L'EX CHIESA DI SANTA MARGHERITA A SCIACCA

Una delle chiese più ricche di Sciacca

L’originaria chiesa di Santa Margherita fu fondata nel 1342 per volere dei Cavalieri Teutonici, che ne mantennero il possesso fino al 1492, anno in cui l’ordine abbandonò la Sicilia; da questo momento in poi la chiesa fu aggregata alla chiesa della Magione di Palermo, al cui Regio Abate era soggetta. Erroneamente si faceva risalire la sua costruzione ad Eleonora d’Aragona, nipote del re di Sicilia Federico III d’Aragona e moglie di Guglielmo Peralta, conte di Caltabellotta. Nel 1594, grazie a un ingente lascito da parte di un ricco mercante catalano, Antonio Pardo, iniziarono le opere d'ampliamento e di ristrutturazione, ed infatti, la struttura pervenutaci risale a quest'intervento espresso dalla volontà del Pardo in punto di morte. Alcune tracce della struttura originaria ,che si presenta come unico blocco, sono ancora visibili sulle mura perimetrali sul lato meridionale del complesso monumentale.

L'ex chiesa di Santa Margherita a Sciacca: descrizione

Il prospetto principale ricade su Piazza Carmine, dove si trova uno dei due portali in chiaro stile gotico-catalano, costituito da due pilastri ottagonali supportati da una triplice ghiera. In alto due finestre, un rosone e un poderoso cornicione lapideo dal quale sporgono grondaie in pietra simili a bocche di cannoni. Sul lato sinistro della Chiesa, che prospetta su via Incisa, vi è un secondo portale in marmo bianco, impreziosito dalla presenza di alcune sculture a basso rilievo, realizzato nel 1468 da Pietro de Bonitade su disegno del famosissimo scultore, di origine dalmata, Francesco Laurana. Questo portale, quasi certamente, apparteneva alla prima chiesa e fu poi adattato alla seconda. Salta agli occhi la discordanza stilistica tra l'arco inflesso del fastigio, che è gotico, e l'arco della lunetta che è rinascimentale. L'arco rinascimentale è un'aggiunta posteriore (in origine circoscriveva la lunetta l'arco inflesso) e il suo inserimento tra l'arco inflesso e l'architrave ha determinato lo spostamento dei due pilastrini e l'aggiunta di lastre di marmo tra pilastrini e stipiti del portale. Entrando all'interno della chiesa si è subito colpiti dalla sua magnificenza. Essa è a navata unica e mostra una ricca decorazione in stucco in stile barocco (angeli, putti, arabeschi, figure esoteriche, volute e medaglioni), policromata ed affrescata da Orazio Ferraro nel XVII secolo. Appartengono allo stesso autore gli affreschi con la Crocifissione e la Madonna dell’Itria in prossimità dell’altare. Sull'altare principale è posta una statua lignea di Santa Margherita datata 1544 opera del maestro Alberto Frixa (o Frigia). Una serie di medaglioni, raffiguranti episodi della Via Crucis opera di Giovanni Portaluni, ornano l'intradosso dell'Arco Trionfale. Nel transetto vi sono inoltre due quadroni con l’Adorazione dei Magi e la Nascita di Gesù dell’artista Gaspare Testone e un sarcofago con un’iscrizione latina, recante la data 1602, nel quale sono conservate le ceneri di Antonio Pardo che prima erano nella vicina chiesa di S. Gerlando.

Passando dal transetto alla navata, la decorazione in stucco si attenua, la plastica si appiattisce, le statue a tutto tondo cedono il posto a figure di minore rilievo. Qui, sulle pareti spaziose della navata, vi sono sei grandi quadri dipinti a olio del celebre pittore licatese Giovanni Portaluni con varie scene: il martirio di S. Oliva, l'Adorazione della Croce con tutto il popolo, S. Elena e Costantino, la liberazione della peste con l'intercessione della Maddalena, S. Calogero e S. Rosalia, scene della vita di S. Gerlando e il martirio di S. Barbara. Nel quadro raffigurante S. Gerlando, alla destra del Santo che distribuisce il pane ai poveri, è ritratto Antonio Pardo, il munifico benefattore della chiesa. I restanti medaglioni sono stati realizzati dal pittore saccense Michele Blasco. Alla titolare della chiesa, invece, è dedicato un altare sul lato destro in marmo scolpito a bassorilievo databile tra il 1504 e il 1512, che descrive la vita e il martirio di Santa Margherita, opera attribuita al carrarese Bartolomeo Birrittaio e al suo collaboratore Giuliano Mancino. La parte posteriore della chiesa è dominata da un maestoso organo di legno a canne decorato con sculture di santi e angeli, opera di La Grassa del 1641, posto dentro un tabernacolo ligneo. Il soffitto è ligneo a cassettoni ed è stato realizzato nel 1630 dal maestro saccense Antonio Mordino. Al centro del soffitto a cassettoni trova posto una tela di buona mano e in buono stato di conservazione, raffigurante l'Immacolata, di cui si ignora l'autore. La pavimentazione attuale è composta da maioliche smaltate bianche e nere che riprendono il modello originario trovato durante gli scavi condotti dalla Soprintendenza.Dopo anni di incuria e di totale abbandono (dal 1907 fino alla fine degli anni '80) è stata restaurata e riaperta al pubblico, anche se non più adibita alle funzioni religiose, e per un breve periodo ha ospitato mostre ed eventi vari. Dal 2017 a causa di infiltrazioni d’acqua l'ex chiesa di Santa Margherita a Sciacca è nuovamente e tristemente chiusa al pubblico.

Cappella dedicata a S. Margherita

Organo e tabernacolo ligneo con sculture di santi e angeli.

Navata e altare principale

Dettaglio altare con statua lignea di Santa Margherita dello scultore A. Frixa

Soffitto a cassettoni con tela dell’Immacolata di autore ignoto

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LA CHIESA DI SANTA MARIA VETERANA A TRIGGIANO

“Nel cuore della vecchia Triggiano, nei vasti meandri tufacei del sottosuolo, ove oggi ergesi la bella mole architettonica della chiesa dedicata a Santa Maria Veterana, disimpegnossi nel più fosco Medioevo, il culto cattolico”.

La Chiesa di Santa Maria Veterana, grazie alla sua evoluzione artistica, nel corso dei secoli ha segnato la storia di Triggiano, paese a pochi chilometri da Bari, che a cavallo tra il 1600 e il 1700 divenne un centro artistico molto attivo e molto apprezzato, anche per il nutrito numero di artisti locali che vi operavano (i due fratelli De Filippis, discenti della scuola napoletana, il fiammino Hovic e un non meglio identificato “pittore di Triggiano”).

L’attuale costruzione è stata innalzata nel 1580 su una chiesa medievale preesistente: questa, fondata probabilmente intorno al 1080, per volere di un sacerdote barese, abbracciava il castrum Triviani e presentava la facciata rivolta verso Ovest – esattamente opposta a quella moderna -.

La chiesa infatti, nei vari secoli, ha subìto trasformazioni e ampliamenti conseguenti all’incremento demografico e urbanistico che il paese man mano attraversava, e che la rendevano incapiente alle esigenze liturgiche dettate all’indomani del Concilio di Trento; tra queste trasformazioni possiamo ricordare quella avvenuta tra il 1908 e il 1913 durante la quale, per l’appunto, venne rimossa la facciata dal lato Ovest e trasportata sul lato Est. Qui fu dotata di maggiore decoro artistico, del tutto differente da quello iniziale. Un’altra trasformazione è quella del 1982, grazie alla quale venne recuperato l’ipogeo della chiesa medievale sottostante ed originaria, i suoi affreschi, le tombe e i sepolcreti.

Santa Maria Veterana a Triggiano: descrizione

La descrizione architettonica ed estetica della fabbrica comincia dalla facciata, che si innalza maestosa e tripartita – esattamente come le navate interne – in pietra bianca, chiusa, secondo una lettura verticale, da due paraste ioniche che scaricano il loro peso su due piedistalli.

La parte centrale, ospitante il portale maggiore e corrispondente internamente alla navata centrale, presenta due colonne corinzie che sorreggono un ampio arco a tutto sesto, nel quale trova spazio anche una piccola finestra ogivale ornata a losanghe e poggiata – lieve – sulla cornice dell’architrave del portale. Le due porzioni laterali della facciata ospitano due portali più piccoli; sormontate da ogive dentellate  di piccole dimensioni, presentano due rosoni di dimensioni inferiori rispetto al principale.

Se si volesse seguire una lettura orizzontale della facciata, si noterebbe come essa sia divisa su due livelli: quello inferiore, più quadrato e compatto, in cui sono presenti gli elementi appena descritti, e quello superiore, cuspidato, che accoglie il prezioso rosone ricamato nella pietra con motivi curvilinei.

Risalente nel 1500, con un diametro di ben 3.80 mt, ha “seguito” lo spostamento della facciata. Inscritto in uno spazio quadrato è sormontato, a sua volta, da uno spiovente a timpano riccamente decorato con festoni di alloro che scandiscono perfettamente lo spazio della cornice. Ai lati del corpo quadrato troviamo due lunette a forma di conchiglia che poggiano su una fuga di archetti, tutti a sesto acuto, stretti da pinnacoli che chiudono l’intera struttura.

E’ interessante soffermare l’attenzione e notare come la forma a conchiglia di queste due lunette rimanda, visivamente, alle decorazioni presenti ai lati della finestrella ogivale, di cui prima. Possiamo tracciare, quindi, delle linee diagonali che regolano lo spazio, organizzandolo in maniera geometrica: il rosone centrale è collegato da rette, immaginarie, ai due piccoli laterali, formando insieme un triangolo volto verso l’alto. Di conseguenza le due lunette a conchiglia del registro superiore legano con quelle della finestrella, formando un triangolo volto verso il basso.

Attraversando il portale centrale, l’interno si apre e si mostra con un tipico impianto basilicale, a tre navate e catino absidale sopraelevato.

I pilastri presenti nella navata centrale intervallano le quattro campate e presentano scanalature frontali terminanti con ricchi capitelli che, a coppie simmetriche, rappresentano (dall’ingresso verso il fondo): due allegorie musicali – ad delimitare l’organo e il coro -, la cacciata dal Paradiso e l’Arcangelo a guardia, la vita e la morte, le quattro stagioni e il cielo  e la terra – ai lati dell’arco absidale -. Questi pilastri sorreggono archi a tutto sesto risalenti al 1500.

L’altare maggiore, monumentale, dell’inizio del XX secolo, consacrato al culto della Vergine, è in marmi pregiati in stile bizantino-pugliese, disegnato da Corradini.

Dominato dalla tela raffigurante l’ “Esaltazione della Vergine” di Vitantonio De Filippis (XVII secolo), risente nel modulo compositivo della Controriforma.E’ ripartita in due piani: in alto domina la figura della Vergine, sorretta da un coro di putti e totalmente immersa nella luce, mentre in basso presenziano alla scena (da sinistra a destra) San Sabino, San Vito, San Nicola (in abito episcopale), Sant’Antonio da Padova e San Filippo Neri.

Lungo tutto l’asse longitudinale dell’altare, corrono, una serie di bassorilievi in bronzo simboleggianti la vita della Vergine, dalla nascita all’Assunzione, per mano del Sabatelli.

Lungo le navate laterali, più piccole, si aprono una serie di cappelle volute sul finire del 1500 da associazioni di fedeli per l’esercizio di opere di carità e di pietà. Particolarmente degno di nota è il cosiddetto Cappellone dedicato a Maria SS di Costantinopoli (seconda cappella nella navata di sinistra): articolata su un piano terra e un piano superiore, a cui si accede tramite due scalinate laterali.

Al piano terra, l’altare di inizio 1900 è devoto al Santissimo Sacramento, è in marmo bianco con due angeli ai lati, anch’essi in marmo. Il piano superiore presenta un secondo altare, del 1832 per mano di Pollenza di Napoli, sovrastato da un affresco del 1500 raffigurante la Madonna Odegitria di Costantinopoli ridipinto, purtroppo, per rispondere ai diversi gusti delle epoche attraversate: la Vergine in trono con abito rosso e mantello blu, ha il capo inclinato e sostiene con entrambe le mani il Bambino che, avvolto in un drappo, porta tra le mani un uccellino (probabilmente un cardellino, simbolo della Passione, futuro destino del fanciullo).

In qualsiasi direzione il nostro occhio si posi, l’interno è ricco di tele databili tra il XVI e il XIX secolo, anche se ha perso molto della sua atmosfera rinascimentale, per via delle sovrapposizioni con decori liberty, portate dal restauro del 1908-1913. Come ad esempio quelle del soffitto.

Il soffitto è a tavolato con tele mistilinee, un tempo raccordate tra loro da decorazioni a racemi rocaille, rimosse e perdute durante i restauri. Le tele raffigurano il ciclo pittorico della vita della Vergine Maria: la Presentazione al tempio, Natività, Incoronazione, Sposalizio e I Santi Evangelisti.

La prima tela Presentazione al tempio, Maria in ginocchio sulla gradinata viene ritratta nel momento in cui viene presentata al Sommo Sacerdote da parte dei genitori Sant’Anna e san Gioacchino, mentre all’estrema destra due donne sembrano commentare quello che sta avvenendo. Il tutto inserito in una composizione di angeli e putti.

La Natività invece è una tela tripartita in registri orizzontali e paralleli: dal basso c’è il momento della nascita, al centro San Gioacchino e Sant’Anna, distesa su dei cuscini assistita da ancelle, in alto gli angeli festeggiano l’avvenimento.

Nell’Incoronazione, la tela più grande del ciclo pittorico la Vergine occupa la scena centrale in attesa dell’incoronazione da parte del Padre Eterno e del Figlio, poco al di sopra di lei.

La scena dello Sposalizio è occupata da Maria e San Giuseppe che, uniti in matrimonio, sono benedetti dal sacerdote alle loro spalle. Sul primo gradino si legge R.D Nicolò De Filippis P(inxit) A.D 1746.

I Santi Evangelisti sono racchiusi singolarmente e in maniera plastica, seppur immersi nella luce, in piccole tele triangolari e lobate, accompagnati dai loro simboli: aquila per San Giovanni, leone per San Marco, bue per San Luca, uomo per San Matteo.

L’ultimo apparato, separato dal perimetro chiesastico e collocato dietro l’abside, è la torre campanaria del 1580, che danneggiata dal nubifragio del 1681 è arrivata a noi senza la cuspide piramidale di cui era dotata.

Come detto all’inizio, l’attuale chiesa sorge sulla prima chiesa medievale, riportata alla luce nel 1982 durante i lavori di restauro sul pavimento attuale, dando una forte conferma a quello che sino ad allora si era solo ipotizzato; dedicata alla Madonna della Grazia, fu parzialmente abbattuta cinque secoli dopo la sua costruzione per fare spazio al nuovo tempio più ampio. L’ipotesi di datazione alla metà dell’XI secolo della chiesa è confermata anche da un’iscrizione lapidea ritrovata durante i lavori che ha permesso di risalire a colui che ne volle l’edificazione.

[ MAGISTER ] LEO DIALECTIEUS ATQUE SACERDOS

[ HANC] AD LAUDEM XPI GENETRICIS AMANDE

[D] EDI MAGNI PRECURSORIQUE IOHANNIS

[ BA] SII SACRI SIMUL ET CUM MATREQUE NATIS

[ S.S.] LEONUM CONFESSORUMQUE DUORUM

 

Dettata quindi da Leone, dialettico e sacerdote, molto probabilmente barese.

Oggi, scendendo al piano inferiore della Chiesa Madre, ci si trova immersi in un percorso sotterraneo i cui resti di epoche differenti si mescolano e convivono perfettamente: a sinistra le mura perimetrali cedono il passo alle fondamenta dell’edificio superiore sul lato destro. Dagli elementi architettonici presenti e rimasti fino a noi si capisce come, anche il corpo medievale, era concepito su tre navate, con l’abside posto in corrispondenza della centrale.

Dal sagrato medievale si giunge, attraverso il percorso creato per i visitatori, ad ammirare un pozzo ed una cisterna scavati nel sottosuolo fino ad uno spesso strato di argilla, che, da materiale impermeabile quale è, avrebbe protetto la costruzione da eventuali penetrazioni di acqua.

Il perimetro racchiude ben 19 tombe, alcune ancora integre ed altre solo parzialmente, distrutte in seguito alla costruzione dei pilastri di sostegno dell’attuale costruzione. Con pianta rettangolare e scavate nella roccia sono disposte lungo tutta la navata centrale sino a raggiungere l’abside. Dalle tombe a fossa, presenti al di sotto delle tombe normali, sono state ricavate le camere sepolcrali, costruite a fine 1500 durante la realizzazione della chiesa superiore ed utilizzate come sepolcreti fino al XVIII secolo, quando l’editto di Napoleone sancì il divieto di seppellire i defunti negli edifici sacri. Qui, infatti, fino a quel momento erano sepolti non solo gli appartenenti alle confraternite, ma anche i loro famigliari. Da un’analisi specifica le pareti e le volte dei sepolcreti appaiono molto deteriorati a causa del gas che i corpi in decomposizione hanno emanato nell’arco dei secoli.

Completamente affrescata – ipotesi molto probabile – come anche testimoniano i frammenti a tre strati arrivati sino a noi, nel vano absidale è stato ritrovato un frammento a massello raffigurante il volto, di tre quarti, del Bambino, con incarnato roseo ombreggiato da toni verdastri e capelli lisci, contornato da una forte linea nera.

Sulla parete destra è apprezzabile, seppur mutila, la raffigurazione di San Leonardo, con le sue catene pendenti dal braccio sinistro, accompagnato, sul secondo strato, dalla testa di un animale con fauci aperte (forse un cane o un leone). A questo, su un ulteriore strato sovrapposto, si riconosce la figura di San Vito, con un gonnellino da centurione, gambe calzate e due cani ai suoi piedi: palesemente posteriore all’affresco di San Leonardo, è databile nella seconda metà del XVI secolo. Caratteristica comune ad entrambe è il carattere votivo.

Questa fabbrica d’altronde ci consente di affermare come, in ogni tempo, sia possibile conservare e preservare l’antico e il moderno, il medievale e il rinascimentale, racchiudendo in maniera naturale le sue anime al servizio del culto cristiano.


IL MONUMENTO FUNEBRE DI ISABELLA D'ARAGONA

A cura di Antonio Marchianò

Introduzione

Il monumento funebre di Isabella D’Aragona

Il monumento funebre di Isabella D’Aragona si trova nel transetto della Cattedrale di Cosenza. Il monumento era scomparso in seguito ai rimaneggiamenti subiti della Cattedrale e fu scoperto solo nel 1891 durante i lavori di restauro. Si ritiene che venne realizzato poco dopo la morte della Regina da uno scultore francese, forse facente parte del seguito dei reali, attivo nell'ottavo decennio del Duecento. L’opera è giunta frammentaria, priva di iscrizioni che doveva accompagnarla, delle probabili dorature, delle cromie e della cassa in cui furono conservate le spoglie della regina. Il monumento è uno degli esempi più significativi di scultura monumentale dell’Ile-de-France conservato nell'Italia meridionale.

Fig. 1 - Monumento funebre di Isabella d’Aragona.

Isabella D’Aragona nacque nel 1248, figlia di Giacomo I il conquistatore re di D’Aragona, la più piccola di otto fratelli. Della sua infanzia e adolescenza si conosce poco, però si sa che fu "utilizzata" per i giochi di potere di suo padre che voleva rafforzare sia la sua posizione in Europa e presso i francesi, sia combattere gli infedeli, cioè i musulmani. E infatti con il trattato di Corbeil Giacomo concesse sua figlia al figlio del re di Francia, Felipe, e questo segnò la pace tra i due grandi regni. Nel 1262 i due si sposarono a Clermont-en-Auvergne e l’anno seguente ebbero quattro figli. Durante questo periodo il re di Francia, che era molto cristiano, sarà il futuro San Luigi dei francesi, decise di fare una crociata per liberare Gerusalemme. Nel luglio 1270 Isabella accompagnò il marito Filippo III l’Ardito a Tunisi per l’Ottava Crociata, successivamente ad agosto, Isabella divenne regina di Francia per la morte del suocero Luigi IX di Francia. Al ritorno in Francia l’11 gennaio 1271, mentre attraversava il fiume Savuto nei pressi di Martirano, in Calabria, incinta di sei mesi del quinto figlio, cadde da cavallo. Dopo numerosi giorni di agonia morì il 28 gennaio. Filippo III fece seppellire nella Cattedrale di Cosenza il corpo della regina insieme al figlio nato morto, mentre le ossa furono trasportate nella Basilica di Saint-Denis in Francia. Nell’archivio della Cattedrale di Cosenza c’è una piccola pergamena che spesso viene confusa con il testamento di Isabella. Essa è in realtà, un atto di compra-vendita della vendita di un terreno. Inoltre in questo testo è citato come il re di Francia abbia donato del denaro affinché venisse celebrata una messa in suffragio della defunta moglie. Il vero testamento fu scritto durante la sua agonia tra il 19 e 28 gennaio. In esso Isabella appare come la regina dei Francesi, dice di offrire del denaro per costruire la cappella dove doveva riposare, lascia del denaro alla badante dei suoi figli, lascia i suoi soldi e i suoi vestiti ai poveri, agli studenti e agli infermi.

Il monumento si presenta come una trifora cieca a trafori di trilobi e quadrilobi in un disegno e un dettaglio di esecuzione di tardo rayonnant, simile a quello dei finestroni delle cappelle che venivano costruite lungo i fianchi di Notre-Dame a Parigi. I tre altorilievi a grandezza poco meno naturale assumono aspetto di statue entro nicchie e mostrano lo stile grazioso e sofisticato proprio di tanta scultura, anche funeraria, prodotta in ambito della corte parigina. Al centro del monumento troviamo la Madonna con il bambino, dal panneggio sinuoso e che accenna a un delicato incurvarsi del corpo, tipico della statuaria francese del duecento e degli avori (fig.2). Ai lati della Madonna, in atto di adorazione, compaiono la regina (fig.3) a sinistra e sulla destra Filippo L’Ardito (fig.4).

Lo studioso Stefano Bottari ha notato che il volto della regina è raffigurato con occhi chiusi, sembra calcato su una maschera mortuaria, Mentre i lineamenti del re sono simili a quelli che si vedono nella figura giacente del suo monumento di Saint-Denis, avviato per iniziativa da Filippo il Bello nel 1298 e sistemato nel 1307. Nel caso della figura del re il confronto con la tomba di Saint-Denis è interessante perché, oltre ai tratti fisionomici e alle peculiarità del costume, che appaiono molto simili, si riscontrano analogie anche sul piano stilistico. Questo suggerisce l’origine e l’educazione francese dell’ignoto scultore autore della tomba cosentina, avvenuta appunto tra i cantieri di Saint-Denis e quelli di Notre-Dame. La presenza a Cosenza della tomba di questa regina deve considerarsi del tutto causale per l’imprevedibilità della morte avvenuta durante la caduta da cavallo.

Fig. 2 - Monumento funebre, Madonna con il bambino al centro, ai lati Isabella d’Aragona e Filippo L’Ardito.

 

Bibliografia e Sitografia

Arnone N., "Le tombe regie del Duomo si Cosenza", Archivio storico per le provincie napoletane, 18, 1893, pp. 380-408.

Bottari S., "Il monumento alla Regina Isabella nella Cattedrale di Cosenza", Arte antica e moderna, 4, 1958, pp. 399-344.

De Castris 1986, Arte di corte nella Napoli angioina, Napoli 1986,p. 161.

Foderaro G., "Il sepolcro della regina Isabella d’Aragona nel Duomo di Cosenza", Bollettino calabrese di cultura e bibliografia, 7, 1990, pp. 292-306.

Martelli G., "Il monumento funerario della regina Isabella nella Cattedrale di Cosenza", Calabria nobilissima, 4, 1950, pp. 9-21.

Romanini, Angiola Maria. Peroni Adriano, Arte Medievale, interpretazioni storiografiche, Spoleto 2005, pp. 403.

 

Sitografia

http://www.cattedraledicosenza.it/


IL CASTELLO DI ARCO

A cura di Alessia Zeni

Il castello dalle 120 stanze

Nella zona dell’Alto Garda esiste una delle rocche più belle e complesse della regione, il Castello di Arco. Per chi arriva da nord, dalla piana del fiume Sarca o, da sud, dal Lago di Garda, si porge agli occhi un’imponente e suggestiva rupe rocciosa dominata dal Castello di Arco. Uno dei castelli più articolati del Trentino per la sua estensione di circa 23000 mq e le numerose strutture fortificate. I restauri condotti nel 1986 e nel 2003 hanno permesso di ridare antica dignità all'intero maniero con il consolidamento degli edifici superstiti, la sistemazione di un percorso di visita e, cosa più importante, la scoperta di un ciclo di affreschi trecenteschi raffiguranti scene di gioco con dame e cavalieri.

Fig. 1

Prima di parlare delle strutture e del ciclo di affreschi è bene ricordare la storia che da sempre avvolge il castello di Arco. Una storia legata al paese omonimo, adagiato alle pendici della rupe, e alla famiglia nobile degli Arco che per molti secoli ha abitato il castello. Intorno all'anno Mille il castello già esisteva, ma la rupe che sovrasta il borgo di Arco è stata luogo di insediamento già in epoca romana. Ad ogni modo, l’origine del Castello di Arco sembra avvalorata dall'ipotesi che esso sia stato costruito dagli “uomini liberi” della comunità di Arco con finalità soprattutto difensive. In seguito il castrum Archi diede il nome alla comunità che attorno alla rupe si sviluppò e alla famiglia nobile che lo abitò. I conti d’Arco vissero nel castello fino alla fine del Quattrocento quando si trasferirono in più comodi e lussuosi palazzi e al castello tornarono solo per assumerne la giurisdizione o per difenderlo. Nel corso dei secoli diversi nemici tentarono di espugnare il maniero, dalla famiglia trentina dei Lodron, gli Sforza di Milano, agli Scaligeri di Verona. I tentativi furono però vani, segno di un sistema difensivo impeccabile che venne espugnato solo dai tirolesi, nel 1579, e dal generale Vendome nel 1703. Dopo l’attacco francese il castello cadde nell'oblio e divenne meta di povera gente alla ricerca di materiale di recupero. Nel frattempo i conti d’Arco si erano frazionati in tre casate, quella di Arco, Mantova e della Baviera, dividendosi in parti uguali anche il Castello di Arco. Nel 1982 il Comune di Arco acquistò il castello e nel 1986, condusse i primi restauri che hanno portato alla luce i magnifici affreschi, oltre a nuovi locali e percorsi interni. Infine la campagna di restauri, ultimata nel 2003, ha reso accessibile la torre sommitale, la più antica, con un percorso di vista all'interno di un caratteristico paesaggio gardesano.

Tornando alla struttura del castello, molte sono le immagini e i dipinti che testimoniano l’antica grandezza del castello. Mattias Burgklechner ci ha consegnato una stupenda raffigurazione di Arco con il castello e la testimonianza scritta di “castello dalle centoventi stanze”. Ma l’immagine più significativa è quella dell’artista Albrecht Dürer, realizzata durante un viaggio in Italia intorno al 1494. Un acquerello di inestimabile valore per la qualità e la cura dell’esecuzione che riproduce il Castello di Arco su un grande costone roccioso davanti ad un paesaggio maestoso, contraddistinto da uliveti e campi coltivati a vite, mentre il borgo, ai piedi della rocca, sembra mimetizzarsi con la natura circostante.

Il castello, come già anticipato è uno dei manieri più articolati della regione per la sua estensione e le numerose strutture che lo compongono. Il primo spazio visitabile, salendo lungo la rupe del castello, è il prato della Lizza, un tempo fertile campagna, oggi magnifico punto d’osservazione verso la vallata e il castello. Proseguendo, troviamo la Prigione del Sasso, ricavata in un anfratto roccioso che porta sulle pareti i segni attribuiti alla conta dei giorni di qualche recluso del castello. Si arriva poi alla Slosseraria, il laboratorio del fabbro, testimonianza di una delle tante attività artigianali che erano praticate dentro il castello. Lungo l’acciottolato che conduce alla Torre Grande vi sono i resti di due cisterne e la canaletta ricavata nella roccia per raccogliere l’acqua piovana e convogliarla nelle cisterne, unica fonte idrica non essendoci sorgenti sulla rupe.

Fig. 4

La struttura più importante è la Torre Grande, risalente al XIII secolo, una torre imponente con merlatura a coda di rondine e pareti in pietra squadrata. Attorno vi sono i ruderi di altre costruzioni, case di abitazione, laboratori e magazzini a formare una sorta di piccolo borgo fortificato.

Nei pressi della torre vi è il locale della “stuetta” con la magnifica Sala degli Affreschi che venne scoperta nel 1986, quando era ingombra di macerie. Il ciclo di affreschi è di anonimo pittore, riconosciuto oggi come il Maestro di Arco, e racconta numerosi episodi di vita curtense che testimoniano la grande abilità professionale dell’artista. Sono immagini uniche nel loro genere in quanto raffigurano la vita di dame e cavalieri del Trecento e scene di gioco della stessa epoca. Nelle scene di gioco troviamo uomini e donne che si sfidano al gioco degli scacchi e dei dadi, incrociando i loro sguardi e le loro mani in diversi atteggiamenti curati con grande attenzione dal pittore. Curiosa è poi una scena di svago, dove due giovani fanciulle sono accompagnate da un cavaliere che tiene delle rose appena colte in un roseto, nel grembo del suo mantello. Le immagini a seguire presentano momenti di vita cavalleresca con un cavaliere che porta in groppa al suo cavallo una dama e un giovane cavaliere in congedo dalla sua dama che con le mani sulla sua testa gli trasmette coraggio e protezione. Non mancano immagini che lasciano intravedere lo scontro di cavalieri in una giostra e altri riquadri, ma purtroppo lacunosi.

Se la parte affrescata del maniero è la parte più visitata e importante del castello di Arco, i monumenti da visitare del maniero non finiscono qui. Infatti, proseguendo lungo il percorso panoramico che porta alla sommità della rupe, si arriva alla torre più antica del castello di Arco, la Torre Renghera. La torre è il mastio del castello che fu costruita sulle fondamenta di un edificio preesistente, a diversi metri dal suolo, per rendere la torre inaccessibile. Essa era chiamata Renghera perché vi era collocata una campana, detta “la Renga”, che aveva il ruolo di chiamare a raccolta i cittadini della comunità sottostante. Infine, scendendo dalla rupe, si giunge all'ultima struttura, la Torre di Guardia, sorta in posizione strategica per controllare le tre direttrici viarie. Dalla torre si spalanca un paesaggio unico, aperto verso la piana del fiume Sarca, che veniva controllato dalle sentinelle attraverso tre piccole finestrelle della torre.

Fig. 10

Questa in breve è la storia del Castello di Arco, una storia che non vuole essere esauriente, ma vuole dare una panoramica di quello che compone uno dei castelli più articolati e imponenti del Trentino. Un castello meta di vista dei molti turisti che frequentano la zona dell’Alto Garda, ma anche oggetto di studio dei ricercatori che si occupano di pittura e architettura castellana del Basso Medioevo. Insomma un castello che almeno una volta nella vita meriterebbe di essere visitato, anche solo per l’immenso panorama che lo caratterizza.

Fig. 11

 

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:
Pontalti Flavio, Il castello di Arco: note preliminari sull'esito dei lavori di restauro e sulla scoperta di un ciclo di affreschi cavallereschi nel castello, in “Il sommolago”, 4, 2, 1987, pp. 5-36
Turrini Romano, Arco, il castello e la città, Rovereto, ViaDellaTerra, 2006
Il castello di Arco, a cura di Umberto Raffaelli e Romano Turrini, Provincia autonoma di Trento, Trento, Temi, 2006
Il castello dalle centoventi stanze, a cura di Giancarla Tognoni e Romano Turrini, Arco, Il Sommolago, 2006
APSAT 4: castra, castelli e domus murate, schede 1, a cura di Elisa Possenti, Mantova, Società archeologica padana, 2013, pp. 390-398
AD 2019: Albrecht Dürer e il castello di Arco, Arco, Comune di Arco, 2019