PALAZZO BALBI SENAREGA DI GENOVA

Palazzo Balbi Senarega: una vera e propria strada di famiglia

La famiglia Balbi,proveniente dalla Val Polcevera, entroterra genovese, si trasferì in città nel corso del Quattrocento, dove impegnò le proprie risorse nel campo della concia e della seta:quest’ultima attività pose le basi della rapida ascesa sociale che, nei due secoli successivi, li vedrà diventare uno dei gruppi familiari più rappresentativi, autorevoli e prestigiosi della nobiltà genovese.

Ciò che permetterà a questa famiglia di compiere il vero e proprio salto di qualità entro la società genovese sarà la costruzione di un asse viario che, parallelo alla medievale via Prè, collegasse Genova – in particolare l’area del Vastato – con il Ponente ligure: l’attuale Via Balbi. Il progetto, per onor di cronaca, era già stato messo in opera dalla Repubblica nel 1601, ma aveva incontrato l’ostacolo dei proprietari terrieri della zona. Tale situazione di stallo perdurerà fino al 1605 anno in cui la famiglia Balbi acquisterà i terreni dai contadini e non solo porterà a termine la costruzione della nuova strada, ma la sceglierà come propria zona residenziale.

I lavori iniziarono proprio nel 1605 e proseguirono a più riprese fino alla completa lastricatura del manto stradale terminata nel 1656. L’architetto protagonista dell’impresa edilizia e non solo è il lombardo Bartolomeo Bianco, già al servizio della Repubblica per altre importanti opere pubbliche e residenze private.

In parallelo con la realizzazione di questo asse viario, furono aperti i cantieri dei vari palazzi che, ancora oggi, costituiscono il principale elemento architettonico della strada.

Palazzo Balbi Senarega: evoluzione architettonica e sviluppo decorativo

Le prime notizie circa la costruzione di questo risalgono al biennio 1618-1619, periodo in cui il già citato architetto Bartolomeo Bianco avrebbe progettato la dimora dei due fratelli, Giacomo e Pantaleo Balbi.

L’architetto, non potendo realizzare le due canoniche dimore adiacenti, consuetudine per le residenze di due fratelli,  adottò una soluzione innovativa e inusuale nel panorama urbano genovese: decise di edificare due differenti piani nobili sovrapposti,imprimendo nella struttura una forte tensione verticale. Ponendo l’uno sull’altro i due piani nobili, Bianco riuscì a sopperire alla mancanza di terreno edificabile, dovuta alla presenza di lotti adiacenti già occupati in strada Balbi, senza perdere in rappresentanza e prestigio.

Nel 1644 Francesco Maria Balbi, figlio di Giacomo e nipote di Pantaleo, unico erede, divenne proprietario esclusivo del palazzo e diede il via per un importante rinnovamento architettonico e decorativo, senza però snaturare il progetto originario: chiuse con un sistema di finestre il secondo piano nobile, dove concentrò le sue committenze decorative, e ampliò a sud il palazzo tramite un ninfeo e aranceto.

Il ninfeo

Palazzo Balbi Senarega, ereditato da Francesco Maria, si presentava decorativamente piuttosto spoglio e privo di un giardino tipico di molti palazzi nobiliari genovesi. Appare evidente che un vero e proprio giardino non si sarebbe potuto mai edificare a meno di non voler demolire alcuni edifici limitrofi al palazzo in questione. Si optò per una soluzione che ancora oggi possiamo interamente apprezzare nella visita di questo edificio: appena al di là del cortile interno, venne progettato un Hortus Conclusus, chiuso da un ninfeo dove si trovano figure mitologiche realizzate tra il 1659 e il 1661 dallo stuccatore Giovanni Battista Barberini.

Le dimensioni monumentali delle due statue più esterne contribuiscono ad attirare lo spettatore che, portato ad avvicinarsi al Ninfeo, viene accolto nella più intima area della struttura, caratterizzata dallo scrosciare dell’acqua e dalla presenza di statue di cui è ancora controversa l’interpretazione iconografica.

La nicchia centrale ospita un inequivocabile Nettuno che regge le briglie due cavalli marini sulla sommità di una scalinata dove scorreva copiosa l’acqua, un giovane uomo in abiti regali (nicchia orientale) e una giovane donna (nicchia occidentale). Indicati in primo tempo come Orfeo ed Euridice, attualmente sembra più corretto vederli come Plutone e Proserpina, nel momento in cui la dea abbandona gli inferi per tornare a donare alla terra fioritura e ricchezza di messi: questa deduzione verrebbe anche avvalorata dalla presenza sullo stesso lato di un monumentale barcaiolo Caronte. Sul lato orientale, quello dove è situato Plutone, campeggia Giove che dapprima approvato il “ratto” da parte del signore degli inferi, per poi stabilire che Proserpina avrebbe potuto tornare per metà dell’anno a vivere sulla terra:permettendo il naturale ciclo delle stagioni.

La Grande Sala e i Salotti del secondo piano nobile

Il merito della famiglia Balbi è quello di aver innovato lo stile della grande decorazione genovese di metà Seicento, grazie alla scelta di pittori Valerio Castello e Domenico Piola, impegnati accanto a quadraturisti d’area bolognese, maestri nel realizzare grandi scenari illusionistici. Entro architetture dipinte, si dispongono figure mitologiche e allegoriche che caratterizzano il gusto barocco locale.

Dalla seconda metà del 1654, Valerio Castello viene contattato da Francesco Maria per allestire emozionanti scenografie barocche. Il pittore è infatti impegnato nella decorazione di numerosi ambienti al secondo piano nobile, accanto ad Andrea Sighizzi, prospettico e quadraturista bolognese.

Nel 1656 divampa a Genova una terribile pestilenza, che impone l’interruzione di qualsiasi attività, lasciando un senso di sgomento e profondo turbamento in tutti i sopravvissuti. Tra la fine dell’epidemia e il 1659,si data il completamento dei decori del palazzo, portati avanti da Domenico Piola.

Secondo il Soprani, le fasi decorative che interessano il palazzo sono ipotizzabili in questa sequenza: la galleria del Ratto di Proserpina, la sala con Leda, la sala con la Pace con Allegrezza e Abbondanza e, infine, la sala centrale con il Carro del Tempo, anche se non sono tutte contigue.

Galleria del Ratto di Proserpina – Valerio Castello.

Questo vano, limitato nelle dimensioni, viene illusionisticamente ampliato dalla decorazione della volta e dagli sfondati sulle pareti di testa che fingono, su ciascun lato, altre prospettive architettoniche. Il mito entra con impeto nella decorazione della galleria con due scene affrescate proprio in corrispondenza di queste due pareti terminali: la Caduta di Fetonte e il Ratto di Proserpina. I due episodi sono in relazione con i personaggi e le vicende narrate nella volta, piena di figure che compongono il Mito di Cerere e Proserpina, Giove e gli dei dell’Olimpo.

L’architettura virtuale è in parte nascosta dalle figure e dalle nuvole, ma è fondamentale per raggruppare i vari personaggi. Le divinità sembrano intrecciare immaginari colloqui sugli eventi in corso. La dinamicità della decorazione della volta è ottenuta grazie a linee oblique presente sia nelle divinità sia nelle strutture architettoniche.

L’affresco del Ratto di Proserpina è collegato al tema della natura e della mutazione attraverso il susseguirsi delle stagioni e in accordo con il programma iconografico della decorazione delle sale del palazzo e con il giardino sottostante.

La narrazione inizia da levante con Apollo tra le Muse, si prosegue con Cerere che addita la vicenda di Proserpina mentre Plutone scatena i venti sotto la inarrestabile spinta della freccia che Cupido sta dirigendo verso di lui. Diana, Minerva e Venere partecipano al fatto, seguono giovinette che recano ghirlande di fiori.

La narrazione prosegue con  un gruppo di divinità maschili tra cui risaltano Giove, Nettuno e Saturno, i cui gesti rimandano tutti all’episodio della caduta di Fetonte dal carro del Sole, trainato al posto del padre Apollo.

La presenza di Apollo che presiede alla vicenda di Fetonte, sul lato di levante, introduce invece alla contigua, decorata con il successivo intervento di Domenico Piola.

Apollo e le Muse – Domenico Piola

La galleria è luogo di snodo nella disposizione degli ambienti di Palazzo Balbi Senarega e nel ciclo decorativo concepito come un unicum sin dal principio: la decorazione dell’intero secondo piano nobile presenta una perfetta unità tra l’intervento di Castello e quelli di Domenico Piola e Gregorio De Ferrari.

La sala con Apollo e le Muse vuole paragonare il committente con Apollo evidenziandone il ruolo di protettore delle arti. Il passaggio tra Domenico Piola e Valerio prenderebbe avvio proprio da questa stanza, in continuità con l’opera del predecessore. La sala aveva in principio due finestre:una sulla parete est e l’altra sulla sud, la quale collegava otticamente il lata su Strada Balbi con il tessuto urbano a mare.

Lo spazio della stanza è dilatato verso l’alto dalla finta architettura che decora la volta aperta su un cielo azzurrino. Alla base è situata una balaustra su cui si dispongono varie figure in un rapporto di tensione e di equilibrio.Spicca il ruolo di Apollo, posto al centro del lato sud.

Il lato Nord si apre e si chiude con le figure a grisaille di Mercurio e Minerva. La finta statua di Mercurio è seguita dalla musa Clio (Storia) e da una curiosa figura di scimmia intenta dipingere la propria effige: questa, in virtù della propria somiglianza con l’uomo, ne rappresenta una sorta di doppio. La scimmia è un’allegoria della Pittura: imita l’uomo e imita il fare del pittore, a sua volta seguace dell’arte “imitatrice”. Seguono Euterpe e Melpomene, muse della Musica e della Tragedia.

La parte a levante si apre con Calliope, la musa della Poesia, riconoscibile dalla corona di alloro che reca e dai pesanti libri di cui è circondata. L’ultima musa è Talia, la Commedia, identificabile tramite la maschera teatrale e il groviglio di aspidi che reca.

Il lato a sud si apre con la finta statua ad angolo di Giove, riconoscibile dall’attributo dell’aquila, seguito da Tersicore (Danza) e da Apollo che ostenta la propria bellezza olimpica e tiene la lira, simbolo dell’armonia dei Cieli. Segue Erato (Canto corale) mentre a chiudere la parete si trova Ercole a grisaille.

L’ultima parete, quella a ponente, vede Polimnia, musa della Retorica, riconoscibile dal libro,seguita da Urania (Astrologia).

Le pareti in principio erano scandite da nicchie dipinte, di cui si conserva solo quella di levante:raffigura a grisaille un Ercole ammantato da una leonté con un aspide stretto fra le mani. I bombardamenti del secondo conflitto mondiale causarono significativi danni nell’ala di levante e la sala di Apollo rimase per molto tempo priva degli infissi esponendola alle intemperie.

Il Carro del Tempo – Valerio Castello

La volta del salone centrale ospita l’allegoria del Carro del Tempo, capolavoro di Valerio Castello, sua ultima fatica in palazzo Balbi Senarega. Tra le finte architetture volteggiano le figure, secondo un ritmo ben modulato e coinvolgente. Il senso del colore di Valerio si esprime in questi affreschi attraverso una caleidoscopica gamma di note cromatiche.

Al centro della volta Saturno-Cronos, l’anziano canuto con la falce in mano, porta inesorabilmente a distruzione uomini, cose e ricchezze – come lascia intendere il motto VOLAT IRREPARABILE (TEMPUS) presente sul cartiglio tenuto da tre putti – ma da intendersi “in direzione tutta positiva”, dato l’incedere verso l’Eternità identificabile grazie al cerchio e alla corona tra le mani. Dunque, un tempo che corre verso l’eterno e non solo un disgregarsi e perdersi senza un fine se non l’oblio.

I personaggi sopra il cornicione, secondo questa visione, sarebbero le diverse fasi della vita dell’uomo: l’Infanzia evocata dalla presenza del centauro Chirone; la Giovinezza simboleggiata dalla fanciulla allo specchio assistita da due ancelle; la Virilità riconoscibile nell’uomo colto nell’atto di comando e la Vecchiaia rappresentata nei due uomini anziani pugnalati e uccisi.  Al di sotto si riconoscono sui lati brevi i segni singoli di Capricorno, Acquario, Cancro e Leone; mentre sui lunghi, a coppia, Pesci-Ariete, Toro-Gemelli, Vergine-Bilancia, Scorpione-Sagittario.

Infine, al centro dei lati brevi, trovano posto le allegorie della Fama, che con la tromba esaltala scena centrale, e della Fortuna, instabile per definizione e capace di distribuire ricchezze come testimonia la cornucopia accanto. Sulla valenza e il significato di questa decorazione è tornato Lauro Magnani, sottolineando come la realizzazione dell’affresco dovette coincidere con un momento drammatico:già nel settembre del 1656 si era diffusa un’epidemia di peste che lasciò la città in ginocchio e allentò ogni attività non indispensabile. Alla luce di queste considerazioni la positività con cui l’affresco veniva letto sembra lasciare il posto a una lettura ben più amara. Il Carro del Tempo, guidato dalle Ore che alzano le clessidre, sono un segno dello scorrere di ogni istante abbattendosi anche su quei corpi caduti, forse precisa evocazione dei morti di peste tra cui si contò anche Giovanni Battista Balbi, giovane cugino di Francesco Maria. E così, sempre secondo questa lettura, la Fortuna in precario equilibrio non riverserebbe i suoi beni, ma i simboli di una vanità terrena. Continuando con questa logica i gruppi al di sopra del cornicione mostrerebbero una diversa identità, andando a rappresentare tutte un episodio che si conclude con la morte del personaggio protagonista.

Pace tra Allegrezza e Abbondanza – Valerio Castello

La magnificenza della famiglia Balbi trova celebrazione nel formidabile e festoso salotto di Pace tra Allegrezza e Abbondanza.

Valerio Castello raffigura le tre leggiadre figure tra nuvole e puttini. Pace, al centro della scena, stringe nella mano un ramo di ulivo stretto nella mano destra,Allegrezza, alla sua destra dipinta come una magnifica fanciulla mentre sparge fiori, e dall’altro lato Abbondanza, riconoscibile dalla cornucopia al suo fianco. Intorno gli Amorini partecipano e celebrano questo clima di armonia e serenità, garantito dalla presenza delle tre Virtù.

Il resto della decorazione ricco e ben equilibrato alterna elementi di quadratura, ornati e figure:si possono notare le quattro finte statue dorate di Virtù ai quattro angoli mentre sorreggono il cornicione, connotato da una vivace struttura architettonica.

Apoteosi di Ercole – Gregorio de Ferrari

In questa stanza l’attenzione dell’osservate si concentra interamente sul soffitto dove nel riquadro centrale si trova Ercole e la clava. Un putto gli porge i pomi delle Esperidi segno del passaggio verso l’età adulta. Fama ed Eternità, in volo sopra l’eroe, gli porgono una corona aurea e una d’alloro.

Negli angoli alla base della volta si trovano affrescate la Virtù eroica, incarnata da Ercole che uccide il serpente Ladone, la Fortezza d’animo, personificata da una donna armata, la Virtù insuperabile, una giovane donna con corona d’alloro vicino ad una cornucopia e una lancia, e infine la Virilità, rappresentata da una figura femminile con scettro e seduta su un leone. Ogni allegoria si poggia poi su cartelle a monocromo dorato, su cui sono raffigurate piccole scene di noti episodi mitologici: Pan e Siringa, Arianna abbandonata, Diana e Atteone, e Amore sul carro. L’affresco si presenta come un emblema delle virtù di Francesco Maria ma più in generale della virtù maschile. Sullo stesso livello, entro piccole nicchie a conchiglia, trovano posto quattro finti busti marmorei maschili e femminili, che vivaci putti sono intenti a inghirlandare e decorare con fiori e veli.

Al di sotto del cornicione corrono per tutto il perimetro quattro lunghe tele il cui soggetto mitologico non si  riferisce ad un mito preciso.

Leda e il cigno – Valerio Castello

In questa stanza, l’ultima visitabile, l’architettura illusionistica trasforma lo spazio rettangolare in ovale grazie ad una volta dorata, sorretta da coppie di colonne intervallate a vasi pieni di fiori poggianti su un’alta balaustra marmorea. La calotta è dedicata a ospitare Leda, moglie di Tindaro amata da Giove, circondata da putti.

Lungo il sottostante cornicione coppie di putti reggono, come quadri, le cornici che ospitano le effigi di Venere, Diana, Minerva e Mercurio, riconoscibili dai loro attributi. Le virtù di queste quattro figure meglio delineano le qualità di Leda, al centro del quadro della volta.

Gli amorini, in pose di estrema naturalezza e gesti vivaci, conferiscono spazio fisico alla volta. Valerio tiene conto della posizione delle finestre e organizza di conseguenza i contrasti chiaroscurali.

 

Bibliografia

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SANTA MARIA DEL MONTE DI CESENA

UN'ABBAZIA DALLA STORIA MILLENARIA

L’antica abbazia benedettina di Santa Maria del Monte sovrasta, con la sua imponente mole, la città di Cesena.

Fu fondata sul colle Spaziano da S. Mauro eremita, poi vescovo di Cesena, che lì fu sepolto in un antico sarcofago romano, oggi trasformato nell'altare della cripta.

Le prime notizie relative al culto mariano ci vengono da S. Pier Damiano (1049) nella sua "Vita di S. Mauro". Fondamentale la data del 1318, allorquando fu trasferita, dalla pieve di Montereale, la statua della Madonna, ancora oggi venerata.

La più eloquente testimonianza del plurisecolare culto verso la Madonna del Monte, venerata sotto il titolo dell’Assunzione, è costituita dal corpus di circa 700 tavolette votive (ex voto), le più antiche delle quali risalgono al Quattrocento, che testimoniano il sollievo fisico e morale dalle miserie e dalle disgrazie umane ottenuto attraverso l’intercessione della Madonna.

La devozione era tale che, per antica consuetudine, contemplata pure negli Statuti comunali, la mattina del 15 agosto le massime autorità cittadine, unitamente ai membri delle corporazioni e dei mestieri, salivano in devoto pellegrinaggio al Monte e offrivano ceri alla Madonna.

Nel secolo XV la basilica medievale si rivelò insufficiente per raccogliere i pellegrini, e si procedette ad imponenti lavori. La basilica fu allungata ed allargata con la costruzione di una grande cappella, di una slanciata cupola e di varie cappelle lungo la navata. Tutta la nuova fabbrica venne affrescata, sia nella navata centrale come nella cupola e nel grande catino absidale.

L'ABBAZIA DI SANTA MARIA DEL MONTE: L'INTERNO

Lungo tutto il fregio della navata, terminato nel 1559, Girolamo Longhi illustrava la vita della Madonna in 14 scene, intercalate da figure di angeli, profeti e sibille. La cupola, innalzata dal bolognese Francesco Morandi, detto il Terribilia, a seguito del terremoto del 1768 fu ricostruita dal ticinese Pietro Carlo Borboni e affrescata da Giuseppe Milani, cesenate d’adozione ma originario di Parma. È del Milani anche l’affresco del catino dell’abside, raffigurante l’incoronazione della Vergine da parte della SS. ma Trinità.

Pregevole il coro ligneo cinquecentesco, notevoli la sacrestia monumentale e la sala capitolare con affreschi del XV secolo.

Nelle cappelle laterali sono collocati alcuni preziosi dipinti. L’opera più pregevole è la “Presentazione di Gesù al tempio” di Francesco Rabolini detto il Francia, al momento non visibile perché in corso di restauro. Ma abbiamo anche una Annunciazione di Bartolomeo Coda (sec. XV), S. Mauro che guarisce un malato di Francesco Mancini (sec XVII), la Gloria di S Benedetto e S. Scolastica attribuito a G.B. Barbieri (sec. XVII), S. Lorenzo di Scuola bolognese (sec XVII) e S. Sebastiano attribuito a V. Ansaloni (sec. XVII).

Del complesso monastico si apprezzano i due chiostri e la ricca biblioteca, il corridoio monumentale, i due scaloni settecenteschi, nonché altri ambienti soggetti però in parte alle restrizioni previste dalla clausura monastica.

Soppresso, come tutti i monasteri italiani, da Napoleone nel 1797, si deve alla devozione filiale di Pio VII, già monaco al Monte, se nel 1821 il monastero poté riaprire, per essere però nuovamente chiuso dallo Stato unitario nel 1866. Fu definitivamente riaperto nel 1888 dall’abate Bonifacio Krug, che recuperò le ormai fatiscenti strutture e diede un nuovo impulso alla vita monastica, facendone un centro di riferimento per la vita religiosa e culturale cesenate del tempo e non solo.

Nei giorni 8-10 maggio 1986 l’abbazia del Monte ha avuto l’onore di ospitare il Santo Padre Giovanni Paolo II, che qui ha soggiornato durante il suo viaggio apostolico in Romagna.

La visita al complesso monastico può iniziare dal chiostro quattrocentesco che presenta eleganti colonne di travertino con eleganti capitelli di stile classico l’uno diverso dall’altro. Al centro del chiostro cisterna adornata da un prezioso pozzale in ferro battuto del 600. Quindi si passa al chiostro grande, costruito nel 500 in stile dorico a doppio loggiato, ma ricostruito dopo un disastroso incendio del 1751 in pilastri di laterizio con la chiusura del loggiato superiore. La cisterna fu costruita nel 1551 su probabile disegno di Leonardo da Vinci ed è sormontata da un imponente pozzale marmoreo aggiunto nel 1558.

La biblioteca antica del monastero fu incamerata dallo Stato nell’800, poi ricostituita ma distrutta nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, oggi completamente rinnovata e ricca di 50.000 volumi di carattere soprattutto ecclesiastico. È formata da due ampi saloni aperti l’uno sull’altro messi in comunicazione da un elegante ballatoio.

Infine è presente un laboratorio di restauro del libro largamente affermatosi presso le biblioteche e archivi di Stato, che svolse una grande lavoro per la riparazione dei danni della Biblioteca Nazionale di Firenze a seguito della disastrosa alluvione del 1966.

Bibliografia essenziale:

  1. Novelli, Il coro intagliato della Basilica di S. Maria del Monte di Cesena, Cesena 1965.
  2. Dolcini, S. Maria del Monte di Cesena, in Monasteri Benedettini in Emilia Romagna, Silvana editoriale, Milano 1980, pp. 221-231.

La Madonna del MonteCesena, Pazzini editore, Verucchio 1993.

  1. Faranda, Fides tua te salvum fecit, i dipinti votivi nel Santuario di S. Maria del Monte a Cesena, Modena 1997.
  2. Novelli – L. D’Elia, Abbazia di S. Maria del Monte, Genova 1999
  3. Faranda, La cupola dell’abbazia di S. Maria del Monte di Cesena, Cesena 2009.

 

Sitografia:

www.abbaziadelmonte.it

https://www.facebook.com/AmicidelMonteCesena/

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LE CASTELLA A ISOLA DI CAPO RIZZUTO

Le fortezze medievali calabresi: le Castella

Posizionato su un isolotto in provincia di Crotone, ad Isola Capo Rizzuto, il complesso de “le Castella” rappresenta una chicca del panorama di fortezze medievali calabresi.

Le origini di Castella sono antichissime, notizie che si confondono con il mito e che rimandano alla presenza di due o tre isolotti non lontane dalla terra ferma, una delle quali dimora, con molta probabilità, di Calipso, la quale avrebbe trattenuto Odisseo per molto tempo nella sua abitazione, così come ce lo tramandano gli scritti di Omero.

Per quanto riguarda l’origine del nome “Le Castella”, usato al plurale, si rimanda alla tradizione locale secondo cui fossero presenti più edifici militari sui suddetti isolotti, sprofondati col tempo negli abissi, così come dimostrano i resti ritrovati su due secche sottomarine. La definizione più importante è quella di Torre o Mura di Annibale, così come ci tramanda Plinio nella sua opera “Naturalis Historia”, secondo cui durante la prima guerra punica venne costruita la prima torre a difesa dei romani.

La posizione storica, geografia e strategica

Il trattato di amicizia tra Roma e Taranto del 304 a.C. prevedeva il divieto di navigazione ad oriente di Capo Lacinio, inducendo Taranto a creare una vedetta sull'isolotto per sorprendere le navi romane che giungevano da Tirreno e puntavano verso Taranto stessa; da qui si capiscee l'importanza di Punta Castella. Poco più tardi, circa un secolo dopo, le fonti vogliono che agli sgoccioli della seconda guerra punica, tra il 208 ed il 202 a.C., Annibale, inseguito dall’esercito romano, fece costruire nel luogo dove oggi sorge il castello aragonese un accampamento o una torre di vedetta. Quando Annibale lasciò il territorio, i Romani istituirono un Castra, da cui deriva l’attuale denominazione.

Con l’occupazione degli Arabi tra il IX e il secolo XI, che già controllavano la vicina Squillace, si impone la dominazione sull’intero golfo. Superata questa dominazione sorgono le prime chiese, una dedicata a Santa Maria e l’altra a San Nicola. Inoltre, diversi documenti testimoniano la presenza di pubblici ufficiali, da cui deriva una florida attività commerciale oltre che sociale.

La pace del borgo fu turbata da un feroce scontro tra Angioini e Aragonesi, che portò al saccheggio di Le Castella da parte dell'ammiraglio Ruggiero di Loria nel 1290; la resistenza degli abitanti del borgo fu di 8 giorni prima di cedere all'assalto.

Gli scontri non finirono qui: qualche tempo più tardi il capitano angioino Guglielmo Estendard volle riconquistare i territori persi appostandosi lì dove le navi nemiche facevano scalo nel golfo e tendendo loro una trappola, ma invece di prendere di sorpresa il nemico, ne fu sopraffatto. Ruggero vinse costringendo Guglielmo alla resa, che ferito cadde prigioniero.

Nel 1459 continuarono gli scontri, che videro contrapposti da una parte  il re Ferdinando d'Aragona, dall'altra il nobile feudatario Antonio Centelles. I conflitti porteranno al dominio sul territorio della famiglia napoletana Carafa, nella persona del nobile Andrea Carafa.

Nel 500 i territori rientrano così nel feudo di Santa Severina segnandone il lento declino, e soprattutto a causa della presenza ottomana si registra una diminuzione degli abitanti, con conseguente riduzione del commercio e dell’attività produttiva delle campagne circostanti.

È nel 1553 che iniziano gli attacchi al borgo, tre anni più tardi le navi turche bombardano la costa sotto il comando del temibile Ariadeno Barbarossa, il terrore dei mari. Tra i prigionieri dovuti alle loro spietate azioni abbiamo un giovane pescatore di nome Giovan Dionigi Galeni, destinato a diventare il famoso Kiligi Alì meglio noto come Uccjalì.

Una leggenda aleggia sulla sua vicenda, tanto da dedicargli un busto nella città e una serie di appellativi dovuti ad una patologia che lo accompagnava dalla nascita, la tigna. Da promesso prete a sostenitore dell’Islam, indosserà il copricapo tipico della pirateria e, sposata la figlia di Chiafer Rais, otterrà il grado di nostromo in una nave corsara.

Le Castella: l'interno

Da un punto di vista architettonico, l’impianto originale è databile alla seconda metà del XIII secolo, così come testimonia la torre merlata circolare al cui interno presenta una scala a chiocciola in pietra che si sviluppa su tre piani.

La struttura presenta un maschio con finestre dette ‘a bocca di lupo’, strette all’esterno e larghe all’interno utili per fare gli avvistamenti senza essere notati, sicuramente collegato alle altre torri di difesa dislocate sul territorio.

Quando Federico d’Aragona consegna la fortezza ad Andrea Carafa, esso la restaura dotandolo di ulteriori bastioni. Con i lavori di restauro terminati ormai venti anni fa, sono stati portati alla luce ulteriori fasi costruttive del castello, che hanno confermato l’ipotesi di una sua costruzione molto più antica rispetto a quella definita in precedenza; all’interno infatti si possono vedere i resti di mura greche, un porto dello stesso periodo, mura romane, una cappella e un antico borgo del XVI secolo.

Lo stabile rientra all’interno dell’area marina protetta di Isola Capo Rizzuto, tanto è vero che una delle sale del castello ospita una mostra ad essa relativa oltre all’attrezzatura necessaria per la visita virtuale dei fondali. La fortezza diviene un Museo statale, come da DM 23 dicembre 2014 secondo la volontà del Ministro Franceschini, il quale indica l’attività dei musei statali diretta alla tutela del patrimonio culturale. Il passaggio sotto la direzione del Polo Museale di Cosenza viene, però, ufficialmente formalizzato solo nel 2019, vestendosi di una nuova identità, facendolo rientrare nel circuito museale di tutta la Calabria.

 

Sitografia e bibliografia

www.prolocolecastella.it

www.lecastella.info

www.beniculturale.it

  1. Valente, Le Castelle (Isola Capo Rizzuto): una storia millenaria, Catanzaro 1993.

R, Mango, Le Castella: arcaica, archeologica, medievale, Catanzaro 1999.

 

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IL CASTELLO DI FUMONE SULLA VIA LATINA

Storia ed importanza della rocca di Fumone

Il castello sorge nell'omonimo comune, in provincia di Frosinone: collocato ad un'altezza di 800 metri, si trova in una posizione di straordinaria importanza strategica, una posizione geografica a dominio sull'intera valle del Sacco e della strada maestra che collegava Roma e Napoli: la via Latina.

Il nome di Fumone nasce dall'antica forma di  comunicazione effettuata con i segnali di fumo, che annunciavano le invasioni di nemici provenienti da sud e diretti a Roma.

La città di Fumone ed il suo castello hanno avuto un ruolo chiave durante l'invasione di Annibale: i Romani se ne servirono infatti quando il generale cartaginese, stabilitosi a Capua (area visibile dal castello), decise improvvisamente di puntare su Roma marciando attraverso la via Latina.

L’ importanza militare di Fumone continuò anche durante il corso delle guerre civili tra Mario e Silla, e tra Cesare e Pompeo. Successivamente la Rocca di Fumone fu usata dai Papi per oltre 500 anni per sorvegliare il Mezzogiorno, e come prigione pontificia per prigionieri politici.

I tentativi di conquistare la fortezza di Fumone con la forza risultarono vani a chiunque, compresi gli imperatori Federico Barbarossa ed Enrico VI, che falliti gli assedi della Rocca, sfogarono la loro rabbia devastando città e campagne a sud di Roma.

Solo papa Gregorio IX nel tredicesimo secolo riuscì, dopo mesi di assedio, a farsi aprire le porte, ma pacificamente e sotto pagamento di un grande riscatto.

L’episodio sicuramente più importante che riguarda il castello di Fumone avvenne nel 1295 quando vi fu rinchiuso il santo Papa Celestino V, che vi morì dopo dieci mesi di dura prigionia. Nel corso del 1500 il castello di Fumone perse la sua importanza militare e senza più lavori di manutenzione andò decadendo. Fu così che nel 1584 papa Sisto V decise che, essendovi morto Celestino V, il castello andava conservato come memoria storica, e lo affidò ad una famiglia aristocratica romana: i marchesi Longhi.

 

Il castello di Fumone: il Santuario di Celestino V

Senza dubbio è  il luogo più importante del Castello. La prigione ove venne recluso Celestino V venne costruita in una intercapedine tra due torri collocate all'altezza del piano nobile del castello, affinché fosse assicurata continuativamente la sorveglianza da parte del custode.

L'attuale cappella, ricavata da una delle due torri adiacenti alla prigione, era anticamente il luogo ove i carcerieri di Celestino V e i monaci celestini gli furono vicini negli ultimi dieci mesi della sua vita. Sopra l'altare, all'interno della sua prigione, vi è un'immagine del santo in marmo con sopra il capo la tiara. Alla sinistra dell'altare una piccola finestrella murata dove, secondo la leggenda, riceveva la visita di un angelo che gli forniva cibo e conforto.

La cappella è ornata da 4 stemmi in stucco sotto i quali vi sono altrettante epigrafi che riassumono le storie connesse a Celestino V e alla famiglia Longhi.

Sopra l'altare della cappella vi è un' immagine del santo in bassorilievo in cotto del XVIII sec.

 

L'archivio del castello di Fumone e il mistero del Marchesino

Vicino al Santuario vi è un piccolo cortile medievale  che conduce nell’Archivio del castello di Fumone.

In questo luogo sono conservati importanti manoscritti che vanno dal XVI al XIX secolo (quelli più antichi andarono persi durante  un incendio del 1700), ma l’archivio conserva anche, da oltre duecento anni, il corpo imbalsamato di un bambino, Francesco Longhi- Caetani ( erede della famiglia ) morto all'età di 5 anni, in circostanze misteriose e oggetto di molte leggende.

Il corpo del Marchesino si trova all’interno di una teca di vetro, chiusa a sua volta dentro un armadio ligneo. Il bambino è vestito con gli abiti dell’epoca e con il volto completamente ricoperto di cera, è circondato dai suoi giocattoli preferiti e sembra dormire sereno e tranquillo.

 

Le sale degli Antenati, dei Cesari e degli Stemmi

La sala degli Antenati, un ambiente fortemente suggestivo: i ritratti dei membri della famiglia Longhi de Paolis sono collocati sulle pareti di damasco rosso.

Busti di epoca romana, e altre importanti opere d’arte completano la splendida cornice della sala. Proseguendo si incontra la sala dei Cesari, così denominata per gli originali grandi busti di epoca romana che vi sono esposti:  sculture in marmo rappresentanti gli Imperatori Augusto, Vitellio, Marco Aurelio, Diocleziano e quello del dittatore Lucio Cornelio Silla.

Nella stessa sala si ammirano una  gigantesca urna cineraria romana in marmo pavonazzetto di grande valore e importanza, e  altre pregevoli sculture di epoca romana oltre a una serie di pitture di importanti artisti del XVI secolo.

Nell’ala Est si trova l’antica Sala degli Stemmi, un grande ambiente dal soffitto con volte a botte, da secoli utilizzata come camera da pranzo.

Un enorme camino delimita la parete sud, sulle altre pareti trovano spazio gli stemmi dei Longhi e delle più importanti famiglie aristocratiche con questi imparentate.

Di notevole importanza è l’enorme  lavabo in pietra, usato nei secoli per scuoiare e lavare gli animali destinati ad essere cucinati sulla brace del grande camino.

 

Il pozzo delle Vergini

All’ingresso del Piano Nobile si trova il  “ Pozzo delle vergini “, il crudele strumento che a volte veniva utilizzato dai Feudatari di Fumone quando decidevano di esercitare il diritto dello "IUS PRIMAE NOCTIS" ( in uso in tutti i feudi europei).

Prima di autorizzare matrimoni tra gli abitanti del suo territorio il “Signore” di Fumone  aveva la facoltà di poter trascorrere una  notte con le future spose, ma se le sventurate non arrivavano vergini al suo cospetto questi le faceva inesorabilmente precipitare nel pozzo.

 

Giardini pensili

Uno spazio verde, i Giardini Pensili all’italiana, fatti realizzare dalla famiglia nel seicento, uno spazio unico ed incantevole dal quale è possibile ammirare tutto il paesaggio ciociaro.

Le terrazze a balzo che contengono i giardini sono ricavate dalle antiche torri, dai camminamenti di ronda e dai fossati  uniti tra loro da enormi volte ricoperte di terra di castagno.

I suoi  tremilacinquecento metri quadrati di perimetro, circondati da alberi secolari, ne fanno il giardino pensile più alto d’Europa, un'oasi verde sospesa a 800 metri nell’aria.

La vista spazia su di un territorio immenso, oltre quaranta paesi, valli, fiumi, montagne, castelli, strade,  un osservatorio che domina metà del territorio della Ciociaria.

Un'opera titanica, realizzata in pochi anni, che suscitata da sempre lo stupore e la meraviglia non solo per la sua vista, ma anche per la perfezione armonica della costruzione, tipica delle ville principesche del Rinascimento.

Tra le curiosità custodite nei giardini pensili, di notevole interesse un' importante colonna romana in marmo di Luni, istoriata da un bassorilievo rappresentante l'albero della vita; inoltre la vetta della montagna, situata nel centro del giardino superiore, con i suoi 783 mt rappresenta il punto più alto di monte Fumone, la leggenda tramanda che  toccare quel cucuzzolo sia portatore di buona fortuna; tra le altre particolarità vi è il pozzo dei desideri, una cavità ricoperta da un grosso blocco di pietra, si trova lì da centinaia di anni ed infine l'albero dell'amore, un gigantesco cipressus funebris, frutto dell'unificazione di due alberi.

 

Galleria d'arte contemporanea

La Galleria d'Arte Contemporanea del Castello è stata inaugurata nell'anno 2014 ed è dedicata al Conte Giovanni de Paolis, colui che per oltre quarant'anni si dedicò alla conservazione e valorizzazione del castello di Fumone, iniziando altresì a collezionare opere d'arte contemporanea.

Dalla pittura, alla scultura, dalla fotografia alla ceramica ad elementi di design sono presenti nella galleria del castello di Fumone, opere d'arte realizzate da numerosi autori tra cui: Ignazio Schifano, Marco Stefanucci, Luciano Ventrone, Mario Schifano, Bruno D'Arcevia, Tommaso Gismondi, Pino Musi, Carlo Cecchi, Piero Pizzi Cannella, Claudio Marini, Fausto Roma, Massimo Lippi, Ugo Attardi, Rocco Iannelli, Giovanni Tommasi Ferroni, Claudio Bogino, Vincenzo Pizzorusso, Carla Viparelli, Elena Braccialini, Luigi Frappi, Riccardo Tommasi Ferroni, Jack Finnerty.

Le opere d'arte esposte nella Galleria del Conte Giovanni sono in massima parte frutto di acquisti, ma anche di donazioni e di prestiti concessi per esposizioni temporanee.

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IL SANTUARIO DI SAN ROMEDIO DELLA VAL DI NON

Un santuario verticale

Nel piccolo paese di Sanzeno è situato il santuario dedicato a San Romedio. Il santuario si innalza su uno sperone di roccia alla confluenza di due torrenti, all'interno di una suggestiva gola tra i meleti della bassa Valle di Non. Il santuario è un’imponente struttura architettonica caratterizzata da cinque chiese che si inerpicano sulla sommità della roccia. L’eccezionalità del santuario è legata alla leggenda dell’orso; leggenda che ha favorito la sistemazione di un’area recintata, come luogo di ricovero dei plantigradi destinati altrimenti alla soppressione.

Il Santuario di San Romedio è oggi meta di pellegrini provenienti non soltanto dal Trentino, ma da tutto il vicino Tirolo. È infatti a Thaur, nella valle dell’Inn, in Tirolo, che Romedio, esponente della nobiltà bavarese, avrebbe ricevuto i natali, per poi compiere, intorno all’anno Mille, un pellegrinaggio a Roma con i compagni Abramo e Davide. Un pellegrinaggio che avrebbe radicalmente modificato la sua vita, spingendolo a donare tutte le sue proprietà alla chiesa di Trento per ritirarsi in preghiera e meditazione su un’altissima rupe vicino a Sanzeno.

Tra l’XI secolo e il XII secolo, sul culmine della rupe di Sanzeno, Romedio realizzò lo spazio più antico del Santuario come abitazione oppure luogo di adorazione. Alla morte del Santo, i discepoli trasformarono questo spazio in una Chiesa dedicata, prima, a San Nicolò e, poi, a San Vigilio e la decorarono con un ciclo di affreschi che racconta la storia di Romedio. A fianco della Chiesa, i discepoli eressero un sacello di piccole dimensioni, la cosiddetta Cappella delle Reliquie per contenere i resti del santo eremita. La Cappella è suddivisa in tre navate con colonne e capitelli di scultura preromanica e affreschi duecenteschi che presentano legami stilistici con le opere della pittura altoatesina. L’ingresso ai due ambienti è dato da un pregevole portale duecentesco che fu fatto fare da una certa “Aricarda Munica”, nel 1200, secondo l’iscrizione apposta sul portale. La donna doveva essere vicina alla famiglia trentina dei Cles, probabilmente una vedova di lignaggio che decise di consacrare la sua vita a Dio e di vivere nell’eremo. A lato del portale, una serie di affreschi del XII-XIII secolo possono essere considerati tra i più antichi esempi di pitture murali del Trentino. Secondo alcune ipotesi questi affreschi sarebbero precedenti alla realizzazione del portale e originariamente avrebbero avuto la funzione di accogliere i pellegrini che affrontavano la salita verso l’eremo e sostavano nei pressi della tomba del santo eremita.

Nel 1487 fu la famiglia dei Cles a sistemare e ampliare l’antico eremo con la realizzazione della Cappella dedicata a San Giorgio (Cappella Clesiana), posta all’inizio del percorso di visita al santuario. Si tratta di una struttura caratterizzata da una volta a crociera e decorata con affreschi del XV-XVI secolo. Sono affreschi di autore ignoto che, sulle pareti, raffigurano le vicende della vita di San Giorgio, e sulla volta, i quattro simboli degli Evangelisti e le figure dei Dottori della chiesa.

Nel 1513 furono i conti Thun ad ottenere il giuspatronato sul santuario, facendo costruire la terza chiesa del santuario, la Chiesa di San Michele Arcangelo. La chiesa è una tipica cappella nobiliare, in stile gotico clesiano con volta a botte e una grande decorazione ad affresco che raffigura la scena dell’Orto degli ulivi e i conti Thun, committenti dell’opera.

Su incarico dei conti Cristoforo e Bernardino Thun, nel 1536 venne avviata la quarta chiesa del santuario con le pietre portate dai pellegrini, ovvero la Chiesa Maggiore dedicata a San Romedio, a fianco dell’antico Sacello delle Reliquie e della Chiesa di San Vigilio. È un ambiente ad aula unica con campanile e planimetria irregolare che ha sotto il pavimento un luogo di antichissima devozione, la “grotta” di San Romedio. La “grotta” poteva trattarsi della sua antica tomba o di un luogo dove si ritirava in preghiera.

Fu però a partire dal Settecento che il santuario acquisì un aspetto unitario dal punto di vista architettonico e artistico con il completamento dell’accesso che ha visto la costruzione del Loggiato rinascimentale (1729) e della lunga scalinata (1864) che porta al percorso di visita. La lunga e ripida scalinata è delimitata da una grande serliana (1770) con quattro colonne in pietra rossa che sostengono l’arco portante e l’immagine di San Romedio con i compagni Abramo e Davide. Una scritta fa da monito ai pellegrini “Il silenzio è di dovere varcando questa soglia”.

Il visitatore che sale la scalinata troverà il percorso scandito da alcune suggestive edicole votive che raffigurano gli episodi della Passione di Cristo. Sono opera dello scultore Vigilio Prati di Cles che realizzò sette complessi scultorei (1707), in legno scolpito e dipinto, che raccontano il calvario di Gesù Cristo, attraverso vere e proprie raffigurazioni a tutto tondo. Sono state qui sistemate per interpretare attraverso il racconto della Passione di Cristo, la fatica del devoto che sale la ripida scalinata del Santuario, qui emblema della “scala della vita”.

In ultimo, ma non meno importante, alla base della lunga scalinata di accesso al santuario è stata sistemata la quinta e ultima chiesa, la Cappella dell’Addolorata, eretta come ex-voto dei reduci della prima guerra mondiale.

IIl Santuario di San Romedio è ogni anno visitato da centinaia di turisti e pellegrini provenienti dal Tirolo e da tutta Italia; richiamati anche dal bellissimo sentiero che porta al santuario, ovvero una lunga galleria scavata nella roccia della gola di Sanzeno. Come spesso accade per i monumenti religiosi, i visitatori invocano l’aiuto del santo lasciando foto od oggetti di ex voto; oggi parte di questi si possono ammirare lungo le pareti della scalinata maggiore.

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:

Degasperi Fiorenzo, San Romedio. Una via sacra attraverso il Tirolo storico, Trento, Curcu&Genovese, 2015

Massari Giovanna, San Romedio. Uno sguardo inedito. Storia devozione arte architettura. Guida alla lettura dell'ipertesto, Edizioni scientifiche e artistiche, 2012

Faustini Gianni, Rogger Iginio, Il più bel santuario delle Alpi. Guida a San Romedio,

Trento, Valentina Trentini, 2009

Svaldi Pierluigi, San Romedio. Un santuario sulla rupe, Genova, 2008

Micheli Pietro, S. Romedio nobile di Taur, Trento, 1981.

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IL PALAZZO DELLA ZISA A PALERMO

La Splendida

Il Palazzo della Zisa, dall’arabo al-ʿAzīza, ovvero “la splendida”, venne edificato nel 1165 come residenza di villeggiatura per volere del re normanno Guglielmo I d’Altavilla, detto “Il Malo”. Il “Sollatium” fu costruito all'interno del parco reale che si trovava al di fuori delle mura che delimitavano l’antica città di Palermo, il cosiddetto Genoardo (dall’arabo Jannat al-arḍ ovvero “paradiso della terra”). Questo parco si estendeva dall'odierna città di Altofonte fino alle mura del palazzo reale ed era ornato da splendidi padiglioni e bacini d’acqua. Nel 1166, anno in cui morì Guglielmo I, il palazzo era stato già edificato come riporta Ugo Falcando nel <<Liber de Regno Siciliae>>:“con estrema velocità, non senza ingenti spese”. Tale celerità forse era da attribuire a maestranze musulmane molto esperte e preparate, a tal punto da consentire una rapida esecuzione dei lavori. L’opera fu ultimata nel 1175 dal figlio e successore al trono Guglielmo II definito “Il Buono”. Un’epigrafe in caratteri naskhī, che si trova, tutt'oggi, nell'intradosso dell’arcata d’accesso alla Sala della Fontana, definisce il palazzo “il tesoro più bello e il più splendido tra i reami del mondo […] una casa di letizia e di splendore, il paradiso terrestre che si apre agli sguardi”.

La dominazione sveva di Federico II portò la Sicilia a distaccarsi definitivamente dall'Oriente e dal continente africano per legarsi all’Europa, con conseguente  decadenza del palazzo. Con l’avvento degli Angioini e le lotte contro gli Aragonesi la Zisa fu abbandonata. Fu l’epoca chiaramontana di Manfredi ad imprimere una svolta sull'aspetto dell’edificio che nel XIV secolo assunse le connotazioni di un castello fortificato, mediante il taglio ad intervalli regolari del muretto d’attico per ricavarne una merlettatura. Per tale motivo fu mutata la sua denominazione in castello. Numerosi furono i detentori del palazzo; nel 1440 Alfonso il Magnanimo “Re delle due Sicilie”, concesse il palazzo al vescovo e grande umanista Antonio Beccadelli di Bologna. Con l’imperatore Carlo V d’Asburgo il palazzo passò nelle mani del nobile Pietro de Faraone per remunerare la fedeltà nei suoi confronti. Fino al XVII secolo l’edificio non venne sostanzialmente modificato. In seguito all'epidemia di peste che investì Palermo nel 1624, la Zisa fu adibita come deposito per la merce sospetta da sottoporre a quarantena. Significativi interventi di restauro si ebbero negli anni 1635-36, quando Giovanni de Sandoval cavaliere dell’Alcantara acquistò l’edificio e lo adattò alle proprie esigenze abitative. Fu aggiunto un altro piano con la chiusura del terrazzo e fu costruito nell'ala destra del palazzo un grande scalone che sostituì le originarie scale d’accesso. Dal 1800 fino al 1950 i Principi Notarbartolo, eredi della Casa Ducale dei Sandoval de Leon, ne fecero la propria residenza apportando diverse opere di consolidamento. Venne modificata la distribuzione degli ambienti mediante la costruzione di tramezzi, soppalchi, scalette interne e nei prospetti vennero modificate le bifore, inserendo dei finestroni. Nel 1955 il palazzo fu espropriato ed acquisito dalla Regione Sicilia. I lavori di restauro appena intrapresi vennero subito sospesi. Nel 1971, dopo anni d’incuria e di abbandono, l’ala destra dell’edificio crollò. Il restauro definitivo venne affidato al dottore G. Caronia, il quale, dopo anni di lavori, restituì alla storia uno dei monumenti più rappresentativi della Sicilia normanna. Dal 1991 il Palazzo della Zisa ospita il Museo d’arte islamica e dal 3 luglio 2015 fa parte del Patrimonio dell’Umanità (Unesco) nell'ambito dell’Itinerario Arabo-Normanno di Palermo, Cefalù e Monreale.

Il Palazzo della Zisa: esterni

La Zisa ha la forma di un parallelepipedo che misura  25 metri di altezza x 36.36 m di lunghezza e 19.60 m di larghezza, sui lati corti aggettano due corpi turriformi larghi 4 m x 2.35 m. Realizzata con muri a sacco di tufo morbido e poroso, le pareti sono formate da blocchi di pietra rettangolari con superficie piana. Nel  prospetto principale troviamo tre fornici, quello centrale è il più grande ed è formato da una doppia ghiera leggermente degradante, ed accoglie su entrambi i lati una coppia di colonne. Gli altri due fornici sono di uguale grandezza, ma più piccoli rispetto a quello centrale. Le numerose aperture si presentano perfettamente allineate conferendo orizzontalità alla composizione di tutte le facciate. Originariamente queste erano delle bifore, ma nessuna finestra si presenta come allora.

Attorno alle quattro aperture del primo piano troviamo un marcapiano che delinea le finestre a differenza del secondo piano dove le aperture sono avvolte da arcate cieche. La composizione muraria del secondo piano presenta delle eccezioni: le finestre ripetono per forma, dimensione e disposizione quelle del primo piano, ma sono in totale cinque, ai lati di quella centrale vi sono due aperture più piccole rispetto al resto. Nella facciata occidentale sono visibili otto feritoie basamentali sopra sei monofore e solo le due laterali sono circoscritte da un’arcata cieca a ghiera unica. Tutta la struttura è coronata da merlature e da un parapetto racchiuso fra due cornici con fregio a palmette. Sul prospetto principale rimangono i resti di una iscrizione in caratteri cufici. Poco distante dal palazzo alla Zisa collegato da un corridoio di arcate,non più esistente, la vicina cappella, detta chiesa della SS. Trinità, ad un’unica navata e con volta a crociera.

Il Palazzo della Zisa: interni

Il Palazzo della Zisa presenta una struttura architettonica molto complessa, dominata da una rigorosa simmetria. Un asse parallelo divide l’edificio in due identiche e speculari metà che trovano riscontro nel sistema d’acqua della Sala della Fontana posta al piano terra. La sala di rappresentanza, a pianta cruciforme e sormontata da una volta a crociera, si apre ad oriente in un continuum con la natura, attraverso il corso d’acqua che dalla fontana conduce alla peschiera. La fontana ha il carattere di un trono e al suo vertice presenta un mosaico che raffigura un’aquila a volo basso, simbolo della maestà regia. L’acqua originariamente usciva al di sotto del mosaico, scivolava rifrangendosi nella lastra obliqua decorata a chevrons (zig-zag) scorreva sul pavimento entro una canaletta, inframmezzata da due piccole vasche quadrangolari, per poi confluire nel bacino esterno.

La parte superiore della fontana è decorata da una cornice intarsiata a motivi geometrici al cui interno è inserito un pannello musivo raffigurante un doppio nastro intrecciato a formare tre dischi al cui interno sono riprodotti degli arcieri affrontati che scoccano le loro frecce verso dei volatili accovacciati su un albero, mentre ai lati due pavoni con al centro una palma stilizzata. Questa fascia musiva è databile alla seconda metà del XII secolo.

Ai lati della nicchia mosaicata, nelle pareti della sala e nel sott’arco sono presenti degli affreschi molto lacunosi con figure mitologiche testimonianza delle varie trasformazioni apportate durante il Seicento.Lo spazio è ornato da colonnine poste agli angoli con capitelli decorati con fogliati e uccelli, confrontabili con alcuni capitelli del chiostro di Monreale. Peculiari sono le nicchie ai lati della sala, decorate da volte alveolate in stucco, chiamate muqarnas soluzione tipica dell’architettura musulmana. I muqarnas sono delle strutture autoportanti formate da numerosi elementi lapidei scolpiti e aggregati in modo da plasmare forme compiute.  Su entrambi i lati della fontana vi sono dei corridoi da cui diramano dei vani.

Inoltre, al pianterreno troviamo il vestibolo, posto lungo l’intera facciata principale, da cui si accede all'edificio. Questo elemento fungeva da separazione e mediazione fra l’esterno e l’interno.

Il primo piano si presenta di dimensioni inferiori, in quanto buona parte della sua superficie è occupata dalla Sala della Fontana e dal vestibolo d’ingresso, che con la loro altezza raggiungono il livello del piano superiore. Le ali del piano si compongono, come quelle del pianterreno, di vani di passaggio, di servizio e di soggiorno, probabilmente questo luogo era riservato esclusivamente alle donne. Il secondo piano si configura come un entità autonoma rispetto al resto della struttura edilizia. Considerato l’appartamento reale, la distribuzione degli spazi deriva dalla casa tradizionale islamica. Originariamente al centro di questo piano vi era la sala belvedere, che era priva di soffitto e serviva a raccogliere l’acqua piovana. Infine, il terrazzo costituito da una superficie uniforme è cinto da un muretto merlato. Lungo il suo asse si innalzano cinque padiglioni, che rivestivano un carattere funzionale ma anche estetico; quelli mediani infatti erano strutture poste a copertura degli originali cortili pensili.

Il Giardino

Secondo alcune fonti letterarie il Palazzo della Zisa, sorgeva e ornava il parco reale, il cosiddetto Genoard (dall’arabo Jannat al-arḍ ovvero “paradiso della terra”) che si estendeva ad ovest fino ai territori di Monreale e Altofonte e a sud fino alla zona di Brancaccio. Il Palazzo era circondato da un giardino-paradiso, ricco di frutteti, piante ornamentali, animali esotici, bacini d’acqua e di un sistema di canalizzazioni che portavano l’acqua dalla vicina fonte Gabriele a numerose peschiere. Antistante il palazzo rimangono i resti di un piccolo bacino d’acqua a forma regolare che doveva forse ospitare un padiglione aperto sui quattro lati, accessibile da un piccolo ponte di pietra, non più esistente. Il giardino e il palazzo erano in continua simbiosi grazie al grande iwan della Sala della Fontana, dalla quale sgorgava l’acqua e attraverso dei canali finiva nella profonda peschiera svolgendo anche una funzione climatizzante. Come il palazzo, il giardino subì dei cambiamenti, i giochi d’acqua e le statue del giardino furono utilizzate nel 1402 dal re Martino I, dopo aver conquistato la Sicilia, per ristrutturare la reggia di Barcellona. Successivamente a causa di una crisi demografica, il giardino venne adibito alla coltivazione di orzo. Con Giovanni de Sandoval il giardino conservò gran parte del suo carattere lussureggiante. In seguito verrà distrutto dall'espansione della città.

La Leggenda

Due misteriose leggende si intrecciano sul Palazzo della Zisa. La tradizione popolare narra che quando sulla città di Palermo soffia un vento molto forte,ciò sia dovuto all’uscita dal palazzo dei cosiddetti “diavoletti”, che portano con sé l’aria fresca che si trova dentro il palazzo.Tale leggenda nasce, probabilmente, dalle correnti d’aria fresca generate all’interno dell’edificio, nato come residenza estiva del sovrano, da un efficace sistema di areazione. Grazie alla sua esposizione a nord-est, la brezza che si genera dal mare riesce a ventilare i diversi ambienti mediante dei fori presenti sul pavimento di ogni piano, geniali accorgimenti di architettura araba. Il palazzo, infatti, rappresenta uno degli esempi più preziosi e interessanti di architettura bio-climatica, dove tutto è refrigerato in modo naturale.Tornando ai diavoletti, tutto ha origine da un affresco dipinto sulla volta della Sala della Fontana in cui sono raffigurati alcune figure mitologiche da sempre considerate dei diavoli. Essi sono, inoltre, custodi di un inestimabile tesoro, contenente monete d’oro, nascosto nei sotterranei del palazzo.Il tesoro sarebbe arrivato a Palermo per mano di due giovani amanti, Azel Comel e El-Aziz, figlia del sultano, costretti a scappare perché il padre della ragazza, si era opposto alle loro nozze. Arrivati nel capoluogo siciliano, Azel avrebbe chiamato i migliori costruttori per erigere il palazzo con i soldi sottratti al sultano, ma quando arrivò la notizia del suicidio della madre di El-Aziz a causa della loro fuga, la ragazza si suicidò. Azel, pieno di dolore, viaggiò per il mondo con una barca, finché il mare, impietosito dalla sua sofferenza, pose fine alla sua vita.

I due amanti prima di morire fecero un incantesimo sul loro immenso tesoro, affidandone la protezione a questi temibili diavoletti. Se il tesoro verrà trovato dai cristiani porrà fine alla povertà della città di Palermo. L’unico modo per riuscire nell’impresa sarebbe quello di contare i diavoli il 25 marzo, giorno dell’Annunziata, ma è praticamente impossibile decretarne il numero esatto, sembra quasi che, di volta in volta, se ne aggiunga o scompaia qualcuno, per ostacolarne il conto e salvaguardare il tesoro.

Queste leggende hanno dato luogo a due modi di dire, in passato molto usati. Con l’espressione “E chi su, li diavoli di la Zisa?” (E chi sono, i diavoli della Zisa?) si indica una situazione in cui i conti non tornano, oppure “Oggi si sono liberati i diavoli della Zisa” è un commento al fatto che il vento è piuttosto violento.

Come afferma Giuseppe Pitrè la difficoltà di contare esattamente i diavoli della Zisa è data dal fatto che alcune delle figure sono molto piccole e altre non intere, così c’è chi li conta e chi no.

Museo d’Arte Islamica

Il gioiello della Zisa ospita al suo interno un Museo d’Arte Islamica che consta di oggetti di fattura musulmana proveniente sia dalla Sicilia ma anche da diversi paesi del bacino del Mediterraneo.  Nelle sale sono esposti manufatti realizzati durante il periodo della dominazione araba in Sicilia (dal IX al XI secolo), e oggetti di matrice islamica realizzati  durante la dominazione normanna (dal XI al XII secolo). Tra questi pezzi si annoverano anfore, diversi utensili di uso comune e di arredo come candelieri, ciotole, bacini, mortai realizzati in ottone, oro e argento, decorati con incisioni e impreziositi da agemine (cioè fili e lamine sottili) e un’ampia collezione di “mashrabiyya” cioè paraventi lignei a grata (composti da tanti rocchetti incastrati fra di loro a formare raffinati disegni e motivi ornamentali). Questi paraventi provenienti dall’Egitto ottomano, facevano parte della collezione Jacovelli. Di degna nota è l’iscrizione lapidea cristiana datata 1149 in quattro lingue: ebraico, latino, greco-bizantino e arabo, testimonianza della multietnicità in epoca medievale della città di Palermo.

Bibliografia:

  •  Bellafiore G., “La Zisa di Palermo”, Flaccovio Editore 2008
  • Caronia G., “La Zisa di Palermo” Storia e restauro”, Editori Laterza 1987
  • Filippi L., I diavoli della Zisa, Leone Editore 2009
  • Spatrisano G., “La Zisa e lo Scibene di Palermo”, Palumbo Editore 1982
  • Staacke U., “Un Palazzo Normanno a Palermo “La Zisa”: La cultura musulmana negli edifici dei Re ”, Comune di Palermo 1991

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LA CHIESA DEL GESÙ NUOVO A NAPOLI

La città dalle cinquecento cupole

Così è stata definita Napoli, perché il numero delle chiese presenti in città si avvicina proprio a 500. Sono quasi ovunque: nei vicoli, nelle piazze, lungo le strade; in un percorso che, nel raggio di meno di 2 chilometri, consente a chiunque lo voglia di visitare luoghi sacri che fanno da prezioso scrigno a indefinite quantità di opere d’arte, che non solo incantano turisti e napoletani, ma soprattutto raccontano la storia della città in tutti i suoi aspetti. In meno di 10 minuti, infatti, il visitatore che si trova in Piazza del Gesù  - che dopo Piazza del Plebiscito è tra le maggiori piazze partenopee visitate – raggiunge Piazza san Gaetano, che è ubicata in maniera diametralmente opposta ad essa, incontrando almeno una quindicina tra chiese, palazzi, luoghi di interesse storico – artistico e culturale.

Siamo nelle viscere della città di Napoli, nel centro storico, che dal 1995, è Patrimonio Unesco. A ricordarcelo è una targa posta proprio in Piazza del Gesù, in particolare sulla facciata della chiesa del Gesù Nuovo, da cui la piazza prende il nome, su cui è riportata la motivazione:

Si tratta di una delle più antiche città d’Europa, il cui tessuto urbano contemporaneo conserva gli elementi della sua storia ricca di avvenimenti. I tracciati delle sue strade, la ricchezza dei suoi edifici storici caratterizzanti epoche diverse conferiscono al sito un valore universale senza uguali, che ha esercitato una profonda influenza su gran parte dell’Europa e al di là dei confini di questa”.

Piazza del Gesù Nuovo è situata lungo il Decumano Inferiore, sulla via chiamata “Spaccanapoli” (poiché, guardandola dall'alto, divide la città perfettamente in due parti, come se “spaccasse Napoli” ) in un’area completamente pedonale e su di essa si affacciano maestosamente la Chiesa del Gesù Nuovo, palazzi nobiliari, l’obelisco dell’Immacolata.

La piazza nasce per volere di Carlo II d’Angiò in un’area che inizialmente era solo uno spiazzale ricavato dall'eliminazione di qualche orto ed iniziò a prendere una conformazione urbanistica solo dopo il 1470, anno in cui venne costruito palazzo Sanseverino. Successivamente furono eretti altri due palazzi nobiliari, tutt’oggi presenti : il palazzo Pignatelli di Monteleone eretto nel XVI secolo e Palazzo Pandola, eretto in epoca tardo barocca, edificato da un’ala del vicino Palazzo Pignatelli.

E’ sicuramente una della piazze più importanti della città, punto focale della Napoli greco  - romana per la sua collocazione all'inizio del Decumano inferiore, ed è tutt'oggi luogo privilegiato per l’ incontro dei giovani, che la vivono sia di giorno che di notte, soprattutto studenti e universitari, complice non solo la presenza in piazza di importanti istituti di studi superiori ma anche la presenza nell'intera area e dintorni delle più importanti facoltà universitarie e della sede centrale dell’Università di Napoli stessa.

Al centro della Piazza si erge uno dei tre grandi obelischi della città: l’obelisco dell’Immacolata (gli altri due sono quello di San Domenico  e quello di San Gennaro).

L’Obelisco dell’Immacolata si alza maestoso al centro della piazza. E’ alto circa 30 metri ed è,dei tre precedentemente citati, in ordine cronologico l’ultimo ad essere stato realizzato. Fu eretto nel 1750 per ordine dei Gesuiti a seguito di una raccolta pubblica, organizzata dal Padre gesuita Francesco Pepe nonostante le opposizioni del Principe di Pignatelli, che avendo il suo palazzo in piazza, temeva che un eventuale crollo della struttura dovuta a qualsivoglia motivo avrebbe potuto lesionare il suo palazzo. L’obelisco fu innalzato al centro di quella che era considerata l’isola gesuitica della città; ciononostante essa appartiene alla città e non al clero, come indicato dallo stemma apposto sulla cancellata che circonda l’opera. Tale decisione è frutto di un accordo avvenuto nel 1818 tra Papa Pio VII e Ferdinando di Borbone.

L’opera si presenta come una sorta di macchina da festa barocca, innalzata verso il cielo. Si presenta in quattro ordini i cui  elementi scultorei sono di Matteo Bottiglieri e Francesco Pagano: i laterali del primo ordine sono adornati da fiori come vortici, mentre al second’ordine sono presenti sui laterali coppie angeliche. Al terzo ordine, ai quattro angoli della balaustra che l’adorna, sono presenti le statue marmoree di Sant'Ignazio, San Francesco Borgia, San Francesco Saverio e San Francesco in Regis. Alle statue si alternano altorilievi raffiguranti quattro momenti della vita della Vergine : l’Annunciazione, la Natività, la Purificazione e l’Incoronazione, e, al quart’ordine,prima della sommità,sono presenti sui due lati medaglioni raffiguranti San Luigi Gonzaga da un lato e San Stanislao Kostka dall'altro.

Sulla sommità dell’obelisco, coronata di stelle, è posta la statua di rame dell’Immacolata, un rame ossidatosi col tempo tanto da perdere il suo colore originario e diventare azzurro – verde. All'obelisco dell’Immacolata l’amministrazione cittadina è da sempre particolarmente legata. Infatti è ormai diventata una tradizione – da diversi decenni  – che nel giorno dell’8 dicembre il Sindaco della città, dopo la Messa delle 12 nell'antistante Chiesa del Gesù Nuovo, renda omaggio alla Vergine con un mazzo di rose che i Vigili del Fuoco, con la scala telescopica, le depongono tra le mani.

La Napoli dei misteri

Si racconta che all'alba, o comunque prima che si svegli completamente quanto vi è intorno alla Piazza, un uomo solitario passi e gridi, in dialetto napoletano “Chest è ‘a voce ra Maronn” ( "Questa è la voce della Madonna"); in talune ore del giorno invece, in particolare all'alba e al tramonto, volgendo lo sguardo al retro della Statua della Madonna, si ha l’impressione di vedere un’immagine gobba e con uno scettro in mano: raffigurerebbe la Morte che, quasi minacciosamente, osserva i passanti.

La chiesa del Gesù Nuovo

Alle spalle della guglia, si erge l’imponente facciata della chiesa del Gesù Nuovo. La chiesa è in realtà nata dalla struttura architettonica di un precedente palazzo nobiliare: palazzo Sanseverino, del quale conserva la facciata.

Il palazzo fu edificato nel 1470 ad opera di Novello da San Lucano per espresso volere del principe di Salerno, Roberto Sanseverino, come riporta una targa posta sulla facciata stessa.

L’edificio rimase ai Sanseverino fino al 1552, anno in cui Pedro di Toledo tentò di instaurare in città l’inquisizione spagnola e Ferrante Sanseverino, messosi a capo di un’insurrezione popolare, sebbene riuscisse ad evitare il volere dei monachi, non poté evitare le conseguenze della loro ira: beni della famiglia furono confiscati e messi in vendita, mentre  lui fu condannato all'esilio.

Nel 1584, i Gesuiti acquistarono il palazzo (ma alcune fonti sostengono che in realtà il palazzo non sia stato venduto, bensì donato alla Compagnia di Gesù) e, tra il 1584 stesso ed il 1601, lo riadattarono a chiesa.

I responsabili del progetto furono gli architetti gesuiti Giuseppe Valeriano e Pietro Provedi, che sventrarono completamente la struttura originaria del palazzo, lasciando in piedi solo la facciata ed il portale di marmo.

I lavori furono finanziata dalla principessa Isabella Della Rovere, moglie dell’ultimo esponente di un ramo dei Sanseverino, principi di Bisignano ed il suo nome, insieme a quello di Roberto I di Sanseverino (che aveva fato erigere il palazzo) è ricordato nell'iscrizione racchiusa in un cartiglio marmoreo posto sull'architrave del portone principale. Sullo stello è posta la data del 1570, anno in cui la chiesa fu aperta al pubblico, anche se fu consacrata al culto solo nel 1601 ed è dedicata alla Madonna Immacolata (ma intitolata dai francescani nel 1767 alla Trinità Maggiore, fino a quando tornò ai Gesuiti nel 1804 e, ad essi in via definitiva solo nel 1900); ciononostante prese subito la denominazione popolare – che tutt’oggi mantiene – di Chiesa del Gesù Nuovo, quasi immediatamente a distinguerla dalla prima chiesa gesuita presente in città – tra l’altro a poche centinaia di metri da essa – dalla Basilica dell’Immacolata di Don Placido, che divenne da subito la chiesa del “Gesù Vecchio”.

La facciata della chiesa è di certo una delle più affascinanti facciate presenti sull'intero territorio cittadino, tanto che un dettaglio della stessa è stato riportato sul retro della banconota da 10.000 Lire emessa dal 1977 al 1984 (la cosiddetta “Machiavelli).

La facciata si presenta in bugnato rustico a punta di diamante con tre grandi portali,ognuno relativo alle tre navate interne.

Sta di fatto che tale bugnato è avvolto in un alone di mistero: infatti su di esso,  sono incisi una serie di caratteri che potevano nascondere simboli esoterici e dell’occulto, probabilmente un linguaggio segreto tra i maestri tagliapietre, o addirittura un linguaggio col potere di attirare energie positive all'interno dello stesso; sta di fatto che l’alone di mistero che ruota intorno alla facciata si esplica ulteriormente in un’altra leggenda, in ragione della quale i maestri pipernai, esperti di segreti esoterici, incaricati da Roberto Sanseverino, avrebbero erroneamente piazzato le pietre segnate in maniera opposta a quella corretta, sicché, anziché far confluire all'interno dell’edificio forze benevole, le avrebbero tirate fuori, attirando forze malevoli che sarebbero poi state all'origine di tutte le sventure abbattutesi sulla chiesa, compresi incendi, crolli, fino al miracoloso ritrovamento di una bomba inesplosa, durante il Secondo Conflitto Mondiale, conservata nelle Sale Moscati, nei locali adiacenti la chiesa.

In realtà, tali caratteri sono stati decifrati dallo storico dell’arte Vincenzo de Pasquale, che ha scoperto che in realtà si tratta dei 7 simboli dell’alfabeto aramaico, usati per rappresentare le 7 note musicali; le lettere, lette da destra verso sinistra e guardando la facciata dal basso verso l’alto, se musicate, danno vita ad una melodia della durata di circa quarantacinque minuti: la facciata della chiesa del Gesù Nuovo, pertanto, si è rivelata essere, suo malgrado, una sorta di pentagramma.

Al centro della facciata si erige maestoso il portale dell’ingresso principale. Quello centrale è in marmo ed è quello dei Sanseverino, sebbene presenti alcune modifiche; infatti i gesuiti apportarono alcune cambiamenti come l’inserimento del frontone spezzato e sormontato dallo stemma della Compagnia di Gesù con il loro emblema e la scritta IHS al centro e, al di sotto di essa, la riproduzione marmorea dei chiodi della Crocifissione, l’inserimento degli angeli, ma anche un ricordo ai Sanseverino e ai Della Rovere con i loro stemmi che, in dimensioni maggiori, sono riprodotti sulla sommità dei margini estremi dei due lati.

Anche le due porte laterali sono marmoree e risalenti al XVI  sec.e sono anch’esse inserimenti voluti dai gesuiti, così come la scritta sotto il grande finistrone centrale sulla facciata “NON EST IN ALIO ALIQUO SALUS” ovvero “NON C’E’ SALVEZZA IN NESSUN ALTRO”. La chiesa all'interno è un vero e è proprio scrigno dell’arte barocca napoletana, una sorta di vero e proprio museo che conserva opere realizzate da Cosimo Fanzago e Francesco Solimena, quest’ultimo autore del grande affresco sulla contro-facciata raffigurante l’episodio biblico della “Cacciata di Eliodoro dal Tempio”.

La pianta è a croce greca, con  braccio longitudinale leggermente allungato e la cupola in corrispondenza del centro del transetto,le cappelle laterali sono dieci di cui cinque per ciascun lato e due di esse, collocate ai lati dell’abside. La cupola che oggi vediamo non è quella originale, poiché è stata più volte ricostruita a seguito di diversi incendi e terremoti cui la basilica è stata soggetta.

In origine presentava affreschi di Giovanni Lanfranco, dei quali restano solo i Quattro Evangelisti sui pennacchi laterali. Attualmente si presenta con decorazioni in stucco che riprendono i motivi del cassettonato, consolidati da un intervento in calcestruzzo armato nel 1975.

L'altare maggiore fu ultimato solo nel 1857 e presenta numerose sculture e decorazioni che, sebbene seguano il tema dell’Eucarestia, mettono al centro la Vergine Immacolata, in marmo bianchissimo, opera di Antonio Busciolano; è posta in una nicchia caratterizzata dalla presenza di marmi policromi e sei colonne corinzie in alabastro.

La statua poggia su un globo blu in lapislazzuli, attraversato in diagonale da una fascia dorata e contornata da cherubini anch'essi di marmo. Il ciclo di affreschi sulle pareti absidali sono di Massimo Stanzione e raffigurano scene di vita della Vergine realizzati in circa un anno, tra il 1639 e il 1640.

Una particolarità che caratterizza la zona antistante l’abside, ma soprattutto la chiesa stessa, è la presenza ai laterali, in sopraelevata, di due organi, di cui quello di destra è ancora funzionante. La loro presenza in chiesa è legata ad una richiesta esplicita fatta dalla principessa Della Rovere, poiché la Compagnia di Gesù non prevedeva musica liturgica nelle loro chiese.

Oltre la navata centrale, la chiesa presenta altre due navate laterali: da sinistra, procedendo verso l’interno della chiesa, la prima cappella è quella dei Santi Martiri con  decorazioni in stucco risalenti al XVII sec. ed una Pala d’altare con la Madonna con Bambino e i Santi Martiri ed infine affreschi di Belisario Corenzio.

La seconda cappella è invece dedicata alla Natività, ma è nota anche come Cappella Fornari, dal nome di Ferrante Fornari, che ne fu il committente. Anche qui sono presenti decorazioni pittoriche realizzate della mano del Corenzio, ma il fulcro centrale è sicuramente il gruppo di undici statue tra le quali si ricorda in particolare il San Matteo e l’Angelo di Pietro Bernini.

Al centro della parete principale della navata di sinistra si erige la Cappella dedicata a Sant'Ignazio da Loyola, fondatore dell’Ordine.

Qui troviamo un vero e proprio trionfo di quanto meglio offriva l’ambiente artistico del ‘600 napoletano: le due tele sull'altare sono della mano di Jusepe de Ribera, gli affreschi sul finestrone sono del Corenzio.  Dalla  porta posta al lato destro dell’altare della cappella, inoltre si accede alla Sagrestia, che conserva mobili seicenteschi ed un affresco raffigurante “San Michele che scaccia gli angeli ribelli” di Aniello Falcone.

La penultima cappella della navata di sinistra è la cappella del Crocifisso e di San Ciro, dove, proprio sotto l’altare si trova l’antichissima tomba di San Ciro e dove si segnala il gruppo scultoreo ligneo della Crocifissione di Francesco Mollica.

La quinta, ed ultima cappella, è dedicata a San Francesco de Geronimo, ed è anche nota come Cappella Ravaschieri, dal nome della famiglia committente. Essa presenta, oltre a marmi di pregevole fattura, resti di affreschi di Francesco Solimena. Sulle pareti laterali, si trovano due grandi lipsanoteche lignee.

La navata di destra, presenta, come precedentemente segnalato, lo stesso numero di cappelle.

La prima, dedicata a San Carlo Borromeo, va segnalata in particolare per la pala d’altare raffigurante il santo, ad opera di Giovanni Azzolino. La seconda cappella, detta “della Visitazione” , presenta sull'altare un dipinto raffigurante proprio la Visitazione ad opera di Massimo Stanzione e resti di affreschi del Giordano. Tale cappella oggi è nota soprattutto per la sua dedicazione a San Giuseppe Moscati, medico napoletano, canonizzato da Giovanni Paolo II nel 1987. La presenza del Santo medico  - figura particolarmente cara al popolo napoletano – è fortemente sentita nella chiesa: qui non solo è presente una sua statua bronzea all’interno della cappella stessa, quasi a grandezza naturale, ma è vivo il suo culto,

infatti dal Cappellone di San Francesco Saverio, che affianca la cappella della Visitazione, una porta lascia accedere alle cosiddette “Sale Moscati” che sono la ricostruzione fedelissima della sala in cui il medico esercitava la sua professione e della sua stessa camera da letto  e nelle quali sono mostrati e conservati i suoi scritti. Tale ricostruzione – con la mobilia originale – è stata possibile grazie alla donazione che ne fece la sorella Nina ai Gesuiti ed in particolare alla chiesa stessa, chiesa alla quale lo stesso Moscati era molto legato, tanto da recarsi a pregare tutte le mattine. Non mancano all'interno delle sale Moscati pareti piene di ex-voto, che testimoniano la devozione verso la figura del “Santo medico”, di cui si conservano, nella chiesa, anche le spoglie.

Il cappellone di San Francesco Saverio, però, non immette solo nel mondo di San Giuseppe Moscati. E’ anch'esso uno scrigno d’arte e presenta tele di Luca Giordano, del Corenzio e di De Matteis .

L’ultima cappella è invece dedicata al Sacro Cuore. Essa conserva affreschi di Belisario Corenzio sulla volta e sulle pareti, risalenti ai primissimi anni del XVII sec.

In entrambe le navate l’ordine delle cappelle non solo è uguale, ma le ultime due di ogni lato partecipano alla struttura architettonica della chiesa, poiché – su entrambi i lati – la penultima funge da parte terminale del transetto e l’ultima da “abside laterale” all'abside stessa della chiesa. E’ un tutt'uno. Trionfo di architettura e di quanto di meglio la piazza artistica napoletana del momento poteva offrire.

 

Sitografia:

Wikipedia.it

Napolitoday.it

Napolituristica.com

Guidanapoli.com

Treccani.it

Dizionariobiograficodegliitaliani.it

 

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MILANO TRA LEONARDO E LUCIO FONTANA

Milano: la metropoli degli estremi

La metropolitana Milano, città di frontiera e del futuro, fu da sempre patria di possibilità e polo d’attrazione per giovani menti in cerca d’affermazione. La città svolse questo ruolo culturale fin dal Quattrocento, per poi continuare ad avere un ruolo preponderante per le nuove frontiere della contestazione, ricerca e sperimentazione artistica nel Novecento.

Leonardo

Giunse a Milano nel 1482 all'età di trent'anni, dopo essersi lasciato Firenze alle spalle, stabilendosi presso la corte di Ludovico Sforza, detto Il Moro, con l’idea di realizzare progetti ambiziosi. Prima della partenza sondò il terreno inviando una lettera di presentazione in cui elencò tutte le sue abilità in dieci punti, nove dei quali riguardanti le armi e le macchine da guerra al fine di farsi ben volere dal Moro, ed il decimo destinato all'illustrazione delle sue qualità in quanto artista. Nella lettera, rinvenuta nel Codice Atlantico conservato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, Leonardo si propose per la realizzazione del monumento a Francesco Sforza, di cui qui tratteremo in seguito, e si presentò artisticamente dichiarando:

In tempo di pace, sono in grado di soddisfare ogni richiesta nel campo dell'architettura, nell'edilizia pubblica e privata e nel progettare opere di canalizzazione delle acque. So realizzare opere scultoree in marmo, bronzo e terracotta, e opere pittoriche di qualsiasi tipo.

Potrò eseguire il monumento equestre in bronzo che in eterno celebrerà la memoria di Vostro padre e della nobile casata degli Sforza.Se le cose che ho promesso di fare sembrano impossibili e irrealizzabili, sono disposto a fornirne una sperimentazione in qualunque luogo voglia Vostra Eccellenza, a cui umilmente mi raccomando.

Quasi cinquecento anni dopo di lui, in una Milano più industrializzata e moderna, arrivò il giovane Lucio Fontana, fondatore del movimento spazialista che si propose di andare oltre la bidimensionalità della tela.

L’artista, nato in Argentina a Santa Fé nel 1899, giunse per la prima volta a Milano negli anni Venti per poi tornarvi e stabilirvisi nel 1927. In quell'anno si iscrisse all'Accademia di Brera dove si diplomò nel 1930, qui subì l’influsso del suo maestro Adolfo Wildt che vide in lui il continuatore della sua arte, ma che ne restò deluso non appena l’allievo decise di percorrere una nuova strada lontana dalla tradizione. A Milano ebbe un proprio atelier, attualmente lo studio Casoli, che prevedeva al piano terra uno spazio per la pittura e riservava i piani superiori al disegno e all'archivio.

Entrambi gli artisti furono collegati al grande cantiere del Duomo

Secondo Leonardo infatti il “malato duomo” aveva bisogno di un “medico architetto” che potesse curarlo, per questa ragione egli decise di farsi avanti per proporre un’idea più innovativa. Consegnò il modellino del tiburio

per poi ritirarlo subito dopo, in quanto non parve convinto di aver trovato una soluzione ottimale ed anche i committenti non ne furono entusiasti.

Anche Fontana prese parte al grande cantiere entrando nell'elenco degli scultori nel 1935 e realizzando dei bozzetti per il concorso della V Porta

ora conservati al Museo del Duomo nella diciassettesima sala. Qui è possibile ammirare i due bozzetti della porta intera del concorso di primo grado del 1951 e uno del concorso di secondo grado del 1952. L’artista vinse a pari merito con un altro concorrente a cui cedette il progetto.

Proseguendo nella trattazione è opportuno ricordare come Leonardo fu ampiamente studiato nel Novecento proprio per la sua utilità nei confronti del tempo presente, infatti il culto dei grandi del passato costituì un punto di partenza per migliorarsi, stando a quanto dichiarò il noto artista Carlo Carrà. Fu così che diversi studi evidenziarono la possibilità di tracciare dei parallelismi tra i due artisti incentrati sui concetti di semplicità e forza, ma anche su intuizione e azione mentale. In entrambi il concetto della semplicità, data da necessità e rigore, è inteso come la via più breve e necessaria, ovvero trovare il modo più efficace per quel singolo problema stilistico o tematico. Fontana richiama dunque all'intuizione leonardesca per cui ogni cosa in natura si fa per la sua linea più breve. Altro valore aggiunto da parte di entrambi è l’idea di un esercizio continuo di ricercare e incuriosirsi, muoversi e riequilibrarsi, sperimentare e verificare ogni problema e soluzione.

Inoltre per Leonardo e Fontana il disegno ha un ruolo fondamentale di palestra parallela d’esercizio quotidiano.

Tutti e due nel loro operato artistico si occuparono del tema della battaglia con cavalli,cavalieri e guerrieri, tema che comparì per Fontana nei disegni tra la fine degli anni Trenta e i primi Quaranta. In particolare “Battaglia” del 1936 di Fontana

sembra essere una chiara rivisitazione moderna degli studi leonardeschi per la “Battaglia di Anghiari”, rispettivamente dei fogli 215 A

(“Due mischie tra cavalieri e pedoni”) da cui riprende l’espediente dei fanti o cavalieri accoppiati in lotta tra di loro nell'atto di colpire con la lancia, 215

(“Mischia tra combattenti a cavallo e studi di pedoni”) con una scena di lotta per lo stendardo e 216

(“Mischia tra cavalieri e pedoni, un ponte, due figure isolate”)custoditi presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia. La differenza risiede nella scelta di Leonardo di non rappresentare lotte tra cavalli nella sua battaglia, nel suo disegno gli animali assumono forme saettanti a spire mentre in Fontana i cavalli si limitano a mantenere una presenza maestosa e monumentale. Quest’ultimo nel suo disegno conserva l’impostazione compatta ma dinamica leonardesca. In Leonardo l’effetto è quello di masse aggrovigliate in un movimento vorticoso, mentre Lucio concepisce una composizione in senso panoramico come in Anghiari ma che resta priva di dinamismo complessivo e movimento rotatorio che aggrega i gruppi. Per di più le linee grafiche di ambedue vogliono suggerire l’immediatezza dell’idea,la semplicità,e la dinamicità.

Entrambi si dedicarono con dedizione al tema del cavallo, solo o montato da un cavaliere, in posizione di quiete o preso da un vortice di battaglia che costituisce uno dei soggetti più diffusi e affrontati dagli artisti dall'antichità classica al Novecento.

Il cavallo fu affrontato da Fontana nelle varianti di accovacciato o in piedi, rampante o volante, e della coppia cavallo-cavaliere pensata per concorsi per monumenti equestri.

Negli anni Trenta del Novecento il cavallo nell'impeto dell’azione divenne simbolo dell’energia del movimento e del progresso, proprio secondo lo spirito futurista. Nei cavalli di Lucio si sovrapposero più suggestioni: dalle personali da gaucho della pampa, a quelle boccioniane e espressioniste fino ai modelli del passato come Leonardo che si pensava avesse scritto un trattato sull'anatomia del cavallo andato perduto.

Come ricordato precedentemente, Leonardo si propose a Ludovico il Moro per la realizzazione del monumento equestre per il padre Francesco Sforza

Tale progetto di dimensioni colossali vide un susseguirsi di diverse versioni, fino ad arrivare nel 1491 alla fase finale della messa in opera del modello definitivo, in cera e poi in terracotta, che attendeva la successiva fusione a cera persa del bronzo. L’impresa risultò estremamente difficile per la grande necessità di bronzo fuso da versare, per questo l’artista si dedicò a calcoli minuziosi in fase progettuale.Verso la fine del 1493, quando ormai il modello in creta era pronto e si doveva procedere alla fusione, l’opera fu ancora bloccata a causa della mancanza di metallo richiesto per la fabbricazione di armi dovuta all'imminente invasione di Carlo VIII di Francia in Italia, per la guerra contro il Regno di Napoli degli Aragonesi.

Egli svolse un lavoro meticoloso, si preparò infatti studiando le parti anatomiche più belle di ciascun cavallo col fine di assemblarle per pervenire alla costruzione di un cavallo ideale. Di quest’opera mai realizzata si possono osservare gli studi preparatori conservati al castello di Windsor. Secoli dopo il collezionista d’arte Charles Dent volle portare a termine il progetto leonardesco finanziandone una ricostruzione colossale

ma morì prima di vedere ultimato il progetto che fu portato a termine da Nina Akamu per poi essere collocato all’ Ippodromo di Milano.

Fu proprio a Milano che il giorno 22 ottobre 1939 si tenne presso il Palazzo dell’Arte, edificio sede della Triennale, la grande Mostra Leonardesca inaugurata il giorno del terzo anniversario della proclamazione dell’Impero fascista, suggerendo un’equivalenza tra quest’ultimo e l’impero del genio leonardesco. Qui fu posto all'ingresso della mostra il “Cavallo rampante dorato” di Lucio Fontana

per cui prese spunto da due disegni leonardeschi di cavalli impennati realizzati per la “Battaglia di Anghiari”, appartenenti alla Collezione Windsor. In questa scultura l’artista usa il colore oro per riprodurre l’indeterminatezza visiva tipica dello schizzo leonardesco, in generale il colore è da lui utilizzato in modo funzionale e complementare alla plastica lontano da ogni possibilità di naturalismo e volgendo l’immagine in una condizione di artificialità.

L’opera di Fontana è stata completamente dimenticata perché raramente divulgata già allora, ne rimane traccia in una didascalia e fotografia nella guida della mostra e in un articolo di Guido Piovene sul Corriere della Sera intitolato “Uomo che disegna” dove fornisce una descrizione in anteprima della mostra, scrivendo:

Nellatrio Bramante Buffoni, sovrapponendo figure fotografate in quadri di grandi maestri a uno sfondo dipinto, ha rappresentato uno spirito universale e conciliatore del nostro Rinascimento; e Lucio Fontana ha tratto da un disegno leonardesco un cavallo doro impennato, di eccellente fattura,  con le diverse prove e pentimenti della matita leonardesca, le gambe cresciute di numero nella foga del moto. Sulla parete laterale delle quattro sale seguenti un fregio di architetture e paesaggi dipinti con figure fotografate e sovrapposte, eseguito con gusto dal pittore Segota.

Fu dunque grazie a questa mostra che i due artisti entrano in contatto tra di loro, dando prova del già forte interesse per il genio di Leonardo e dimostrando, al tempo stesso, come l’arte non sia nient’altro che una somma del passato abitante nella memoria e del presente edificabile nel quotidiano per protendersi ad un orientamento verso il futuro.

Come scrisse lo stesso Leonardo: A torto si lamentan li omini della fuga del tempo, incolpando quello di troppa velocità, non s'accorgendo quello essere di bastevole transito; ma bona memoria, di che la natura ci ha dotati, ci fa che ogni cosa lungamente passata ci pare esser presente.

 

 

Bibliografia:

  • “Itinerari di Lucio Fontana a Milano e dintorni”, Paolo Campiglio
  • “Lucio Fontana e Leonardo da Vinci”, Davide Colombo

 

Sitografia:

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LA CHIESA DI SOTTERRA A PAOLA

Una chiesa sotto un'altra chiesa

La chiesa ipogea di Sotterra si trova in località Gaudimare, a pochi passi dal centro storico di Paola, in prossimità della chiesa del Carmine che la sovrasta. La chiesetta è infatti una delle più antiche della Calabria è stata dimenticata per secoli non solo “sotto” la terra, ma anche “sotto” il luogo scelto per la chiesa del Carmine. La sua datazione è incerta, ma secondo alcuni studiosi potrebbe risalire all’ VIII secolo. Subì diversi rimaneggiamenti nel corso del tempo, fino a scomparire, forse in epoca cinquecentesca, a causa di eventi franosi o per una grande alluvione del torrente Palumbo. Dopo la riscoperta nel 1876, in modo fortuito, si sono moltiplicati gli studi e le teorie sulla chiesetta.

La chiesa si incrocia con la sovrastante chiesa del Carmine, dalla quale si accede per mezzo di una scala del portico. Per scendere più agevolmente nella cripta fu praticata un’apertura nel pavimento della chiesa superiore. Di questo accesso è rimasta l’apertura in fondo alla attuale scala, ora trasformata in un finestrone con inferriata. Secondo alcuni, l’edificio era una cripta, secondo altri era l’oratorio di eremiti. Due importanti monografie presentano differenze fondamentali: secondo le osservazioni di Francesco Ruffo la chiesa di Sotterra è bizantina, mentre per Rubino essa ha solo tracce bizantine. Nel catalogo degli edifici monumentali del Francipane, si trovano osservazioni che fanno capo dell’attività della Soprintendenza ai monumenti del successore di Paolo Orsi, Edoardo Galli, in base ai rilievi e grafici dell’assistente Ricca. Queste osservazioni sono di grande pregio. Nel primo elenco del 1929-1933, viene descritta: “chiesa del Comune di Sotterra in contrada Gaudimare, di origine basiliana (VII-VIII) ma ricostruita, con cripta medievale affrescata”.

Nel secondo elenco, molto più curato, è del 1938 viene riportato: “Santuario Ipogeo di origine bizantina, ricostruito nel XIV. Interno della cripta a tipo basilicale, con presbiterio e abside decorati da un ciclo di affreschi in parte di età bizantina e in parte iconografia benedettina del XIV secolo”. L’edificio si presenta come una semplice aula rettangolare monoabsidata, orientata lungo l’asse nord-sud e preceduta da un endonartece. È sormontata da volte a botte, suddivisa da tre archi in quattro campate, e un’abside semicircolare.

Fig. 1- Chiesa di Sotterra, la Vergine e gli Apostoli nel semicilindro, il Cristo in gloria, nel catino.

Nonostante secoli di oblio, sono arrivati fino a noi bellissimi affreschi. Le più antiche pitture secondo Pace risalgono all'età normanna ed in particolare alla fine del XI-XII secolo. La stessa datazione è stata proposta anche da Falla Castelfranchi.

La chiesa di Sotterra a Paola: descrizione

Gli affreschi sono distribuiti all'interno dell’abside dove, al di sopra di una zoccolatura dipinta a motivi geometrici romboidali, trovano un’ascensione suddivisa in due registri: la Vergine e gli Apostoli, nel semi-cilindro; il Cristo in gloria, nel catino. Quest’ultimo soggetto parrebbe contaminato dal tema occidentale della Majestas Domini. Una fascia orizzontale divide e nello stesso tempo fa convergere le due parti, superiore e inferiore, dell’icona. Gli Apostoli nonostante debbano essere undici, perché l’Ascensione avviene prima dell’elezione di Mattia al posto di Giuda, sono sempre dodici per esprimere la totalità della chiesa, con la Vergine al centro spesso affiancata da due candidi angeli. Alcuni Apostoli indicano con il dito alzato il trono di Cristo e le palme proiettate verso l’alto contribuiscono a rendere l’idea del congiungimento fra terra e cielo. I dodici Apostoli anziché raggruppati sono allineati in maniera semplice ma pieni di pensiero e carattere. Non si capisce perché qualcuno scriva che sono un uomo e una donna in maniera alternata quando è evidente come donna solo la Vergine. Forse perché nei moduli bizantini due Apostoli sono sempre raffigurati senza barba come si può notare anche nell'icona di Recklinghausen. Le due zone sono divise dalle fasce orizzontali e dalla mandorla entro la quale è il Cristo eppure hanno un punto di convergenza. Accanto alla zona delimitata della mandorla si osservano i resti dei panneggi dei due angeli. Ai lati dell’abside si svolge il tema dell’Annunciazione, con l’angelo (fig.2) a sinistra che annuncia il divino concepimento e la Madonna (fig.3) sul lato opposto.

 Fig. 2- Chiesa di Sotterra, affresco, angelo dell’Annunciazione.

Fig. 3- Chiesa di Sotterra, Madonna.

L’angelo, che, volando è già prossimo alla terra, ma non la tocca, ha le braccia incrociate sul petto e larghe ali a ventaglio che sconfinano dalla cornice. In posizione aerea, con una lunga stola tramezzata da numerose crocette di forma latina, con leggera torsione si protende verso la Madonna. Tutte e due le figure sono in una parete liscia con sfondo a tappeto di stile cosmatesco. Il movimento del panneggio, con un dinamico rigonfiamento che lo solleva dal fondo, ed una stola come agitata dal vento, contrastano con il pacato incrociare delle braccia sul petto. La Madonna è in piedi, con veste sobria e manto orlato. Una mano è sul petto e l’altra sorregge un libro, la testa leggermente piegata verso l’angelo. Queste due figure dipinte da un artista ignoto sono datate XIV-XIV secolo. Sulla parete di sinistra ci sono altri due affreschi più recenti, risalenti al Quattrocento: una Madonna con Bambino e la figura di un santo (fig4).

Fig. 4- Chiesa di Sotterra, Madonna con il Bambino e Santo.

Bibliografia

Cuteri, A., Percorsi della Calabria bizantina e normanna, itinerari d’arte e architettura nelle provincie calabresi, Roma, 2008.

Falla Castelfranchi, M., Disiecta membra. La pittura bizantina in Calabria (secoli X-XIV), in Calabria bizantina. Testimonianze d’arte e strutture di territorio. VIII Incontro di studi bizantini (Reggio Calabria- Vibo Valentia-Tropea, maggio 1985), Soveria Mannelli 1991, pp. 21-61.

Musolino, G., Calabria Bizantina, Venezia 1966, pp.341-342.

Russo, F., La chiesa bizantina di Sotterra (storia e arte), Roma 1949, p.14.

Venditti, A., Architettura bizantina nell’Italia meridionale, Campania, Calabria e Lucania, Napoli 1967, p.221

Verduci, R., La chiesa di Sotterra di Paola, Reggio Calabria, 2001, pp. 9-64.

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IL SANTUARIO DEL SACRO SPECO DI SUBIACO

IL "NIDO DI RONDINI"

Incastonato nella roccia del Monte Taleo e a strapiombo sulla valle, nel comune di Subiaco, si trova il Santuario del Sacro Speco, luogo di culto della spiritualità benedettina. In questo luogo San Benedetto trascorse un periodo della sua vita, precisamente in una grotta. Il santuario è composto da due chiese sovrapposte, da cappelle, da volte, tutte incastonate nelle pareti irregolari della roccia.

LA CHIESA SUPERIORE

La Chiesa Superiore è stata costruita per ultima, ed è formata da campate irregolari: la prima che si incontra è più alta della seconda e sono separate l'una dall'altra da un arco, al di sopra del quale vi è l'affresco della "Crocifissione". Opera imponente, quest'ultima, il corpo del Cristo è delineato con grande accuratezza e accompagnato da dettagli, il volto di Gesù appare sereno e lo spettatore ne resta coinvolto.

Vi sono altri elementi che raccontano altri episodi: il gruppo delle Pie Donne, i ladroni, la Maddalena. La parete di destra è divisa in tre registri: nel primo sono rappresentati "Il tradimento di Giuda", la "Fuga degli Apostoli" e "La Flagellazione". Nel secondo registro sono rappresentati "Il giudizio di Pilato" e il "Viaggio al Calvario". Sono affreschi ricchi di dettagli, ad esempio ne "Il Giudizio" vediamo rappresentata una città trecentesca con mura merlate alla guelfa, terrazze e loggette. Nel terzo registro è raccontata "La Pentecoste". Allo stesso modo la parete di sinistra è divisa in tre zone, nella parte inferiore è raffigurata "L'entrata in Gerusalemme di Gesù" e le "Marie al Sepolcro", nel secondo registro si trovano "L'incontro di Cristo con la Maddalena" e "L'incredulità di Tommaso". Infine nell'ultimo spazio vi è rappresentata "L'Ascensione, tra Angeli in festa, Maria, i Discepoli e le Pie Donne".

La seconda campata è, probabilmente, il nucleo originario della costruzione, qui gli affreschi avvolgono completamente lo spettatore e sono attribuiti ai pittori della Scuola Umbro-Marchigiana. Nella parete di fondo troviamo un affresco, ormai deteriorato, che rappresenta "San Benedetto in cattedra". Nella parete a sinistra, tre affreschi: “San Benedetto tentato dal diavolo”, “San Benedetto che rotola fra le spine” e “San Benedetto che prega nella grotta”. Nella lunetta, vicino all'ingresso, si vede, a destra, “Il miracolo del veleno” e a sinistra “La guarigione del monaco indemoniato”. Attraverso dei gradini, dalla seconda campata, si accede al transetto, e quindi all'abside, che è interamente scavata nella roccia.

LA CHIESA INFERIORE

L’accesso alla Chiesa Inferiore avviene oggi dal transetto della Chiesa Superiore tramite una scala, a sinistra della quale si trova un affresco di origine bizantina, che raffigura il testo della bolla del 4 Luglio 1202, con cui il papa Innocenzo III concedeva speciali favori ai monaci residenti nello Speco. La prima campata della Chiesa Inferiore è situata vicino alla Scala Santa, posta sulla sinistra di chi si mette di fronte alla Chiesa. Nella parete di fondo sono rappresentati gli episodi de “L’offerta del pane”, “Il pane avvelenato sottratto dal corvo” e “Cristo benedicente tra angeli, con San Benedetto e Santa Scolastica”. Il primo è ambientato in una grotta, dove San Benedetto, seduto, riceve il pane avvelenato, dono del prete Fiorenzo, con grande sconcerto di Mauro e di Placido. Nella lunetta della parete dove si apre la porta del Coro è raccontato il “Miracolo del salvataggio di San Placido”. Viene descritto San Mauro, che inconsapevolmente corre sull'acqua del lago, appena San Benedetto gli fa cenno di salvare San Placido. Ne “Il Miracolo del falcetto” il lago è rappresentato come una bianca macchia rettangolare, dai bordi ondulati: a sinistra vi è il Goto che porge al santo il bastone senza falcetto, a destra San Benedetto immerge nell'acqua il bastone, al quale il falcetto miracolosamente si unisce. La seconda campata della Chiesa Inferiore si trova allo stesso livello della prima campata, all'interno di essa si trova l'accesso alla Grotta della Preghiera. Nella terza campata della Chiesa Inferiore, a sinistra, si trova una grotta nella quale è allestito permanentemente un presepio. Nella parete a destra sono dipinte le storie di San Benedetto: “Il miracolo del vaglio”, “Il viaggio verso la chiesa di Affile” “La vestizione”, “Il ritiro in orazione dentro la grotta”. Nell'ultimo episodio San Benedetto è descritto in preghiera, dentro la grotta immersa in un paesaggio realisticamente rappresentato, del quale sono con accuratezza descritti gli alberi e la campagna circostante.

LA GROTTA DELLA PREGHIERA

La Grotta di San Benedetto, chiamata anche “Grotta della Preghiera”, è il principale  punto di riferimento di tutto il sacro complesso. E’ un anfratto del monte Taleo, dove, come dice san Gregorio Magno nel II libro dei “Dialoghi”, San Benedetto si ritirò a vita eremitica per tre anni, ignoto a tutti, fuorché a Dio e al monaco Romano, che dall'orlo della roccia sovrastante, mediante una lunga corda, mandava al Santo il cibo essenziale per la sopravvivenza. In seguito al tentativo di avvelenamento da parte di Fiorenzo, parroco della chiesa di San Lorenzo, situata sulla riva sinistra dell’Aniene, San Benedetto abbandonò la grotta ed essa rimase per circa seicento anni solo luogo di preghiera. Dopo il 1193 al Sacro Speco si insediò una comunità di dodici monaci, con una propria amministrazione, guidati da un priore dipendente dall'abate di Santa Scolastica, e la roccia in cui la grotta è inserita subì adattamenti e modifiche strutturali, per agevolarne l’accesso e consentire il normale svolgimento della vita monastica. Il papa che, in quel periodo, maggiormente ebbe a cuore l’esperienza benedettina, fino a riformarla, fu Innocenzo III, che andò spesso a Subiaco e valorizzò lo Speco.

LA CAPPELLA DI SAN GREGORIO

La Cappella di San Gregorio è un piccolo ambiente absidato costolonato, e vi si accede dalla Chiesa Inferiore attraverso una scala a chiocciola. A destra della finestra si trova, in un pannello rettangolare, l’affresco che rappresenta San Francesco d’Assisi, che ha in mano una carta, nella quale si legge: PAX HUIC DOMUI. Ai suoi piedi è raffigurato un piccolo monaco, con tonaca rosso cupo, che è, forse, il committente dell’opera. L’opera è anteriore al 1224, anno in cui San Francesco ebbe le stimmate, che qua non appaiono, come non figura l’aureola, ad indicare che il santo, in quel tempo, era ancora vivo.  Un altro affresco,che è posto a sinistra della finestra, rappresenta il cardinale Ugolino, vescovo di Ostia, divenuto poi papa col nome di Gregorio IX, dipinto nell'atto di consacrare la cappella a San Gregorio Magno. Molti riconoscono nella figura che si trova accanto ad Ugolino lo stesso San Francesco, che avrebbe assistito a tale consacrazione. Ugolino è dipinto secondo una formula compositiva, cara al Maestro di frate Francesco, desunta da una matrice culturale bizantina: la curvatura della figura nel rispetto della cornice d’arco.

Il monastero merita di essere visitato,è un gioiello dell'architettura, uno scrigno di tesori artistici ed un luogo suggestivo.

Papa Pio II lo definì il "nido di rondini".

 

sitografia:

https://benedettini-subiaco.org/index.php/monastero-san-benedetto[/vc_column_text][/vc_column]

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