PALAZZO BUONACCORSI A MACERATA

Il Palazzo Buonaccorsi è un’architettura storica situata in via Don Minzoni 24 a Macerata, sede dei Musei Civici, del Museo della Carrozza, delle collezioni di arte antica e moderna con nucleo principale nella Galleria dell’Eneide e nella biblioteca Amedeo Ricci.

Durante l’alto Medioevo l’area in cui sorge il palazzo era parte del “Podium Sancti Juliani”, possedimento feudale della famiglia dei Compagnoni. Nel 1652 l’edificio fu acquistato da Simone Buonaccorsi (1708-1776), il quale voleva riappropriarsi delle origini della famiglia nelle Marche ritornando da Roma a Macerata per dare alla casata un edificio corrispondente alla sua potenza economica ed al titolo comitale.  Nel 1746 alla morte di Raimondo Buonaccorsi, figlio di Simone, la famiglia ottenne l'ammissione al patriziato di Roma da Papa Benedetto XIV spostando nella Capitale i propri interessi.

Nel 1853 un membro della famiglia, Flavio, dopo aver sposato la principessa Angela Chigi, decise di tornare a Macerata e provvide al restauro del palazzo che fu acquistato dal Comune nel 1967 dopo un lungo periodo di decadenza dovuto all’utilizzo del palazzo da parte di affittuari.

Nel 1697 Giovan Battista Contini, allievo del Bernini, ebbe l’incarico di realizzare l’edificio voluto da Simone. Lo realizzò accorpando case antiche ed aggiungendo nel 1718 il cortile ed il giardino all’italiana da parte di Ludovico Gregorini di cui rimangono la balaustra con i vasi ornamentali di Antonio Perucci e le statue raffiguranti Ercole vincitore in pietra d’Istria, opera dello scultore padovano Giovanni Bonazza.

Oggi il museo si struttura in tre piani visitabili, la biblioteca, il loggiato e l’atrio pavimentato in legno di quercia. Gli interni in stile barocco e rococò con i soffitti cassettonati convergono nella sala della Galleria dell’Eneide con le Nozze di Bacco e Arianna affrescate sulla volta a padiglione da Michelangelo Ricciolini.

La donazione di Tommaso Maria Borgetti del 1835 costituisce il primo nucleo di opere del museo al quale si aggiungono quelle lasciate dal pittore Antonio Bonfigli nel 1860 tra le quali artisti come Crivelli (1430-1495), Zuccari (1539-1609), Maratta (1625-1713),Turchi (1578-1649) e Prampolini (1894-1956). Sono presenti inoltre dipinti d’area fiamminga, napoletana e veneta, sistemati tra il primo ed il secondo piano. Al terzo piano, invece, è disposta la collezione d’arte moderna e contemporanea con dipinti d’influenza futurista come il gruppo Boccioni del 1932 e alcune opere del Pannaggi.

Il museo contiene una collezione archeologica dell’area di Helvia Recina nei pressi di Villa Potenza con una serie di rinvenimenti che documentano le origini preistoriche e poi romane del sito.

Un ulteriore restauro nel 1997 al seguito del terremoto ed il progetto di rifunzionalizzazione del 2002 insieme alla definitiva riorganizzazione delle opere nel 2014, hanno permesso l’odierna visualizzazione delle sale.

La Galleria dell’Eneide

La decorazione della Galleria è documentata come ultima fase di costruzione del palazzo e realizzata su sollecitazione del cardinale Buonaccorso Buonaccorsi (1620-1678), intrapresa da Simone Buonaccorsi ma completata solo dopo la sua morte nel 1708, dal figlio Raimondo.

Nel 1710 Michelangelo Ricciolini, artista romano, fu incaricato di dipingere la volta della Galleria con le Nozze di Bacco e Arianna, opera che venne terminata insieme al figlio Nicolò ed al nipote Michelangelo Maria. Ai lati della stessa vennero commissionate ad altri artisti tele coeve narranti scene dell’Eneide.

Le fasi di lavoro sono documentate dalle registrazioni dei pagamenti e si dividono nel periodo tra il 1710 e il 1712 e quello tra il 1713 e il 1715 intervallati dal ritorno a Roma degli artisti, inoltre nel 1721 furono realizzati gli ornati affidati al pittore di origini francesi Scipione Cordieri.

L’analisi condotta dalla Guerrieri Borsoi identifica nella decorazione le Nozze di Bacco e Arianna avvenute nell’Olimpo al cospetto degli dei e non l’Apoteosi di Enea come risultava dalle letture precedenti.

La struttura degli affreschi nella  volta ripetono quelli  del Palazzo Barberini di Monterotondo (Roma) realizzati dallo stesso Ricciolini sia per il finto parapetto al di sopra della cornice reale della sala, sia per l’adozione di uno spazio continuo entro il quale i personaggi si dispongono liberamente come in un cielo aperto. Ai quattro angoli del parapetto, nicchie ospitano medaglioni con bassorilievi dipinti (fig. 1) sormontati da bucroni e coppie di putti mentre le sezioni rettiline sono decorate da grandi vasi bronzei ricolmi di fiori e frutti. Attorno alle nozze, fulcro della composizione, gruppi e singole figure che assistono al festoso evento.

La scelta figurativa dell’episodio è un’allegoria che mira ad esaltare le virtù e le qualità dei committenti come ricorda Bernardo de Dominici (1742) nella sua opera le “Vite” analizzata da Oreste Ferrari, sottolineando la frequenza di questo tema nelle collezioni di famiglie aristocratiche come nel Casino di Pietro Pescatore a Frascati, affrescato ancora da Ricciolini, Palazzo De Carolis in ambito romano o Palazzo Pamphilj di Pietro da Cortona.

La scelta di Bacco  come protagonista è da ricollegare alla tigre presente nello stemma dei Buonaccorsi e ai felini al seguito della divinità e trainanti il suo carro (fig. 2). Il mito narra che Zeus mandò una tigre per aiutare il dio ad attraversare il fiume Tigri e raggiungere l’India.

Un’altra motivazione della scelta iconografica delle nozze allude al proficuo matrimonio fra Raimondo Buonaccorsi e Francesca Bussi, i quali ebbero ben diciotto figli, simbolo quindi della fecondità e della prosperità sottolineata anche dalla ricchezza dei fiori e dei frutti nella composizione.

Il legame con l’Arcadia romana del ciclo figurativo fa riferimento al tema dell’immortalità conseguita attraverso le arti e al recupero della poesia virgiliana. Giovan Maria Crescimbeni, maceratese custode dell’Accademia romana, compose nel 1708 una prosa ed alcuni dipinti in linea con il sentimento arcadico diffuso nel Settecento romano. I temi profani, secondo Crescimbeni, altro non sono che un’espressione della vittoria della Chiesa sul paganesimo ed un tentativo di ricollegamento con le origini di Roma , quindi, anche in questo caso l’intento della famiglia è quello di ribadire il legame con queste tradizioni e sentirsi in linea con le tendenze attive nella Capitale in quegli anni.

L’inventario del 1699 delle opere appartenenti alla galleria fu esaminato da Miller e Haskell, studiosi statunitensi  che contribuirono  fortemente alla valorizzazione di questa testimonianza figurativa attraverso un ciclo di conferenze a Macerata permettendo la migliore tutela e recupero di alcune tele che erano state vendute.

Fig. 1
Fig. 2

 Ai lati della galleria troviamo una serie di immagini tratte dell’Eneide tra cui “Enea fugge da Troia con Anchise, Ascanio e Creusa” di Giovanni Giorgi (Verona 1687- Bologna 1717) (fig.3).

La scena fa riferimento al secondo libro dell’Eneide in cui l’eroe, trasportando in braccio l’anziano padre, lascia la città incendiata e sotto assedio. Gli sono accanto Ascanio, che, rivolto verso il padre sembra volergli suggerire la via della fuga e la moglie Creusa a mani giunte e gli occhi mesti al cielo, presaga della sorte imminente.

La tela, prima nella galleria, fu venduta al mercato antiquario romano prima che il comune di Macerata acquistasse il palazzo nel 1967, nel 1973 è stata riacquistata dallo Stato e conservata presso la Galleria Nazionale delle Marche a Urbino.

Fig. 3

Segue l’opera di Nicolò Bambini (Venezia 1642-1736) “Enea racconta a Didone la caduta di Troia” in cui l’autore, allievo della scuola veneziana, riproduce l’episodio attraverso la commistione di uno stile disegnativo accademico e un fare lieve e fluido tipico veneziano (fig 4). Prima della sua realizzazione, la tela era sostituita da un’opera di Solimena (1657-1747): “Enea e Didone si rifugiano nella grotta”, venduta nel 1712 ed ora in Texas (fig 5).

Tra i lavori più importanti di Bambini inoltre, si ricordano i restauri del Palazzo Ducale di Venezia e degli affreschi del Tintoretto.

Fig. 4

 

Fig. 5

Marcantonio Franceschini (Bologna 1648-1729) è invece autore di “Mercurio che sveglia Enea”. Molte informazioni riguardo a questa opera provengono dal libro di spese dello stesso Franceschini che nel 1713 scrisse: “Ho ricevuto lire duecento per caparra d’un quadro da fari per la galleria de’ Signori Buonaccorsi di Macerata con Mercurio che sveglia Enea e li comanda da parte di Giove il partirsi da Didone con un amorino, concordati in lire mille..”.

L’episodio è tratto da quarto libro dell’Eneide e ci mostra il protagonista in posizione adagiata sulla nave, avvolto in un manto rosso ed in procinto di riprendere il viaggio dopo aver abbandonato Didone su sollecitazione di Mercurio (fig. 6).

L’artista sceglie il momento dell’aurora, adottando una gamma di colori freddi che fanno risaltare gli incarnati e la lucentezza dei metalli come nei particolari dell’elmo e della spada. L’artista, uno dei più affermati nell’ambito della scuola bolognese e personaggio di rilievo nell’Accademia Clementina, attinge dal repertorio figurativo classico e la tela, ora conservata alla Galleria Nazionale delle Marche fu acquistata dallo Stato solo nel 1974.

Fig. 6

 

Vincenzo da Canal, invece, biografo dell’artista Giorgio Lazzarini (Venezia 1655- Villabona di Rovigo 1730), riferisce ed indica la data della composizione dell’opera “Morte di Didone” (fig.7) nel 1714, a due anni di distanza dalla ‘Battaglia di  Enea e Massenzio’(fig.8), sempre a Palazzo Buonaccorsi.

Rappresentante della scuola veneziana insieme a Bambini, Lazzarini è citato da Luigi Lanzi nella sua “Storia pittorica”: “Chi vede le pitture del Lazzarini crederà a prima vista ch’egli sia stato educato a Bologna o a Roma..”.

Colori squillanti, di matrice veronesiana, vengono accostati nella tela marchigiana “Morte di Didone” ad un accurato disegno e ad un tono melodrammatico nella resa degli affetti. Questa scena viene rappresentata entro uno schema geometrico precostituito come precostituite sono le figure riutilizzate della sorella e della nutrice, gruppo desunto da “Ester e Assuero” di Ca’Rezzonico e influenze della “Natività della Vergine” della parrocchiale di Vedano al Lambro.

Il gusto teatrale della scena è sottolineato da un’ambientazione dove il gran numero di oggetti legati al mondo classico riecheggia più come citazione che come ricostruzione dettagliata dell’antico.

Fig. 7

 

Fig. 8

 

Continuiamo con “Enea stacca il ramo d’oro” di Giuseppe Gambarini (Bologna 1680-1725). Evidente ancora una volta il legame Marche-Roma. Il quadro fu realizzato nel biennio tra il 1712-14 e per molto tempo fu sottovalutato dalla critica fino alla rivalutazione di Miller (1963).

Nella tela è presente il gusto per un gesto dominato e controllato dalla composizione disegnativa: Enea è atto a staccare il prezioso virgulto aiutato dalle colombe di Venere in un’atmosfera di mistica intimità, quel “distacco psicologico particolare della poetica gambariniana” come definito dallo stesso Miller (fig.9).

 “Sopra un albero ombroso opaco, pieno di foglie, c’è un ramo d’oro consacrato a Giunone infernale, lo copre e lo nasconde il bosco, un ‘alta ombra lo schiude in una valle oscura. Non si può penetrare nei segreti del suolo prima d’aver strappato quel ramo dalle chiome dorate.”

-Virgilio, Eneide, VI

Fig. 9

I sei dipinti inseriti come sovra finestre nella Galleria da  Nicolò Ricciolini (Roma 1687-1722), invece, furono aggiunti dall’artista nel 1715 che terminò il lavoro del padre Michelangelo dopo la sua morte .

Nelle prime cinque tele sono raffigurate coppie di putti alati che presentano insegne ed emblemi i quali alludono alla storia della Roma dei mitici sette re e  poi alla fase dell’Impero. Alcuni recano fasci littori, scudi, spade(fig.10), insegne e vessilli con la sigla SPQR mentre altri sono raffigurati nell’atto di incoronare la statua di Minerva (fig.11) o di cingere d’alloro un’aquila che ghermisce un leone (fig.12).

La sesta tela invece mostra due angeli in atteggiamento devoto, è ancora il tema della vittoria della Chiesa sul paganesimo come nell’opera “La Chiesa che annienta gli dei pagani” di Francesco Mancini sempre all’interno della Galleria.

Fig. 10
Fig. 11
Fig. 12

Importanti allo stesso modo sono i dodici portelloni delle finestre della Galleria con i segni zodiacali di  Enrico Scipione Cordieri, i quali sono uniti alle due ante con scene di paesaggio collocate nella porta inferiore che apre verso il terrazzo, dipinte in colori pastello con predominanza dell’azzurro aggiunto a dettagli di ispirazione rococò.

Ogni portellone è suddiviso in tre scomparti intervallati da cornici dorate mistilinee dove al centro sono descritti temi dedicati al ciclo delle stagioni e dello zodiaco con soggetti che rimandano alle caratteristiche del mese a cui fanno riferimento.

Una descrizione a parte meritano i due scuri della porta-finestra che conduce al terrazzo dedicati ai solstizi d’estate e d’inverno. Il primo è allegoricamente un giovane con un manto purpureo e con in capo una ghirlanda di spighe di grano, il secondo è un uomo anziano vestito di pelli con una corona color turchino che reca il segno del Capricorno.

In conclusione, del percorso nella Galleria, esaminiamo la porta.

Collegata nella parete di fondo della galleria in posizione simmetrica rispetto all’ingresso, la porta della Galleria sin dall’origine aveva esclusivamente funzione ornamentale per garantire continuità decorativa  e sottolineare la preziosità dell’ambiente.

La struttura della stessa è composta da due pannelli incorniciati da un motivo a volute, di cui quello inferiore dipinto a monocromo raffigura il “Trionfo di Bacco” (fig.13) della bottega di Michelangelo Ricciolini.

Il dio, come vuole la tradizione, è un giovane nudo avvolto in un mantello con il capo cinto da una corona di tralci di vite e seduto sopra un carro trainato da una coppia di leopardi. Con la mano sinistra regge entrambe le briglie poiché la sinistra impugna una freccia in collegamento con l’arco che tiene un putto di fianco a lui. Lo sfondo è animato dalla folla danzante , tra cui un Sileno e un gruppo di menadi  abbandonate al ritmo sfrenato dei cembali.

La raffigurazione sembra partecipare delle nozze sulla volta creando così grande unità di spazio iconografico.

Fig. 13

 

BIBLIOGRAFIA

-Barucca e Sfrappini, Tutta per ordine dipinta, La Galleria dell’Eneide di Palazzo Buonaccorsi di Macerata, 2001.

-Niccolò Ricciolini in ricerche di storia dell’arte, Archivio di Stato Macerata, La galleria di Palazzo Buonaccorsi a Macerata, note documentarie sulla committenza, 1997.

-Melatini, I Buonaccorsi tra Medioevo e Novecento, Civitanova Marche, 1993.

-Barberi e Prete, La decorazione della galleria, 1710-1721.


IL TEMPIO E DI SELINUNTE: IL CULTO DI HERA

L'antica colonia greca di Selinunte in Sicilia è una delle zone archeologiche tra le più importanti d’Europa per estensione ed imponenza. Selinunte venne fondata dai megaresi di Iblea tra il 627 e il 628 a.C., e il suo nome è legato a quello del fiume che scorre ad Ovest della città antica, il Selinon (oggi Modione), il quale, a sua volta, deriva dal prezzemolo selvatico (in greco, Σελινοῦς) che cresce abbondante in queste terre. Ancora visibile è la sua acropoli, la parte più alta della città costituita dalla zona residenziale, dalla zona sacra, dalla zona pubblica e da quella commerciale. La città si affaccia sul porto, aveva una propria necropoli e la chora, luogo in cui venivano amministrati i beni. Selinunte era una bellissima città marittima e di frontiera, aperta agli influssi punici, elimi, sicani. Perfettamente conservato rimane l'assetto urbanistico, realizzato tra il 409 e il 250 a.C., con la cinta muraria e numerosi templi, tra i più significativi del mondo greco per dimensioni e purezza di forme per la continuità di testimonianze scultoree. Situato all’interno dell’acropoli Selinuntina, precisamente sulla collina orientale, è il tempio E, dedicato alla dea Hera (Fig.1). Il tempio è di ordine dorico, realizzato all'incirca nella metà del VI secolo a.C. e fu rimesso in piedi nel 1959 dall’archeologa Aldina Cutroni Tusa che assemblò il tempio con pezzi di colonne di altri templi distrutti, oltre che quelli originali. Inoltre, alcune colonne furono restaurate con parti in cemento per evitare il crollo del tempio. Ben distinguibili sono le colonne originali che presentano sfumature di colore più chiare, invece le colonne in cui è stato utilizzato il cemento presentano sfumature più scure. Il tempio è un periptero esastilo (70,18 x 27,65 m) composto da sei colonne sui fronti e quindici sui lati lunghi (Fig.2-3). Il tempio fu costruito con il materiale proveniente dalle vicine Cave di Cusa, tutt’ora visitabili. Il lavoro di estrazione del materiale grezzo per le colonne era assai faticoso, infatti gli operai scavavano nella roccia circolarmente fino ad ottenere un cilindro di pietra calcarea. Veniva inserita una trave di legno bagnata che, aumentando di volume grazie all’acqua, serviva a far staccare il blocco, poi trasportato a Selinunte, dove veniva lavorato per la costruzione delle colonne dei templi. Le colonne del tempio poggiano direttamente sullo stilobate e l'interno, che un tempo che poteva essere visto soltanto dai sacerdoti, era costituito dal pronao (spazio tra la cella e le colonne antistanti), dalla cella e dalla statua della divinità, ormai andata perduta (Fig.4). Sulla parte alta della colonna si trovavano i triglifi (elemento di pietra decorato con tre scanalature verticali) che scandivano le metope (formella di pietra scolpita a rilievi raffiguranti le imprese di Eracle). Le metope erano decorate da figure divine o mitologiche in atteggiamento ieratico, esse furono realizzate in stile Severo, nel momento della sua massima maturità. Furono totalmente realizzate in calcarenite locale, ma per le parti nude femminili fu utilizzato il marmo. Un tempo le metope erano colorate vivacemente, purtroppo il colore è andato perso, anche se a volte è possibile riscontrare delle tracce. Tra le metope ricordiamo: Eracle in lotta con l’Amazzone, il matrimonio sacro di Zeus ed Hera, Atteone sbranato dai cani di Artemide, Atena che atterra il gigante Encelado, esse sono tutte conservate ed esposte presso il museo Archeologico Regionale Antonio Salinas di Palermo (Fig. 5). Davanti al tempio era presente un altare su cui venivano sacrificate gli animali in onore della dea. Il tempio E di Selinunte costituisce uno degli esempi più interessanti tra quelli prodotti dalla colonia megarese poiché fonde nella sua struttura elementi provenienti dalla madrepatria greca con persistenze locali, producendo un risultato notevole; del resto, la colonia fu uno dei centri più importanti dell’Isola e come tale fu molto aperta alle diverse tendenze artistiche che si diffusero tra le varie colonie.

Fig. 1 - Tempio E, detto anche di Era.
Fig. 2 - Piantina tempio E.
Fig. 3 - Vista laterale tempio E.
Fig. 5 - Interno e parte del Naos.
Fig. 5 - Metope tempio E, conservate oggi al Museo Archeologico Regionale “A. Salinas” di Palermo.

IL SANTUARIO DI SANTA MARIA DEL REGNO

Cenni storici del santuario di Santa Maria del Regno

In Sardegna, nella piana del Logudoro, ai piedi del Monte Santo, si erge il borgo di Ardara. In epoca medievale tale centro assunse un'importanza di primo ordine, in quanto ospitò tra l'XI e il XII secolo i giudici di Torres, che la scelsero come loro sede privilegiata fino alla morte della giudicessa Adelasia agli inizi del XIII secolo. Qui Giorgia, sorella del giudice Comita I, fece costruire agli inizi dell'XI secolo un castello, l'attuale Porto Torres, che divenne tuttavia insicuro a causa delle continue incursioni arabe. Nello stesso periodo venne avviata l'edificazione di Santa Maria del Regno, la cappella palatina oggetto di questa trattazione. Quest'ultimo dato pone Santa Maria del regno in una posizione di singolare rilevanza nel panorama romanico sardo, oltre all'importanza storica da essa rivestita: all'interno del Libellus Judicum Turritanorum (redatto in volgare logudorese), viene menzionato il dovere da parte dei giudici di prestare giuramento sull'altare di S. Maria, in seguito alla carica ricevuta. Nel 1323, il villaggio passò con la curatoria in mano ai Doria, che entrarono a far parte del ''regnum sardiniae''. Costoro si ritenevano vassalli degli aragonesi, e dopo esser stati sconfitti da quest'ultimi, riuscirono a tornare in possesso del borgo, che in seguito venne venduto al giudice d'arborea. Dopo estenuanti guerre tra aragonesi e arborensi, Ardara divenne proprietà dei Sassaresi, per poi tornare nelle mani del fisco e divenire causa di repentine lotte e contese tra feudatari. Nel XVII secolo, il borgo conobbe la peste e una pessima amministrazione dei nobili Manca. Un secolo dopo, insurrezioni anti feudali portarono alla demolizione del castello, di cui rimane un rudere alto 12 m e poco distante dalla cappella palatina, oggi parrocchiale. Inclusa nel 1821 nella provincia di Ozieri, dal 1859 Ardara fa parte della provincia di Sassari.

Edificata tra il 1065-1107 da maestranze probabilmente pisane, il santuario di Santa Maria del Regno è annoverato tra le architetture romaniche isolane di maggior rilievo. Venne consacrata come cappella palatina il 7 Maggio 1107 sotto l'episcopato di Pancreazio, pontefice romano, secondo un'epigrafe probabilmente trascritta da un originale perduto. Tuttavia, tale informazione si rilevò essere errata a causa del lapicida: PANCRASII anziché PASCASII (Pasquale). L'epigrafe, originariamente murata nell'altare maggiore ed integrata con una reliquia di pietra proveniente dal sepolcro di Cristo, venne collocata in seguito a restauri del XIX a destra del presbiterio. Nonostante la qualifica di cappella palatina, S. Maria era extra muros, in quanto la costruzione non fu ex novo, ma si impostava su un precedente edificio di culto probabilmente ad uso cristiano. Infatti, al di sotto delle lastre pavimentali in pietra calcarea venne rinvenuta un'epigrafe funeraria risalente al V-VI secolo. Inoltre, ai piedi dell'altare venne ritrovato il corpo della giudicessa Adelasia, oltre a vari monumenti funerari in contro-facciata postumi (XIII secolo). Risulta perciò evidente che la chiesa venisse utilizzata anche come luogo di sepoltura. Nonostante non fosse una chiesa episcopale, nel 1135 ospitò il sinodo di Umberto, arcivescovo di Pisa e legato della santa sede. Dopo l'incendio della cattedrale vescovile di Bisarcio, i vescovi si trasferirono ad Ardara per circa un secolo. In tale situazione il giudice Comita, dietro richiesta della sorella Giorgia, decise di ampliare la cappella per edificare la straordinaria ''Madonna del Regno''.

La chiesa di Santa Maria del Regno

Il santuario di Santa Maria del Regno presenta una pianta longitudinale rettangolare, scandita in tre navate da pilastri cilindrici in cantoni di nera trachite, terminante nell'abside semicircolare in asse con la navata centrale e difficilmente contemplabile ai fedeli a causa della presenza del retablo maggiore nel presbiterio. La copertura della navata centrale è a capriate lignee, mentre sulle navatelle laterali sono impostate volte a crociera su archi a tutto sesto. La chiesa, caratterizzata dall'assenza di decorazioni e dall'essenzialità, venne costruita con scura trachite e presenta gamme di sfumature dal bruno metallico al rosso bruciato. La facciata, a salienti, pur avendo complessivamente una cromatura omogenea, presenta in basso a destra un' accostamento di conci dal color terra, con inserzioni di viola e vinaccia. Le lesene, alle quali si addossano i piedritti monolitici, ripartiscono la facciata in cinque sezioni. Il portale d'ingresso, lungo e stretto, è ligneo. Nel fianco meridionale, il paramento murario con monofore è ripartito da lesene in nove specchi. Qui, in corrispondenza della settima campata, si apre una stretta porta che immette all'interno della struttura. Tali elementi si verificano nuovamente sul fianco nord. Addossato a quest'ultimo troviamo il campanile a canna quadrata rettangolare, attualmente mozzo. L'abside semicircolare si imposta tramite delle lesene in aggetto sulle sezioni laterali. Nel frontone absidale, oltre a delle monofore rettangolari, troviamo una finestrella a croce. All'interno del santuario, i pilastri cilindrici poggianti su base a toro e profonda gola sono affrescati, e mostrano una leggera entasis. I capitelli corinzi, fortemente plastici, sembrano riprodurre il motivo di foglie d'acqua. Un elemento interessante è dato dal fatto che i capitelli dei primi cinque pilastri a destra e dei primi due a sinistra non poggino immediatamente sui sostegni, ma vi facciano da intermediari elementi cilindrici.

Il retablo maggiore

Situato dietro all'altare troviamo il celebre retablo maggiore, commissionato da Joan Cataholo, canonico di San Pietro di Torres nel 1489 e arciprete della cattedrale di Sant'Antioco di Bisarcio nel 1503. Il polittico, stando ad un'iscrizione sulla predella realizzata da Giovanni Muru e recante oltre alla datazione il suo nome, venne eseguita nel 1515. Oltre a Muru, contribuì alla realizzazione dell'opera anche Martin Torner, che ne eseguì la parte superiore. La pala d'altare, alta dieci metri e larga sei, viene considerata la più grande e raffinata mai eseguita nella Sardegna cinquecentesca. ll retablo è composto da ventuno tavole dipinte di varie proporzioni, separate le une dalle altre mediante intagli di legno dorato. Tali tavole presentano un ciclo iconografico relativo alle storie di santi, profeti del popolo d'Israele, episodi del nuovo e dell'antico testamento, oltre a ricorrenze sacre di notevole importanza per la fede cristiana, quali il Natale, l'Epifania, la Resurrezione, l'Ascensione e la Pentecoste. Tuttavia, particolare enfasi viene posta su Maria e il figlio salvatore, Gesù. Infatti, le scene iconografiche riportanti la santa nel momento della nascita e nell'atto della dormitio occupano un posto rilevante nel retablo, collocandosi nella fascia più alta in posizione centrale ed in quella immediatamente sottostante, caricandosi di maggiore significato in relazione al mistero di Cristo. Al centro della pala d'altare, entro una nicchia, è custodita la statua d'oro con anima lignea della Madonna, col capo cinto da una corona, il braccio destro nell'atto di sostenere il bambin Gesù e la mano sinistra recante uno scettro, che, unitamente al diadema, potrebbe assumere un significato imperiale. Ai lati dell'edicola, in alto, gli stemmi del giudicato assumono significato di richiesta di protezione. Tale disposizione è certamente dovuta al desiderio di glorificazione nei confronti della vergine, che è anche titolare della chiesa. Nel polittico, l'iconografia del Criso non pone alcun accento sugli aspetti relativi alle scene di passione, ma si connota di matrice positiva volta a rappresentarne gli aspetti più gioiosi come la resurrezione e la vittoria sulla morte. Le due tavole poste nella predella, a sinistra e destra, raffigurano rispettivamente San Pietro e San Paolo secondo canoni pienamente medievalisti. L'intero retablo emana grande sfarzo, complici gli innumerevoli elementi aggettanti e l'utilizzo della tonalità dorata, che conferisce regalità all'intera opera e non senso di smaterializzazione: i personaggi sono ben configurati nello spazio, dotato di una buona tecnica prospettica suggerita dall'utilizzo del chiaroscuro, dagli evidenti panneggi e da una spiccata notazione paesaggistica.

Il retablo minore

Il retablo minore, dal moderato pregio artistico rispetto a quello maggiore, venne realizzato da Muru o da qualche suo discepolo. E' interessante rilevare come esso vada ad integrare il ciclo pittorico del retablo maggiore non solo con immagini di santi e profeti, ma sopratutto includendo scene della passione di Cristo, tra le quali la salita al Calvario, la crocifissione e la deposizione. Tuttavia, presenta alcuni elementi in comune con il maggiore: nella predella del minore, è possibile osservare la resurrezione di Cristo, presente anche nella predella maggiore del Muru, assumendo in entrambe posizione centrale in asse con la vergine sovrastante. Nel retablo minore S. Maria è raffigurata come virgo lactans in trono. Elemento alquanto raro e singolare all'interno del santuario è la presenza di 16 colonne affrescate con iconografie di santi e padri della chiesa nella navata centrale. Realizzate con esemplare maestria artistica, conferiscono alla chiesa grande regalità. Esse sono tuttavia risalenti al secolo XVI, a differenza degli affreschi delle navate laterali datati al restauro del XIV-XV secolo. All'interno della chiesa, seppure di età postuma, è custodito lo stendardo processionale risalente agli inizi del XVI secolo. In quest'opera dal grande valore storico-artistico, è raffigurata su un lato la Madonna in trono con bambino, mentre sull'altro è dipinto il velo della Veronica recante il volto di Cristo.

Bibliografia e sitografia essenziale:

Sardegna Preromanica e Romanica, Coroneo - Serra

La grande enciclopedia della Sardegna vol. 1 - Floris

La grande enciclopedia della Sardegna vol. 11 - Brigaglia, Mastino, Ortu

Enciclopedia dell'arte medievale, Treccani

Sardegna Turismo


IL CASTELLO DI SANTA SEVERA

IL CASTELLO DI SANTA SEVERA: STORIA ED EDIFICAZIONE

Il Castello sorge sul sito di Pyrgi, la città portuale collegata all'antica Caere, l'attuale Cerveteri, fondata tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C.. La città etrusca di Pyrgi si sviluppava  intorno al porto, comprendeva oltre all'area oggi occupata dal borgo castellano anche l’area del santuario situato all'estremità meridionale, oggetto di scavo da parte dell’Istituto di Etruscologia dell’Università la Sapienza di Roma ormai da più di cinquant'anni.

Durante il corso del III secolo a.C. con la romanizzazione del territorio costiero, su parte dell’abitato etrusco venne fondato il castrum romano di Pyrgi, circondato da possenti mura.  Il sito fu probabilmente abitato senza interruzioni fino alla tarda antichità (IV-V sec. d.C.),successivamente in epoca medievale si formò il borgo conosciuto come Castellum Sanctae Severae. Il Castello vero e proprio venne costruito nel XIV secolo ed il borgo si formò man mano con varie fasi di edificazione nel corso del XV-XVI secolo.Nel corso dei secoli la proprietà del Castello passò attraverso vari proprietari finché nel 1482 passo sotto la proprietà dell'Ordine del Santo Spirito e vi rimase per ben cinquecento anni fino al 1980. Tra il Cinquecento e il Seicento è stato anche luogo di sosta e soggiorno di molti papi: tra questi Gregorio XIII, Sisto V e Urbano VIII. Dopo un periodo di massimo splendore raggiunto proprio nel Seicento, il Castello ha vissuto una lunga e lenta decadenza. Nel 1943 è stato utilizzato dai Tedeschi come postazione militare strategica.

All'interno del Borgo del Castello di Santa Severa sono oggi ospitati e visitabili vari musei.

IL MUSEO DEL MARE E DELLA NAVIGAZIONE ANTICA

Il museo, fondato nel 1993, è uno dei luoghi di maggior interesse nell'ambito dell'area archeologica e monumentale di Pyrgi; si compone di sei sale espositive che ospitano, fra reperti originali e ricostruzioni al vero, oltre 450 pezzi che inducono il visitatore a scoprire e vivere ciò che è stata la vita antica sul mare. E' unico nel suo genere per i temi trattati e i pezzi allestiti, mentre la sala esperienziale permette un viaggio a ritroso nel tempo di oltre 5.000 anni in un ambiente litoraneo di particolare suggestione.

L'ANTIQUARIUM DI PYRGI E L’AREA ARCHEOLOGICA

Scavi effettuati presso il Castello di Santa Severa hanno portato alla luce due templi : il tempio A, conservato come il vicino tempio B solo nelle sue poderose fondazioni, era decorato con altorilievi in terracotta, di cui quello centrale raffigurante uno dei momenti culminanti del mito greco dei Sette a Tebe, è stato oggetto di un complesso restauro ed è ora esposto presso il Museo di Villa Giulia. Di straordinaria importanza il rinvenimento delle celebri lamine d'oro, due in etrusco e una in punico, che ricordano la dedica del tempio da parte del "re di Caere" Thefarie Velianas alla dea Uni/Astarte. Presso l'area archeologica sorge un piccolo Antiquarium, che conserva gli importanti materiali rinvenuti in oltre quarant'anni di scavo, tra cui si segnalano pregevoli terrecotte architettoniche.

CORTILE DELLA GUARDIA O PIAZZA DELLA TORRETTA

Entrando nel borgo, sulla sinistra del vano del portale, è situata una lastra marmorea recante l’iscrizione posta a ricordo dei restauri effettuati dal Pio Istituto del Santo Spirito tra il 1961 e il 1965. Nel cortile si trova sulla sinistra una casetta, risalente forse al XVI secolo, denominata Casa della Bambola, con lo stemma del Commendatore Guidiccioni e frammenti di materiali architettonici di epoca romana, rinvenuti nelle tenute del Santo Spirito e murati nella facciata in occasione dei restauri degli anni Sessanta del Novecento. Sulla sinistra della casa si apre il Cortile dei Trottatori con materiali architettonici antichi nell'aiuola, tra i quali un’epigrafe riferibile ad una donna di nome Hilara, provenienti da Roma e forse dalla tenuta del castello. All'interno del cortile si trovano il Museo del Territorio e il centro Visite della Riserva Naturale di Macchiatonda.

CORTILE DELLE BARROZZE

A destra dell’arco di Innocenzo XII si apre il Cortile delle Barrozze, così denominato dal nome dei carri agricoli che li stazionavano fino agli anni cinquanta del Novecento. Si accede al cortile tramite un ampio ingresso in muratura segnato da stemmi del XVII secolo sui lati, Tarugi sulla destra e Dondini sulla sinistra. Varcato l’ingresso si incontra un breve tratto di basolato romano ricollocato in epoca moderna con basoli provenienti da Roma. Sul lato sinistro del Cortile il fabbricato detto della Manica Corta, dinanzi La Manica Lunga che nel XVII e XVIII secolo aveva la funzione di granaio del borgo. Sulla facciata era collocato lo stemma del precettore Ruini del 1685, oggi conservato all'interno della Rocca. L’attuale facciata, alterata dagli interventi moderni, presenta uno stemma del precettore Aldrovandi e tre eleganti balaustre marmoree inserite nelle finestre, forse provenienti dalla chiesa dell’Assunta.  A destra della piazza un cancello permette l’uscita verso il mare, seguono due grandi tavoli in travertino con canaletta al bordo per lo scolo. Provengono dalla tenuta del Cavaliere presso Roma dove erano utilizzati per la salatura dei formaggi.

PIAZZALE DELLE DUE CHIESE

Un’ampia corte rettangolare con al centro un’aiuola ai lati della quale sono stati ricostruiti in epoca moderna due tratti di basolato romano. Sulla destra la piazza è delimitata da due chiese, la Chiesa di Santa Severa e Santa Lucia, oggi con funzione di battistero, e la chiesa dell’Assunta, parrocchiale del borgo. Sul fondo, da dietro una grata metallica, ci si affaccia sulla spiaggia di Santa Severa, a ridosso di una delle antiche porte del castello, definitivamente chiusa negli anni Sessanta del Novecento. Di fronte alla chiesa si apre la porta più antica che immette nella Piazza della Rocca preceduta da un arco sormontato dallo stemma del Commendatore Ruini. La porta conserva ben visibili i resti delle caditoie e delle feritoie collegabili al sistema di sollevamento dell’originario ponte levatoio. A sinistra della porta si nota bene il bastione difensivo cinquecentesco, sovrapposto all'antica cinta muraria medievale, dove durante i restauri moderni sono state collocate le finestre circolari bordate in travertino per arieggiare i locali interni. Sulla destra prima di accedere alla porta, è murata una grossa base di frantoio romano insieme ad una colonna in pietra e ad altri frammenti di materiali architettonici, tra i quali un’ara funeraria con iscrizione greca.

CHIESA DELL’ASSUNTA

La semplice facciata  è inquadrata da due lesene e da un timpano con un piccolo rosone. Sul portale è collocato lo stemma del precettore Agostino Fivizzani.  L’interno della chiesa si compone di un’unica navata con pavimento moderno. L’altare è decorato da due  colonne di marmo di probabile origine romana. Le due porte ai lati dell’altare erano sovrastate da due stemmi commendatoriali ricoperti nel 1970 con gli attuali disegni. L’affresco dell’altare fu fatto seguire dal Monsignor Tarugi nel 1595 e rappresenta la Madonna Assunta in cielo con Bambino, ai lati della quale si trovano a sinistra Santa Severa, riconoscibile dai segni del suo martirio con i flagelli piombati e a destra Santa Marinella. Vicino alle figure delle due sante sono rappresentati i rispettivi castelli. Nel 1710 l’affresco fu coperto da una tela con l’immagine della Madonna Assunta in cielo ai lati della quale si trovano Santa Severa e Sant'Antonio Abate. Sulla fronte interna della bussola in legno posta all'ingresso della chiesa, è ben visibile l’iscrizione in ricordo della visita di papa Pio IX avvenuta nel 1858.

CHIESA DI SANTA SEVERA E SANTA LUCIA DETTA “BATTISTERO”

La piccola chiesa è situata a ridosso di uno degli antichi accessi del borgo rivolto alla spiaggia, dagli anni sessanta del Novecento utilizzata come battistero. Presente nel borgo almeno dal XV secolo, conserva pregevoli affreschi in parte attribuiti alla scuola del pittore Antoniazzo Romano. Nell'abside Santa Severa presenta il committente precettore Gabriele De Salis alla Madonna in trono, sul lato destro Santa Lucia e San Rocco, sulla sinistra di Santa Severa San Sebastiano. Nel sottarco l’Agnus Dei e ritratti dei profeti. In alto sulla parete la scena dell’Annunciazione.

LA PIAZZA DELLA ROCCA

Dal cortile delle Due Chiese attraverso la porta antica si accede alla Piazza della Rocca, dove nel marzo del 2007 è stata scoperta la chiesa paleocristiana di Santa Severa, oggi protetta da una tettoia. L’eccezionale rinvenimento è avvenuto in seguito ai lavori di ristrutturazione del Castello di Santa Severa e costituisce una delle principali novità storico-archeologiche del complesso monumentale. La chiesa, suddivisa in tre navate, risale al V-VI secolo e, semi sotterranea, si appoggiava alle mura poligonali che si trovano al di sotto del fabbricato denominato Casa della Legnaia. Nella parte scavata è visibile l’abside con tracce di affreschi, le colonne ancora in piedi e la vasca battesimale nella navata destra. La chiesa vissuta fino alla metà circa del XIV secolo, fu abbandonata forse in seguito ad un incendio e quindi, dopo lo spoglio dei materiali nobili, completamente interrata e dimenticata. Intorno, gli scavi hanno portato alla scoperta di un vasto cimitero medievale con centinaia di sepolture che hanno permesso di ricostruire uno spaccato molto interessante delle caratteristiche della popolazione del castello tra il XIII e il XIV secolo.

MUSEO DEL CASTELLO NELLA ROCCA

All'interno si trova un cortile con un pozzo al di sotto del quale è situata una grande cisterna per la raccolta dell’acqua. Le sale del pianterreno e una parte del primo piano ospitano il nuovo “Museo del Castello di Santa Severa” dove si possono trovare le informazioni sulla storia e l’archeologia del complesso. Il museo raccoglie alcuni reperti e documenti che raccontano le vicende dell’insediamento e del suo borgo dal martirio di Santa Severa fino al Novecento: la vita quotidiana, gli eventi e le storie che hanno attraversato i secoli per giungere a noi. Al piano terreno, tre sale illustrano la vicenda del martirio di Santa Severa, la fase in cui il castello fu proprietà delle abbazie di Farfa e del monastero di San Paolo, l’epoca delle famiglie nobili romane dei Tiniosi, Bonaventura -Venturini e dei Di Vico, nel XIII e XIV secolo. Al primo piano si prosegue con il racconto dell’epoca  rinascimentale e del Seicento con le visite dei papi al castello e l’arrivo del primo ambasciatore giapponese nel 1615, si termina con la storia della tenuta di Santa Severa nell'Ottocento e nel Novecento.

Tramite una grande scala si sale per due piani raggiungendo la parte più alta del fabbricato, da dove è possibile raggiungere la Torre Saracena attraverso il ponte di legno che collega le due costruzioni.

LA TORRE SARACENA

Alto maschio cilindrico costruito nell'Alto Medioevo, forse già nel IX secolo, con funzione di avvistamento e di controllo del sottostante porto canale. La torre, chiamata Saracena in epoca moderna, ci appare oggi nella sua forma definitiva, assunta nel XVI secolo in seguito ad interventi di restauro e abbellimento voluti dal precettore Bernardino Cirillo, quando l’accesso era assicurato dal solo ponte di legno che la collegava alla Rocca e da una porticina corrispondente a quella attuale, che poteva essere raggiunta dal basso solo con una scala di legno. Al suo interno si trovano tre sale circolari sovrapposte collegate da una scala a chiocciola moderna. Dalla sommità si gode di uno stupendo panorama che spazia lungo la costa da  Fiumicino a Santa Marinella e nell'entroterra su tutto il castello fino ai Monti della Tolfa e Cerveteri. Molte notizie sulla sua storia e sul suo armamento sono conservate nel “Museo del Castello di Santa Severa” all'interno della Rocca.

Bibliografia:

A.C. Cenciarini, Rocche e castelli del Lazio, Newton Compton

Sitografia:

passaggilenti.com

santamarinella.com


VILLA CAMPOLIETO AD ERCOLANO

Villa Campolieto: un esempio di villa vesuviana.

Immortalata in una scena del film “Operazione San Gennaro” di Dino Risi, Villa Campolieto è uno splendido esempio di quello che poi diventerà il genere “villa vesuviana”, ossia un edificio architettonico che si inserisce perfettamente nel paesaggio diventandone parte fondante. La villa sorge nel cosiddetto “Miglio d’Oro” di Ercolano, un tratto della strada statale 18 che va da Ercolano a Torre del Greco ricchissimo di ville. In realtà la definizione “Miglio d’Oro” si riferiva un tempo alla straordinaria quantità di alberi di limone e arancio ubicati lungo la strada, ma nel corso del tempo si cominciò ad attribuire alla quantità di ville splendide, e non più agli alberi, il soprannome e la bellezza di questo percorso. Sono infatti un centinaio le ville sparse lungo questa strada, circa 120 per la precisione, alcune fatiscenti altre recuperate, opera dei più grandi maestri che nel tardo Settecento operavano in queste zone, da Vanvitelli a Vaccaro a Sanfelice. È possibile ricondurre quasi tutte queste costruzioni a un tardo barocco, anche se non eccessivamente pomposo, tendente al rococò, anche se alcune anticipano degli stilemi propri del Neoclassicismo. La concentrazione di queste ville in un particolare tratto di strada fu dovuta alla costruzione nel 1738 della residenza estiva di Carlo di Borbone e Maria Amalia di Sassonia a Portici, sulla strada vesuviana. Da quel momento in poi tutta l’aristocrazia napoletana cominciò a far erigere le proprie dimore nei pressi di quella reale, secondo un’abitudine molto diffusa all’epoca sia in Italia che in Francia di “gravitare”, anche architettonicamente, sempre nei pressi dei sovrani. Nacque così una straordinaria proliferazione di ville in un preciso tratto di strada, e fra queste una delle più belle è sicuramente Villa Campolieto.

Figura 1: Di Lalupa - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1323471

Fu fondata nel 1755 dal principe Lucio o Luzio di Sangro, signore del luogo e duca di Casacalenda, e la sua costruzione durò esattamente venti anni, venendo completata nel 1775. Molte furono le maestranze che ci lavorarono: in un primo tempo i lavori furono affidati a Mario Gioffredo, il Vitruvio napoletano, allievo del Solimena e architetto molto in voga del tempo. Fiero oppositore degli eccessi del barocco, Gioffredo immaginò per Villa Campolieto un corpo di fabbrica centrale quadrangolare da cui si dipartissero, con una pianta a croce greca, quattro bracci, che dividevano tutta la costruzione in quattro blocchi distinti. La Villa presenta due facciate: una anteriore, piuttosto classica, e quella posteriore, molto più particolare.

La facciata principale, quella che affaccia sulla strada, è un unico blocco massiccio, inquadrato da un porticato: presenta un elemento centrale a serliana scandito ai lati da due paraste monolitiche, mentre il piano superiore, o piano nobile, diviso dalla parte inferiore da una fascia marcapiano, offre allo sguardo una classica successione di finestre coronate da timpani triangolari e intervallate da paraste con capitelli ionici. Solo la finestra centrale, in accordo con l’arco sottostante, è inquadrata in una sorta di strombatura. Il tutto è coronato da una balaustra sull’attico. Dalla facciata anteriore si diparte un androne che mette in ideale continuità con un asse longitudinale la facciata anteriore con quella posteriore; tale asse si incrocia con l’altro braccio, quello orizzontale, della croce greca, che riceve tanta luce naturale dal giardino collocato ai lati della struttura. Tale luce va a sommarsi a quella derivante dalle due aperture anteriori e posteriori e illumina, come un gioco di luci scenografico, lo scalone posto a sinistra dell’entrata e che ricorda molto quello di Caserta. infatti sia la sua disposizione all’interno della struttura sia il suo essere a doppia rampa coronata da balaustra centrale sono riprese dalla reggia di Caserta. Inoltre la cupola che si eleva sull’incrocio dei bracci e i grandi finestroni ovali contribuiscono a inondarlo ancora di più di luce, la vera protagonista di questo edificio.

Figura 2: https://www.napoli-turistica.com/walk-in-art-evento-spettacolo-a-villa-campolieto-ercolano/

La facciata posteriore, invece, presenta sì elementi di continuità con quella anteriore, ma è caratterizzata da un ampio portico che si allarga difronte ad essa e che inquadra scenograficamente il paesaggio circostante. Gioffredo lo aveva immaginato circolare, ma poi fu sostituito alla direzione dei lavori a causa di contrasti con i duchi e, dopo un breve periodo, l’incarico fu affidato al Vanvitelli. Quest’ultimo, in carica dal 1763 al 1773 (anno della sua morte), apportò sostanziali modifiche al progetto originale, tra cui la forma del portico, che modificò in ellittico. Così facendo diede molta più ariosità al progetto, che acquistava slancio nella parte posteriore proprio grazie all’allungamento del portico. Infatti la successione, più stretta e lunga, di numerose e fitte volte a crociera sorrette da archi e colonne toscane che costituiscono il portico fanno sì che esso si confonda quasi con il paesaggio, che da elemento circostante diventa una successione di fondali naturali inquadrati dagli archi. La balaustra che corre al di sopra del portico sembra una corona posta al di sopra, e snellisce otticamente il tutto. Il portico ellittico si adagia nel giardino grazie a una scala a ferro di cavallo a doppia rampa.

Figura 3: https://www.turismocampano.it/miglio-doro

Figura 4: http://www.villevesuviane.net/villa-campolieto/

Dallo scalone si accede al piano nobile, scrigno incredibile di bellezza. L’atrio, il primo ambiente che si incontra, è letteralmente definito dalla luce, grazie alla cupola senza tamburo e ai finestroni che eliminano quasi le differenze tra interno ed esterno. La decorazione pittorica interna, opera di Fedele Fischetti e Gerolamo Starace, è un trionfo di elementi naturalistici e barocchi: conchiglie, festoni, ghirlande e figure mitologiche, inquadrate in nicchie. Ogni porta reca sulla sommità un cartiglio, e ai due lati vi sono medaglioni ovali con soggetti tipici della statuaria classica.

Figura 5: https://www.napolidavivere.it/2019/12/30/walk-in-art-a-villa-campolieto-ad-ercolano/

Dall’atrio si accede alla Sala da pranzo, particolarissima. Infatti è circolare, secondo i desideri dei padroni di casa. Vanvitelli la realizza grazie alla tecnica dell’incannucciato, che consiste nel creare una leggera ma resistente travatura in legno, sovrapposta con bambù, che viene poi coperta e affrescata. Il risultato è una struttura portante leggera e flessibile, resa ancora più leggiadra allo sguardo dalle pitture parietali a trompe l’oeil, opera dei fratelli Magri.

 

Figura 6: Di Lalupa - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1323498

Figura 7: http://www.villevesuviane.net/villa-campolieto/

Cesare Fischetti, invece, connota tutta la stanza secondo il gusto tipicamente bucolico vanvitelliano, ricoprendo le pareti con raffigurazioni del locus amoenus e tripudi di amorini e puttini.

Figura 8: http://www.villevesuviane.net/villa-campolieto/

In particolare segue la conformazione circolare della stanza riproducendo una sorta di gazebo e un vitigno, probabilmente uno di quelli del principe. Da destra verso sinistra si scorgono “...un gruppo di persone che giocano a carte tra cui il De Sangro, a seguire sullo sfondo le isole del golfo, e superata la porta possiamo vedere uno dei pochi autoritratti su affresco del Vanvitelli che scruta il cielo con il monocolo”. Agli angoli, oggi purtroppo andate perdute, si trovavano le raffigurazioni delle quattro stagioni.

Figura 9: http://www.villevesuviane.net/villa-campolieto/

Figura 10: http://www.villevesuviane.net/villa-campolieto/

Ultimo ambiente di villa Campolieto è il cosiddetto Salone delle Feste, la cui decorazione è andata persa. Si sa che era caratterizzato da un grande affresco sulla volta a botte della sala, e dai lacerti si capisce che lo stesso gusto bucolico delle altre sale doveva dominare anche qui. Alle pareti invece era raffigurato il mito di Ercole.

Dopo la seconda guerra mondiale, in cui subì gravissimi danni, la villa fu recuperata e restaurata nel 1984, diventando un centro internazionale di arte e la sede della Fondazione Ente per le Ville Vesuviane. A Villa Campolieto si è svolto spesso anche il ballo di fine anno dei cadetti della scuola Militare della Nunziatella, uno dei balli più famosi e prestigiosi delle Accademie Militari.

 

 

 

http://www.treccani.it/enciclopedia/mario-gioffredo/

https://www.sirericevimenti.it/portfolio/villa-campolieto/

https://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/ville-vesuviane/18916-ville-vesuviane-la-villa-campolieto/

https://www.touringclub.it/destinazione/localita/edificio-monumentale/170003/villa-campolieto-ercolano

http://www.villevesuviane.net/villa-campolieto/

http://www.campaniartecard.it/tour-item/villa-campolieto/

 

 

 


IL CASTELLO DI COPERTINO IN PROVINCIA DI LECCE

Le origini e l'edificazione: il Castello di Copertino.

Compreso tra la via vecchia di Leverano e i confini di Arnesano e Monteroni di Lecce, popolato gradualmente nei secoli e coperto a tutt'oggi da vigneti ed uliveti rigogliosi, è il paese di Copertino. Della sua nascita viene riportata notizia in una cronaca del 1552 conservata nell'archivio Vescovile di Nardò e che cita testualmente:

“...che vedendo esser nell’anno 560 distrutte dai Goti li castelli e le terre di Casole, San Vito, Mollone, Cigliano e San Nicolò si diedero a credere che l’abitatori di detti luoghi si fussero uniti a fabbricarsi una nuova terra che dalla diversità dalle genti indi convenute, la chiamano Cupertino".

La sua cinta muraria era di forma ovoidale, racchiudeva un dedalo di strade e piccole cappelle, su cui dominava - e domina - la mole della Torre Angioina; il Castello di Copertino si erge possente, infatti da qualunque strada si arrivi al paese si scorge subito questa costruzione, nata a difesa dei casali circostanti.

E’ difficile ricostruire i diversi momenti dell’edificazione: il nucleo originario può essere ricondotto al programma di riorganizzazione militare di Carlo I d’Angiò, che nominò il paese sede amministrativa di contea. Nel ‘500 il marchese Alfonso Castriota, generale di Carlo I avviò i lavori di rammodernamento del Castello affidando i lavori ad Evangelista Menga: inglobò le strutture preesistenti in un impianto quadrangolare coronato da quattro poderosi bastioni angolari e circondato da un ampio fossato.

Negli anni la costruzione è passata attraverso diverse famiglie, dagli Squarciafico ai Pinelli, dai Pignatelli ai Belmonte.

Trascurato per anni, il Castello di Copertino ha rischiato il degrado, adibito com'era a presidi militari o a usi ignobili fino a che nel 1875 è stato dichiarato Monumento Nazionale e quindi sottoposto ai vincoli per la conservazione e la tutela.

L’edificio, come detto prima, con i quattro bastioni angolari lanceolati, racchiude elementi antichi, tra cui svetta il mastio angioino, circondato da un profondo fossato lungo tutto il perimetro. Dinanzi ad esso, quello che colpisce immediatamente è la profonda diversità delle costruzioni che si sovrappongono le une alle altre, difformi nella concezione e nello stile, specchio delle esigenze e dei capricci dei diversi signori che lo hanno abitato e che lo adibirono ad usi differenti.

Evangelista Menga raccolse nel magnifico portale rinascimentale tutte le numerose Signorie: sui 20 medaglioni scolpiti, si identificano i ritratti di imperatori e conti, in ordine cronologico, come fossimo in una narrazione delle vite che hanno abitato il Castello fino al 1540.

L’arco che sovrasta l’architrave, ad esempio, è stato scolpito in chiave fortemente allegorica, con la rappresentazione delle armi (cannoni, frecce, corazze) vinte dagli Aragonesi nella battaglia contro gli Angioini.

Al di là del portale, ci si ritrova in un atrio coperto da volte a botte, in cui si affacciano strutture di epoche differenti, tra cui la piccola cappella di San Marco al cui interno sono collocati i sarcofagi degli Squarciafico, detentori del Castello dal 1557 e committenti anche del ciclo di affreschi che decora l’ambiente, opera del pittore copertinese Gianserio Strafella.

Le piccole dimensioni hanno influito sull'inusuale disposizione del portale rispetto al rosone, spostato sulla destra rispetto al prospetto della porta: l’altare all'interno, spoglio, è accompagnato ai lati dai due sarcofagi di Umberto e Stefano Squarciafico, in pietra leccese opere di Lupo Antonio Russo. Delle pareti e della volta affrescate e restaurate rimangono per i visitatori le immagini di San Sebastiano, Santa Caterina d’Alessandria e San Giacomo di Compostela, i quattro Evangelisti e alcuni episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento.

Tornando al portale del Menga, visto dall'interno, vi sono alle due estremità due teste coronate, Carlo I d’Angiò e Maria d’Enghien, e al centro un cavaliere armato che viene raffigurato nell'atto di uccidere il nemico.

Attraversando l’atrio coperto, ci si ritrova nell'atrio interno scoperto a sinistra del quale vi sono due grandi archi sfalsati, che attraverso un ulteriore portico immettono in due gallerie sud sovrapposte e comunicanti tra loro attraverso strette scale interne.

Qui troviamo il Palazzo Pignatelli, sotto il cui intonaco ancora campeggiano elementi architettonici in stile romanico, gotico e normanno; stessi elementi riscontrabili all'interno, con doppie pareti e archi a sesto acuto che sorreggono le mura perimetrali. In condizioni accettabili è la ghera del pozzo, antistante a questa sezione di palazzo.

A destra invece sono presenti più ingressi che portano alle gallerie del piano terra: il più grande tra questi ingressi dà accesso all'antica costruzione di origine normanna, in parte interrata e adibita, originariamente, a scuderia: i pilastri e gli archi imponenti hanno consentito la costruzione dei tre piani sovrapposti, senza che la volta a botte e le pareti laterali subissero danni strutturali.

Una scalinata scoperta conduce al piano superiore in cui gli ambienti quattro-cinquecenteschi caratterizzano il cosiddetto Palazzo Vecchio; a metà rampa si apre la Cappella della Maddalena con i resti del suo ciclo pittorico affrescato risalente alla prima metà del 1400. Una parte di questi sono conservati presso il centro restauro della Sovrintendenza a Bari, mentre altri sono stati staccati e ricomposti in una sala del Castello. Altre sinopie sono ancora visibili e raffigurano Caterina d’Enghien e la regina Isabella, nell'atto di pregare.

Negli anni, tutti i diversi feudatari hanno più volte modificato questo palazzo, come già detto in precedenza, secondo il gusto e l’arte del proprio tempo: gli archetti che sostengono ed ornano il cornicione sono tutti diversi, simboli intatti delle maestranze che li hanno realizzati. Colonne e capitelli, così come anche le pareti interne sono state indegnamente cancellate, intonacate e trasformate in epoche differenti.

La torre - o mastio - angioina campeggia e domina dall'alto l’intera costruzione, costituita da tre piani sovrapposti con volta a botte e grande camino di stile gotico. L’ingente spessore delle murature è stato, e lo è ancora, un aspetto provvidenziale per la sua stabilità, salvandola dalla rovina. Ed è in questo spessore che sono state ricavate le scale che mettono in comunicazione i diversi piani sino al terrazzo.

Infine, a circondare tutto il Castello di Copertino troviamo 600 metri di fossato: scavato nella roccia, presenta, davanti al portale di ingresso, un ponte in pietra di tufo a 2 arcate. Il livello inferiore è aumentato rispetto al passato per via dei detriti e del terriccio depositato nei secoli: per questo motivo alcune feritoie, le più basse, risultano interrate.

Sotto il primo bastione corre un’ampia galleria scavata nella roccia, che dai sotterranei della torre termina direttamente nel fossato. Il secondo bastione, a sud-ovest, presenta la cosiddetta Porta Falsa, in posizione opposta rispetto al portale principale, che serviva per l’intervento dei difensori al di là delle mura in caso di assedio.

Sullo spigolo del bastione a nord-ovest, invece, un tufo più sporgente reca i segni di un altorilievo diventato indecifrabile, oggetto di credenza popolare: si ipotizza che l’altorilievo  raffigurasse un drago, al quale si attribuisce la colpa di aver ingerito tutta l’acqua del fossato, lasciandolo a secco.

Al lato nord, ad est del fossato, trova spazio una piccola casa di tufo quadrata, chiamata Casa delle Decime, che un tempo ospitava i gabellieri; attraverso una scala si scendeva al trappeto sotterraneo del Castello di Copertino, oggi adibito, durante le festività natalizie, a luogo per il Presepe.

Percorrendola e proseguendo più avanti, si arriva al Posto di Guardia a ridosso dell’arco di San Giuseppe, antica porta di accesso al centro abitato.

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IL PALAZZO DEL PRINCIPE A FASSOLO

Il Palazzo del Principe. La grande residenza dei Doria

Una delle principali ville storiche di Genova è quella, sontuosa, che l’ammiraglio Andrea Doria volle edificare  per la sua famiglia negli ultimi anni del terzo decennio del Cinquecento, immediatamente al di fuori della cinta muraria genovese, ossia il cosiddetto Palazzo del Principe, o Villa del Principe.

Per comprendere meglio il ruolo ricoperto da questa dimora, bisogna aver presente il ruolo storico-politico ricoperto da Andrea Doria e dai suoi discendenti, sin dagli anni ’30 del XVI secolo.

Andrea Doria (Oneglia, 1466 – Genova, 1560)nel 1528 siglò un “contratto di asiento” (attualmente potrebbe essere considerato un gentlemen agreement) con Carlo V d'Asburgo, re di Spagna dal 1516 e sacro romano imperatore dal 1519, offrendo la sua flotta in cambio di importantissimi vantaggi personali e pubblici.

L’accordo rese Andrea il cittadino più influente di Genova, il cui assetto politico istituzionale fu notevolmente riformato:la città venne trasformata in una repubblica oligarchica nobiliare[1], le famiglie aristocratiche vennero divise in 28 alberghi (simili a clan familiari), la cui iscrizione costituiva la conditio sine qua non per partecipare attivamente alla vita politica. L’ingresso tra i ranghi dell’aristocrazia non era precluso ai possessori di un cospicuo patrimonio personale e di uno stile di vita aristocratico.

Sebbene le istituzioni repubblicane rimanessero inalterate il dogato diventò una carica elettiva a durata biennale, e Andrea giocò un ruolo politicamente ambiguo perché venne nominato supremo sindacatore, pater patriae e garantì fedeltà agli Asburgo, ma al tempo stesso anche la libertà politico-economica della città. Genova, infatti, è fondamentale per la coesione dei possedimenti asburgici: dai territori spagnoli a Genova – bypassando il regno di Francia – da Genova a territori imperiali.

Questa alleanza segnò l’inizio del cosiddetto siglo de Los Genoveses, dagli anni Trenta del XVI secolo a tutto il Seicento, in cui Genova divenne una delle piazze finanziarie più ricche d'Europa, a tal punto che in quel periodo si diceva: "L'oro nasce in America, muore in Spagna e viene sepolto a Genova".

A differenza di altri assetti istituzionali simili, come Venezia, a Genova non vi era la distinzione politico-sociale tra aristocratici vecchi e nuovi, così che tra l’aristocrazia vigesse una assoluta democrazia – cosa che potrebbe almeno concettualmente stridere con la repubblica oligarchica.

Villa del Principe: costruzione

Il Palazzo del Principe venne costruito su un terreno acquistato nel 1521 di proprietà dei Lomellini, situato immediatamente al di fuori della cinta muraria cittadina così da godere di una giurisdizione extraterritoriale. La residenza originale della famiglia genovese venne distrutta durante l’assedio francese durante le guerre d’Italia e Andrea Doria ne ordinò la ricostruzione e affidò la decorazione a Pietro Bonaccorsi detto Perin del Vaga – allievo di Raffaello – e ai suoi collaboratori. L’artista iniziò a lavorare per Andrea nel 1529 e terminò, per quanto concerne gli interni, nel 1533, così da fornire una degna cornice a Carlo V, che soggiornò nel palazzo nel marzo di quell'anno. L’apparato decorativo periniano segnò un momento di passaggio fondamentale per la storia dell’arte genovese, introducendo in città il linguaggio artistico del Rinascimento maturo, post-raffaellesco.

L’intero palazzo era fino al XIX secolo chiuso sui lati meridionale e settentrionale da due giardini: quello sud è conservato e  oggi sorge di fronte all'autorità portuale (presenta al centro una fontana con Nettuno dai lineamenti di Andrea Doria), e quello nord, oggi perduto, la cui storia è particolarmente interessante.

Il giardino posto alle spalle del palazzo occupava tutta la collina, su cui oggi è distribuito il quartiere di Granarolo, creando una quinta scenografica di estremo impatto e forte suggestione. Il collegamento tra l’edificio e il terreno resta intatto fino alla metà del XIX secolo periodo in cui il comune di Genova acquista in maniera forzata dalla famiglia Doria parte di quel terreno per l’edificazione della linea ferroviaria Genova-Ventimiglia; nel corso degli anni poi sarà acquistato anche il terreno collinare sui cui verrà edificato il quartiere sopracitato, modificando inevitabilmente lo skyline genovese e togliendo dalla memoria collettiva la famosissima Grotta Doria che insieme al giardino costituì un esempio per i giardini pensili dei palazzi del Sistema dei Rolli edificati nelle Strade Nuove – le attuali via Garibaldi e via Balbi.

Grotta Doria

Dimenticata dalla città a causa delle trasformazioni urbanistiche di metà Ottocento, nel corso del secolo successivo la Grotta venne danneggiata dai bombardamenti alleati durante la Seconda Guerra Mondiale (i cui segni sono ben visibili) e dopo fu adibita a cantina del palazzo edificato alla sua sinistra. Ciò creò danni alla decorazione, senza fortunatamente intaccarne la stabilità e, infine, dopo il suo ritrovamento da parte di Lauro Magnani, professore di storia dell’arte moderna dell’università di Genova, la famiglia Doria-Pamphilj l'ha riacquistata.

Vasari nelle Vite indica come architetto di questa struttura il perugino Galeazzo Alessi che scelse come tema centrale l'acqua, inserendo nelle due absidi d’ingresso (oggi perdute per i bombardamenti) e in quelle interne alla grotta fonti d’acqua corrente,che, per questo motivo,fecero diventare famosa la struttura con il nome la Fonte.

L’interno richiama l’elemento acquatico grazie al mosaico polimaterico composto da conchiglie di varia tipologia applicate in differenti posizioni per sfruttare al meglio riflessione e rifrazione luminosa.

Tali conchiglie si dispongono per formare un ricco ciclo iconografico sulla volta, tratto da episodi delle Metamorfosi ovidiane quali il ratto di Europa, Deianira con il centauro, e Perseo che libera Andromeda. Sulle pareti, invece tra le nicchie, si riconosce il fiume Nilo antropomorfo con i suoi figli (gli Egizi) entro un ambiente dove sullo sfondo compaiono architetture serliane .

Il Palazzo del Principe: descrizione

Il complesso palaziale venne costruito da Andrea Doria e fu ampliato da suo nipote Giovanni Andrea, diretto erede data l’assenza di figli maschi.

L’ingresso è posto in corrispondenza di un loggiato coperto da volte a tutto sesto sorrette da colonne corinzie a fusto liscio. Nella volta dell’atrio, entro il riquadro centrale, tra decorazioni con motivi a grottesca, sono dipinte in quattro rettangoli Scene di Trionfo. Tre di esse raffigurano altrettanti momenti del Trionfo di Lucio Emilio Paolo, il generale che scacciò i Galli dalla Liguria, un richiamo alla cinquecentesca cacciata dei Francesi da Genova, cui Andrea Doria aveva partecipato. Il quarto raffigura il Trionfo di Bacco in India, scena volta a sottolineare il ruolo di pacificatore dell’ammiraglio genovese.

Sala della Carità Romana

E' situata subito dopo l’atrio d’ingresso e prende il nome dall'affresco presente sulla volta del soffitto che raffigura un episodio tratto dalla Storia di Roma di Valerio Massimo: si tratta della storia esemplare di una donna, Pero, che allatta segretamente il padre Cimone dopo la sua incarcerazione e condanna a morte per stenti, lei viene scoperta da un secondino, ma il suo atto di pietas impressiona i funzionari responsabili a tal punto da concedere il rilascio del padre. La scena è circondata da decorazioni ad affresco in terzo stile pompeiano riprese dalle ville romane che iniziavano ad essere scoperte a Roma.

Al suo interno si trovano anche i disegni degli arazzi raffiguranti alcune fasi della Battaglia di Lepanto, uno stemma araldico della famiglia in legno affisso su una delle navi di Giovanni Andrea durante la Battaglia di Lepanto stessa, un olio su tavola in cui viene raffigurata l’intera famiglia Doria con Andrea che attua il passaggio di consegne al nipote Giovanni Andrea; al di sotto del quadro si trovano in una teca una serie di diplomi e onorificenze tra cui il Toson D’oro, la carica più prestigiosa conferita sia ad Andrea che al nipote da parte di Carlo V e Filippo II d’Asburgo.

Dalla sala della Carità romana, per accedere al piano superiore, si percorre una scalinata la cui volta presenta una decorazione a riquadri geometrici e grottesche a richiamo dei soffitti della Domus Aurea neroniana, lodate dal Vasari nelle sue Vite; tuttavia queste ultime sono riemerse solo dopo un complesso restauro del 1999, che ha consentito il recupero parziale di quella decorazione ricoperta da uno strato pittorico con semplici incorniciature geometriche nel 1805, in occasione del soggiorno di Napoleone a Palazzo.

Tale scalone porta al piano superiore, ed in particolare al centro della loggia, nota come Loggia degli Eroi, oggi finestrata per motivi conservativi, con funzione di raccordo tra gli appartamenti di Andrea e quelli della moglie Peretta Uso di Mare-Doria. La decorazione principale presenta la raffigurazione di dodici antenati illustri salvatori della patria con ai loro piedi scudi raffiguranti lo stemma araldico della famiglia – un’aquila nera di profilo su sfondo oro e argento. Interessante è notare come Perin del Vaga, dietro volontà del Doria, rappresenti un omino in armi secondo il costume cinquecentesco, mentre i restanti secondo quello romano, al fine di mostrare la Repubblica di Genova come novella Roma di Età classica.

Questi uomini sono specificamente identificati come eroi del casato dall'iscrizione che li sovrasta: PRAECLARAE FAMILIAE MAGNI VIRI MAXIMI DUCES OPTIMA FECERE PRO PATRIA (“I grandi uomini dell’illustre famiglia, capi supremi, fecero cose ottime per la patria”) e, attraverso una fine e ritmica sequenza di gesti, sono legati uno all'altro. Inoltre, i modi e le pose ricordano le statue che Michelangelo realizzò per Lorenzo duca di Urbino e Giuliano duca di Nemours nella Sagrestia Nuova in San Lorenzo a Firenze.

Nelle volte delle cinque arcatelle,che sormontano tale loggiato, si trovano gli stucchi con grottesche a rilievo con divinità olimpiche e figure tratte dalla storia mitica di Roma: a livello iconologico si stabilisce una connessione tra i Doria salvatori della patria e gli eroi romani che hanno a loro volta salvato la città, una di queste raffigura Marco Curzio, generale romano di origine patrizia, che secondo la leggenda narrata da Livio, si sarebbe gettato nel 382 a.C. dentro la voragine che si era aperta nel foro romano, le altre Orazio Coclite, Tito Manlio Torquato, Furio Camillo e Muzio Scevola.

Gli stucchi che decorano le volte presentano un’esuberanza modellata sugli antichi esempi della Domus Aurea di Nerone.

Sala della caduta dei giganti

Immediato è il confronto con Giulio Romano, non solo perché negli stessi anni dedica a questo tema una sala di Palazzo Te a Mantova ma anche perché insieme con Perin del Vaga erano i migliori allievi diretti di Raffaello. A livello iconologico si attua una lettura che identifica in Giove Carlo V e nei giganti i suoi nemici come i Francesi (tra Spagna e Impero) e i Turchi (lungo il confine orientale dei territori imperiali).

Il tema viene relegato alla parte centrale della volta del soffitto senza creare quel vortice complesso che coinvolge lo spettatore come avviene nel palazzo mantovano. Perin del Vaga riprese per la realizzazione della scena la bipartizione eseguita da Raffaello nella Disputa del Sacramento (Stanza della Segnatura), ponendo al di sopra di una nuvola orizzontale in maniera fisica gli dei con Giove che brandisce la folgore al centro, mentre per quanto riguarda le posizioni, le torsioni e la fisicità si riscontrano quelle linee tipiche di Michelangelo. In particolare, un gigante ormai sconfitto ricorda nella posa il Noè ebbro della volta della Cappella Sistina.

L’intero ciclo decorativo di Perin del Vaga è integrato da un ricco apparato di stucchi riconducibili alla sua bottega per l’esecuzione e al maestro stesso per l’ideazione. L’esuberanza di queste decorazioni, in calce e polvere di marmo, si ispira agli esempi romani delle Logge Vaticane e di Villa Madama, e mostrano l’abilità acquisita a Roma dall'artista attraverso lo studio dell’arte antica.

Nella sala sono presenti anche due arazzi con episodi del Romanzo di Alessandro con l’idea che si aveva del macedone durante l’Età medievale. Questi arazzi sono tra gli esemplari più antichi e meglio conservati del secondo XV secolo, vennero prodotti nelle Fiandre, a Tournai, intorno al 1440 su commissione di Carlo il Temerario o in suo onore, entrarono poi nel patrimonio di Carlo V che, secondo le parole degli stessi Doria-Pamphilij, li portò a Genova come regalo giunse in città nel 1533, ma probabilmente furono acquistati a fine XIX secolo durante il revival dei primitivi. Questi arazzi vennero studiati da Aby Warburg nel 1913 quando erano ancora conservati presso la Galleria Doria-Pamphilj di Roma, sono poi stati portati nel Palazzo nel 2000 per volontà degli attuali discendenti.

Entrambi raffigurano differenti eventi della vita di Alessandro, tra questi si riconosce l'episodio in cui il condottiero macedone entro una gabbia ascende al cielo con l’ausilio di quattro grifi, quello in cui discende fino agli abissi entro una botte di vetro e quello in cui sconfigge i mostri con il volto sul petto.

Sala di Perseo

Chiamata così per il ciclo figurativo dedicato all'eroe greco, la sala si caratterizza da lunette che tuttavia oggi non godono di uno stato di conservazione ottimale a causa dei  bombardamenti durante il secondo conflitto mondiale. Nel 2008, però, grazie ad un importante intervento di restauro si è riusciti a conferire ad esso una maggiore leggibilità, consentendo di capire la volontà dell'artista di esaltare il ruolo svolto da Andrea Doria per la stabilità e libertà politica di Genova, attraverso l'esempio di Perseo che liberò Andromeda.

In corrispondenza di un lato corto si trova un ritratto eroico di Andrea Doria, in veste di Nettuno, con posa che ricorda il David di Michelangelo, attribuito ad Agnolo Bronzino con remo in mano: alla Pinacoteca di Brera ne è conservata una versione realizzata da Bronzino stesso in cui compare un tridente per lectio facilior anche se dalle radiografie si è riscontrata la presenza di un remo.

Salone del naufragio

Situato nelle stanze di pertinenza di Peretta Uso di Mare Doria è il luogo da cui Perin del Vaga iniziò a dipingere il ciclo ad affresco. Il tema del soffitto era in origine dedicato al Quos Ego, parole tratte dall'Eneide di Virgilio, che rimanda all'episodio in cui si narrano le vicende degli esuli fuggiti da Troia sconfitta, ostacolati nel loro viaggio da Giunone. In favore della sorte dei Greci, la dea aveva chiesto a Eolo, dio dei venti, di scatenare una tempesta contro le navi dei Troiani, ma Nettuno, supportando proprio questi ultimi, intervenne per placare la tempesta. Poiché nel corso dei secoli venne molto danneggiato, a metà ‘800 venne sostituito da uno sfondato architettonico.

Sulle pareti invece si trovano gli arazzi che narrano le vicende della battaglia di Lepanto: partenza delle navi da Genova, incontro con le navi alleate, disposizione degli schieramenti, battaglia ed infine ritirata dei Turchi. Ogni episodio della battaglia è racchiuso ai lati da quinte architettoniche con affianco allegorie di alcune Virtù.

Ultimo ambiente, che si incontra durante il percorso di visita al Palazzo del Principe, è la Galleria Aurea edificata per volontà di Giovanni Andrea I Doria. La forma è fortemente allungata e risulta aperta su due lati attraverso una successione di finestre che permettevano di godere la vista di entrambi i giardini della villa. Questo luogo, a fine Cinquecento, sostituì il Salone dei Giganti come  ambiente di rappresentanza nella vita cerimoniale della dimora. Dal contratto di costruzione si deduce che i maestri Battista Cantone e Luca Carlone costruirono attaccato al palazo di Fassolo dalla parte di ponente una Galarea… con una Cappella e che i lavori dovevano essere terminati entro il luglio 1595.

Negli anni immediatamente successivi, Marcello Sparzo, un noto maestro stuccatore di Urbino, eseguì la decorazione della volta connotata da quadri riportati centrali, lunette e larghi peducci. Su di essi si impostano figure in piedi vestite come guerrieri antichi, raffiguranti membri illustri della casata, in parallelo con i personaggi della Loggia degli Eroi; tra di essi è compreso Andrea Doria, che calca col piede la testa di un turco sconfitto. Nella galleria – detta “Aurea” per l’estesa presenza, in origine, della doratura – sono conservati tavoli da parete secenteschi, opera del celebre scultore genovese Filippo Parodi.

E’ giusto ricordare la Stanza dello zodiaco, realizzata da Perin del Vaga, il cui stato di conservazione è stato compromesso da una bomba caduta proprio nei pressi del palazzo, oggi sono leggibili nelle lunette solo il segno dei pesci, dell’acquario e del capricorno.

Altra stanza interessante è quella privata di Peretta Uso di Mare Doria, moglie di Andrea, le cui lunette raffigurano il mito di Aracne; in questa stanza è conservato un secondo ritratto di Andrea Doria, realizzato da Sebastiano del Piombo, da cui si pensa Caravaggio possa aver tratto semplice ispirazione per il volto di Ponzio Pilato nel suo Ecce Homo conservato presso il Museo di Palazzo Bianco, facente parte del circuito dei Musei di Strada Nuova.

Come ha fatto Caravaggio a vedere questo ritratto? Semplice, è venuto a Genova ed è stato ospitato presso il Palazzo del Principe. Il soggiorno di Michelangelo Merisi nel capoluogo ligure è datato tra il luglio e l’agosto del 1606, periodo in cui era esule da Roma in quanto aveva ferito il notaio Pasqualoni.

Perché proprio Genova e non una città più vicina al capoluogo laziale? Perché una delle sue protettrici era Costanza Colonna di Palliano, moglie di Andrea II Doria, figlio di Giovanni Andrea. Mentre è nel capoluogo ligure rifiuta di affrescare la futura Galleria Aurea di Villa del Principe, per la quale gli erano stati offerti 6000 ducati, in quanto desiderava tornare al più presto a Roma. Tale notizia è giunta a noi grazie ad un ambasciatore estense di stanza nella città ligure che riferì a Ferrara tramite una lettera … Caravaggio è uno cervello stravagantissimo … relativa al rifiuto di affrescare la volta.

Bibliografia utile

https://www.doriapamphilj.it/genova/

Lezioni corso Storia dell’Arte della Liguria in Età Moderna a.a. 2018/2019 tenuto dalla professoressa Laura Stagno

Piero Boccardo Andrea Doria e le arti – committenza e mecenatismo a Genova nel Rinascimento

Laura Stagno Due principi per un palazzo. I cicli decorativi commissionati da Andrea e Giovanni Andrea I Doria a Perino del Vaga, Lazzaro Calvi e Marcello Sparzo per il Palazzo del Principe.

 

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CHIESA DI SAN FRANCESCO D'ASSISI A GERACE

Nel bellissimo borgo di Gerace, in provincia di Reggio Calabria, uno dei più suggestivi della Calabria, è presente una delle più importanti architetture appartenente all’ordine mendicante dell’Italia meridionale.

L’edificio di san Francesco d’Assisi a Gerace, realizzato tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento sui resti di un precedente edificio romanico, faceva parte di un complesso conventuale di cui restano solo il pozzo e una parte del chiostro oggetto di un restauro recente.

L’apparato architettonico vanta un portale lapideo ad arco acuto con triplice archivolto risalente al trecento riccamente adornato da decorazioni geometriche e fitomorfe di chiara provenienza arabo-sicula, arricchito da una modanatura e da capitelli tra cui è inserita una svastica, la rappresentazione stilista del sole.

Il portale è a ghiera multipla archiacuta posto su due piedritti polistili con colonnine addossate di cui quelle esterne reggono capitelli a crochets, quelle interne invece si legano direttamente alla cornice intermedia di imposta dell’arco, decorata a palmette in successione paratattica disposte su due registri.

L’interno è composto da una navata principale costituita da un ampio ambiente rettangolare coperto da un tetto a capriate, illuminato da una serie di monofore che si susseguono lateralmente, composte da lancette centrali e da due oculi che la affiancano.

Nel presbiterio quadrangolare, coperto da una volta stellata a otto vele, è collocato il sarcofago lapideo di Nicola Ruffo di Calabria, datato 1372-1374. È un’opera attribuita ad un discepolo dello scultore senese Tino da Camaino, il personaggio principale è vegliato da Santa Maria de Jesu affiancata ai lati da due angeli e i Santi Pietro, Elena, Caterina e Paolo.

L’arco trionfale, che mette in comunicazione l’aula con il presbiterio e l’altare maggiore del XVII secolo, sono eccezionali esempi di barocco calabrese, composti da tessere marmoree policrome, con formelle che riproducono elementi fitomorfi, zoomorfi ed elementi paesaggistici, oltre che elementi floreali stilizzati.

Il complesso di San Francesco d’Assisi a Gerace mantiene la sua sacralità fino al 1806, furono i francesi che costrinsero i frati ad abbandonare l’edificio portando con loro il vasto patrimonio artistico che era qui conservato. Dal 1997 la chiesa, sconsacrata, è stata adibita a sala polifunzionale per eventi di interesse culturale.

 

Sitografia

www.comune.gerace,rc.it

www.beniculturali.it

www.paesionline.it

www.viaggiart.com

www.locride.it

A.M. Spanò, Insediamenti francescani nella Calabria angioina. Il paradigma Gerace, Soveria Mannelli 2006, pp. 39-50.


LA DIMORA DEI CHIGI:VILLA FARNESINA A ROMA

A cura di Federica Comito

Villa Farnesina. La committenza.

Agostino Chigi, ricco e colto banchiere senese, intorno al 1505 commissiona all'architetto Baldassarre Peruzzi un palazzo suburbano, che potesse riflettere la ricchezza e lo sfarzo del committente. Villa Farnesina diventa così l’immagine, in termini culturali, di un uomo a cui le grandi capacità e un destino favorevole avevano riservato un ruolo di primo piano e il palazzo, con la sua immensa decorazione, contribuisce a mantenere in continuo rapporto la forma dell’architettura e la natura.

A un interno tanto innovativo quanto magistrale, corrisponde un esterno armonioso a ferro di cavallo che concretizza l’idea di continuum tra le stanze della villa e il cortile. Oltrepassato il muro di cinta ci si trovava nel giardino caratterizzato da architetture di verzura, alberi tagliati secondo le regole dell’ars topiaria e sculture disseminate ad arte.

Si tratta di uno dei maggiori esempi architettonici del Rinascimento Italiano a Roma: la sua fama deriva non solo dai materiali impiegati, ma anche dalle tonalità bronzee della decorazione a graffito che, in origine, era distesa su tutta la superficie del muro. Seguendo la testimonianza di Vasari, tale decorazione fu realizzata da Peruzzi, così come gli zoccoli delle finestre del piano superiore fiancheggiate da fauni e sovrastate da scene mitologiche.

L’alzato si articola su due piani con mezzanino e piano delle soffitte, unificato da due ordini di lesene tuscaniche, dal basamento e dai due fregi.

La villa fu affrescata da personaggi del calibro di Raffaello, Sebastiano del Piombo, il Sodoma e dallo stesso Peruzzi.

 

Villa Farnesina: il piano terra.

 

La Loggia di Galatea

Baldassarre Peruzzi nel 1511 affrescò l'oroscopo di Agostino Chigi sulla volta ripartita da finte cornici geometriche a imitazione dei soffitti in stucco, realizzate in prospettiva così da creare un effetto illusionistico.Tale opera deve aver preceduto le altre opere del Peruzzi (Saletta del Fregio e Salone delle Prospettive). Nell'inverno 1511-1512 Sebastiano del Piombo dipinse le scene mitologiche delle lunette e il Polifemo che si trova accanto alla Galatea di Raffaello (1512 ca). Gli altri riquadri della sala raffigurano invece paesaggi seicenteschi di scuola romana. Le pareti della loggia vennero ripartite da lesene con candelabri in monocromo e da un alto zoccolo dipinto in stoffa rossa drappeggiata.

 

La Loggia di Amore e Psiche

La Loggia prende il nome dalla decorazione ad affresco dipinta nel 1518 da Raffaello e bottega, i quali raffigurarono episodi della favola di Psiche ispirati all' “Asino d'oro” di Apuleio. Festoni vegetali a opera di Giovanni da Udine incorniciano le varie scene. Sulla volta gli episodi del Concilio degli Dei e del Banchetto nuziale, separate dallo stemma dei Chigi. Dieci pennacchi con scene della favola e quattordici vele con amorini raccordano la volta alle pareti scandite da lesene con 5 archi sui lati lunghi e 3 sui lati brevi.

La Stanza del Fregio

La sala è così denominata dal fregio che percorre in alto le pareti, realizzato da Peruzzi intorno al 1508 ispirandosi alle favole di Ovidio e con uno sguardo al Pollaiolo e a Mantegna nei nudi.

Primo piano

La Sala delle Prospettive

La vasta aula prende il nome dalla decorazione di Baldassarre Peruzzi che nel 1519 affrescò sulle pareti vedute prospettiche urbane e campestri trafinte colonne. Sotto il soffitto a cassettoni corre un fregio con scene mitologiche, realizzate dal Peruzzi e bottega, e sulla parete nord campeggia un grande camino con la fucina di Vulcano.

 

La Stanza delle nozze di Alessandro Magno e Roxane

Così denominata dall'affresco principale che occupa tutta la parete nord,era in origine la camera da letto di Agostino Chigi, il quale ne affidò nel 1519 la decorazione al Sodoma. Il soffitto cinquecentesco a cassettoni reca decorazioni a grottesche e soggetti mitologici.

 

In origine oltre alla villa e alle scuderie, era presente un terzo edificio: una loggia sul Tevere destinata ai banchetti collegata al giardino da una gradinata. La piccola fabbrica doveva estendersi parallelamente al fiume; probabilmente la sua forma venne riprodotta nella ricostruzione settecentesca dopo che l’originale venne distrutta nel 1531 da un’inondazione. Fu definitivamente abbattuta tra il 1884 e il 1886 per i lavori di arginatura del fiume. Nel suo suburbanum Agostino Chigi ospitò i papi Giulio II e Leone X, nonché i letterati più illustri di Roma. Una curiosità è legata ad un banchetto in particolare che il Chigi organizzò in onore di Papa Leone X: gli invitati trovarono le loro insegne incise su piatti d’oro e d’argento che venivano, a fine pasto, gettati nel Tevere. Il gesto voleva dimostrare la ricchezza del banchiere ma,in realtà, delle reti provvedevano a recuperare gli oggetti.

Dopo la morte di Agostino nel 1520, la struttura dal 1526 rimane abbandonata e, dopo aver subito le ingiurie dei Lanzichenecchi durante il sacco di Roma e le devastanti piene del Tevere, viene acquistata dai Farnese nel 1577 che sostituiscono tutti gli stemmi famigliari dei Chigi con i gigli Farnesiani. Nel 1731 la Farnesina passa ai Borbone di Napoli. Nella seconda metà dell’800 la villa fu interessata da un programma di intensi restauri che servivano a rallentare il cedimento dell’abitazione e che videro l’apertura dell’attuale ingresso. Nel 1932 la villa viene affittata al principe Chigi che fa realizzare l’impianto elettrico. L’edificio storico è oggi sede nazionale dell’Accademia del Lincei, una delle istituzioni scientifiche più antiche d’Europa che annovera tra i primi membri Galileo Galilei.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Isa Belli Barsali, Ville di Roma,1970, SISAR, Milano.

C.L.Frommel, Architettura del Rinascimento Italiano, 2009, Skira.

  1. Bruschi, Storia dell’architettura italiana - il primo Cinquecento, “Roma, le diverse maniere” F.P. Fiore, 2002, Electa, Milano.

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LA CAPPELLA PALATINA DI PALERMO

 

“La più bella che esiste al mondo, il più stupendo gioiello religioso vagheggiato dal pensiero umano ed eseguito da mani d’artista”

-Guy de Maupassant –

Inseriti dal 2015 nella World Heritage List, la Cappella Palatina e il suo Palazzo sono Patrimonio dell’umanità. Questi edifici costituiscono il cosiddetto itinerario arabo-normanno, insieme alle cattedrali di Cefalù e di Monreale, e rappresentano un eccezionale valore universale, frutto di una felice convivenza e interazione tra diversi contesti culturali, storici, geografici e religiosi, dando vita ad unicum architettonico. Nella Cappella Palatina confluisce l’esperienza architettonica fatimita delle maestranze operanti a Palermo alla corte di Ruggero II, la sontuosità decorativa dei mosaici bizantini, la fede nel Cristianesimo dei sovrani normanni, la suggestione della cultura islamica ancora operante a Palermo. Il re Ruggero II dopo la sua incoronazione del 1130 ordinò la costruzione della Cappella del suo palazzo, ubicata al primo piano, che assunse dignità parrocchiale solo due anni dopo, come si legge in una iscrizione sotto la cupola e venne consacrata nel 1140. La Cappella nacque per sintetizzare le necessità liturgiche del rito latino e di quello greco, ne è d’altronde prova la pianta basilicale (latina) a tre navate ed il presbiterio (bizantino), sormontato da una cupola. All’interno del Palazzo Reale (o chiamato anche Palazzo dei Normanni), la Cappella Palatina ha una funzione baricentrica, oggi difficilmente leggibile dopo sono state unificate le facciate collegando il complesso gli edifici turriformi della reggia normanna. In origine, la cupoletta emisferica della Cappella doveva spiccare nel blocco stereometrico dell’edificio dove le superfici murarie erano decorate da archeggiature cieche. Oggi l’ingresso della Cappella è preceduto da una loggia con arcate a sesto acuto, decorata da mosaici ottocenteschi raffiguranti “La ribellione di Assalonne al padre David”, opera dell’aretino Santi Cardini, che sostituirono gli originali del XVI secolo. Il ciclo fu realizzato su committenza di Ferdinando III di Borbone (presente insieme alla moglie Maria Carolina nel medaglione del mosaico col Genio di Palermo incoronato)

Fig. 1) Ingresso alla Cappella Palatina con apparato musivo ottocentesco raffigurante “La ribellione di Assalonne al padre David”

Il pronao originale si può individuare nella sala rettangolare con volte a crociera antistante la Cappella, restaurata dal Valenti nei primi del ‘900. La Cappella ha le proporzioni di una cattedrale in miniatura (32 m di lunghezza x 12,40 di altezza, 18 con la cupola) ed è divisa in tre navate da colonne di riporto, separata da un grande arco trionfale, da alcuni gradini e da transenne marmoree, dalle navate. Il presbiterio, composto da una struttura cubica cupolata, ha un valore simbolico legato alle figure geometriche fondamentali del quadrato e del cerchio, presenti tanto nella religione islamica che in quella bizantina. La sacralità di tale spazio è accentuata anche da particolari attributi decorativi come le colonnine in porfido negli spigoli delle tre absidi. Tutta la superficie muraria dell’interno della Cappella è arricchita da un manto musivo che si snoda sopra i candidi lambris di marmo: un nastro ornato con palme stilizzate fa da cesura e da collegamento al percorso verso l’alto. La particolare concezione teocratica del potere dei monarchi normanni, che chiamarono maestranze bizantine direttamente dall’Oriente, viene espressa all’ingresso della Cappella, nel lato opposto al santuario: il trono normanno viene rappresentato significativamente sotto il mosaico della Consegna della Legge.

Fig. 2) Particolare della decorazione con Cristo sul trono affiancato dai principi degli Apostoli (Pietro e Paolo)

Anche questo spazio riservato al trono, come il presbiterio, è sopraelevato da alcuni gradini. I mosaici più antichi sono quelli della navata centrale e della cupola e risalgono al 1143.L’immagine di maggiore impatto è il Pantocratore benedicente, presente nella cupola, esattamente realizzato secondo i più classici canoni bizantini. Cristo è rappresentato a metà figura con un lieve scarto della testa e delle spalle verso sinistra; indossa una tunica rosso scuro ed un himation blu solcato da una fitta rete di crisografie. La mano destra poggiata sul petto è in posizione benedicente mentre la sinistra mostra un libro con un passo del Vangelo di Giovanni.

Fig.3) Particolare della cupoletta del catino absidale con il Cristo Pantocratore

Interessante è la ripetizione di tale elemento nel catino dell’abside centrale, dove ha un effetto comunicativo e misericordioso nei confronti di chi accede all’interno della Cappella.

Fig. 4) Catino absidale con immagine di Cristo Pantocratore

Tra i mosaici più antichi, nel Diaconicon, spicca il battesimo di Cristo, opera realizzata con una sorprendente stilizzazione delle onde. Immagini di Santi e Padri della Chiesa sono presenti nei pilastri e negli intradossi degli archi. Dalle analisi stilistiche, contemporanei alle navate laterali, decorate sotto Guglielmo I, sono narrati episodi della vita di San Pietro e di San Paolo ed in quella centrale gli eventi dell’Antico Testamento. Eccezionale è poi il soffitto ligneo, il più grande repertorio pittorico islamico che ci è pervenuto, infatti, nelle alveolature delle muqarnas.

Fig.5) Soffitto ligneo con muqarnas

si snodano raffigurazioni profane attinenti alla vita di corte: bevitori, danzatrici, musici, giocatori di scacchi, cammelli convivono con i contenuti della storia sacra dei mosaici sottostanti. Posteriore e molto restaurato è il soffitto a spiovente delle navatelle. Un ’iscrizione in latino, greco e arabo del 1142, a ricordo dell’orologio idraulico fatto costruire da Ruggero II, testimonia l’intrecciarsi di molteplici culture nella Palermo normanna (si trova nel secondo loggiato del Cortile Maqueda del Palazzo Reale di Palermo, poco prima del vestibolo della Cappella Palatina, in direzione della scala che conduce al Cortile della Fontana ed è così tradotta nella sua versione bizantina “O meraviglia nuova! Il forte Signore Ruggiero avendo avuto lo scettro da Dio, frena il corso della fluida sostanza, la cognizione distribuendo scevra di errori delle ore del tempo. Nel mese di marzo indizione quinta e di nostra salute l’anno 1142, e del suo felice regno l’anno XIII”).Sulla sinistra del presbiterio si trovava un balcone (al posto dell’odierna finestra), collegato tramite un percorso agli appartamenti reali, dal quale il re poteva assistere alla funzione religiosa. Vicino vi è il mosaico con la Madonna Odigitria. Lo splendido pavimento (1143-49) con motivi geometrici si ispira all’arte tessile.

Fig.6) Particolare della pavimentazione in mosaico

Tra gli arredi della Cappella Palatina sono da notare: l’ambone del XII sec., di forma quadrangolare in marmo e porfido arricchito da nastri musivi e sorretto da colonne decorate da un motivo a zigzag, realizzato forse nel nord Italia; i leggii sono sorretti dai simboli degli Evangelisti; il candelabro per il cero pasquale,  alto circa 4 m, dove tra motivi vegetali e animali si evidenzia la figura di Cristo che benedice un uomo in vesti vescovili, forse lo stesso Ruggero. Di frequenza i re normanni si facevano rappresentare nelle sezioni tradizionalmente riservate ai santi, con i simboli dei basilei (imperatori bizantini) al fine di affermare il proprio potere. Alla base è la raffigurazione di quattro leoni che azzannano uomini; l’acquasantiera con un motivo a zigzag e leoni alla base. Anche per i capitelli, l’arte arabo-normanna si rifà a quella bizantina, introducendo un pulvino tra il capitello e l’imposta dell’arco (visibile nel Duomo di Monreale). In vicinanza dell’ambone vi è l’accesso alla cosiddetta cripta, forse la prima cappella del Palazzo Reale, composta da due vani, uno quadrato absidato con due colonne, e un’altra sala, collegata alla prima da ambulacri, che fu anche camera sepolcrale di Guglielmo I prima del trasferimento nella Cattedrale di Monreale. Questo locale ipogeico è collegato al Palazzo Reale e al suo interno si conserva un Crocifisso ligneo del XVI secolo. Al Tesoro della Cappella Palatina si accede dal pronao d’ingresso: vi si trova il Tabulario con più di trecento pergamene, alcune trilingue (arabo, greco, latino); quindici cofanetti realizzati tra X e XV secolo, di cui alcuni fatimiti in avorio con magnifiche decorazioni e iscrizioni islamiche; un sigillo mesopotamico forse portato in Sicilia dai Crociati; il Pastorale di S. Cataldo di raffinata fattura bizantina; un’urna d’argento del 1644 ideata da Pietro Novelli; reliquiari, paramenti e oggetti sacri.La Cappella Palatina fu danneggiata dal terremoto del settembre 2002 fu sottoposta a restauri, il progetto fu redatto dall’architetto Guido Meli dirigente del centro regionale per il restauro della Regione Siciliana venne finanziato dal mecenate tedesco ReinoldWurth per oltre tre milioni di euro è stato completato entro il 2008. I lavori vennero eseguiti sotto la direzione dell’architetto Mario Li Castri da un gruppo di restauratori romani tra cui Carla Tomasi, Marina Furci, Michela Gottardo e Paolo Pastorello.