romani che scortano Gesù verso Anna, suocero di Caifa, per il giudizio preliminare.

Fig. 8 – Parete di sinistra.

Il racconto riprende poi nel registro inferiore della parete di destra (fig. 7): nel primo episodio vediamo Caifa in trono, vestito sontuosamente mentre discute con uno dei tanti sacerdoti al suo fianco; sta aspettando Gesù che arriva da sinistra scortato dai soldati romani, con lo sguardo affranto rivolto verso il basso. I soldati ritornano anche nella scena seguente sulla destra, in questo caso stanno conducendo Cristo davanti a Pilato. Il pittore sceglie di illustrare in questa parte di parete un episodio narrato dall'evangelista Matteo, cioè il momento in cui Pilato si fa portare da due inservienti dell’acqua e un catino che utilizza per lavarsi le mani. La narrazione prosegue poi sulla parete di fondo dove si possono ammirare due episodi commoventi della Passione: sulla sinistra la flagellazione con Cristo alla colonna, sulla destra l’incoronazione di spine[xi].

A differenza degli affreschi visti finora, gli episodi nel registro inferiore sulla parete sinistra, gli ultimi due prima della crocifissione, sono molto rovinati ma ancora perfettamente leggibili: sulla sinistra è raffigurato Cristo davanti ad Erode e a destra l’affollata salita al Calvario (fig. 8)[xii].

La narrazione si conclude poi sopra l’arco santo con la straordinaria Crocifissione (fig. 9), episodio che occupa lo spazio che nelle altre pareti sarebbe stato investito per rappresentare due scene. Al centro vediamo Cristo crocifisso, con il corpo candido, la testa reclinata verso il basso in un atteggiamento di rassegnata accettazione. Al suo fianco i due ladroni in croce, con il corpo più rosaceo, in pose contorte e divincolate, probabilmente a causa del dolore che rende anche i loro volti quasi grotteschi. Ai piedi della croce si notano Maria Maddalena e S. Giovanni Evangelista con gli occhi rivolti verso l’alto; un dettaglio meraviglioso è quello in primo piano con le quattro donne che reggono la Vergine svenuta dal dolore nel vedere il figlio crocifisso[xiii].

Fig. 9 – La crocifissione.

Oltre al ciclo della Passione, è degno di nota anche l’affresco alla destra della porta laterale (fig. 10). Esso raffigura una mensa d’altare sulla quale, tra i candelabri, è presente un ostensorio in oro al cui interno si può scorgere l’eucarestia con il Cristo crocifisso, il tutto coperto da un leggerissimo velo trasparente[xiv]. Tra le due colonne sullo sfondo, è compresa la pala d’altare: essa ha come soggetto due santi, di cui noi oggi vediamo solo dal busto fino ai piedi, nonostante ciò, sono perfettamente riconoscibili come S. Sebastiano sulla sinistra e S. Bernardino sulla destra. Inginocchiati davanti all'altare riconosciamo S. Rocco, indicante con la mano destra la piaga sulla gamba, e S. Girolamo in vesti di eremita in preghiera, come i tre giovinetti al centro della composizione. Questo affresco non presenta discontinuità nella stesura dell’intonaco, il che fa pensare, considerate anche le molte analogie stilistiche, che sia stato realizzato dalla stessa mano degli affreschi della Passione di Cristo[xv].

Fig. 10 – Mensa d’altare.

Osservando le pareti dell’aula, si potrebbe rimanere invece perplessi nel vedere degli affreschi molto diversi rispetto a quelli descritti finora. Gli affreschi “anomali” sono essenzialmente tre: raffiguranti la Resurrezione di Cristo (fig. 11), le pie donne al sepolcro (fig. 12) e l’Assunzione in cielo di Maria (fig. 13). Essi sono atipici sia dal punto di vista stilistico che dal punto iconografico: basti pensare all'Assunzione della Vergine, un episodio alquanto slegato dal contesto della Passione in quanto non sono presentati altri fatti quali, per esempio, la Pentecoste[xvi].

Con tutta probabilità la narrazione comincia con la Resurrezione, un affresco molto rovinato e poco leggibile in cui si vede ancora Cristo che risorge con in mano il vessillo crociato, la sagoma del sarcofago e di un soldato. Contrariamente a quello appena citato, l’affresco della Pie donne al sepolcro verte in un ottimo stato conservativo che permette di leggerne tutti i dettagli: in primo piano si vede il sepolcro scoperchiato e l’angelo che lo indica. Alla scena assistono ben undici figure femminili, la più visibile e facilmente identificabile è Maria Maddalena, con il vasetto degli unguenti in mano e il canonico abito rosso. Questa scena è particolarmente interessante anche perché è “un episodio nell'episodio”, infatti con un po’ di attenzione, si può notare in basso a sinistra Gesù, nelle vesti di ortolano, che appare alla Maddalena. La coesione di due scene in una, è un fatto inusuale nella chiesa di San Rocco, come anche peculiare è lo stile utilizzato che fa pensare a una mano diversa rispetto a quella di Dioniso Bonmartini e aiuti. Sulla parete opposta è invece presente l’Assunzione della Vergine, il più rovinato degli affreschi dove si può solamente scorgere la figura sbiadita di Maria[xvii].

Gli altari laterali

Oltre ai meravigliosi affreschi, la chiesa di San Rocco è di grande importanza per le due pale d’altare che decorano gli altari ai lati del presbiterio di cui però vi parlerò in un’altra occasione![xviii] (fig. 14-15)

 

BIBLIOGRAFIA

Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994.

Il paesetto di Caneve d'Arco e la sua chiesina di San Rocco, a cura di F. Zendron, Trento 1964.

Podetti, Gli affreschi cinquecenteschi del Palazzo del Termine ad Arco, in “Sommolago”, XXV, 2008, 3, pp. 5-114.

 

CREDITI FOTOGRAFICI

  1. https://www.gardatourism.it/chiesa-di-san-rocco/
  2. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  3. https://www.tripadvisor.it/Attraction_Review-g670770-d11963970-Reviews-Chiesa_di_San_Rocco-Arco_Province_of_Trento_Trentino_Alto_Adige.html
  4. https://elenaedorlando.wordpress.com/2013/10/20/passeggiate-domenicali/
  5. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  6. https://www.tripadvisor.it/Attraction_Review-g670770-d11963970-Reviews-Chiesa_di_San_Rocco-Arco_Province_of_Trento_Trentino_Alto_Adige.html
  7. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  8. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  9. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  10. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  11. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  12. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  13. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  14. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994
  15. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994

 

Note

[i] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 246.

[ii] Il paesetto di Caneve d’Arco e la sua chiesina di S. Rocco 1964, pp. 11-12.

[iii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 36-43.

[iv] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 55-56.

[v] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 44-53.

[vi] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 44-53.

[vii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 36-43.

[viii] E. Podetti, Gli affreschi cinquecenteschi del Palazzo del Termine ad Arco, in “Sommolago”, XXV, 2008, 3, pp. 21-29.

[ix] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[x] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[xi] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[xii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[xiii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 75-86.

[xiv] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 91-98.

[xv] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 91-98.

[xvi] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 91-98.

[xvii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 91-98.

[xviii] R. Codroico e R. Turrini, La chiesa di San Rocco a Caneve di Arco, Arco 1994, pp. 57-63.


LA CHIESA DELLA DISCIPLINA A RIVA DEL GARDA

Uno dei luoghi simbolo di Riva del Garda è la porta di San Giuseppe, uno dei tre passaggi verso il centro della cittadina e la riva del lago (fig. 1-2). Molto spesso turisti e abitanti del luogo non conoscono però il ruolo originario dell’edificio, tanto che rimangono stupiti nel vedere spiccare sulla porta un campanile barocco. Questo è uno dei primi indizi per capire cosa fosse anticamente la porta di San Giuseppe: una chiesa, più precisamente la più antica di Riva del Garda, prima intitolata alla Disciplina e poi a San Giuseppe [i].

Le informazioni sull’edificio liturgico e sulla data della sua costruzione sono sfortunatamente frammentarie, probabilmente è stato costruito in tempi molto lontani, in quanto, sul famoso campanile di rifacimento barocco, è rimasta ancora la raffigurazione della croce a otto punte dell’ordine dei Cavalieri di Malta e dalle fonti emerge che ne era presente un’altra sulla facciata, una all’interno e una ad affresco nella sagrestia. L’ordine dei Cavalieri di Malta è stato fondato a Gerusalemme nel 1023, non solamente come ordine religioso e cavalleresco, ma anche ospedaliero, elemento rilevante in quanto la chiesa della Disciplina è stata per secoli connessa all’ospedale che le sorgeva a fianco di cui parlerò successivamente [ii].

Non esiste documentazione che provi che sono stati i Cavalieri di Malta a fondare l’edificio liturgico e quello ospedaliero, ma è certo che nel Duecento l’edificio era già presente, in quanto esiste un documento del 1275 che riporta la donazione di un cittadino rivano di sei materassi per l’ospedale e una tunica nuova per l’eremita che vi risiedeva [iii].

Dal Quattrocento in poi la costruzione è sempre nominata come chiesa della confraternita dei Battuti o dei Disciplini, istituzione composta da laici trentini che si proponevano di servire Dio con le opere di carità; la denominazione di “Battuti” potrebbe trarre in inganno e creare confusione con i “Flagellanti” le cui pratiche di mortificazione erano però molto più violente rispetto a quelle dei Disciplini [iv].

Questa confraternita non era un unicum, il fenomeno confraternale era infatti molto radicato nel principato vescovile di Trento, tanto che solo nella cittadina di Riva del Garda erano presenti, nella seconda metà del Seicento, ben nove confraternite di cui la più antica e documentata è proprio quella della Disciplina [v].

Dalle fonti è possibile ricostruire il testo normativo della confraternita, risalendo agli obblighi e alle responsabilità dei loro membri: si occupavano di attività di carattere religioso, sociale e caritativo. I membri della confraternita dovevano versare periodicamente delle somme di denaro per l’istituzione e per la tutela del patrimonio, da ciò si può dedurre che avevano dei beni della chiesa da curare e da salvaguardare [vi].

Come già anticipato precedentemente, oltre alla chiesa, i Disciplinati gestivano anche un ospedale ricordato dalle fonti già dalla seconda metà del Duecento. Questa istituzione per secoli ha dedicato attenzione e risorse a poveri e malati, con particolare riguardo alle ragazze povere e prive di dote [vii]; la missione di questo edificio doveva essere particolarmente apprezzata dai cittadini rivani, viste le numerose e corpose donazioni fatte nel corso dei secoli che hanno permesso alla struttura di continuare il proprio lavoro fino al 1903, quando viene sostituito dall’Ospedale Civile [viii].

Fig. 3 – Interno chiesa/porta San Giuseppe.

Dalla documentazione emerge che tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, sia l’ospedale che la chiesa della Disciplina sono stati ristrutturati, ampliati e rinnovati; un’importante testimonianza è la Visita Pastorale di Ludovico Madruzzo nel 1597, grazie alla quale sappiamo che la chiesa aveva tre altari: l’altare maggiore, uno dedicato a Sant’Antonio e uno a San Giuseppe, decorati nel tempo con tre bellissime opere [ix].

L’altare maggiore e quello di San Giuseppe erano occupati da due pale d’altare raffigurati rispettivamente un Compianto su Cristo morto del 1531 (fig. 4) e un’Adorazione dei pastori del 1530 (fig. 5), entrambe dipinte dal misterioso e affascinante pittore del Cinquecento “F.V.”, ad oggi conservate presso il MAG – Museo Alto Garda.

Per quanto riguarda invece l’altare di San Giuseppe, nel 1579 è citato nella Visita Pastorale con “sine palla”, è stato infatti decorato solo nel 1607 dal pittore bresciano Antonio Gandino, con un pala raffigurante i Santi Antonio Abate, Apollonia, Agata, Rocco e Leonardo oggi sfortunatamente molto danneggiata (fig. 6)[x].

Un’altra descrizione utile, per capire com’era la chiesa in origine, è quella della Visita Pastorale del 1653. In questa occasione l’edificio liturgico risulta divisa in due navate, con la presenza dell’altare maggiore, quello di San Giuseppe, uno di Sant’Apollonia (probabilmente quello precedentemente citato come di Sant’Antonio) e nella navata laterale ne è citato un altro dedicato alla Madonna del Carmine [xi]. Questo nuovo altare non è stato probabilmente commissionato dai Disciplini, bensì da un’altra confraternita, quella della Beata Vergine del Carmelo. L’altare ligneo è attualmente conservato presso la chiesa di San Giorgio di Arco e, nonostante le manomissioni e ridipinture, si nota ancora la sua originaria bellezza. Da una foto storica si evince che era costituito da quattro colonne, nella nicchia centrale era presente la Madonna del Carmine e ai lati due statue di dimensioni minori di cui non si conosce il soggetto; nella parte alta è presente un fregio caratterizzato da cherubini, rosette, festoni e un medaglione centrale ormai vuoto (fig. 7) [xii].

Fig. 7 – Altare ligneo della Beata Vergine del Carmelo, fotografia del 1930 circa, Gardone Riviera, Archivio Fondazione Il Vittoriale degli Italiani.

La svolta avviene però a fine Seicento, quando l’edificio liturgico viene riorganizzato e totalmente rinnovato: viene rimosso l’altare con il Compianto su Cristo morto conferendo maggiore importanza a quello dedicato a San Giuseppe, spostato nell’area presbiteriale. La chiesa necessitava di un nuovo altare maggiore, la commissione viene quindi affidata ad alcuni tagliapietre della zona, tra cui Silvestro Ogna, attivo a Limone sul Garda [xiii]. L’altare è attualmente conservato nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Sarche dove si può ancora apprezzare la bellissima incorniciatura marmorea costituita da quattro colonne di marmo mischio e da una cimasa con timpano triangolare (fig. 8). La cimasa è inoltre caratterizzata da due bellissimi angeli in preghiera che sono stati avvicinati alla bottega bresciana dei Carra da Giuseppe Sava [xiv].

Fig. 8 – Silvestro Ogna e aiuti, Altare maggiore, 1697 circa, Sarche, chiesa di Santa Maria del Carmine (già Riva del Garda, chiesa della Disciplina).

Nel 1714 i Disciplinati decidono di commissionare un altro altare, dedicato a San Francesco Saverio, sulla cui commissione non abbiamo molte informazioni, ma ciò che è certo è che nel 1718 i lavori erano conclusi. La pala che ornava l’altare è andata perduta, mentre la struttura marmorea è ancora mirabile nella chiesa di San Rocco a Nave San Rocco (fig. 9). Sempre per rinnovare la chiesa, oltre all’altare prima citato, la confraternita decide di acquistare a Venezia anche dei nuovi arredi liturgici principalmente argentei [xv].

Fig. 9 – Maestranze castionesi, Altare di san Rocco, 1714-18 circa, Nave San Rocco, chiesa di San Rocco (già Riva del Garda, chiesa della Disciplina).

Negli anni Sessanta del Settecento questa volontà di rinnovamento diventa totale, infatti tra il 1763 e il 1766 la facciata viene completamente rinnovata, come anche il tetto e il campanile. In questa circostanza sono interessanti i documenti riguardo a dei pagamenti a Bartolomeo Zeni, un pittore formatosi nell’ambito dell’Accademia veronese residente a Riva del Garda, il quale dipinge le Virtù teologali che sono ancora visibili sul soffitto dell’attuale passaggio (fig. 10) [xvi].

Fig. 10 – Bartolomeo Zeni, Virtù teologali, 1795, Riva del Garda, passaggio pedonale (già chiesa della Disciplina).

A causa dell’imminente arrivo delle truppe francesi dell’armata d’Italia guidate da Napoleone Bonaparte, la situazione stava peggiorando in modo drastico, ma fortunatamente i Disciplinati riescono nel 1796 a scongiurare il pericolo di vedere la chiesa appena rinnovata ridotta a magazzino costruendo delle barriere lignee. Nel primo decennio dell’Ottocento la confraternita è stata soppressa e la gestione dell’ospedale e della chiesa fu affidata alla Congregazione della Carità [xvii].

Alla fine dell’Ottocento la chiesa di San Giuseppe viene restaurata e assolve la sua funzione fino all’agosto del 1914 quando è adibita a magazzino per l’Imperiale e regio esercito, da questo momento in poi l’edificio liturgico subisce ogni tipo di affronto [xviii].

Durante la Prima guerra mondiale la chiesa è gravemente danneggiata, nonostante l’appello di un agguerrito comitato di cittadini rivani nel 1924, l’arciprete di Riva, considerando la chiesa dei Disciplini secondaria, preferisce chiedere che i fondi destinati quale indennizzo per danni di guerra vengano destinati per il restauro dell’Inviolata. Prevale quindi l’indirizzo di fine anni Dieci di abbattere, o almeno sventrare la chiesa, ormai ritenuta di poco pregio artistico. Vengono venduti i tre altari e le pale della chiesa con altre opere seguono invece la via della musealizzazione, il resto del patrimonio è perduto [xix].

Ed ecco quindi che viene creato il nuovo accesso carrabile al centro della cittadina, il famoso passaggio che magari attraverserete voi un giorno e in quell’occasione spero vi fermerete a ripensare a tutto ciò di cui vi ho parlato.

 

Note

[i] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 322.

[ii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 322.

[iii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 322.

[iv] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 323.

[v] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 147.

[vi] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 147-149.

[vii] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 160-161.

[viii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 327.

[ix] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 325.

[x] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 182.

[xi] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 183.

[xii] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 183.

[xiii] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 184.

[xiv] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 184.

[xv] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 184-185.

[xvi] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 187.

[xvii] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 188.

[xviii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 327.

[xix] Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017, p. 181.

 

Bibliografia

Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017.

Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000.

G. Sava, F.V.: un pittore del Cinquecento e il suo monogramma, Rovereto 2008.

Referenze delle immagini

1. https://it.wikipedia.org/wiki/Porta_di_San_Giuseppe_(Riva_del_Garda)#/media/File:Ex_chiesa_di_San_Giuseppe_(Riva_del_Garda)_01.jpg

2. http://www.itinerariperviaggiare.it/2014/07/itinerario-riva-del-garda-sole-vento-e.html

3. http://www.itinerariperviaggiare.it/2014/07/itinerario-riva-del-garda-sole-vento-e.html

4. G. Sava, F.V.: un pittore del Cinquecento e il suo monogramma, Rovereto 2008.

5. G. Sava, F.V.: un pittore del Cinquecento e il suo monogramma, Rovereto 2008.

6. Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017.

7. Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017.

8. Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017.

9. Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di E. Curzel, M. Garbellotti, M. C. Rossi, Caselle di Sommacampagna 2017.

10. https://it.wikipedia.org/wiki/Porta_di_San_Giuseppe_(Riva_del_Garda)#/media/File:Ex_chiesa_di_San_Giuseppe_(Riva_del_Garda)_01.jpg


IL CASTELLO DEL VALENTINO A TORINO

Antica e prestigiosa dimora ubicata sulla riva sinistra del Po, il Castello del Valentino, situato nell'omonimo Parco del Valentino, è un edificio storico di grande pregio.

Il Castello del Valentino: storia

Dopo aver trionfato nella Battaglia di San Quintino (10 agosto 1557) alla testa dell’esercito asburgico con la firma della Pace di Cateau-Cambrésis (1559), il duca Emanuele Filiberto di Savoia (il "Testa di ferro") riottenne dalla Francia i territori della Savoia e del Piemonte, che erano stati occupati militarmente dai francesi nel 1536. Nel 1563 il duca decise di trasferire la capitale del proprio ducato dalla storica sede di Chambéry a Torino, avviando un’opera di riorganizzazione territoriale che aveva il fine di celebrare e, al contempo, riaffermare il prestigio e il potere assoluto dell'antica casata. Questo programma venne poi portato a compimento dai suoi successori tra i secoli XVII e XVIII, i quali organizzarono nel centro nevralgico di Torino la  cosiddetta “Zona di Comando” con edifici preposti all'agire politico, e, attorno alla capitale crearono, secondo una singolare disposizione a raggiera, un sistema di residenze extraurbane dedicate al loisir detto "Corona di Delizie"; ristrutturando dimore già esistenti o facendosi edificare ex novo delle altre. Si parla in tutto di 22 edifici, 11 dei quali sono situati intra moenia. Tra le maisons de plaisance facenti parte della "Corona di Delizie" vi è sicuramente il Castello del Valentino.

La storia di questa dimora collocata sul lato sinistro del Po (più precisamente nella zona anticamente denominata "Vallantinum" a causa della propria conformazione geomorfologica resa irregolare da un corso d'acqua che oggi scorre interrato) iniziò nel 1564, quando il duca Testa di Ferro la acquistò, su suggerimento di Andrea Palladio, dal cardinale di origini lombarde René de Birague, colui che durante l'occupazione francese del Piemonte aveva svolto la mansione di Presidente del Parlamento di Torino. Doveva trattarsi di una villa non particolarmente grande con il prospetto principale rivolto verso il Po, strutturata a manica semplice ed articolata su quattro piani, ciascuno dei quali parallelo al fiume; delimitata a sud da una torre con scalinata interna, e a nord da un volume sporgente. Tra 1576 e 1578 si svolsero dei lavori di abbellimento che interessarono i soli interni. Non ci sono pervenuti dati sufficientemente certi sull'apparato decorativo realizzato in quegli anni, ma dai documenti relativi ai pagamenti sappiamo che a lavorare in quei cantieri vi era il pittore faentino Alessandro Ardenti detto "l'Ardente". Di quegli interventi si sono conservati soltanto alcuni frammenti di affreschi con grottesche ed un'iscrizione riportante la data del 1578, rinvenuti presso la Sala delle Colonne nel corso dei restauri novecenteschi.

Nel 1619, in occasione delle nozze tra il figlio trentunenne Vittorio Amedeo e la quattordicenne Maria Cristina di Borbone-Francia, Carlo Amedeo I donò alla nuora la dimora fluviale. Fu proprio Maria Cristina, figlia del sovrano francese Enrico IV, sorella di Luigi XIII e, alla morte del marito, prima Madama Reale, a decidere importanti lavori di ampliamento su progetto dell'architetto Carlo Cognengo conte di Castellamonte e del figlio di quest'ultimo, Amedeo, suo collaboratore e poi successore nella direzione del cantiere. La giovanissima duchessa era avvezza ai fasti della corte francese e volle ricrearli in quella che scelse come propria sede di rappresentanza, non soltanto nello stile architettonico ma anche nelle sontuose feste che in essa organizzava. Carlo di Castellamonte, sul modello transalpino del pavillion-système, raddoppiò la preesistente struttura cinquecentesca realizzando, tra 1620 e 1621, il corpo parallelo al fiume, delimitato ai lati da due torri con una caratteristica copertura a falde fortemente inclinate. A partire dal 1645, Amedeo di Castellamonte fece edificare due padiglioni più bassi rivolti verso la città, collegati alla manica principale tramite due gallerie porticate a forma di esedra semicircolare che andavano a formare un cortile d'onore detto "en forme de théâtre". Ai lati era prevista la presenza di giardini, uno nell'ala sinistra, l'attuale orto botanico dell'Università degli Studi di Torino, l'altro nell'ala destra, mai portato a compimento. Fungeva da prospetto principale la facciata che guardava al fiume Po, un tempo navigabile e suggestiva cornice di scenografici ricevimenti a bordo di bucintori veneziani. Questa tra le due facciate è quella che ha mantenuto praticamente intatto l'originale assetto castellamontiano, ispirato, seppur in maniera estremamente semplificata, a quello dello Château-Neuf a Saint-Germain-en-Laye, voluto da Enrico IV di Borbone-Francia ed oggi quasi totalmente scomparso.  Mentre procedevano i lavori di ampliamento e ridefinizione architettonica sotto la supervisione degli ingegneri ducali, la reggente dispose l'allestimento di due appartamenti perfettamente simmetrici (5 stanze ed un cabinet ciascuno), uno per sé e l'altro per il figlio Carlo Emanuele II, e li fece decorare, dal 1633 al 1646, in maniera particolarmente elaborata secondo un preciso progetto iconografico ideato dal grande retore di corte Emanuele Tesauro e dal conte Filippo di San Martino d'Agliè, raffinato uomo di lettere e favorito di Maria Cristina. L'appartamento meridionale che guarda verso Moncalieri, appartenuto alla duchessa madre, venne affrescato dal pittore Isidoro Bianchi da Campione d'Italia con temi floreali e scene mitologiche tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, ed impreziosito da sontuose cornici in stucco dorato dai due figli di Isidoro, Pompeo e Francesco Bianchi. Sul lato opposto, l'appartamento destinato al futuro duca venne ornato con pitture a fresco dei fratelli Giovanni Antonio e Giovanni Paolo Recchi, incorniciate dai candidi stucchi di Alessandro Casella e del suo éntourage familiare. Qui per gli affreschi vennero pensate tematiche tradizionalmente ritenute virili, come la caccia o la guerra. Fino alla morte della Madama Reale, avvenuta nel 1663, la delitia fluviale del Valentino, all'epoca immersa nel verde lussureggiante della campagna torinese, fu spazio scenografico per la vita di corte.

Fig. 6 -Charles Dauphin: "Ritratto equestre di Maria Cristina di Borbone-Francia in veste dI Minerva, 1663 circa, olio su tela. Racconigi, Castello di Racconigi. Copyright fotografico: iltorinese.it.

Seppur ormai soppiantato da altre residenze più alla moda, nel XVIII secolo il castello mantenne ancora intatto il suo status di maison de plaisance. Negli anni dell'Occupazione Napoleonica di Torino venne dichiarato "Casa Nazionale" e adibito a sede della Scuola di Veterinaria. Dopo la Restaurazione, tornato in mano alla Corona e persa definitivamente l'originaria funzione divenne, nel 1824, il quartier generale del Corpo Reale di Artiglieria fino alla cessione demaniale, avvenuta nel 1850. Con il progetto di espansione della città verso sud e la creazione del Parco pubblico del Valentino l'ormai ex residenza sabauda venne inurbata. In occasione della VI Esposizione Nazionale dei prodotti dell'industria, voluta da Camillo Benso conte di Cavour, fra 1857 e 1858 la struttura subì dei significativi interventi di restauro ed ampliamento su progetto di Domenico Ferri e Luigi Tonta, i quali stravolsero completamente la primitiva organizzazione compositiva, prevedendo non più l'affaccio verso il fiume, ma verso la città. Demoliti i portici terrazzati castellamontiani, vennero innalzate due gallerie laterali che, nella scansione delle aperture, riprendevano l'apparato decorativo della facciata seicentesca. Nel 1859, con la Legge Casati, veniva istituita la Regia Scuola di Applicazione degli Ingegneri con sede proprio presso il castello. Una nuova serie di importanti lavori, tra 1866 e 1899, comportarono l'abbattimento dell'emiciclo che costituiva il cortile "en forme de théâtre", e, in luogo di questo, l'edificazione di due basse maniche terrazzate unite da una cancellata. Vennero in seguito aggiunti l'Edificio degli esperimenti idraulici (manica sud) e le maniche a pettine ad ovest. Nel 1906 nacque dall'unione fra la Regia Scuola di Applicazione degli Ingegneri e il Regio Museo Industriale il Politecnico di Torino. Tutt'ora l'edificio ospita i dipartimenti di Architettura e Design di quest'ultima istituzione universitaria. Dal 1997, assieme a tutte le altre residenze della Real Casa di Savoia, è patrimonio dell'Umanità tutelato dall'Unesco.

Il Castello del Valentino. Gli interni - Il piano terra

Fig. 7 - Interno della Sala delle Colonne. Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Al pian terreno, il primo ambiente in cui si imbatte il visitatore è la Sala delle Colonne.  Si tratta dell'atrio di collegamento tra la facciata verso il fiume e il cortile d'onore rivolto verso Torino. Al centro, sei robuste colonne doriche in breccia del tipo "vecchia macchia svizzera", del tutto simili a quelle del portico esterno, sostengono volte a crociera. Nella parte alta delle pareti, entro nicchie ovali incorniciate da stucchi del Corbellino, sono collocati busti di imperatori romani, già appartenuti alle collezioni sabaude di scultura antica.

Fig. 8 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Nel corso di un restauro decennale curato dalla Fondazione Crt e dal Politecnico di Torino, è stata riscoperta una cappella dotata di sacrestia, aperta al pubblico nel febbraio del 2018. Localizzata presso il padiglione nord-ovest, era stata murata all'inizio del XX secolo e se ne erano perse completamente le tracce. Il piccolo spazio sacro, costruito negli anni '40 del Seicento da Amedeo di Castellamonte, si presenta riccamente ornato da pregevoli stucchi bianchi, riferibili non agli anni in cui il Castello del Valentino era dimora di Maria Cristina, ma quando lo era di sua nuora, la Madama Reale Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, come dimostrato dalla presenza dei monogrammi di quest'ultima iscritti fra gli elementi decorativi.

Fig. 9 - Volta della cappella castellamontiana. Copyright: Corriere.it.

Il Piano Nobile

Tramite lo scalone monumentale a doppia rampa si accede al primo piano, ove sono collocati gli ambienti aulici. Fulcro del piano nobile è il Salone d'Onore, che serve da nodo di congiunzione tra l'appartamento della reggente e quello del futuro duca.

Il Salone d'Onore

Fig. 10 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Il Salone d'Onore o Gran Sala offre un punto di vista privilegiato sulla collina prospiciente il Castello del Valentino, sulla riva opposta del Po, ove Madama Cristina aveva fatto trasformare un modesto villino collocato al centro di una vigna in un vero e proprio palazzo a pianta centrale, all'esterno del quale si estendeva un giardino dotato di peschiere, viali alberati e pergolati, l'attuale Villa Abegg. La complessa decorazione pittorica del salone, più estesa e ardita rispetto a quella delle altre stanze, venne realizzata da Isidoro, Pompeo e Francesco Bianchi nella prima metà degli anni '40 del Seicento per poi essere ritoccata, circa trent'anni dopo, da Giovan Battista Cortella e dai fratelli Recchi, i quali intervennero probabilmente sulle quadrature. Negli affreschi a trompe-l'oeil delle colossali colonne salomoniche sorrette da telamoni di michelangiolesca memoria, sostengono a loro volta una sontuosa balconata aperta verso il cielo, popolata da sculture in bronzo dorato e ornata da balaustre simili a quelle dello scalone d'onore. Tra le quadrature, scene di battaglia corredate di targhe esplicative in versi celebrano le virtù e il valore militare dei duchi di Savoia, ponendo fortemente l'accento sui buoni rapporti intrattenuti in passato con la Francia, in chiaro omaggio alla duchessa. Sul registro inferiore della decorazione due iscrizioni disegnate da Ludovico Pogliaghi e realizzate da Gerolamo Poloni, aggiunte negli anni '20 del Novecento, commemorano tutti gli studenti del Regio Politecnico caduti nel corso della Grande Guerra. Al centro del soffitto, in origine completamente affrescato con una visione da sottinsù che risultava in parte perduta già nel XIX secolo, campeggia un lampadario a bracci in vetro di Murano, alto ben 5 metri, realizzato da Ettore Stampini nell'Ottocento.

L'appartamento della duchessa

La Stanza verde

Fig. 13 - Copyright fotografico: MuseoTorino.it.

Tra tutte le sale del piano nobile, la Stanza verde è l'unica ad essere titolata, già negli inventari seicenteschi, per il colore della propria tapisserie anziché per il tema portante degli affreschi. Il verde sulla volta non svolge soltanto la mera funzione di "corame" per gli stucchi dorati, ma si carica di valenza simbolica ricorrendo, in diverse nuances, nelle vesti dei personaggi che popolano gli affreschi dei vari riquadri: dove è più cupo allude alla morte dell'eroe, deve è invece più brillante indica la speranza di rinascita. In esso si legge un riferimento alla dipartita di Vittorio Amedeo I, avvenuta nel 1637, quando ancora il legittimo erede Francesco Giacinto (morto nel 1638) aveva solo 5 anni. L'evento scatenò una lotta per la contesa della reggenza tra i due fratelli dell'estinto - il cardinale Maurizio e il principe Tommaso - e la vedova Maria Cristina. Agli scontri intestini si univano le mire espansionistiche verso il Piemonte del cardinale Richelieu. La guerra civile si concluse quando la duchessa, tutrice del futuro duca Carlo Emanuele II, venne dichiarata reggente, divenendo così la prima Madama Reale di Casa Savoia. Le pretese dei cognati erano tutt'altro che dissolte, e i dissapori terminarono una volta per tutte soltanto quando, contro le aspettative di tutti, Maria Cristina dichiarò maggiorenne il figlio a soli quattordici anni facendogli assumere, almeno dal punto di vista formale, il comando. Nell'affresco posto al centro della volta, la Madama Reale viene ritratta in atteggiamento mesto nelle vesti di Flora, con indosso abiti che riprendono i colori dinastici franco-sabaudi. Ai piedi della dea, alla quale delle ancelle stanno per offrire un toro in olocausto, si trovano vasi semivuoti con fiori appassiti. Il toro simboleggia Vittorio Amedeo, nato proprio sotto il segno zodiacale omonimo, che morendo viene accolto dalla divinità per rinascere a nuova vita. In alto a sinistra, infatti, è raffigurata l'apoteosi dell'animale. Il tema della morte e della rinascita viene affrontato, tramite un raffinato gioco di ambivalenze e rimandi, anche nelle scene tratte dalle Metamorfosi di Ovidio disposte sulle estremità della ricca cornice e nella fascia di raccordo tra il soffitto e le pareti.

La Stanza delle rose

Fig. 17 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Il nome di questo ambiente deriva dal motivo ornamentale della rosa, ripetuto quasi ossessivamente negli stucchi e nelle pitture. La regina dei fiori era l'emblema araldico legato al titolo, puramente onorifico, di Re di Cipro e Gerusalemme con cui Vittorio Amedeo I venne fregiato, tramite l'imposizione del collare, nel dicembre del 1632. La volta a calotta, strutturata in più fasce decorative, poggia su un tamburo circolare scandito da putti reggifestoni su mensole. Agli angoli svolgono la funzione di pennacchi coppie di putti che, librandosi in volo, sorreggono gli stemmi della Madama Reale. Sulla fascia che raccorda la volta alle pareti si alternano, ancora una volta, gruppi di putti dipinti su fondo dorato, ora con mazzolini di rose, ora col collare della Rosa Sabauda di Cipro e Gerusalemme. Poiché l'affresco originale di Isidoro Bianchi che rappresentava "Venere e Marte" era estremamente degradato, nel corso dei lavori ottocenteschi si decise di posizionare al centro della calotta una tela raffigurante "La Fama che regge lo stemma della Madama Reale", opera di un allievo di Gaetano Ferri. Sempre durante quegli interventi, le originali porte del Casella vennero sostituite con delle altre, ornate da stucchi realizzati su disegno di Domenico Ferri dallo scultore Pietro Isella, cui vanno riferiti anche i busti di Emanuele Filiberto collocato sulla porta sud, quello di Margherita di Valois sulla porta nord e quello di Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours sulla porta ovest. Proprio in questa stanza era documentata la presenza dei quattro tondi dell'Albani, oggi alla Galleria Sabauda.

La Stanza dei Pianeti o dello Zodiaco

Fig. 20 - Copyright: Renzo Bussio - Torino Storia.

Prima stanza dell'appartamento meridionale rivolta verso il fiume, la Sala dei Pianeti o dello Zodiaco, presenta anch'essa ornamenti dell'éntourage dei Bianchi. Nel riquadro centrale della volta è presente una personificazione dell'Eridano (antico nome del Po) incoronata alla presenza del Tempo dal Giorno e dalla Notte. Anche stavolta l'ispirazione è fornita dalle Metamorfosi ovidiane. Tutt'intorno, entro pregevoli cornici polilobate collocate perfettamente nei punti cardinali, si trovano affrescate le allegorie dell'Aurora, del Sole, dell'Iride e della Notte. Più in basso, all'interno di cornici cuoriformi, sono raffigurate simbolicamente le quattro stagioni. Il fregio di raccordo, riplasmato da Gaetano Ferri nell'Ottocento, mostra nei riquadri i ritratti a mezza figura delle coppie ducali legate alla storia del palazzo (Emanuele Filiberto e Margherita di Valois, Maria Cristina di Francia e Vittorio Amedeo I, Carlo Emanuele II e Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours), che vengono alternati a stucchi con i segni zodiacali. Sempre nel corso del secolo XIX vennero modificate le originali cromie degli stucchi, prima su campo azzurro con stelle d'oro e figure bianche.

La Stanza della Nascita dei Fiori o del "Vallantino"

Fig. 23 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Prima delle stanze ad essere decorata dai Bianchi, la Stanza della Nascita dei Fiori racchiude nella cornice in stucco del soffitto tutti gli elementi decorativi presenti nelle sale sopra descritte (girali di foglie d'acanto, teste di putto che sostengono festoni, meandri, rose sabaude di Cipro e Gerusalemme, gigli di Francia, mensole scandite da ghirlande, protomi leonine e putti reggimensola con terminazione giraliforme). L'unico affresco centrale celebra, tramite una complessa scena allegorica, l'inizio di un'età d'oro con il matrimonio tra Maria Cristina e Vittorio Amedeo. Al centro geometrico della composizione la duchessa, figurata nei panni di Flora, raccoglie e distribuisce a dei putti fiori variopinti di diverse specie, contenuti all'interno di vasi e canestri posizionati ai suoi piedi. Alle sue spalle si trova il centauro Chirone, il precettore di Achille, nel cui volto si riconoscono le fattezze di Carlo Emanuele I, padre di Vittorio Amedeo. Egli infatti aveva come proprio simbolo araldico il centauro, ed in vita fu protettore delle Lettere e delle Arti (probabilmente per questo viene indicato da Apollo, divinità che nella mitologia classica è preposta, oltre che al traino del carro del Sole e alla profezia, anche alla custodia di tutte le Arti). Chirone viene inoltre scelto come espressione dell'ineludibile necessità di formare il giovane principe ereditario, affinché possa un giorno governare con rettitudine. In secondo piano, a sinistra del dipinto, sono collocate le nove Muse, ciascuna con il proprio attributo iconografico. Sullo sfondo si staglia il Castello del Valentino così come era stato concepito nei progetti dei Castellamonte e, in particolare, si notano degli elementi mai realizzati: i giardini verso il fiume e le due ali laterali (quella di sinistra non venne mai edificata e quella di destra fu solo parzialmente completata durante i lavori di rimaneggiamento di Ferri e Tonta). Il fregio collocato nella sezione apicale della parete sembra mostrare l'atto successivo della scena descritta sul soffitto: i putti, infatti, dopo aver preso i fiori raccolti da Cristina e dalle sue ancelle, li stanno utilizzando per distillare essenze profumate.

La Stanza dei gigli

Fig. 26 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

L'assetto attuale della Stanza dei gigli è quasi totalmente frutto dei restauri del 1858 e di quelli che seguirono i bombardamenti del Secondo Conflitto Mondiale. Degli affreschi seicenteschi realizzati dai maestri campionesi rimane solo il fregio che intercorre lungo tutta la parte alta delle pareti, nel quale si scorge una serie ininterrotta di puttini intenti a giocare con degli steli di giglio, simbolo araldico della committente, e con dei cartigli recanti motti in italiano e francese. Tramite i disegni tardo-settecenteschi di Leonardo Marini, architetto e decoratore dei Regi Palazzi, conosciamo l'originale conformazione degli stucchi della volta. Purtroppo non abbiamo avuto la stessa fortuna con l'affresco centrale, che gli inventari antichi descrivono in maniera estremamente sommaria. La tappezzeria dipinta su carta risale al 1924 ed è opera di Giovanni Vacchetta.

Fig. 27 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Gabinetto dei Fiori indorato

Fig. 28 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Il Gabinetto dei Fiori indorato era in origine un boudoir dedicato alla toeletta della Madama Reale, come testimoniato dalla presenza di "otto specchi inseriti nella muraglia" incorniciati da nastri e girali d'acanto in stucco. Questi erano già documentati negli inventari del 1644 e sono stati ricollocati durante i restauri degli ultimi anni del Novecento. Lo studiolo, privo di affreschi, presenta stucchi dal raffinato disegno unitario, composto da elaborati intrecci vegetali, rose e gigli di Francia, che nullificano la separazione tra il soffitto e le pareti. Poiché il piccolo ambiente dava verso l'esterno e collegava il padiglione lato Po a quello lato Torino, sulla porzione inferiore delle pareti est ed ovest venne dipinta a trompe-l'oeil una porzione di pavimento in prospettiva, che riproduceva quello a riquadri in cotto presente in tutto il piano nobile, allo scopo di dilatare gli spazi e dare una sensazione di continuità.

Fig. 29 - Copyright fotografico: www.Camper.it.

L'appartamento del principe ereditario

La Stanza della Guerra

Fig. 30 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

La Stanza della Guerra è il primo dei cinque ambienti che compongono l'appartamento destinato al futuro duca Carlo Emanuele II, nonché l'ultimo ad essere decorato dall'éntourage dei Bianchi, cui subentrarono i pittori e stuccatori Giovanni Paolo e Giovanni Antonio Recchi. Come in tutte le sale di questo appartamento, contraddistinto dalla presenza di stucchi bianchi, anche qui il tema selezionato per l'apparato ornamentale ha un preciso intento paideutico nei confronti del giovane principe. Gli affreschi celebrano infatti l'arte di fare guerra, all'epoca fondamentale per accrescere e\o proteggere i confini di uno Stato. Come exemplum di questa virtù viene proposto il defunto Vittorio Amedeo I, le cui gesta militari vengono esaltate non soltanto negli affreschi dei riquadri secondari del fregio e del soffitto, opera dei Recchi, ma anche nell'ottagono centrale; dove l'allegoria della Vittoria viene incoronata dalla Fama alla presenza della Guerra, mentre il Genio della Storia scrive su un clipeo le imprese compiute dal duca estinto. A coronamento della composizione si trova un cartiglio svolazzante sul quale è scritta la frase latina: "VICTORIS VICTORI VICTORIA", paronomasia che allude con ogni evidenza a Vittorio Amedeo, qui decantato in maniera elegiaca come 'vincitore'. All'apice delle due porte in stucco di Alessandro Casella, il restauro degli ultimi decenni del Novecento ha restituito i ritratti a mezzo busto dei genitori del principe, affrescati entro degli ovali.

Fig. 31 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

La Stanza del Negozio

Fig. 32 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

Nella Stanza del Negozio le pitture indirizzano all'arte della diplomazia, essenziale per il mantenimento degli equilibri fra Stati. In mezzo al soffitto, un'allegoria esalta la Pace quale portatrice di fertilità, abbondanza ed armonia, nonché come conditio sine qua non per la felicità dei cittadini, fine ultimo di ogni Stato. La presenza in alto del motto "CAELESTIS (A)EMULA MOTUS" e del simbolo araldico dell'uccello del Paradiso, appartenuti a Vittorio Amedeo I, si leggono come un'esortazione rivolta al futuro reggente ad emulare le virtù diplomatiche paterne. Scene di negoziazioni e stipulazioni di alleanze fra legati sabaudi ed illustri sovrani europei ed orientali sono incorniciate da un intricato motivo ornamentale fatto di telamoni, putti e angeli a coda fitomorfa. Nella scelta figurativa degli episodi si legge l'intento di magnificare un ducato che, pur non essendo particolarmente esteso, fu capace di imporsi nella scena politica europea contribuendo a definirne le sorti.

Fig. 33 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

La Stanza della Magnificenza

Fig. 34 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

All'interno della Stanza della Magnificenza viene ribadita l'importanza per un regnante di far realizzare grandi opere pubbliche e private. Nel centrovolta la Potestà sovrana, seduta su un trono di nuvole con scettro e corona, viene magnificata dalle committenze di fabbriche regie. Le pitture dei riquadri, attribuite ai Recchi, si presentano come una vera e propria raccolta enciclopedica delle architetture ducali legate alla committenza di Carlo Emanuele I, Vittorio Amedeo I e Maria Cristina, tra le quali si riconoscono il Palazzo Ducale (già Palazzo Arcivescovile ed attuale Palazzo Reale), Santa Maria al Monte dei Cappuccini, Contrada di Po prima della costruzione dei portici, Porta Nuova e la Residenza di Mirafiori. La fascia di raccordo è risolta con una serie di paesaggi non ancora identificati in maniera certa ed unanime. Il tutto è incorniciato dagli ornamenti in stucco, caratterizzati da coppie di putti che sostengono cariatidi con terminazioni fitomorfe e da mascheroni da cui si dipartono festoni di primizie. Tra le più eleganti dell'appartamento, le porte sono sorrette da colonnine ritorte e coronate da un fastigio che presenta mensole e putti laterali reggispecchio.

La Stanza della Caccia

Fig. 37 - Copyright fotografico: Dipartimento di Architettura e Design - PoliTo.

L'affresco con Diana e le Ninfe dopo una battuta di caccia che domina la volta rivela il tema iconografico di questa nuova stanza: la caccia. La dichiarazione "BELLICA FACTA PARANT" che si legge iscritta al di sopra di un nastro, ricorda come l'ars venatoria in età moderna fosse fondamentale nella vita di corte in tempi di pace, poiché veniva ritenuta alla stregua di una forma di allenamento per gli eventi bellici. Veri protagonisti della volta sono però gli stucchi, che mostrano un corteo di animali selvatici scanditi da putti reggifestoni. Sulla fascia che corre lungo la parte alta delle pareti, dipinta dai fratelli Recchi, putti con selvaggina e cani (che richiamano i putti profumieri della Stanza della Nascita dei fiori, perfettamente simmetrica a questa) si alternano a scene di caccia al cerbiatto, all'orso, al cinghiale e al cervo.

La Stanza delle Feste e dei Fasti

Fig.41 - Giovanni Paolo Recchi: "La Magnificenza sovrana riceve la fama eterna dalle Arti e dalle Scienze", 1665, affresco. Copyright: Renzo Bussio - Torino Storia.

Dal momento che sono leggibili soltanto due affreschi, anche in questa stanza la raffinata decorazione in candido stucco di Alessandro Casella domina scevra da ogni vincolo architettonico. Sul soffitto campeggia il grande ovale di Giovanni Paolo Recchi, raffigurante l'esaltazione della Magnificenza sovrana a cui Arti e Scienze donano fama eterna. Della stessa mano è l'unico riquadro superstite del nastro di raccordo, dove si può vedere una scena con festeggiamenti pubblici in Piazza Castello, più precisamente nello spazio da parata fatto ricavare appositamente nell'area prospiciente Palazzo Madama.

Gabinetto d'Ercole

Fig. 42 - Copyright: Renzo Bussio - Torino Storia.

Corrispondente in maniera simmetrica al Gabinetto dei Fiori indorato, questo piccolo studiolo completamente rivestito di stucchi, deve il suo nome alle rappresentazioni di quattro delle dodici fatiche di Ercole, poste all'interno di una fitta rete di riquadrature geometriche presenti sulla volta. Lo spazio, punto di raccordo originario tra l'appartamento e la terrazza che si affacciava sulla corte d'onore e sull'area settentrionale del castello - poi adibita ad orto botanico nel Settecento - subì alcune modifiche alla struttura muraria che comportarono anche la chiusura di una porta.

Bibliografia:

Il Castello del Valentino, a cura di Costanza Roggero e Annalisa Dameri. Torino, Allemandi, 2007.

 

Sitografia:

https://castellodelvalentino.polito.it/

https://www.unesco.beniculturali.it/projects/residenze-sabaude/

http://www.treccani.it/enciclopedia/emanuele-filiberto-duca-di-savoia_(Dizionario-Biografico)/

http://www.treccani.it/enciclopedia/cristina-di-francia-duchessa-di-savoia_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/isidoro-bianchi_res-1292b8c2-87e8-11dc-8e9d-0016357eee51_(Dizionario-Biografico)/

http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-di-castellamonte_(Dizionario-Biografico)/

http://www.treccani.it/enciclopedia/amedeo-di-castellamonte_(Dizionario-Biografico)/

https://torino.repubblica.it/cronaca/2018/02/07/news/castello_del_valentino_scoperta_una_stupenda_cappella_seicentesca_del_castellamonte-188288469/

http://www.torinotoday.it/eventi/cultura/cappella-castellamonte-valentino.html

http://www.museotorino.it/view/s/f987e76510294fa9852817e2e715da5a


IL SACRO MONTE DI PIETÀ A NAPOLI

…nel luogo dove nacque la lotta all’usura

 e la pietà prevalse…

“GRATUITAE PIETATIS AERARIUM IN ASILUM EGESTATIS PRAEFECTIS CURANTIBUS »

« Ai prefetti

che si adoperano

con disinteressata pietà

 dell’erario e dell’ospizio ai poveri »

Percorrendo in lungo ed in largo i decumani, ed in particolare il Decumano inferiore, in una passeggiata alla scoperta di tesori d’arte tra vicoli nascosti e palazzi appartenenti ai secoli più diversi, attraverso Via San Biagio dei Librai, al civico 114, ci si imbatte nel cortile del palazzo di Girolamo Carafa dei Duchi d’Andria, antica sede del Sacro Monte di Pietà, meglio conosciuto come “Banco dei Pegni”, sebbene oggi il palazzo sia prevalentemente utilizzato per uffici ed agenzia del Banco di Napoli.

L’accesso al palazzo è segnato da un imponente portale, da qui, attraverso un atrio porticato scandito da piloni, coperto da volte a vela, ci si immette in un cortile  con due scaloni monumentali che conducono ai piani superiori. Sul lato opposto al portone, al piano terra, c’è la Cappella del Sacro Monte di Pietà.

Il Sacro Monte di Pietà fu fondato nel 1539 su iniziativa dei frati dell’ordine francescano e dei nobili napoletani Leonardo de Palma e Aurelio Paparo dopo un decreto di Carlo V , per combattere l’usura dei banchi ebraici che si erano sviluppati tra il Duecento e il Trecento e col fine di contrastare lo strozzinaggio che danneggiava gravemente il popolo che, in più occasioni, si trovava costretto a ricorrere a prestiti per arginare il più possibile i propri problemi economici. L’erogazione finanziaria avveniva in cambio di un pegno: i clienti, a garanzia del prestito, dovevano presentare un pegno che valesse almeno un terzo in più della somma che si voleva fosse concessa in prestito. La durata del prestito, di solito, era di circa un anno; trascorso questo periodo, se la somma non era restituita, il pegno veniva venduto all’asta.

In realtà, i documenti dell'archivio storico del Banco di Napoli segnalano che le attività del Monte di Pietà andrebbe retrodatata al 1538 e che il rapporto con la cacciata della comunità ebraica da Napoli, avvenuta nel 1539, sarebbe solo apparente.

Il palazzo del Banco del Monte di Pietà si eleva su un basamento in piperno con fascia decorata ed è diviso in tre settori: quello centrale, più largo, dove, imponente,  si apre l'ingresso principale, e i due laterali, che, rispetto all’altro, si presentano più stretti.

Il portale, con elementi a bugne, è di ordine dorico.

L'atrio, a sei campate sostenute da pilastri rivestiti di piperno, consente l'ingresso al cortile.

Il cortile è caratterizzato dalla  controfacciata del palazzo che si presenta come un arco di trionfo a tre fornici e dalla facciata della Cappella.

La prima pietra della cappella venne posata il 20 settembre 1598.

La facciata s'ispira alla facciata della chiesa di Sant'Andrea sulla Flaminia a Roma di Jacopo Barozzi da Vignola; ai lati del portale d'ingresso, tra due coppie di lesene ioniche si aprono due nicchie con le statue di Pietro Bernini che rappresentano la Carità e la Sicurezza datate tra il 1600 e il 1601 . Nel timpano la Pietà di Michelangelo Naccherino con due angeli di Tommaso Montani

La cappella, completamente affrescata e decorata con stucchi dorati, è uno splendido esempio di eleganza manieristica: presenta interni decorato a stucco dorato. La volta fu affrescata dal pittore  Belisario Corenzio e qui sono collocate: a destra una tela di Ippolito Borghese, a sinistra una tela iniziata da Girolamo Imparato e compiuta da Fabrizio Santafede, nonché al centro, dietro all'altare maggiore, la Deposizione del Santafede.

L’interno della cappella, si presenta a navata unica e negli ambienti laterali, presenta una Sagrestia e la Sala Cantoniere.

La Cappella presenta anche un’interessante antisagrestia, dove si trova il sepolcro del Cardinale Acquaviva, opera di Cosimo Fanzago, datato 1617, ma il suo gioiello resta certamente la Sagrestia, decorata nella prima metà del XVIII secolo con allegorie su decorazioni in oro e l’ affresco di Giuseppe Bonito sulla volta.

Sulla destra si accede alla Sala Cantoniere, un altro esempio di arte settecentesca, con pavimento maiolicato e affreschi; qui sono da notare i ritratti di Carlo III di Borbone e di Maria Amalia. Inoltre nella sala è conservata anche una Pietà lignea di ignoto maestro napoletano del tardo Seicento.

Il palazzo e la stessa cappella appartengono al Gruppo Bancario Intesa – Banco di Napoli, partecipa pertanto alla Collezione d’Arte dello Storico Istituto Bancario partenopeo.

 

Sitografia:

inaples.it

Repubblica.it

Wikipedia.it

Napolike.it

Napoli-turistica.com

Bibliografia

VV. Dizionario biografico degli italiani

Anna Coliva, a cura di - La collezione d’arte del San Paolo – Banco di Napoli -  San Paolo Editore 2004

Copyright photo:

Wikipedia.it


LA STRADA NUOVA A GENOVA

A cura di Irene Scovero

Soluzioni paesaggistiche in uno spazio rinascimentale

Via Garibaldi, inizialmente Strada Maggiore poi fino all’Ottocento Strada Nuova a Genova, è una delle principali arterie della città antica. Il tracciato attraversa con andamento rettilineo e in piano, ortogonalmente alle direttrici medievali che scendono  verso il mare, un’area orizzontale interposta tra la collina di Castelletto a monte e il fitto tessuto medioevale. Nel XVI secolo, negli anni del nuovo sviluppo che accompagna la città, entrata nell’orbita del potere imperiale all’avvio di quello che è stato definito “il secolo dei genovesi”, l’aristocrazia necessita di modelli abitativi che ne sottolineino collocazione internazionale e protagonismo sociale.

Vi era la necessità di rinnovamento, fasto e lusso. Furono proprio queste priorità a dar vita nel 1550 all’edificazione di una via residenziale, creando uno spazio che raccogliesse le dimore dei membri dell’oligarchia genovese, in quel momento famiglie di grande potenza economica internazionale. Il contributo più incisivo nella realizzazione delle dimore fu dato Gian Galeazzo Alessi venuto a Genova nel 1548. I palazzi di villa che aveva realizzato per alcune famiglie, avevano lasciato nell’architettura genovese un modello tipologico di grande evidenza monumentale che venne ripreso da Bernardino Cantone, l’architetto camerale, che si occupò della realizzazione della Strada Nuova. Per quanto riguarda il contributo pittorico-figurativo, il soggiorno di Perin del Vaga, nel terzo decennio del secolo, aveva maturato nella cultura locale  una concezione moderna di spazialità decorativa che si era rivolto inizialmente nella committenza esclusiva e periferica dell’ammiraglio Andrea Doria, ma che venne ripresa dagli artisti locali in questa occasione di rinnovo urbano. La decorazione delle abitazioni lussuose della via interviene nell’esaltazione degli spazi celebrativi dove si inseriscono temi mitologici e storici. I pittori nati nel secondo decennio e attivi in questi anni si erano aggiornati a Roma e i cantieri aperti nel nuovo quartiere furono un’occasione irripetibile per la promozione di questo capitale di cultura decorativa.

I palazzi di Strada Nuova sono una combinazione di soluzioni particolari, dove si ritrovano idee architettoniche che richiamano al VI libro dell’Architettura civile di Sebastiano Serlio, in particolare per quanto concerne la tipologia di cortile e giardino. Nei primi del Novecento, in contemporanea a forti eventi speculativi in aree cittadine già luoghi di villa, si avverte una certa sensibilità pubblica verso il tema del giardino. Intorno al 1927 il Comune acquisì antiche ville che divennero di proprietà pubblica e questo comportò anche lavori di sistemazioni anche nei giardini.

Vengono elencati i milioni di metri quadrati dei nuovi giardini pubblici del Comune di Genova e nel 1928 è in corso la realizzazione del più grande parco pubblico, il Peralto. Questo spirito innovativo per la valorizzazione delle  aree verdi urbane non trova analogo riscontro nel caso di Strada Nuova, nel momento che negli anni ’20 il Comune sacrificò il giardino di Palazzo Spinola e quello adiacente di Palazzo Lercari, per la realizzazione di due gallerie cittadine e Piazza Portello.

Evidentemente, se da un lato si assiste a una volontà da parte dell’amministrazione civica, dell’acquisizione di nuove aree verdi per la fruizione del pubblico cittadino, questo non corrisponde ad una effettiva presa di coscienza dell’importanza dei giardini storici.

Con la caduta della Repubblica di Genova, e con le successive trasformazioni della città realizzate con ritmi incalzanti, in particolare dalla seconda metà dell’Ottocento l’organizzazione dello spazio verde subisce una crisi travolgendo gli aspetti conservativi del rapporto città-territorio così come si era organizzato in epoca preindustriale nel governo della classe  aristocratica genovese.

I nuovi percorsi stradali spezzano l’assetto originario dei giardini.

Ne sono esempio anche i palazzi di Strada Nuova sopra citati, come un territorio di villa, il giardino di Villa Scassi a Sampierdarena o quello del Palazzo del Principe. Nel primo caso l’esecuzione di Via Cantone realizzata alla fine degli anni 20 provocò una cesura tra palazzo e giardino compromettendo la soluzione scenografica originaria.

Gli stessi problemi si ritrovano per il giardino di Palazzo del Principe. La costruzione della linea ferroviaria Genova-Torino, intorno al 1850, causò lo sbancamento di una parte del giardino nord che fu poi irrimediabilmente distrutto dalla costruzione di Via Pagano Doria nel 1899.

Per quanto riguarda Strada Nuova, ancora negli anni Settanta si assisterà alla sistemazione dell’area verde a monte di Palazzo Tursi e in anni vicinissimi, alla radicale trasformazione in veste ottocentesca dell’area adiacente a Palazzo Bianco. Solo tra il 2001 e il 2004 vengono condotti i restauri dei giardini superstiti a nord di Strada Nuova.

Strada Nuova, ora Via Garibaldi vista dall'alto.
Rilievo dei palazzi di Strada Nuova.

La Strada Nuova a Genova: Peter Paul Rubens e i Palazzi 

La fortuna internazionale della Strada Nuova si deve soprattutto agli scritti di Pier Paolo Rubens; l’artista il 29 maggio del 1622 pubblicò ad Anversa il volume intitolato Palazzi moderni di Genova.

L’incisore delle 72 tavole, appare fedele ai disegni anche se la stampa capovolge l’orientamento dei rilievi. In epoca più tarda con uguale data incisa sul frontespizio, comparve una seconda edizione ampliata, che il Cicognara ritenne posteriore alla morte del Rubens avvenuta nel 1640.

La venuta dell’artista a Genova, nel 1604 gli permise di conoscere alcuni aristocratici genovesi, che divennero attivi committenti della sua arte,  e di ammirare le loro residenze. Queste, secondo il Rubens, coniugano bellezza e comodità nel rispetto delle regole dell’antico, grazie anche all’eccezionalità degli ambienti racchiusi una struttura cubica. Spazi di destinazione privata legati alla vicenda di famiglie private e non a una corte. Naturalmente Rubens rimase colpito da Strada Nuova, dalla sua importanza urbanistica e di significato nella società genovese, perché primo esempio di quartiere residenziale riservato ad una classe dominante cittadina. L’architetto tedesco, Joseph Furttenbach, tra il 1610 e il 1620, durante il suo soggiorno italiano, rimane affascinato dell’architettura genovese, e in particolare dai giardini e dalle grotte artificiali lasciando testimonianze fondamentali per lo studio di questi manufatti. Una fedele illustrazione nel secolo successivo è offerta dalla Raccolta di diverse vedute della città di Genova, pubblicata nel 1779 dall’Abate Antonio Giolfi, dove nella veduta di  Via Nuova, ogni palazzo, nonostante lo scorcio è fedelmente illustrato.

I giardini privati dei palazzi nobiliari

Accennati, posti a margine rispetto alla prestigiosa architettura, i giardini e il verde che facevano da fondo naturalistico alla dimora sono stati, negli scritti, alquanto trascurati. Il carattere effimero del giardino, insieme ad un’inadeguata tutela ne ha accelerato la scomparsa rispetto al palazzo.

È possibile però, recuperare frammenti di ciò che doveva essere cercando di  recuperare il punto di vista del committente sul paesaggio e sullo spazio privato del suo giardino. Il palazzo e il rispettivo spazio verde sono elementi inscindibili, andavano e vanno visti come un unicum da salvaguardare e tutelare. Purtroppo, le vicende urbanistiche dei primi decenni del XX secolo hanno stravolto e indebolito la lettura del paesaggio circostante la dimora storica, basti pensare al caso dei Palazzi a monte di Via Garibaldi adiacenti a Piazza Fontane Marose.

Queste dimore sono state privati dei loro giardini, andati distrutti per la costruzione del nuovo assetto viario e delle due Gallerie cittadine ai primi del Novecento.

Nel XV secolo l’idea del giardino rinascimentale assume un significato decorativo e ornamentale. Vi è un ritorno alle forme di gusto antiquariale e si nota una spiccata passione per l’ars topiaria, con la quale gli alberi vengono modellati in maniera da raffigurare una infinità di forme: antropomorfe, geometriche o fantastiche. Nel De Re Aedificatoria di Leon Battistia Alberti, viene definita la competenza pratica e intellettuale del giardino nel contesto urbano e suburbano.

I comportamenti  codificati del giardino appartengono alla sfera del piacere, del gioco e della cultura. Questi atteggiamenti possono trovare posto nella città in rapporto di correlazione con il momento dell’attività politica e mercantile.

La disposizione geometrica delle piante, all'interno del giardino entro uno spazio ben organizzato, si ritrova nelle idee di simmetria prevalenti a Firenze. Tuttavia, l’ordine geometrico, l’uso dell’acqua e l’imitazione simbolica del Giardino dell’Eden sono presenti già nei giardini francesi del XII e XIII secolo con richiamo alla cultura del Medio Oriente. Nel Rinascimento la riscoperta dell’architettura romana riportò in auge l’uso delle grotte. Il Cinquecento inventa e realizza grotte artificiali, che divennero il motivo centrale dei giardini. Nel mondo classico, la grotta è luogo dove si palesano gli elementi costitutivi del creato ed è anche una forma laica di riflessione religiosa, vista più come simbolo di morte che di vita, perché associata al carcere e le alle costrizioni che il corpo impone all’anima. L’idea della grotta rinascimentale passa attraverso le teorie neoplatoniche e più precisamente attraverso l’opera di Porfirio di Tiro, allievo di Plotino, che nel III secolo d.C. compose De Antro Nympharum. La riscoperta degli scritti del filosofo si ebbe grazie al lavoro dei platonici fiorentini, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola. Porfirio interpreta i pochi passi del canto 13 dell’Odissea, attraverso un tema fondamentale del pensiero platonico: il dramma della discesa dell’anima nel mondo e il suo ritorno.­

Le grotte artificiali, sono la testimonianza di una certa sensibilità, gusto e cultura di un’epoca. Tra il XV e XVI secolo, nel nuovo clima umanista, l’antro diviene il luogo sacro consacrato agli dei marini, simbolo culturale della totalità della natura dove al suo interno sono concepiti e generati dei, ninfe e uomini. Il Cinquecento ha costruito grotte artificiali, facendone emblemi e il centro emotivo del giardino. Non è un caso che in Strada Nuova, tutti i giardini culminassero con una grotta o un piccolo ninfeo. Quest’ultimi, consacrati all'acqua, riportano concrezioni di conchiglie, ciottoli marini, coralli, tutti elementi che rimandano all'elemento marino e che, insieme alle sculture poste all’interno, spesso figure pisciformi, ricreano un tempio intimo delle acque.

La ritrattistica

Nel XVII secolo, la ritrattistica viene chiamata a sottolineare il ruolo della classe dirigente, si ricerca un genere pittorico che palesi lo status sociale specie per i membri dell’oligarchia dominante, rispecchiando usi e costumi della società contemporanea. La condizione sociale del committente viene ostentata non solo dagli abiti, ornamenti e architetture, ma anche dalla rappresentazione dei propri giardini. Roseti, fiori, vasche e fontane zampillanti vengono accostati alla dama o alla famiglia aristocratica che, attraverso tali rappresentazioni simboliche, si identifica come padrona degli spazi verdi e loro unica fruitrice in grado di permettersi di goderne le particolarità.

In alcune rappresentazioni pittoriche diversi elementi di una scenografia di magnificenza vengono evidenziati (moduli dell’architettura, fontane, satiri, e aleggiano specie arboree. Le essenze floreali che compaiono nei dipinti rimandano, spesso, al loro significato simbolico), in altri casi compaiono pochi segni come una pianta o un albero in lontananza che fanno presumere la presenza del giardino.

Peter Paul Rubens, Giovanna Spinola Pavese, collezione privata.
Peter Paul Rubens, G.B. Carbone, ritratto di Battista Chiavari e Banetta Raggi, 1648-1650, Milano-Pesaro, Galleria Altomani.
D. Fiasella, La famiglia di Gio Vincenzo Imperiale nella Villa di Sampierdarena, 1642, Genova, Musei di Strada Nuova.

La Strada Nuova a Genova: alcuni esempi dei giardini dei palazzi a monte e a sud

Ci sono differenze tipologiche tra i giardini lato monte e quelli a mare della via.  I primi, in rapporto con la natura del territorio sono veri e propri spazi aperti nella collina realizzati con  terrazzamenti degradanti verso il palazzo. Diversa la struttura dei giardini sud, limitati e di breve estensione, compresi tra l’edificio e le preesistenti costruzioni medievali.

Sul lato mare i giardini erano quindi pensati per essere godibili dall’interno del palazzo. Per questi motivi sono stati alquanto trascurati e ancor oggi il visitatore che visita gli edifici in Strada Nuova se rimane colpito da quanto resta dei  giardini a monte, alcuni ancora visitabili, ignora l’esistenza dei giardini sul lato opposto, modificati e alterati nel corso dei secoli e a tutt’oggi,  quelli rimasti,  non facilmente accessibili.

I primi palazzi che si incontrano sul lato monte venendo da ponente e che mantengono ancora, nonostante i vari rifacimenti avvenuti nei secoli successivi, un impianto paesaggistico sono Palazzo Bianco e Palazzo Doria Tursi che insieme a Palazzo Rosso, posto frontalmente, fanno parte dei Musei di Strada Nuova. A ridosso di Palazzo Bianco sorgeva l’antica chiesa di san Francesco, poi demolita nel 1820. Il giardino che rimane a  ridosso del palazzo conserva frammenti di architettura e decorazione marmorea della distrutta chiesa. Fu eliminata la maggior parte della vegetazione e create aiuole geometriche dove in un disordine non casuale sono stati posti pezzi archeologici di fronte alle arcate della chiesa ancora visibili e inglobate in architetture recenti. Palazzo Doria Tursi è il palazzo più maestoso e rappresentativo per quanto riguarda i giardini, classico esempio di aree verdi realizzate con terrazzamenti che hanno portato allo sbancamento della collina di Castelletto. Gli architetti, con un tracciato di scale riuscirono a risolvere il problema di “fabbricare in costa” cui si dedicò anche Sebastiano Serlio nel settimo libro. Nella realizzazione del palazzo venne abbandonata ogni separazione tra il portico, cortile e scala facendone uno spazio unico senza interruzioni. La dimora doveva essere organizzata in vari appartamenti autonomi affacciati sui giardini adiacenti; come scrive il Poleggi, la grandezza delle misure del palazzo doveva rispondere a una dimensione famigliare che trovò in giardini separati a più livelli la possibilità di una vita articolata con indipendenza. Tra il 2001 e il 2004 sono stati condotti i restauri del palazzo e dei relativi spazi verdi. Durante i restaturi del giardino inferiore di levante hanno proceduto alla demolizione e ricostruzione del bordo delle aiuole a roccaglia seguito da un diradamento della vegetazione, gli alberi malati o in contrasto con l’immagine del giardino sono stati abbattuti.

Tra i giardini meglio conservati a lato monte della strada c’è sicuramente quello di Palazzo Nicolosio Pallavicino. All’ingresso dello stabile salta subito all’occhio lo spazio scenico con il bellissimo ninfeo settecentesco realizzato da Domenico Parodi. Il piano nobile è agganciato al terrapiano del giardino, sospeso sopra la galleria del centro cittadino realizzata agli inizi del Novecento. Tutta la decorazione interna è in stretta connessione con l’immagine del giardino cui le stanze si affacciano. Gli affreschi che interessano a noi sono quelli che più si sposano con l’apparato decorativo del giardino cui le stanze si affacciano; un continuo richiamo alla natura  ed agli elementi simbolici che già inizia nelle raffigurazioni dell’atrio. Domenico Parodi nella sala centrale rappresenta Bacco che regge la corona di Arianna, un tema dove trionfa la sensualità e una natura lussureggiante popolata da putti, grappoli d’uva e festoni di fiori e frutti. Un apparato scenografico dove la bidimensionalità della pittura ben si sposa con la tridimensionalità dello stucco.

Dalle immagini dell’affresco ci si sposta poi nel giardino dove in fondo al suo asse centrale, nella grotta, viene rappresentato un Bacco più giovane coronato da tralci di vite che riceva il vino dal Sileno alle sue spalle. Ai suoi piedi Satiri con tipici caratteri zoomorfi, che accompagnano il dio nel rito. La simmetria del giardino si presenta ancora oggi con due percorsi laterali e uno centrale. Le fonti individuate testimoniano l’esistenza di un’uccelliera detta “dei pavoni” restaurata nel 1791 forse posta nell’ala di ponente in simmetria con il pergolato. In fondo al giardino l’alto muraglione divide il giardino inferiore da quello superiore. Nel piccolo spazio superiore adibito ad orto, dovevano nascere rigogliose e delicate primizie tra cui i carciofi che compaiono negli inventari settecenteschi che, nel Cinquecento gli aristocratici genovesi regalavano come oggetto prezioso. Questo secondo giardino, citato nel passaggio di proprietà dai Centurione ai Pallavicino nel 1711, aveva sul muraglione di fondo un ninfeo ed è  tutt’ora presente la torre-cisterna sul lato destro. Quest’ultimo elemento di tradizione islamica, con all’interno una scala a chiocciola è da far risalire ai contatti che il Lomellino aveva con gli ambienti islamici. Nicolosio, è ricordato, infatti, come grande concessionario della pesca del corallo nell’isola tunisina di Tabarca. Questo materiale viene ostentato nel giardino, sia nelle pareti ai lati delle grotte sia all’interno di queste dove sono ne sono presenti degli “arbusti”.

Per Palazzo Pantaleo Spinola a sud della strada, di particolare interesse sono le soluzione realizzate nel Seicento al posto del giardino cinquecentesco. Nel XVII secolo  modifiche strutturali diedero vita al piano terra di un cortile ottagonale con giardino acciottolato e ninfeo triabsidato coincidente al piano superiore con lo splendido ninfeo sul terrazzo ad anello che ospitava il ratto di Elena di Pierre Puget. La geniale sistemazione seicentesca fece si che gli spazi dei saloni dialogassero con gli ambienti esterni non solo per la loro continuità visiva ma per il comune programma iconografico. Nel XX secolo il cortile fu coperto da una terrazza e lo spazio acciottolato con piante di agrumi è ora sede degli sportelli bancari del Banco di Chiavari e della Riviera Ligure. Diverso è il discorso per l’edificio a fianco, Palazzo Tobia Pallavicino. Il giardino cinquecentesco, solo visibile dalle piante di Rubens e del Reinhardt, venne soppresso nel Settecento per realizzare al suo posto un corpo di fabbrica che ospitasse una galleria dorata, per emulare quella degli specchi della reggia di Versailles; esempio supremo di rococò europeo.

Anche i palazzi vicini hanno subito modifiche sostanziali, a parte il giardino di Palazzetto Doria che conserva pressoché inalterato l’assetto originario. La maggior parte di questi spazi verdi privati è stata modificata nel corso del XVIII secolo creando soluzioni nuove e aggiornate al gusto dell’epoca. È il caso di Palazzo Baldassarre Lomellino-Campanella dove venne chiamato Andrea Tagliafichi, uno degli architetti più importanti dell’aristocrazia genovese che operò soluzioni terrazzate nuove con tempietti in stile neoclassico. In Palazzo Lazzaro e Giacomo Spinola- Cattaneo Adorno i rilievi del Rubens mostrano la specularità dei due lotti interni; la simmetria dei giardini doveva essere ripartita in parterre con al centro delle vasche, come mostra la pianta del primo piano del Rubens. Lo spazio di ponente, diversamente da quello vicino che è interamente terrazzato ed abbellito con piante in vaso, ultima con un ninfeo. La parte del calpestio termina, infatti, con un’area in terra battuta dove sono presenti alberi e palme; in asse con l’ipotetica vasca che doveva trovarsi al centro del giardino, incastonato nel retro del palazzo di fronte, un ninfeo. In primo piano, al centro della nicchia sullo sfondo di un paesaggio, ormai indefinito, formato da tinte brune e l’azzurro di quello che doveva essere il cielo, è presente una composizione scultorea.  Una figura maschile, tardo rinascimentale, cavalca un delfino spalancando con la mano sinistra la bocca dell’animale per far uscire l’acqua che doveva alimentare il basso barchile sottostante. Ai suoi piedi tre figure femminili pisciformi portano le mani al petto, nell’atto di far zampillare l’acqua dai seni; classica iconografia che ben si sposa con l’elemento acquatico delle grotte e ninfei

Il cantiere di Strada Nuova non fu solo luogo di sperimentazioni architettoniche nuove e cantiere di pittori e scultori aggiornati dell’epoca, ma rispecchia il gusto rinascimentale per l’ostentazione del lusso, del bello e della ricercatezza che si palesa non solo nell’architettura fine a se stessa, ma si allarga allo spazio verde visto come elemento imprescindibile dell’architettura di palazzo.

Palazzo Nicolosio Lomellino

Domenico Parodi, Progetto per il ninfeo di Palazzo Lomellini, Genova, Palazzo Rosso, Gabinetto, Disegni e stampe (n. inv, 4667).
Costruzione della Galleria Zecca-Portello, 1924 e il sovrastante giardino Lomellino.

Domenico Parodi, Bacco che regge la corona di Arianna, primo quarto del XVIII sec, secondo piano nobile.

Palazzo Bianco

 

Palazzo Doria Tursi 

 

Per la realizzazione di un polo museale unitario, nel 2004, venne progettato un collegamento tra i due Palazzi, Bianco e Doria Tursi, che permettesse il raggiungimento delle due gallerie museali. Venne creato un manufatto, definito “Cerniera” che aveva il compito di congiungere i livelli dei giardini dei due edifici. Il collegamento avvenne a ponente in corrispondenza del braccio vetrato realizzato per le colombiane del 1892.

Palazzo Pantaleo Spinola-Banco di Chiavari e della Riviera Ligure

 

Palazzo di Andrea Spinola, sezione assonometrica ipotetica dello stato originario. Punti di vista esterni della volta della sala. [1]
Il cortile-giardino ottagono, oggi coperto di Palazzo Spinola Gambaro. (Archivio Fotografico della Soprintendenza peri Beni Architettonici ed Ambientali della Liguria).
Stato attuale. Banco di Chiavari e della Riviera Ligure. Cortile ottagonale ora adibito a sportelli bancari.

Palazzetto Doria

Palazzo Baldassarre Lomellino-Campanella

Palazzo Lazzaro e Giacomo Spinola-Cattaneo Adorno

 

Palazzo Rosso

Nel vasto terrazzo pensile settecentesco, due moderni pergolati fanno da cornice a un portale settecentesco. Quest’ultimo[1] faceva parte del monastero di San Silvestro; scolpito da Giacomo Gaggini e Angelo Maria Mortola su commissione delle monache domenicane. Presenta due grandi angeli che fungono da cariatidi, mentre altri due sorreggono un medaglione che rappresenta San Domenico.

 

I giardini di Strada Nuova nelle testimonianze dei viaggiatori[3]

[…] Le terrazze tenute a giardino, fra edifizio ed edifizio, con le viti che formano arcate verdi, coi boschetti d’aranci e con gli oleandri fioriti, a venti, trenta, quaranta piedi al di sopra della strada.[4]

[…] Palazzo Spinola, con l’esterno interamente dipinto; nell’interno l’atrio, la scala, le logge in alto, il cortile e il giardino formano una composizione imponente.[5]

 […] Gli scaloni conducono a giardini incantati dove gli aranci, i melograni, i rosai, i gelsomini esalano profumi prestigiosi, dove le vasche, le fontane e le cascate fanno brillare tutti i loro colori spandendo freschezza e un infinito sussurro. Questi giardini, alti sopra bei portici, lasciano cadere sulla strada la polvere umida degli zampilli, il profumo dei fiori e il ricco fogliame. Ci si chiede se Semiramide abbia avuto simili giardini a Babilonia.[6]

 […] Vidi il palazzo di Giovanni Battista d’Auria, una costruzione molto maestosa il cui giardino non soltanto era molto attraente ma anche adorno di statue e di fontane.[7]

 [… ] Palazzo Tursi, così lo rallegrano l’olezzo dei giardini, l’agitarsi degli arbusti e il lene mormorio delle fonti.[8]

 

Note e riferimenti

[1] L'immagine tratta da Lo Spazio Dipinto, il grande affresco genovese nel '600, indica diversi punti di vista di lettura del programma iconografico della sala del Piola.

[2] Il portale fu trasportato nel giardino di  Palazzo Rosso probabilmente dopo i bombardamenti del 1942 e del 1944 che  distrussero parte della chiesa.

[3]Relativo alla fortuna di Strada Nuova negli scritti dei viaggiatori , vedere: Genova dei grandi viaggiatori, a cura ,di Franco Paloscia; Viaggio in Liguria, a cura, di Giueseppe Mercenaro.

[4]C. Dickens, 1846, p. 36.

[5]J. Burckhardt, 1855.

[6]J. Autran, 1840, in Viaggio in Liguria di Giuseppe Mercenaro.

[7]F. Morison, 1594, in Strada Nuova di E. Poleggi.

[8] F. Alizeri, 1846.

 

Bibliografia

Dickens, Pictures From Italy, London, 1846

Battisti, Iconologia ed ecologia del giardino e del paesaggio, Città di Castello, 2004

Poleggi, Genova, una civiltà di palazzi, Genova, 2002

Poleggi, Strada Nuova, una lottizzazione del Cinquecento a Genova, Genova,1968

Alizeri, Guida artistica per la città di Genova, II voll., Genova, 1846-1847, 1846

Caraceni, Una strada Rinascimentale, Via Garibaldi a Genova, Genova, 1992

Mercenaro, Viaggio in Liguria, Genova, 1992

I fiori del Barocco, pittura a Genova dal naturalismo al rococo, Catalogo della mostra a cura di A. Orlando, Cinisello Balsamo, 2006

Il giardino di Flora: natura e simbolo nell’immagine dei fiori, Catalogo della Mostra a cura di M. Cataldi Gallo e F. Simonetti, Genova, 1986

Burkhardt, Il Cicerone. Guida al godimento delle opere d'arte in Italia, Firenze, 1952

B. Alberti, De Re Aedificatoria libri decem, Firenze (ed. critica a cura di P. Portoghesi, Milano 1966)

Magnani, Il tempio di Venere. Giardino e villa nella cultura genovese, Genova, 2005

Muller Profumo, Le pietre parlanti. L’ornamento nell’architettura genovese 1450-1600, Genova, 1992

Vagnetti, Genova, Strada Nuova, Genova, 1967

L’età di Rubens. Dimore, committenti e collezionisti genovesi, Catalogo della mostra a cura di Piero Boccardo, Genova, 2004

Labò, I palazzi di Genova di Pietro Paolo Rubens e altri scritti di architettura, Genova, 1970

P. Gauthier, Les plus beaux édifices de la ville de Genes, Paris, 1818-1832

Monache Domenicane e Genova, a cura di C. Cavelli Traverso, Roma, 2010

Boccardo, C. Di Fabio, I Musei di Strada Nuova, Torino, 2004

Torriti, Tesori di Strada Nuova: la Via Aurea dei genovesi, Genova

Palazzo Nicolosio Lomellino di Strada Nuova a Genova, a cura di G. Bozzo - B. Merlano - M. Rabino, Genova, 2004

Porfirio, De Antro Nympharum, a cura di Lascaris, Roma (ed. italiana a cura di L. Simonini, l’Antro delle Ninfe, Milano, 1986)

Reinhardt, Palast Architektur von Oberitalien und Toscana, Berlin, 1886


LA MADONNA DEI MARTIRI A MOLFETTA

TRA ARCHITETTURA E FOLKLORE

La Basilica della Madonna dei Martiri a Molfetta, città balneare in provincia di Bari, è stata intitolata alla compatrona della diocesi di Molfetta a partire dal 1951 con la Bolla pontificia del papa Pio XII.

La chiesa è stata elevata a Basilica Pontificia nel 1987, proclamato anno Mariano da Giovanni Paolo II, ma affonda le sue radici in un passato molto più lontano.

Partendo dalla stessa intitolazione della Madonna, “Dei Martiri”, si può facilmente ricostruire un passato importante per la comunità molfettese: nella città esisteva infatti un complesso costituito dal Monastero della Carnaria, che insieme allo Spedale dei Crociati, così erroneamente definito a causa di trascrizioni errate, dava rifugio a pellegrini denominati martiri per estensione del significato del termine, perché questi morivano in nome della fede. Infatti, il pellegrinaggio non era solo una cammino di fede, ma portava inevitabilmente disagi, difficoltà, penitenze, astinenze, digiuni, facili motivi di morte.

Il santuario della Madonna dei Martiri a Molfetta costituiva un passaggio obbligato tra i due poli più importanti dell’itinerario di pellegrinaggio pugliese: la grotta dell’Arcangelo nel Gargano e la basilica di San Nicola a Bari. Esso infatti, svolgeva soprattutto funzione di ricovero per i più poveri come la maggior parte degli ospizi e degli ospedali, lungo le vie di pellegrinaggio. Nobili e benestanti invece, alloggiavano in case private appartenenti ad amici o familiari o si facevano costruire dei ricoveri. La maggior parte degli ospizi era sotto la protezione della Madonna della pietà o della Misericordia, quasi sempre accompagnati da un piccolo cimitero che dava sepoltura a pellegrini o crociati di passaggio. Questo titolo mariano compare sempre più spesso, in accordo con un concetto di maternità, protezione, verso poveri, sofferenti ed umili, iconograficamente rappresentato da una Madonna con grande mantello che avvolge tutti.

Non esiste una leggenda di fondazione del santuario della Madonna dei Martiri, tuttavia le fonti storiche fanno risalire la messa in opera di un ospizio per i Crociati e una cappella, verso la fine dell’anno Mille, a Ruggero il Guiscardo, a cui solo in seguito sarebbe stato aggiunta la chiesa.[1]

Il primitivo tempio, voluto da Guglielmo I re di Sicilia, fu costruito laddove ancora oggi si trova, in riva al mare. Era formato da una sola navata sormontata da due cupole gemelle, di cui oggi ne rimane solo una che occupa l’attuale abside.

Nel 1700 fu aggiunta una nuova cupola, dietro l’altare maggiore dove oggi si trova il coro. Gli studi condotti fino a questo momento, non sono riusciti a ricostruire con precisione l’architettura della Chiesa, nonostante gli scavi del 1987 su tutta l'area di ponente, alla ricerca di fondazioni precedenti. Secondo la tradizione locale, la pianta è da ricondurre alla seconda metà del XII secolo (1162), quando cioè il Vescovo di Ruvo Ursone (1162-1163) avrebbe consacrato la prima pietra della Chiesa romanica di S.Maria per volere di Guglielmo I, re di Sicilia.

È possibile ricostruire l'aspetto della Chiesa della fine XI secolo ed inizio del XII, comprensiva di campanile e cappelle, seguendo un manoscritto della Visita parrocchiale di Mons. Pompeo Sarnelli oggi proprietà dell'Archivio di S.Maria. La chiesa, così composta, venne distrutta nel XIX secolo per costruire quella che oggi vediamo. Il manoscritto descrive la presenza di una torre forse preesistente alla Chiesa romanica, che aveva funzione di difesa e che fu adibita anche ad uso liturgico. Vi è descritto anche un piccolo giardino con una fontana che oggi è stata ricoperta, senza permetterne più la localizzazione. Il complesso, fin da questo momento, doveva assolvere a diverse funzioni, quali: dimora degli ecclesiastici, degli inservienti, residenza vescovile estiva o alternativa, foresteria per personaggi di rilievo, struttura ricettiva per i devoti della Vergine, per forestieri e pellegrini.[2]

La fisionomia e la destinazione della chiesa così delineate, non subirono cambiamenti di rilievo fino al secolo XIII. Con il Vescovo Filippo del Giudice Caracciolo (1785-1844) e con l’insediamento dei Padri Riformati, si desiderò costruire un nuovo edificio, molto più grande, demolendo il precedente. Il culto della Regina dei Martiri aveva infatti visto un esponenziale incremento presso la comunità molfettese.

Infatti, diverse sono le testimonianze degli storici locali che attribuiscono miracoli individuali e collettivi alla Madonna dei Martiri, in occasione di pestilenze, terremoti o invasione nemiche.

Ad esempio, Anselmo Adorno, influente genovese in Puglia, alla fine del 1470, narra di un prete di Barletta che aveva vissuto in prima persona uno di questi miracoli: una nave era stata colpita da una tempesta e il proprietario, volendo salvare il suo equipaggio, promise alla Madonna dei Martiri metà della nave, già colpita dalle intemperie. Pronunciato il voto apparve la Madonna, l’equipaggio si salvò e la nave giunse in salvo a Corfù.

Un altro evento miracoloso risale al 1485 quando i Turchi invasero la città, mettendo a ferro a fuoco la cappella della Madonna. L’immagine sacra però rimase indenne e i Turchi, adirati per l’accaduto, saccheggiarono la chiesa. La Madonna intervenne e non permise alla nave, carica di bottino, di prendere il largo. I turchi atterriti furono costretti a sbarcare e a riconsegnare tutto ciò che era stato depredato.

Un evento salvifico, decisivo per l’affermazione del culto mariano si ebbe nel 1530, quando la città fu assediata dall'esercito francese. La Madonna apparve sopra le mura, disorientando i soldati e mettendoli in fuga. Questa apparizione permise alla città e ai cittadini, di rimanere incolumi e perciò la popolazione fece voto di celebrare l’11 maggio, ogni anno.

Diversi sono poi i miracoli individuali frequentemente concessi dalla Madonna dei Martiri, quali guarigioni di storpi, ciechi, muti, lebbrosi, partorienti in pericolo di vita, ecc. A Lei, i malati o i loro parenti, facevano voto oppure lasciavano un opulento dono per omaggiarla della grazia ricevuta.[3]

LA MADONNA DEI MARTIRI A MOLFETTA: ARCHITETTURA DI FEDE

Tornando all'aspetto architettonico della chiesa, in epoca neoclassica presentava tre navate, l'Altare Maggiore col quadro della Vergine, il Coro, due cappelle laterali, quella del Rosario e del Santo Sepolcro e cinque altari secondari.

Il concretizzarsi dell’attuale composizione architettonica della basilica, si ebbe intorno al 1851 quando si procedette a rivestire l’interno di stucchi, a seguito degli interventi strutturali che resero la basilica più grande.[4]

L’odierna basilica ha tre navate, con due ordini di colonne. La navata centrale è a tutto sesto decorata con rosoni esagonali incassati, quelle laterali invece presentano delle volte con decorazioni in stucco. Sulla porta di ingresso è posizionata la tribuna con l’organo monumentale.[5]

L’attuale organo sostituisce quello seicentesco del quale, dal 1937, si sono perse le tracce. Le uniche informazioni di cui siamo in possesso, sono quelle derivanti da una visita pastorale effettuata nel 1699, dal vescovo di Bisceglie (BAT) Pompeo Sarnelli, il quale descriveva un organo monumentale in ottone, nella cantoria sull’ingresso principale della basilica, che riportava una iscrizione con il nome del donatore, Francesco Coloredi, e la data, 1680.[6]

Continuando la descrizione dell’odierno santuario, proseguiamo verso le pareti laterali. Su di queste, sono collocati cinque altari in marmi policromi sui quali vi sono opere d’arte contemporanee e antiche. Tra queste possiamo ricordare le tele di G. Porta, “Il transito di S. Giuseppe”, “L’ Adorazione dei Magi, “, “la Visitazione di Maria”.

Celebre è anche l’olio su tela appartenente alla tipologia della Madonna con Bambino, attorno al quale vi sono diverse leggende. Presumibilmente l’opera sarebbe giunta a Molfetta, intorno al 1188 grazie ai Cristiani che avevano combattuto in Terra Santa e che l’avevano sottratta agli infedeli, lasciandola in custodia al santuario in cambio dell’ospitalità ricevuta. Secondo una credenza popolare invece, il quadro sarebbe stato ritrovato in mare da alcuni pescatori locali. Questi, gioiosi per il ritrovamento, vollero donarlo a qualche chiesa della città, ma sulla via del ritorno, si imbatterono in un vascello di Mussulmani, con i quali ingaggiarono battaglia per il possesso dell’opera sacra. Gli avversari se ne impadronirono, ma mentre facevano ritorno alle loro terre, improvvisamente le acque del mare si ritrassero facendo inabissare il vascello. Giorni seguenti i marinai molfettesi, tornarono nel luogo di ritrovamento dell’opera e la pescarono ancora una volta. Riuscirono finalmente a portarla nel santuario della Madonna dei Martiri dove si trova tutt’ora.

Un’altra leggenda legata alla Madonna con il Bambino, vuole invece che essa sia stata dipinta da San Luca in persona, perché del tutto simile all’immagine di Santa Maria Maggiore di Roma. La verità d’altronde, potrebbe essere che sia una imitazione di un originale più antico. Il quadro comunque, nel XVI sec. fu fatto restaurare e abbellito da una cornice d’argento, dall’allora vescovo.[7]

Secondo gli storici, più verosimilmente, l’icona della Madonna dei Martiri fu dipinta, secondo alcuni, su una tavola di cipresso alla maniera greca, per altri, ad olio su un supporto ligneo di cedro. Misura cm 100 x 66 e presenta i due soggetti principali al centro della scena: la Vergine Maria e il Divino Bambino che si stringono in un tenero abbraccio. Sul fondo, negli angoli, compaiono due soggetti marginali ovvero due teste di angeli nimbate.

Maria è rappresentata a mezzobusto, sorregge con il braccio sinistro il Bambino e lo stringe a sé, mentre con la mano destra, poggiata sul petto, sembra volerlo “mostrare” e indicarlo come vera via per la salvezza (tipologia dell’Odegitria). La Vergine tocca con la sua guancia quella del Figlio che risponde in un abbraccio verso la Madre. Va sottolineato come i colori scelti per le tuniche dei personaggi, abbiamo dei precisi scopi iconografici. Il piccolo Gesù indossa una tunica rosso-porpora, colore che ne sottolinea la divinità. Alle sue spalle è possibile notare un lembo della veste che pende verso il basso a significare l’effusione della Grazia Divina, da parte del Cristo, su tutta l’umanità. Anche la Vergine indossa una tunica rosso-porpora e completa il suo abbigliamento avvolgendosi in un manto di un colore blu scurissimo, bordato d’oro. La tunica della Madre di Dio, infatti, è rosso-porpora a indicare la Sua divinità, il blu scuro del manto sottolinea la sua natura umana, mentre le bordature dorate stanno a indicarci la luce sovrannaturale che la avvolge.[8]

All’interno della Basilica della Madonna dei Martiri, come precedentemente spiegato, sono presenti cinque altari in marmi policromi. Di questi, il maggiore, presenta un paliotto in argento. Grazie alle testimonianze pervenuteci, sappiamo he questo fu commissionato a maestranze napoletane intorno al 1669, spendendo una cifra importante che fu raggiunta grazie a prestiti dell’allora Università molfettese.[9]

Di maestranze napoletane, risulta essere anche la splendida statua del Cristo Morto, opera in marmo della scuola di Sannmartino, celebre autore del Cristo Velato. Questa è collocata all’interno dell’antica cappella dell’Annunziata, e costituisce una copia esatta dell’Anastasi di Gerusalemme. La costruzione della cappella è imputabile al XVI sec. commissionata dall’illustre famiglia Lepore. Sulla mensa dell’altere dedicato al sepolcro di Cristo, fino alla fine del Seicento, vi era una statua lignea del Cristo. Sull’altare c’era un’arca di legno con il coperchio aperto. Sulla parte anteriore dell’arca si trovava la statua di Cristo morto avvolto nel lenzuolo con il capo su un cuscino in stoffa. L’interno dell’arca era poi rivestito in seta, che nel corso del tempo, subì un forte deterioramento. Cosi al posto di quella statua lignea, il vescovo Celestino Orlandi, nel 1761 fece collocare quella marmorea. La statua rappresenta Cristo morto sul sudario, con tre chiodi del supplizio accanto ai piedi, e il capo poggiato sul cuscino a quattro nappe.[10]

Concludendo il tour all’interno della Basilica della Madonna dei Martiri, il cappellone della Vergine dei Martiri è ciò che resta dell’architettura medioevale. Sotto l’arco a sesto acuto si trova uno degli altari in marmo, sul quale troneggia l’icona lignea della Madonna, precedentemente descritta. Ai lati dell’altare, incorniciati d a medaglioni in marmo, le tele opera del maestro d’Elia, di S. Corrado, Patrono di Molfetta, e di S. Nicola, Patrono di Bari.[11]

Da tutto quello che è stato raccontato fino a questo momento, si può evincere come non solo la Basilica, ma anche e soprattutto il culto della Madonna dei Martiri a Molfetta rivesta un ruolo particolare nella vita di ciascun fedele ancora oggi. Tale importanza, si perpetua nei secoli a partire da un’antica promessa fatta alla Vergine Maria a seguito della peste che imperversava in Terra di Bari nel 1656 e che continuò a mietere migliaia di vittime per oltre un anno e mezzo. Molfetta ne uscì indenne grazie alla protezione del "Manto Divino" della Madonna dei Martiri e di S. Corrado.[12]

Il giorno 8 settembre di ogni anno, la promessa viene onorata e la Madonna portata in processione, issata su due barche connesse tra loro e trasportata dal porto antico a quello commerciale. La processione dà inizio a una serie di festeggiamenti cittadini che prendono il nome della comunemente conosciuta “fiera”, una ricorrenza annuale irrinunciabile per ogni molfettese.

 

Biografia e sitografia

1 Tripputi A.M., La madonna dei Martiri di Molfetta, Mezzina, Molfetta, 1990.

2 http://www.madonnadeimartiri.it/storia.asp

3 Tripputi A.M., La madonna dei Martiri di Molfetta, Mezzina, Molfetta, 1990.

4 De Santis M.I., Nuovi studi su santa Maria dei Martiri e sulla fiera di Molfetta, Edizioni Mezzina, Molfetta, 1997.

5 Il santuario della Madonna dei Martiri, Guida del pellegrini, Litografia Falcone, Manfredonia, 1998.

6 Del Vescovo G. A., L’organo seicentesco di santa Maria dei Martiri, in Solenni festeggiamenti della Compatrona Maria SS. Dei martiri, 1998

7 De Santis M.I., Nuovi studi su santa Maria dei Martiri e sulla fiera di Molfetta, Edizioni Mezzina, Molfetta, 1997

8 Del Rosso G., L’immagine della Madonna dei Martiri - Evoluzione di un’iconografia mariana, in Luce e Vita

9 Pisani C., Il <<voto perpetuo>> fatto dai molfettesi alla Madonna dei Martiri nel 1656, anno della peste, in L’altra Molfetta, anno XXXI n. 9, 2015

10 De Santis M.I., Nuovi studi su santa Maria dei Martiri e sulla fiera di Molfetta, Edizioni Mezzina, Molfetta, 1997

11 Il santuario della Madonna dei Martiri, Guida del pellegrini, Litografia Falcone, Manfredonia, 1998

12 Pisani C., Il <<voto perpetuo>> fatto dai molfettesi alla Madonna dei Martiri nel 1656, anno della peste, in L’altra Molfetta, anno XXXI n. 9, 2015


TEMPIETTO SAN PIETRO IN MONTORIO

A Roma, in uno degli angoli più suggestivi della città eterna, sul colle Gianicolo, sorge il celeberrimo Tempietto di San Pietro in Montorio, chiamato anche Tempietto del Bramante. L'edificio è situato nel luogo esatto dove, secondo la tradizione, l'apostolo Pietro venne crocifisso a testa in giù.

Dietro la disarmante bellezza del Tempietto vi è Donato Bramante, la costruzione venne infatti, commissionata al grande artista ed architetto di Fermignano. Egli intorno al 1499 arrivò a Roma e qui, grazie al Papa Giulio II, riuscì ad iniziare quelle grandi imprese architettoniche che avrebbero cambiato il volto della città e dato l'avvio all'architettura del Cinquecento.

Nel 1502 il re di Spagna ordinò al Bramante la progettazione del Tempietto, il complesso monastico infatti, apparteneva ad una congregazione spagnola.

DESCRIZIONE

Il Tempietto di San Pietro in Montorio è di piccole dimensioni, sopraelevato rispetto al piano del cortile nel quale è situato. Il corpo centrale cilindrico, la cui muratura è scavata da nicchie con catino a conchiglia e scandita da paraste come proiezione delle colonne del peristilio, è delimitato da 16 colonne tuscaniche trabeate, prelevate da un monumento antico a noi ignoto. Le metope del fregio presentano decorazioni a tema liturgico che rimandano a San Pietro, al di sopra della cornice anulare corre una balconata con balaustra.

Date le piccole dimensioni dell'edificio, all'interno le paraste si dimezzano, diventando otto e si raggruppano a coppie attorno alle quattro piccole finestre lungo due assi ortogonali, lasciando maggior superficie parietale per le porte. La forma cilindrica è in qualche modo trasformata da alte e profonde nicchie, quattro delle quali ospitano piccole statue degli evangelisti. Sull'altare è collocata una statua di San Pietro di anonimo lombardo, il pavimento è a tessere marmoree policrome, nello stile cosmatesco. Tutto lo spazio è coperto con una cupola, progettata in conglomerato cementizio e posta su di un tamburo, ornata da lesene a formare un ordine sovrapposto a quello delle colonne. La costruzione è soprastante una cripta circolare il cui centro indica il luogo dove venne piantata la croce del martirio, asse ideale di tutta la costruzione. Alla cripta si accede con scale esterne realizzate nel XVII secolo mentre originariamente esisteva solo una botola.

Secondo i progetti iniziali, il tempietto avrebbe dovuto inserirsi al centro di un cortile circolare non realizzato (l'attuale è di forma quadrangolare), così da evidenziare la perfetta simmetria dell'impianto e sottolineare la centralità del tempio la cui struttura si radiava nel cortile, proiettando le 16 colonne in altre 16 a formare un portico circolare.

RIFERIMENTI AD ALTRE OPERE

Il lavoro di Bramante è un chiaro rimando all'architettura antica, è consapevolmente modellato sul tempio periptero circolare, utilizzato nell'architettura romana antica e di cui erano ben visibili degli esempi: il Tempio di Vesta nel Foro e il Tempio di Ercole Vincitore. Un altro riferimento di Bramante fu la ben più grande mole del Pantheon, a pianta circolare. In effetti la costruzione del tempietto si pone al centro della ricerca che coinvolse tutti gli architetti del Rinascimento relativa alla pianta centrale come modello per rappresentare la realtà divina ed il cosmo; questo in modo particolare per la forma circolare, espressione concettuale e visiva della "figura del mondo". L'opera architettonica di Bramante trova un parallelo anche in alcune opere pittoriche, tra cui il contemporaneo dipinto di Raffaello, "Lo sposalizio della Vergine", a conferma dell'importanza del tema del tempio circolare nella cultura del primo Cinquecento.

SIMBOLOGIA

Nell'edificio, inoltre, sono state individuate delle simbologie, in particolare nella divisione dei luoghi: la cripta, il sacello e la cupola potrebbero rappresentare nell'ordine: la Chiesa originaria delle catacombe, la Chiesa contemporanea militante e la Chiesa trionfante nella gloria. Ancora, altri elementi simbolici si denotano nei numeri: sul perimetro del tempietto vi sono 16 colonne,  numero  considerato perfetto da Vitruvio, inoltre il numero 16 è scomponibile anche in 8+8 e l'8 è un numero estremamente simbolico che significa infinito ma anche morte e resurrezione.

L'edificio e la maestria del Bramante non passarono inosservati: nel 1570 Andrea Palladio, che aveva inserito il Tempietto fra quelli antichi nel suo "I quattro libri dell'architettura", si giustificò affermando che Bramante era "stato il primo a metter in luce la buona, e bella Architettura, che dagli Antichi fin'a quel tempo era stata nascosta".

BIBLIOGRAFIA

Storia dell'arte italiana-Bertelli, Briganti, Giuliano-Electa Mondadori

Itinerario nell'arte-Giorgio Cricco-Zanichelli


IL CASTELLO DI MURAT A PIZZO CALABRO

ORIGINE DEL CASTELLO DI MURAT A PIZZO CALABRO

La costruzione del castello di Murat a Pizzo Calabro è legata agli eventi storici del periodo aragonese in Calabria. Il castello venne edificato nel XV secolo per volere del re di Spagna Ferdinando I di d’Aragona, giunto in Calabria per sedare la sanguinosa Congiura dei Baroni, ordita contro di lui da alcuni feudatari locali. Dopo aver sopraffatto in modo sanguinoso i cospiratori, il re aragonese costruì buona parte del sistema difensivo del suo regno ordinando la costruzione del castello nell'ottica di aumentare la forza del versante tirrenico. Il castello, completato nel 1492, è una struttura imponente dalle mura particolarmente spesse in quasi perfetto stato di conservazione. Le casermette addossate alle torri sono state abbattute per ordine della Sovrintendenza delle Belle Arti di Reggio Calabria nel 1945. Nel 1878 i locali adibiti a carcere ritenuti insufficienti e malsani furono trasformati in aule per scuole elementari maschili. Nel 1882 nella torre maggiore fu istituita una stazione meteorologica, mentre nel 1892 il Ministero della Pubblica Istruzione proclamò il castello “Monumento Nazionale”. Nel dopoguerra le stanze superiori sono state adibite a circolo ricreativo e culturale mentre i sotterranei, incorporati alle torri, in un modesto ostello per la gioventù capace di 40 posti letto.

IL CASTELLO DI PIZZO: GIOACCHINO MURAT

Il Castello di Pizzo deve la sua notorietà al fatto di essere stato carcere famoso e prigione politica d’importanza nazionale. Tra i prigionieri più celebri si ricorda Tommaso Campanella, filosofo e poeta di Stilo, e Ricciotti Garibaldi, figlio dell’eroe dei due mondi. Nel 1815 il Castello acquista notorietà mondiale per via della cattura di Gioacchino Murat, re di Napoli, e tutto il suo stato maggiore di guerra. Gioacchino era il cognato di Napoleone Bonaparte e sposo di Carolina Bonaparte, era riuscito a conquistare il Regno di Napoli, e il suo governo aveva portato a buoni esiti sia in campo amministrativo sia nel miglioramento dell’istruzione. Fu Napoleone a proclamare il cognato re di Napoli. Murat creò una buona intesa col popolo napoletano che ne apprezzava la bella presenza, il carattere sanguigno, il coraggio fisico, il gusto dello spettacolo e alcuni tentativi di porre riparo alla sua miseria. Nel clima illuministico del tempo avviò profonde riforme. Diede al regno un sistema fiscale solido regolare e semplice. Confiscò i beni della manomorta ecclesiastica, soppresse tutti i monasteri e li incamerò nel Demanio, inimicandosi il clero. Introdusse l’imposta fondiaria sottoponendo a tributo grandi estensioni di terre. Fondò il Banco delle Due Sicilie e introdusse i codici napoleonici. Istituì il corpo degli Ingegneri di ponti e strade e avviò opere pubbliche di rilievo a Napoli e nelle altre regioni meridionali.  Dopo la disfatta di Waterloo, il declino di Napoleone travolse anche Murat, che nel 1815 tentò di riconquistare il regno di Napoli; partì infatti alla volta della Campania con sei barche a vela e duecentocinquanta uomini, con l’obbiettivo di riprendersi il trono, ma una tempesta disperse la flotta, e la sua barca, insieme ad un’altra superstite, approdò a Pizzo. Venne catturato, processato e condannato a morte. Prima di morire scrisse una lettera alla moglie Carolina ed ai suoi quattro figli (fig.5). Dopo giorni di prigionia, venne giustiziato con sei colpi di fucile, il 13 ottobre 1815, nel castello di Pizzo.

Molte sono le congetture a proposito del seppellimento della salma e del rinvenimento dei gioielli personali posseduti al momento della cattura.  Forse il corpo si trova sepolto in una fossa comune nella navata centrale della chiesa di S. Giorgio che qualche anno prima della sua morte lo stesso Murat fece edificare a Pizzo Calabro. Però c’è chi afferma che esso si trovi sepolto in una fossa comune nel locale cimitero. Altri giurano invece che il corpo sia stato gettato in mare e la testa recisa sia stata fatta recapitare a Ferdinando di Borbone che volle ricompensare, oltre alla Città “fidelissima” di Pizzo, gli abili artefici della soppressione di un personaggio che si rendeva sempre più importante e seriamente incomodo.

Il castello di Pizzo: l'interno

Il castello si sviluppa su una pianta quadrangolare, presenta un piano a livello stradale e un piano superiore. È dotato da due torri cilindriche angolari; la torre grande, detta torre mastra, è di origine angioina. Un tempo si accedeva attraverso un ponte lavatoio, oggi trasformato in un imponente portone, dove una lapide ricorda Gioacchino Murat. Sotto il piano a livello stradale vi sono i sotterranei ai quali è vietato l’accesso, ma si narra che conducevano fuori città, nei pressi di Vibo Valentia e verso il lago Angitola. La parte della fortezza oggi visitabile riguarda i semi sotterranei e il piano superiore. Dalle terrazze del castello è visibile il golfo di Sant’Eufemia e lo Stromboli fumante (fig.3).

All'interno del castello di Murat a Pizzo Calabro troviamo un Museo, allestito nella maniera più fedele possibile all'ambiente in cui si svolsero gli avvenimenti che portarono alla morte di Murat, e che propone una ricostruzione storica con dei manichini in costume che riproducono gli ultimi giorni di vita del cognato di Napoleone.

Nelle sue sale si possono ammirare: una biblioteca telematica murattiana e Napoleonica, stampe e piante sulle origini aragonesi del castello, copie e riproduzioni dei cimeli murattiani, una collezioni di monete, armi d’epoca consistenti in fucili, pistole, sciabole e cannoni. Tra i pezzi più importanti troviamo un busto ottocentesco di Murat realizzato dallo scultore francese Jean J. Catex  e un elmo in marmo di una statua equestre di Ferdinando IV del Canova.

 

Bibliografia

Chimirri, R. Atlante storico dell’architettura in Calabria. Tipologie colte e tradizionali, Rubbettino, 2008 pp. 54-55.

De Lorenzo, R. Murat, Roma, Salerno Editrice, 2011.

De Majo, S., GIOACCHINO NAPOLEONE Murat, re di Napoli, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 55, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2001. URL consultato il 12 luglio 2014.

Frangipane A., Il castello di Pizzo, in <<Brutium>>, N.6, 1937.