“IL QUARTO STATO”: IL MANIFESTO DEI LAVORATORI

A cura di Silvia Piffaretti

“Andate a vedere una cosa, guardatela a fondo, e questa cosa racconterà molto più di tante cose viste superficialmente, luna dopo laltra”.

Philippe Daverio

Con queste parole del noto critico appena scomparso ci si addentrerà nel Museo del Novecento di Milano, dove ad accogliere il visitatore è “Il Quarto Stato” del pittore divisionista Giuseppe Pellizza da Volpedo. La tela, acquistata dalla città nel 1921 attraverso una sottoscrizione pubblica, subì diverse vicissitudini e fu esposta nella Giunta di Palazzo Marino dove il suo culto venne esaltato da Corrado Maltese, che consacrò l’opera come il “monumento più alto che il movimento operaio abbia mai potuto vantare in Italia”. La nostra Costituzione dichiara che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro, così che ciascuno possa concorrere al progresso materiale o spirituale della società ed elevare la propria dignità, anche attraverso la cultura; a dimostrarcelo è lo stesso Pellizza.

Fig. 1 - Museo del Novecento, Milano. (www.milanopocket.it)

Il ritratto di un intellettuale

L’artista nacque nel 1868 a Volpedo, in provincia di Alessandria, da un'agiata famiglia di contadini che gli permise di apprendere i rudimenti del disegno. Pellizza fu avido di sapere tant’è che, non stancandosi mai di apprendere, frequentò le più importanti accademie italiane. L’animo dell’artista è ben sintetizzato nel suo “Autoritratto” (1899) degli Uffizi, in cui si dipinge come un intellettuale accompagnato dalla libreria e dai pennelli. Di quel quadro all’amico e critico Pica scriveva: “Bellezza, amore, vera vita, avvenire stanno del continuo a me davanti ed io mincammino, tranquillo in apparenza verso di loro sorretto dallarte, spalleggiato dalla sapienza antica e moderna, confortato dalla speranza”. Per Pica egli aveva l’indole del sognatore assorbito dalla sua arte che amava con passione sopra ogni cosa, l’artista inoltre sosteneva l’idea di un’arte per l’umanità legata ai temi sociali e che denunciasse lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Fig. 2 - Autoritratto, Giuseppe Pellizza da Volpedo, 1899, Uffizi. (www.pellizza.it).

“Il Quarto Stato”: il manifesto dei lavoratori

La genesi de “Il Quarto stato” iniziò nel 1898, anno di avvicinamento al divisionismo, in cui scrisse a Vittore Grubicy: “fra poco darò mano ad una vasta tela ove si disperderà pressochè tutta la mia energia” e “sarà il pennello soltanto a raccontare i miei sogni e le mie aspirazioni”. La tela nacque dall’osservazione di una protesta milanese di alcuni lavoratori che manifestarono contro la tassa sul pane, il re di allora diede l’ordine di intervenire e la rivolta fu sedata dal generale Bava-Beccaris che sparò coi cannoni sulla folla. Pellizza rimase colpito da tale episodio, ma invece di illustrarlo lo utilizzò per mandare un messaggio universale. Ne “Il Quarto Stato” realizzato con la tecnica divisionista, che considerava “il mezzo indispensabile per dar forma ai nostri sogni”, riuscì a convogliare il bagaglio realista della riproduzione del vero, una carica simbolista e i modelli rinascimentali con la consapevolezza moderna dei propri diritti civili.

In realtà l’artista già prima del 1898 aveva iniziato a lavorare sul medesimo tema: nel 1891 infatti incominciò il bozzetto degli “Ambasciatori della fame” (1892). Quest’ultimo rappresentava una folla in protesta guidata da tre contadini che, in primo piano, si incamminavano per rivendicare migliori condizioni economiche verso un’ombra rappresentante il palazzo dei proprietari terrieri-oppressori. Pellizza dichiarò che essi erano uomini, donne, vecchi e bambini che avevano molto sofferto e che reclamavano ciò che gli spettava con la ragione, non con la forza. Successivamente nel 1895 realizzò uno studio preliminare ad olio, collocato a Brera, dal titolo “La fiumana” (1895-96). Il titolo si riferiva alla fiumana creata dalla folla di lavoratori della terra, forti e determinati, che avanzavano non contro gli oppressori ma verso una strada che portava alla serenità, travolgendo ogni ostacolo. L’ombra in primo piano, presente nel bozzetto del 1892, scompariva e in favore di una donna con un bambino in braccio, espressione dell’umanità. L’artista ridonò così vitalità a un popolo che non era più “una natura morta, ma una massa vivente e palpitante, piena di speranze umili o di minacce oscure”.

 

Dopo una serie di studi preliminari Pellizza giunse alla realizzazione de “Il Quarto Stato” (1898-1901), dove una folla di braccianti serena e pacifica, nella piazza di Malaspina a Volpedo, avanzava da un cielo cupo verso una luce speranzosa. Il pittore, in una delle sue testimonianze scritte, aveva affermato: “non mi vergogno della macchia lasciata dal colore che è caduto sul mio abito così voi dovete farvi vanto delle mani callose e della fronte bagnata di sudore” poiché “chi sa provvedere il vitto per sé e per la famiglia col lavoro delle proprie braccia è veramente nobile”, furono proprio queste convinzioni che lo spinsero a rappresentare la nascita del proletariato.

In questa tela, inizialmente intitolata “Il cammino dei lavoratori”, rese la fiumana più tumultuosa e mise in rilievo la gestualità, proponendosi di raggiungere con le forme e i terrosi colori della povertà un'armonia parlante. In primo piano emergono tre figure, due uomini e una donna con un bambino in braccio. La donna a piedi nudi, che è un ritratto della moglie Teresa, invita i manifestanti a seguirla. L’uomo centrale rappresenta un intelligente lavoratore che avanza con fierezza, mentre tiene una mano nella cintola dei pantaloni e con l'altra regge la giacca adagiata sulla spalla. L’altro uomo sembra invece avanzare pensoso con la giacca sulla spalla sinistra, mentre sullo sfondo si stagliano il resto dei manifestanti che compiono con naturalezza diversi gesti.

 

 

I colleghi del pittore gli chiesero perché i lavoratori non innalzassero le braccia e le bandiere del partito; Pellizza rispose che “la coscienza della loro forza non li spinge allimprecazione, ormai essi vincono”. L’opera mostra che non c’era bisogno di manifestare con esagitazione e violenza, al contrario, con una forza calma i lavoratori affermavano la loro presenza nella storia. Una volta terminato, al quadro fu dato l’attuale titolo legato alla “Storia della rivoluzione francese” di Jean Jaurés, dove si sottolineava come accanto alla borghesia, ovvero il Terzo Stato, in Francia esistesse la componente proletaria del Quarto Stato.

La tela fu mostrata al pubblico per la prima volta alla Quadriennale di Torino del 1902, ma non ebbe alcun riconoscimento: Pellizza ne rimase talmente deluso da abbandonare i rapporti con molti letterati e artisti e, a seguito della morte della moglie, il 14 giugno 1907 si suicidò impiccandosi nel suo studio di Volpedo. Nonostante l’apparente insuccesso dell’opera, il poeta Giovanni Cena la ritenne “una cosa che resterà e che non ha paura del tempo, perché il tempo le gioverà, affermazione lungimirante e veritiera poiché ancora oggi costituisce uno dei più importanti simboli della lotta per i diritti dei lavoratori.

 

Bibliografia

Monica Vinardi, Studi e riscoperte. Immagini di repertorio, in Art Dossier, XIV, n.151, Dicembre

Michele Nani, Liliana Ellena, Marco Scavino, Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo tra cultura e politica. Un’immagine e la sua fortuna, Edizioni Angolo Manzoni, 2002.

Sergio Momesso, Prima della pittura. La donna con il bambino del ‘Quarto Stato. Storia e restauro, Edizioni Prioritarie, Treviso, 2008.

Monica Vinardi, Pellizza da Volpedo e il Divisionismo, in Giuseppe Pellizza da Volpedo, a cura di A. Enrico, F. Maspes, Milano, 2018.

 

Sitografia

museodelnovecento.org

uffizi.it


L’AVVENTURA DELLO SGUARDO: LA PARIGINA

A cura di Alberto Tosa

"La Parigina", di Vittorio Corcos

Una delle cose a cui penso più spesso, quando mi capita di osservare un ritratto di ignoto, è cercare di capire chi si celi dietro a quel determinato volto che guardo. Quegli occhi, su cui poso i miei, chissà che cosa guardavano mentre venivano dipinti, che cosa avevano visto, e che cosa la persona ritratta aveva vissuto.

Più che dalla storia della genesi del dipinto, resto dunque affascinato da quella del personaggio, l’avventura che si nasconde dietro ad uno sguardo. Ed è sempre una grande gioia riuscire a dare un nome ad un volto, rimasto nel tempo sconosciuto.

È il caso di un dipinto di collezione privata esposto recentemente nella mostra dedicata a Vittorio Corcos al Museo Accorsi – Ometto, nel 2019. “La parigina”, questo il titolo, è stato uno dei dipinti più ammirati da parte del pubblico (fig.1). Quasi tutti i ritratti presenti in mostra erano di soggetti identificati. Anna Belimbau, Fernanda Ojetti, Lina Cavalieri, persino la ragazza di “Sogni”, stupendo manifesto dell’estetica decadentista, è riconoscibile (si tratta di Elena Vecchi, figlia dell’amico Augusto Vittorio Vecchi).

Fig. 1 - Vittorio Matteo Corcos, La parigina, 1897 circa. Olio su tela, 65x50 cm. Collez. Privata.

La “parigina”, invece, continuava a guardarci ed a farci innamorare del suo sguardo restando nell’anonimato. Chi è quella ragazza? Assecondando il titolo, si potrebbe pensare che si tratti di una modella parigina, che Corcos ritrae a Parigi o appena ritornato nella sua Livorno, per sposare Emma Rotigliano. Siamo nel 1896; l’anno successivo i due si trasferiranno a Firenze, dove Corcos riceverà il battesimo in San Giovanni il 9 dicembre. Il salotto di casa Corcos diviene da allora meta frequentatissima di letterati ed artisti, riflesso dell’importanza culturale del pittore, impegnato nella illustrazione di libri e di riviste, ma soprattutto nel ritrarre protagonisti della società di fine secolo, tra cui donne eleganti e famose. Accanto ai dipinti di Carducci, Mascagni e Lega, prendono corpo i ritratti di Lina Cavalieri, Isadora Duncan, Maria Josè – signore aristocratiche ambientate nello sfarzo delle loro dimore (figg. 2-3).

Davvero per la “parigina” Corcos si era limitato a raffigurare una semplice modella? O poteva trattarsi di una donna appartenente a quella schiera di “femmes élégantes” e famose?

L’indizio risolutore mi venne in mente quando, tempo fa, stavo studiando il ritratto di Lina Cavalieri, in collezione privata (fig. 4). Di grandi dimensioni, il dipinto presentava la dedica “A Lina Cavalieri”, oltre che la data e la firma. Lina è rappresentata nella sua invidiabile silhouette in un abito all’ultima moda, in un ambiente spoglio, ma in posa. Una foto dell’epoca ritrae la cantante nella stessa posizione: è ipotizzabile che i due non si siano nemmeno incontrati, ma che il pittore l’abbia ritratta sulla base di quella fotografia. Perché questa scelta, dunque? Di questo ritratto esiste anche il bozzetto, recentemente comparso all’asta, su cui è riportata la dedica “V. Corcos. / Al M.se Pietro d’Ajeta / Per ricordo / Marzo 902” (fig. 5). Pietro Lanza, marchese d’Ajeta, era un melomane, amico di Giacomo Puccini e in rapporto con Ruggero Leoncavallo. Dunque un’opera commissionata da un ammiratore, che non si accontentava probabilmente più di una fotografia, ma che voleva esprimere la sua più alta venerazione per la diva con un dipinto realizzato da un grande artista.

Che la stessa cosa potesse essere successa per la parigina? Sfogliare cataloghi e fotografie delle dive di fin de siècle è stato un lavoro lungo e faticoso, ma alla fine, quasi casualmente, è emersa tra le fotografie l’immagine di una ragazza dallo sguardo inconfondibile: si trattava proprio della protagonista del dipinto (fig.6). Non è semplice descrivere l’emozione provata nel vedere quel volto, scorgerlo da un angolo differente rispetto al dipinto, con i cappelli raccolti, o portati in un’altra maniera: come Pigmalione, dare vita ad un’opera, dargli fisicità, esperienza, vissuto. Darle un nome. La ragazza ritratta da Corcos è Beatrice Minerva “Minnie” Ashley Chanler, un'attrice teatrale americana, che calcò anche i palcoscenici principali in Europa. È possibile che Corcos e Minnie si siano incontrati e che lei abbia posato per il pittore? Tutto è possibile, anche se in questo caso andrebbe escluso, in quanto dopo una ricerca più approfondita è emersa anche la fotografia promozionale dell’attrice, datata 1897, che servì da modello a Corcos: i capelli ondulati sulle spalle, i grandi occhi sognanti, tendenti al blu, sono i medesimi del dipinto realizzato (fig. 7). È probabile dunque che Corcos, come nel caso di Lina Cavalieri, abbia realizzato il dipinto, sulla base della fotografia, successivamente al 1897 e comunque in Italia, per un ammiratore (fig. 8). Cantante, ballerina e attrice di grande popolarità internazionale, Minnie Ashley era certamente nota anche nel nostro Paese, come dimostrano le cartoline prodotte in Italia che la ritraggono in differenti pose (fig.9). Essendo la foto del 1897, il dipinto è certamente realizzato sul finire del secolo; probabilmente non oltre il 1902, anno in cui l’attrice abbandonò le scene per una malattia agli occhi causata dall'eccessiva esposizione alle luci del palco.

Su di lei non si spensero però le luci: diventò un’affermata scultrice e la vista negli ospedali dei feriti di guerra dal fronte occidentale la ispirò a dedicarsi alla filantropia. L’attenzione per i più bisognosi si concretizzò dopo il suo trasferimento in Francia: qui co-fondò e gestì il Memoriale Lafayette, dedicato agli eroi francesi, nel castello Lafayette, sito nell’alta Loira. Il castello fungeva da scuola, orfanotrofio e prevenzione per la cura dei bambini pre-tubercolari, fragili e malnutriti, nonché un museo della vita e della famiglia del marchese de Lafayette. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale ritornò negli Stati uniti, dove morì nel giugno del 1946, a bordo del treno che da New York la stava portando nella sua residenza estiva a Islesboro, nel Maine. Neanche con la sua morte però ci si scorderà di lei, perché da ora Beatrice Minerva “Minnie” Ashley Chanler potrà rivivere in quel volto splendidamente ritratto da Vittorio Corcos.

 

Un grazie speciale va a Marinella G. che per prima ha avuto l'intuizione, senza la quale non avrei approfondito e scritto questo articolo.

 

ALBERTO TOSA
Storico dell'arte specializzato in museologia, già collaboratore e consulente per il Polo museale del Piemonte e di molte realtà museali, dal 2014 lavora per il Museo di Arti decorative Accorsi - Ometto nell'ufficio Conservazione come Referente della catalogazione e Provenance Curator.


VITTORIO CORCOS. RITRATTI E SOGNI

A cura di Andrea Bardi

La sfolgorante carriera artistica del livornese Vittorio Matteo Corcos (1859-1933) è ripercorsa, nella sua interezza, all’interno delle sale di Palazzo Pallavicini a Bologna, in una mostra, organizzata proprio da Pallavicini s.r.l. e curata da Carlo Sisi, aperta al pubblico dal 22 ottobre 2020 al 14 febbraio 2021. La rassegna bolognese segue, a distanza di un anno, la precedente monografica – anch’essa curata da Sisi e allestita nelle sale del Museo Accorsi – Ometto di Torino – dedicata al “peintre des jolies femmes”, felice epiteto con cui il corrispondente del “Times” De Blowitz definì il pittore negli anni del suo soggiorno parigino. Non solo un femminino grazioso, tuttavia, arieggia le stanze del palazzo: nelle sei sezioni in cui la mostra è suddivisa i numerosi ritratti, provenienti da prestigiose istituzioni pubbliche (Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, Gallerie degli Uffizi di Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Milano), catturano l’osservatore catalizzando la sua attenzione sui loro occhi e offrendogli sensazioni ogni volta nuove ma sempre estremamente vivide. Gli occhi erano, d’altronde, uno dei pallini di Corcos. Per dirla con le parole del pittore:

“In un ritratto quello che conta sono gli occhi: se quelli riescono come voglio, con l’espressione giusta, il resto viene da sé”

E di “espressioni giuste”, negli oltre 40 dipinti esposti in mostra, ce ne sono molte. Dalla sicurezza dell’imprenditore di successo (Emilio Treves) al rovello intellettuale del poeta (Giosuè Carducci), passando per la spensieratezza di Bonheur, il ventaglio di emozioni distillate nelle tele di Corcos va ben oltre quell’aggettivo, joli, con il quale Gabriel Albert Aurier timbrava, nei suoi infuocati sermoni sul “Mercure de France”, lo stuolo di principesse di porcellana che ingombrava i Salons ufficiali e gli atelier dei pittori più à la page dell’epoca. E non è un caso che l’ultima sezione della mostra, dal titolo più che mai eloquente (Stati d’animo) accosti a un riuscitissimo Pietro Mascagni proprio Sogni. Un’opera, quest’ultima, che insieme ad altre (la Morfinomane, non presente in mostra) chiude la questione Corcos tratteggiandolo nella sua complessità di pittore “chastement impur” (castamente impuro) secondo la formula, stavolta quanto mai riuscita, del suo mercante Adolphe Goupil.

La famiglia e gli amici. Nel salotto della “gentile ignota”

Una volta lasciata alle spalle la sala detta “della Ringhiera”, con L’imperatrice Maria Teresa d’Austria sul carro di Cibele affrescata sulla volta, la mostra fa il suo esordio ufficiale nella “Sala delle Udienze” o “Camerone” [fig. 1]. Il sistema di pannellature turchesi accoglie alcuni dei ritratti con cui Corcos immortalò i personaggi, più o meno noti, che gravitavano attorno alla sua casa fiorentina.

Fig. 1 – la prima sezione della mostra nella “Sala delle Udienze”.

Da Emilio Treves (1907) allo scrittore Yorick (pseudonimo di Pietro Coccoluto Ferrigni, 1889), il centro di gravità della Sala è tuttavia concentrato sugli occhi di Emma Ciabatti vedova Rotigliano [fig. 2], moglie in secondo matrimonio di Corcos e perno della vita intellettuale di un circolo che comprendeva Giosuè Carducci [fig. 3], Silvestro Lega e Giovanni Pascoli, amico così intimo della “gentile ignota” da concederle l’affettuoso epiteto.

Gli anni di Parigi

È la piccola “Sala di Giove, Marte e Minerva” ad ospitare, invece, all’interno di una delicata cornice dalle tinte malva, un breve campionario di opere parigine del maestro. Giunto nella Ville Lumière nel 1880 su suggerimento del pittore Domenico Morelli, a Parigi Corcos accolse i molteplici stimoli visivi che pittori come Lèon Bonnat, James Tissot e Giuseppe de Nittis erano in grado di offrirgli. È proprio a De Nittis, infatti, che il maestro indirizza il suo sguardo in Woman with dog [fig. 4], esercizio di stile in cui proprio il barlettano si era cimentato negli stessi anni. Le coordinate figurative di Corcos rimangono, nella sala, sempre interne alla società alto borghese, dalle noie di donne di flaubertiana memoria (femme se promenant au Bois de Boulogne, fig. 5) alla raffinata spensieratezza di Bonheur [fig. 6].

Luce mediterranea

A partire dalla terza sezione della mostra, Luce mediterranea, l’infilata delle stanze, partendo dal salone d’ingresso, percorre in lunghezza l’ala del palazzo affacciato su via San Felice. Tra gli spazi della “Sala dell’Allegoria del Commercio” il fulcro tematico è, stavolta, il profondo legame che il pittore mantenne con la sua villa toscana di Castiglioncello, vero e proprio set fotografico allestito per immortalare ospiti come Peggy Baldwin [fig. 7]. Le marine di Castiglioncello, evocate grazie alla scelta, felice seppur già vista del turchese, pur costituendo uno degli snodi fondamentali del percorso pittorico di Corcos, sono qui trattate simbioticamente rispetto alla figura femminile, che, tra delicati contrappunti cromatici o soffusi mimetismi giocati su una dominante unica di colore (Ritratto di signora sul lago, fig. 8) vuole recitare ancora un ruolo da protagonista.

Le peintre des jolies femmes

Era il 1885 quando il corrispondente parigino per il “Times”, De Blowitz, consegnò a Corcos l’etichetta, scomoda ma non priva di fondamento, di “peintre des jolies femmes”. Sotto la volta affrescata dal Bacco e Arianna di Filippo Pedrini Carlo Sisi ambienta, riproponendo un rassicurante malva, una piccola galleria di ritratti al femminile [fig. 9], dove allo sfaldamento boldiniano della forma (Une elegante, fig. 10) si alternano le esattezze tattili dei ricami (La parigina, fig. 11).

Fig. 9 – L’allestimento della sezione Le peintre des jolies femmes.

L’incarnato quasi ceramico delle fanciulle si tinge invece di mistero in La Vestale, [fig. 12], anticipazione delle perturbazioni psichiche di Sogni e, al contempo, efficace tentativo di estrarre l’archetipo dal particolare.

 

Il primato del ritratto

La spettacolare “Sala dei Conviti”, affrescata da Giuseppe Antonio Valliani su quadrature di Serafino Barozzi, fornisce al nutrito parterre di ritratti presenti una scenografia dal respiro molto ampio che ne consentirebbe la piena valorizzazione [fig. 13] senza un sistema di illuminazioni talvolta troppo aggressivo (è il caso della splendida Lina Cavalieri, fig. 14).

 

La preziosa collezione di effigi comprende lo storico Ernesto Masi [fig. 15], sporgente da uno sfondo monocromo (evidente la lezione di Bonnat), la Principessa Maria Josè [fig. 16] oltre al bozzetto per il ritratto ufficiale del Kaiser Guglielmo II, il quale, ammaliato dal ritratto della Contessa Rombo Morosini, decise di portare Corcos nella sua residenza di Potsdam e posare per lui.

Stati d’animo

La scelta di un fondale scuro è ripetuta nel Pietro Mascagni [fig. 17] che, assieme alle Tre Sorelle e Sogni, nella “Sala della Biblioteca” dedicata agli Stati d’animo, conclude questa preziosa parata di ritratti. L’effigie del giovane compositore, giunta a palazzo su concessione della famiglia Mascagni, sfrutta infatti la scarsità di riferimenti ambientali non tanto per conferire a quest’ultimo un tono solenne quanto per canalizzare l’attenzione sullo sguardo e sulla posa, sfrontata e audace, del modello.

Fig. 17 – Ritratto di Pietro Mascagni, 1891.

Audace fu considerata, in occasione dell’Esposizione di Belle Arti di Firenze del 1896, anche Sogni [fig. 18]. Opera quasi più grande del suo artefice, cela il suo segreto nell’abilità dimostrata dal pittore di captare frequenze sopite, ma ben presenti, nella psiche della giovane Elena Vecchi, figlia, poco più che ventenne, dello scrittore Jack la Bolina.

Fig. 18 – Sogni, 1896.

 

Vittorio Corcos. Ritratti e Sogni

Bologna, Palazzo Pallavicini

22 ottobre 2020 – 14 febbraio 2021

Via San Felice 24, 40122 Bologna

 

Informazioni utili

Orari

Lunedì – Mercoledì: chiuso

Giovedi – Domenica: 11:00 – 20:00

È possibile acquistare i biglietti fino alle 19:00 (orario di chiusura della biglietteria)

Aperture straordinarie

1 novembre 2020

7, 8, 21, 22, 26, 28, 29, 30 dicembre 2020

31 dicembre 2020 (11:00 – 17:00, ultimo ingresso alle 16:00)

1 gennaio 2021 (14:00 – 20:00, ultimo ingresso alle 19:00)

4, 5, 6 gennaio 2021

23 gennaio 2021 (11:00 – 24:00, ultimo ingresso alle 23:00)

 

Chiusura 

La mostra sarà chiusa al pubblico nei giorni 24 e 25 dicembre 2020.

 

Tariffario

Intero: € 13

Ridotto: € 11 (dai 6 ai 18 anni non compiuti, over 65 con documento, studenti fino a 26 anni non compiuti con tesserino, militari con tesserino, guide turistiche con tesserino, giornalisti praticanti e pubblicisti con tesserino regolarmente iscritti all’Ordine, accompagnatori diversamente abili in compagnia del disabile, soci ICOM con tesserino, biglietto ITALO avente come destinazione/origine Bologna con data antecedente/successiva di massimo 3 giorni)

Gruppi (minimo 10 persone): € 10 (1 accompagnatore gratuito)

Scuole: € 5 (2 accompagnatori gratuiti per ogni classe)

Bologna Welcome e Bologna Card Cultura: €10

Giovedì Università (con tesserino): €9

Gratuito: bambini sotto i 6 anni disabili con certificato

Biglietto famiglia (con figli dai 6 ai 18 anni non compiuti): € 10 per il Genitore, € 8 per i Minori dai 6 ai 18 anni non compiuti

Biglietto open: € 16 (biglietto con prenotazione senza vincoli di orario e data valido fino a fine mostra)

 

Servizi di Audioguida

 L’audioguida completa della mostra è presente all’interno della nuova App di Palazzo Pallavicini, scaricabile gratuitamente su smartphone.

 

Contatti

Indirizzo e-mail: [email protected]

Cellulare: +39 331 347 1504

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Ufficio Stampa (Giulia Giliberti) 

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DE CHIRICO E EL GRECO A CONFRONTO

A cura di Gianmarco Gronchi

Introduzione

Questa serie di articoli si prefigge di avvicinare tutto il mondo all’arte, ponendo a confronto l’antico con il contemporaneo. Questi collegamenti risultano tanto più opportuni se si pensa che ogni artista, in ogni epoca, ha vissuto una propria contemporaneità: quindi l’arte contemporanea, intesa come arte del proprio tempo, è sempre esistita ed è stata lo specchio storico-sociale in cui da secoli si è riflessa la vita dell’uomo. Si faranno quindi audaci paralleli tra i più vari mezzi espressivi, con l’obiettivo di innescare nel lettore la curiosità di conoscere, sperimentare, osservare con occhi diversi ciò che lo circonda, apprezzare le meraviglie che il nostro pianeta ospita e, perché no, rivalutare qualcosa che è sempre sembrato fuori luogo, irrilevante, scomodo.

Fra De Chirico e El Greco: il "Gesù divino lavoratore" di De Chirico

Agli occhi dei neofiti dell’arte o dei non addetti agli studi, l’identificazione dell’esecutore dell’opera proposta in basso potrebbe risultare ardua. Una conoscenza generica delle vicende artistiche occidentali porterebbe il lettore non esperto a collocare cronologicamente l’opera intorno al primo Seicento, vuoi il soggetto sacro di facile comprensione, vuoi il colore e la luce di ambito tizianesco o ancora la pennellata materica, sinuosa, sensuale che potrebbe appartenere a un Rubens. Poiché questi accorgimenti hanno la loro ragione d’esistere, risulterà forse sorprendente sapere che l’opera è datata 1951. Non solo, ma reca la firma di uno dei vertici dell’arte che oggi definiamo, per necessità storiografiche, contemporanea: Giorgio De Chirico. Commissionata dalla Pro Civitate Cristiana, un’associazione di volontari cattolica fondata da don Giovanni Rossi nel 1939, si inserisce in quella produzione dechirichiana nella quale il pittore riflette e recupera alcuni stilemi dell’arte antica, sviluppando la poetica del “ritorno al mestiere”. D’altronde, lo stesso De Chirico diceva di se stesso «pictor optimus sum», lamentando nei colleghi la mancanza di conoscenze tecniche dell’arte pittorica, che invece erano proprie dei maestri rinascimentali. Il quadro entrò a far parte della collezione di opere sacre della Pro Civitate, che voleva educare le masse dei lavoratori alla dottrina cattolica, in un momento in cui era particolarmente sentita la presenza del Partito Comunista. Non ci si stupisca quindi della novità dal punto di vista iconografico. Gesù, infatti, viene raffigurato nelle vesti di un lavoratore, iconografia, questa, estranea alla cultura rinascimentale. Il Gesù divino lavoratore mira però al maggior coinvolgimento della classe operaia, particolarmente legata alle istanze del comunismo, e si inserisce in un momento di ripensamento della raffigurazione dei soggetti sacri in campo artistico.

Fra De Chirico e El Greco: "L'apertura del quinto sigillo dell'Apocalisse" di El Greco

Dopo il Gesù divino lavoratore si vuole qui proporre un dettaglio di un’altra opera. Questi nudi, così oblunghi, possenti, ma quasi spettrali, potrebbero condurre sulle strade di un prossimo di Cezanne. Sembra che il mondo si sia popolato di cadaverici personaggi, che, tornati  dall’oltretomba, gridano il loro dramma, mentre un’atmosfera espressionista sembra tendere la mano alle migliori avanguardie di inizio Novecento, da Kokoschka a Kirchner. Eppure, il pennello si è mosso su questa tela ben quattro secoli fa e la mano che lo governava apparteneva a Domínikos Theotokópoulos, per tutti El Greco.

Realizzato per l’altare della chiesa di San Giovanni Battista a Toledo tra il 1608 e il 1614, rappresenta una delle ultime prove di uno dei più ineffabili pittori di fine Cinquecento e inizio Seicento. Non è un caso se in vita il pittore ebbe alcune noie da parte dell’Inquisizione spagnola, particolarmente rigida nel periodo post Controriforma. E non sarà certo un caso se fu proprio il sentire del modernismo novecentesco che permise di rilanciare anche a livello accademico questo artista per troppo tempo obliato. Studiato e ammirato da Cezanne come dagli artisti del Blaue Reiter, dai simbolisti fino a Pollock, è forse in Picasso che germogliarono i frutti più importanti dell’influsso moderno del pittore greco. Nel 1907, durante una visita all’atelier parigino dell’amico Ignacio Zuloaga, Picasso ebbe modo di vedere proprio L’apertura del quinto sigillo dell’Apocalisse – questo il nome dell’opera in questione – che Zuloaga possedeva dal 1897. In quello stesso anno, corpi lividi e approssimati sarebbero apparsi anche nelle Damoiselle d’Avignon e le geografie dell’arte contemporanea non sarebbero più state le stesse.

Confronto fra i due maestri

Con questi esempi non si vuole certo affermare che De Chirico e El Greco siano stati due artisti estranei alle rispettive epoche, anzi, tutt'altro. Le forme e i colori di El Greco non lo rendono il primo dei cubisti – almeno non nel senso canonico di cubismo – tanti sono i legami con Tiziano, Tintoretto, i manieristi toscani e l’arte bizantina, sui quali si innesta un sentimento religioso del  tutto proprio della temperie culturale in cui visse. De Chirico invece emula sì il modo di dipingere primo seicentesco, ma per ragioni molto più profonde della semplice venerazione dei modelli antichi. Sono momenti esemplificativi, invece, di come l’arte non proceda a compartimenti stagni – come spesso ci viene fatto credere – ma di come, invece, il moderno talvolta si generi anche guardandosi alle spalle e non sia sempre spinto dalla corsa verso il primato dell’innovazione. Similmente, i modi incompresi di un tempo talvolta tornano a vivere nelle vesti di una rinnovata e inedita comprensione, figlia di una cultura diversa. Ciò che si cercherà di fare in questi appuntamenti sarà proprio tessere dei fili, accostare tessere significative della storia dell’arte, per suggerire prospettive, si spera, sconosciute ai più, al fine di una visione dilatata dell’arte del nostro tempo. Gli accostamenti che proporremo saranno prevalentemente tecnici e formali, talvolta contenutistici o tematici, si spera mai puramente emozionali, anche se ci sarebbe la tentazione in una società così bisognosa di emozioni. I raffronti messi in atto saranno generalmente tra singoli artisti, ma potrebbe capitare di soffermarci maggiormente su singole personalità o muoverci in degli affondi su temi e iconografie di particolare rilievo. Si spera che le parole che seguiranno a questo articolo riescano un minimo a far capire l’importanza della conoscenza, la bellezza del sapere, l’incredibile avventura dell’emozionarsi davanti a un’opera, nella quale qualcuno, secoli fa o anche solo ieri, ha riversato necessariamente una frazione di sé. Questo perché lo studio e la conoscenza dell’arte del passato e del presente vuol dire comprensione del passato e del presente, che è poi, anche, comprensione di se stessi.

 

 

GIANMARCO GRONCHI

Lombardo d'adozione ma toscano di nascita, sono uno studente del corso di laurea magistrale in Storia e critica d'arte all’Università Statale di Milano. Ho conseguito la laurea triennale in Lettere moderne all'Università degli Studi di Pavia. Durante la mia permanenza pavese sono stato alunno dell'Almo Collegio Borromeo. I miei interessi spaziano dall'arte moderna a quella contemporanea, compreso lo studio della Moda da un punto di vista storico-artistico. Alcuni miei scritti sono apparsi online su "Inchiosto”, “Birdman Magazine. Cinema, serie, teatro" e "La ricerca Loescher". Amo leggere, scrivere e perdermi in musei e negozi di vintage.

 


SEICENTO-NOVECENTO. DA MAGNASCO A FONTANA

Recensione mostra "Seicento-Novecento. Da Magnasco a Fontana" a cura di Mattia Tridello

Introduzione: "Seicento-Novecento. Da Magnasco a Fontana"

“… la forma appare circondata da un alone. Essa è una stretta definizione dello spazio, ma è anche un suggerimento d’altre forme. S’espande, si propaga nell’immaginario, o noi, piuttosto, siamo mossi a considerarla come una specie di spiraglio attraverso il quale possiamo penetrare in un regno incerto, che non è l’esteso, né il pensato, ma una folla di immagini che aspirano a nascere.”(Henri Focillon “La vita delle forme”)

La forma, le forme, gli spazi e gli ambienti sono circondati, come ricorda lo storico dell’arte francese Henri Focillon (1881-1943), da un alone diffuso, abbagliante ma discreto che, inserendosi nell’immaginario comune, non separa ma anzi unisce le epoche, gli stili e le opere che il tempo ha saputo produrre e regalarci ma anche tramandarci, secondo precisi e distinti lassi cronologici non sempre in dialogo fra loro. Moretto da Brescia affianco a De Chirico, Severini con Baschenis, Guttuso con Morandi sono solo alcuni degli accostamenti, delle mute ma vivaci conversazioni tra artisti, stili e peculiarità di correnti e movimenti diversi che, eccezionalmente, trovano spazio e allestimento nell’incantevole cornice cinquecentesca di Villa Bassi –Ratgheb ad Abano Terme. La mostra “Seicento-Novecento. Da Magnasco a Fontana”, visitabile dal 17 ottobre al 5 aprile 2021, si propone come una splendida e ben curata esposizione volta a ribadire e instaurare dialoghi profondi, studiati e approfonditi tra opere artistiche che, se disposte in malo modo, non sempre risultano di facile accostamento simbolico e visivo. La mostra invece si presenta con un taglio inedito, le contrapposizioni tra i dipinti qui non stridono ma, anzi, diventano facilmente comprensibili e estremamente interessanti. Gli oggetti esposti, vicini tra loro, comunicano con se stessi e con l’osservatore in un impatto visivo unico che genera implicite suggestioni e regala inaspettate scoperte. Addentrandosi tra le sale della villa tutto, dagli arredi alle decorazioni parietali, si fa carico di un importante connubio, di una mistura di artisti che mai, fino ad ora, hanno potuto vedersi e dialogare e che ora, grazie al contributo delle due collezioni da cui provengono le opere in oggetto, potranno incontrarsi e mostrarsi. Il tempo sembra quasi fermarsi per un istante all’interno del museo: l’ambiente, come del resto fu nei secoli la stessa villa che contiene la mostra, diventa un ponte tra il passato e la contemporaneità, tra le storiche e antiche vedute euganee del comune aponense e l’istinto più avanguardistico e moderno delle tele ospitate nella struttura. La loggia centrale (che introduce al palazzo) detiene il primato di filtro tra l’esterno e l’interno, di passaggio arieggiato che permette alla città e all’esposizione di scambiarsi vicendevolmente gli intensi respiri del tempo e di instaurare un legame inedito tra storia, arte e paesaggio.

"Seicento-Novecento. Da Magnasco a Fontana": l’esposizione

L’esposizione, che vanta un numero elevato di opere, si presenta come l’unione tra due collezioni diverse per astrazione stilistica e per il periodo dei quadri raccolti, accomunate tra loro da una lunga ma assai importante vicenda storica e collezionistica. La prima, la collezione Bassi-Ratgheb, venne donata al Comune di Abano Terme da parte di Roberto Bassi Ratgheb per via di un nutrito sentimento di affetto nei confronti del luogo in cui amava recarsi per le cure termali. Il nucleo del vasto possedimento artistico si incentra sulla pittura sei-ottocentesca di area lombarda-bergamasca. La seconda, la collezione Marini, è maggiormente conosciuta per la vocazione al collezionismo di opere d’arte contemporanee al suo proprietario. Il grande numero di queste ultime si presta straordinariamente per essere messo in contatto con opere più antiche, per rintracciare anche nel moderno gli influssi mai estinti del passato. Le due raccolte, seppur nell’esplicita e visibile diversità spaziale, temporale e stilistica, non rinunciano ad instaurare un dialogo, anzi, permettono al visitatore di ritrovare in un De Chirico numerosi riferimenti a una pittura seicentesca del Pitocchetto, a volte non investigati o conosciuti dal pubblico.

Il percorso espositivo

La mostra si articola in tre sezioni principali, dedicate ai tre temi più rappresentati nella storia dell’arte (Ritratto, Natura morta e Paesaggio), che si snodano attraverso gli splendidi e ricercati interni di Villa Bassi – Ratgheb (Fig. 1). Agevolata dalla presenza di un involucro d’eccezione assai ricco di peculiarità decorative che vanno dal Cinquecento all’Ottocento, l’esposizione non si presenta come un’arida rassegna di quadri disposti in stanze uguali e monotone, ma anzi diventa una vera e propria vasta passeggiata nella storia che si articola dal piano nobile al sottotetto fino ad arrivare alle incantevoli volte dell’interrato. Il visitatore può quindi comprendere l’essenza della mostra anche grazie al suo contenitore,  a quel desiderio di curiosità, nel passare nella sala successiva, che quest’ultima regala e alimenta.

"Seicento-Novecento. Da Magnasco a Fontana". Le prime sale

Le prime sale dell’esposizione "Seicento-Novecento. Da Magnasco a Fontana" ruotano attorno all’impianto veneziano cinquecentesco della villa. Ai lati del salone centrale del piano nobile trovano spazio alcune stanze in cui sono ospitate e messe in relazione le opere. Ve n’è un esempio nella prima dove, in concomitanza e somiglianza con le tonalità degli affreschi parietali, sono esposti un paesaggio antico e una reinterpretazione contemporanea (Fig. 1a).

Sezione del ritratto

Una delle tre sezioni della mostra "Seicento-Novecento. Da Magnasco a Fontana" si basa sul tema del ritratto attraverso i secoli. Se nel Cinque-Seicento il soggetto maschile si affaccia sul panorama pittorico come un tema prediletto caratterizzato dalla fierezza dell’impostazione ritrattistica e dal valore di affermazione sociale, nel “secolo breve” tale stabilità e importanza sembra svanire per lasciare spazio a una desolazione interiore, che mira non a prediligere l’uomo nella sua fierezza, bensì nella sua fragilità interiore. Nel Novecento la coscienza di quest’ultimo come “senza qualità” porterà ad evidenti risultati in campo artistico, basti pensare alle famose piazze di De Chirico. Tra l’incombenza di ombre dilatate e scure emergono esclusivamente gli edifici dello spazio, all'uomo è riservata solo una piccola, limitata, porzione della tela. Per tale motivo la curatrice della mostra ha ben deciso di non paragonare i ritratti maschili seicenteschi con quelli novecenteschi ma con un’opera dello stesso De Chirico, per segnalare come, a distanza di secoli, i riferimenti all'opera del passato siano ancora presenti (si veda il bastone del viandante in relazione con la ciminiera) anche in un periodo variegato e assai complicato come il secolo scorso  (Fig. 2- 3-4).

Nell’ambito del ritratto femminile, invece, la mostra espone in relazione fra loro numerose opere di autori differenti che instaurano un vivo e emozionante contrasto. Da una parte l’elegante figura dipinta da Rinaldo Agazzi “Ritratto di Isabella Nowak” (Fig. 5) dialoga fortemente con la più sintetica e ombrosa figura della “Signora del crisantemo” (Fig. 5) di Lorenzo Viani per poi rinnovarsi e mutarsi in un assemblaggio scomposto di linee, materiali e tecniche che aderiscono al movimento cubista de “la moglie di Picasso” (Fig. 6) di Enrico Baj.

Sezione della natura morta

Una parte dell’esposizione "Seicento-Novecento. Da Magnasco a Fontana" (Fig. 7) tratta un tema che per secoli ha costituito un punto fermo nel vasto mondo iconografico e stilistico della storia dell’arte. Le nature morte, infatti, di solito utilizzate per adornare le pareti delle abitazioni nobili, col tempo, diventarono un vero e proprio tema canonico, che dal Cinquecento al Novecento fu sempre un riferimento presente nella pittura di molti artisti, ne è un esempio l’ampia selezione che la mostra propone. Iniziando con una tela rappresentante alcuni strumenti musicali di Baschenis (Fig. 8), il percorso si snoda attraverso le numerose versioni, sempre diverse, che altri autori fecero del medesimo tema, evolvendo la figura e mutandola nel suo concetto sia pittorico che spaziale. Dalla piena luce che disegna le forme di Morandi (Fig. 9) si passa al colore di Guttuso (Fig. 10) fino ad arrivare all’astrazione concreta della forma che procede e si sviluppa per linee geometriche e cromatiche operata da Parmiggiani.

Sezione del paesaggio

L’ultima sezione dell’esposizione "Seicento-Novecento. Da Magnasco a Fontana" (Fig. 11) racchiude numerose opere legate tra loro da un unico filo comune, il paesaggio e la sua metamorfosi tra natura e pittura nel corso del tempo. Partendo da alcuni pregevoli dipinti seicenteschi di area lombarda, l’occhio dell’osservatore viene colpito dalle molteplici forme in cui il medesimo tema è stato trattato, cambiato e rinnovato dagli artisti tardo ottocenteschi e novecenteschi. Risulta proprio in quest’ultimo periodo un profondo mutamento, una vivida destrutturazione delle forme spaziali: gli spazi architettonici diventano linee geometriche, le linee a loro volta si dipartono nello spazio fino ad infrangerlo e lacerarlo, come tagli nella tela. Passando per Tosi, Morlotti e Mandelli, lo sguardo del visitatore si sofferma principalmente sul notevole impatto visivo creato dall’opera di Fontana. Lo spazio, la natura, il paesaggio sembrano quasi non trovare più riscontro. Anzi, quel sottile lembo che lo divideva dal mondo esterno viene tagliato e trafitto quasi a volerlo superare. In “Concetto spaziale, Attese” (Fig. 12) tutto ciò viene riassunto e diventa toccabile, concreto.

Il quadro, che infatti chiude la sezione, rimarca ancora la volontà dell’esposizione di voler regalare a qualsivoglia visitatore una cronologica, intensa e innovativa visione dell’arte secolare, cercando di individuare nessi, differenze ma anche rapporti e somiglianze all’interno di un luogo che, collocato in una delle più famose località termali italiane, diventa custode di una notevole eredità, di una mostra che si pone non nel tempo ma tra i tempi. Se nel Seicento Villa Bassi Ratgheb divenne un ponte tra l’intellettualismo veneziano e l’entroterra padovano, oggi quest’ultima ricostituisce quel collegamento, quella mirabile conversazione tra epoche, stili e artisti, quel dialogo che qui, tra i silenziosi colli, non può che risuonare e continuare a diffondere la sua bellezza nel tempo, nei luoghi e nello spazio dell’animo umano.

Informazioni per la visita

"Seicento-Novecento. Da Magnasco a Fontana" Museo di Villa Bassi-Ratgheb, Abano Terme

Via Appia Monterosso, 52 35031 Abano Terme (PD)

Orario della mostra

GIOVEDI’ 14.30 – 18.30

VENERDI’ 14.30 – 18.30

SABATO e DOMENICA 10.00 – 13.00; 14.30 – 18.30

SPECIALE GRUPPI: la mostra è visitabile ogni LUNEDI’ E MARTEDI’ su prenotazione.

SPECIALE VENERDI’ ingresso ridotto riconosciuto ai turisti degli hotel termali di Abano e Montegrotto Terme, SOLO con prenotazione dell’hotel o esibendo un voucher dell’hotel ospitante.

Biglietti e tariffe

Intero: 9 euro

Ridotto: 7 euro

Riduzione per: 7-25 anni, over 70, possessori della Arte Terme Card (si può chiedere al desk del Museo), soci FAI e TOURING CLUB;

Biglietto unico famiglia €20

(famiglia composta da 2 adulti accompagnatori di ragazzi fino ai 18 anni)

Catalogo

Catalogo edito da Silvana Editoriale


"GUARDAMI! SONO UNA STORIA" ET IN ARCADIA EGO

A cura di Mirco Guarnieri

Introduzione: "Guardami! Sono una storia" "Et in Arcadia Ego"

Venerdì 16 Ottobre presso la Pinacoteca Nazionale di Ferrara è stato inaugurato il secondo appuntamento del ciclo di mostre dossier "Guardami! Sono una storia" realizzato dalle Gallerie Estensi in collaborazione con il Laboratorio DiDiArt del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Ferrara. La rassegna si svolgerà fino al 17 Gennaio del 2021 e vedrà come protagonista il dipinto “Et in Arcadia Ego” di Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento 1591 - Bologna 1666), proveniente dalle Gallerie Nazionali di Arte Antica Barberini Corsini di Roma.

Alla realizzazione della mostra dossier "Guardami! Sono una storia" hanno preso parte giovani studiosi e studenti dell’Università di Ferrara che, con il coordinamento dei funzionari delle Gallerie Estensi e di alcuni membri del Comitato Scientifico del Laboratorio, si sono avvicinati alla vita del museo, lavorando alle fasi di ricerca, progettazione e organizzazione della mostra con l’intento di portare il visitatore ad osservare più approfonditamente l’opera.

Il dipinto, tra i più enigmatici del Guercino, fu probabilmente realizzato tra il 1618 e il 1622, anni in cui il pittore entrò in contatto con la pittura veneta ed emiliana che ne influenzarono lo stile.

Il quadro mostra due giovani pastori che osservano un teschio umano collocato su un muro, che pare rivolgersi ai due pronunciando le parole incise sulla pietra: Et in Arcadia Ego. La frase latina può tradursi con “Anche in Arcadia io (sono)” stando a significare che anche la regione dell’Arcadia sembra entrata a far parte del dominio della Morte portando così l’opera a divenire un “memento mori”, in cui l’artista accosta la giovinezza e la spensieratezza dei pastori al destino di morte che accomuna tutti noi creando un’atmosfera di riflessione e raccoglimento, poetica e profondamente suggestiva.

 

 

Informazioni per la visita alla mostra dossier all’interno della Pinacoteca Nazionale:

"Guardami! Sono una storia" Et in Arcadia Ego

16 Ottobre 2020 - 17 Gennaio 2021

Pinacoteca Nazionale di Ferrara

Corso Ercole I d'Este 21

Palazzo dei Diamanti, primo piano

Ferrara

Numero di telefono: 0532 205844

 

Orari

Dal Martedì alla Domenica: 10 - 17:30

L’ultimo ingresso alla Pinacoteca è consentito fino a mezz'ora prima dell’orario di chiusura del museo.

 

Biglietti

Intero: 6 €

Ridotto: da 5 € a 2 €

Gratuito: Scuole; disabili al 100% con un accompagnatore; giornalisti e guide turistiche con tesserino; minori di 18 anni; membri ICOM; personale MIBACT; docenti e studenti (per dettagli ed ulteriori gratuità rivolgersi in biglietteria).

Prima dell’ingresso verrà rilevata la temperatura e sarà obbligatorio indossare la mascherina.

 

Gallerie Estensi - MiBACT

Largo Porta Sant'Agostino, 337

Modena


LA “DANZA MACABRA” DI SAN VIGILIO DI PINZOLO

A cura di Alessia Zeni

La chiesa di San Vigilio

Dopo aver trattato la chiesa di Santo Stefano nel comune di Carisolo, in Val Rendena, si tratterà ora una chiesa cimiteriale vicina a quest’ultima e altrettanto importante, ovvero San Vigilio di Pinzolo. L’edificio è un esempio di arte e architettura cinquecentesca trentina che attrae turisti e amanti dell’arte per la sua bellezza, ma soprattutto per la sua celebre “Danza macabra”. Un affresco imponente, ben visibile dalla strada che da Pinzolo conduce a Madonna di Campiglio per ricordare al viaggiatore che la morte colpisce chiunque e in qualsiasi momento.

Fig.1 - La chiesa di San Vigilio a Pinzolo (Ciaghi 2004).

La chiesa si trova nella campagna di Sorano alle porte di Pinzolo e sembra sia nata come piccola cappella ad uso dei coloni del territorio tra Pinzolo, Carisolo e il rione di Baldino. La storia ci segnala che la chiesa è stata eretta prima dell’anno Mille, e tale datazione è confermata dai reperti architettonici trovati nella chiesa come l’antico arco santo, le prime fondamenta e alcune caratteristiche architettoniche della torre campanaria e della sagrestia risalenti al X secolo. Nel 1515 la chiesa è stata smantellata per un aumento della popolazione locale e sul vecchio impianto romanico costituito dalla muratura meridionale e dal campanile è stato rifabbricato un edificio a tre navate divise da possenti colonne in granito e abside poligonale.

Tra il 1530 e il 1540 la chiesa è stata decorata con la celeberrima “Danza macabra”: ad oggi l’affresco è molto meglio conservato di quello della vicina chiesa di Carisolo. Non è l’unico affresco dipinto tra il 1530 e il 1540, anche le immagini che ornano le pareti interne dell’abside risalgono all’ultimo intervento della chiesa e raccontano la storia del santo patrono di Trento, Vigilio.

Fig. 2 - Chiesa di San Vigilio di Pinzolo, interno, abside con il ciclo di affreschi che racconta la storia di San Vigilio (Ciaghi 2004).

 

La “Danza macabra” di Pinzolo

La “Danza macabra” dipinta sulla parete esterna della chiesa cimiteriale di Pinzolo è stata affrescata da Simone II Baschenis da Averara (Lombardia) nel 1539, sulla parete esterna meridionale della chiesa di San Vigilio, nel registro di sotto gronda. L’affresco è molto grande e corre lungo tutta la parete meridionale per una lunghezza di 21 metri. Come nella vicina chiesa di Carisolo, il ballo della morte è stato dipinto per ricordare all’uomo che siamo tutti uguali al suo cospetto, infatti l’opera è stata commissionata dalla Confraternita dei Battuti[1] che nella chiesa di San Vigilio si riuniva per i riti di penitenza.

La “Danza macabra” di Pinzolo raffigura il ballo della morte di 18 coppie formate da scheletri e personaggi della società cinquecentesca. Ogni coppia, nella fascia sottostante è accompagnata da didascalie in volgare che indicano i crudeli e a volte spietati avvertimenti della morte al genere umano. Il testo riporta le parole che ogni scheletro rivolge al suo compagno di ballo e sono nella parlata locale, un volgare maccheronico di tono popolare, a cui si aggiungono colte citazioni in lingua latina e volgare, sui cartigli portati dagli scheletri.

Il dipinto si legge da sinistra verso destra e può essere diviso in tre parti. La prima parte è costituita da un gruppo di tre scheletri che rappresentano il regno della morte e suonano tre strumenti: uno è incoronato ed è seduto su un trono mentre suona una cornamusa, mentre gli altri sono in piedi e suonano delle trombe. Questa prima parte è seguita da Cristo crocifisso, qui dipinto per ricordare al fedele che neanche lui è stato risparmiato dalla morte e raffigurato a introdurre il ballo vero e proprio.

Fig. 4 - San Vigilio di Pinzolo, esterno, fianco meridionale, la “Danza macabra”, particolare con i tre scheletri musicisti e Cristo Crocifisso (Ciaghi 2004).

A Cristo seguono 18 personaggi abbigliati secondo la moda dell’epoca e sistemati secondo il rango sociale. Il Papa, un cardinale, un vescovo, un sacerdote e un frate francescano sono raffigurati nei loro abiti clericali in pose pompose e raffinate, ma anche in pose umili e dimesse come nel caso del frate francescano.

 

 

 

Segue l’imperatore con lo scettro e la mantella del suo rango, un re con corona, collana e ricca veste, una regina coronata con abito arabescato, un duca con abito da cortigiano, un medico con toga e ampolla, un guerriero armato con alabarda e spada, un ricco avaro che offre un bacile pieno d’oro, un giovane elegante con cappello piumato, un mendicante con le gambe di legno, una monaca con le mani giunte a chiedere pietà, una gentildonna, un’anziana e un bambino senza abiti accompagnato da uno scheletro che tiene un sonaglio nell’asta. Ogni personaggio è trafitto dalla freccia della morte ed è sistemato in pose rigide e timorose, spaventato dallo scheletro che lo accompagna e lo invita al ballo con smorfie e ghigni malefici.

Conclude il ballo lo scheletro della morte raffigurato in sella ad un cavallo alato che galoppa sopra corpi ammassati a terra e con l’arco scaglia le frecce sui partecipanti alla danza. La morte è seguita dall’arcangelo Michele e dal diavolo con il compito di giudicare le anime nel giudizio finale. L’arcangelo Michele è dipinto con spada e bilancia e intercede a difesa delle anime, sopra di lui un angelo sostiene un velo dal quale emerge un’anima; sotto sta la scritta: “Morte non può distruggere chi sempre vive”. Il diavolo, ultima figura della lunga danza, è dipinto in sembianze demoniache con ali di pipistrello, enormi orecchie, corna e barba da caprone e tiene in mano un libro con l’indicazione dei Sette Peccati Capitali. Questi ultimi sono illustrati nella fascia sottostante e sono simboleggiati da animali, ma purtroppo sono di difficile lettura perché degradati negli anni dagli agenti atmosferici.

Questa è la breve descrizione della “Danza macabra” raffigurata nella chiesa di San Vigilio di Pinzolo, alle porte del paese, sulla strada che conduce a Madonna di Campiglio. Il soggetto qui trattato è uno degli affreschi più emblematici del Trentino Alto-Adige, ma anche della storia dell’arte italiana. È un affresco raro, ma un tempo molto diffuso in tutto il mondo d’oltralpe, dalla Spagna, alla Francia, fino alla Germania come messaggio per i fedeli a condurre una vita nei precetti cristiani.

 

Note

[1] La Confraternita dei Battuti era molto diffusa in Val Rendena nel medioevo e in particolare a Pinzolo era presente una delle prime Compagnie dei Battuti del Trentino. I Battuti venivano anche definiti “Disciplini” o “Flagellanti”, termini che ricordano una forma di religiosità da loro praticata molto severa, fatta di lunghe orazioni e rigide penitenze inflitte sul corpo con flagelli e ciclici. La Compagnia era anche dedita alle azioni caritative e alla commissione di opere artistiche per le chiese come è il caso della “Danza macabra” di San Vigilio di Pinzolo.

 

Bibliografia

Facchinelli Walter, Nicoletti Giorgio, Val Rendena. Guida turistica, Trento, Editrice Uni Service, 2006 Chiaghi Giuseppe, Nell'antica chiesa di San Vigilio a Pinzolo, Pinzolo, Famiglia cooperativa di Pinzolo, 2004


LA BASILICA DI SANTA GIUSTINA A PADOVA

A cura di Mattia Tridello

La Basilica Abbaziale di Santa Giustina: una introduzione

Assisa sulla lanterna della cupola più alta della basilica, la statua di Santa Giustina sembra dominare e osservare il frenetico movimento di passanti e turisti che, in gran numero, transitano giornalmente in Prato della Valle, nella vasta piazza (una delle più grandi d’Europa) che grazie alle risistemazioni settecentesche costituisce il punto privilegiato per godere di una vista senza eguali dell’edificio sacro. La facciata di quest’ultimo, insieme alle composte volumetrie rinascimentali, si specchia nel canale dell’area antistante regalando scorci e visioni sempre nuovi che irradiano e amplificano le dimensioni del tempio cristiano rendendolo visibile a qualsivoglia visitatore che si appresta ad entrarvi o a passarvici accanto. La posizione della basilica, sebbene ai lati della piazza e ben distante dal centro cittadino, con le possenti mura perimetrali e le slanciate cupole, si impone costantemente come straordinaria testimonianza del passaggio di epoche, stili e funzioni, dell’avvicendarsi di dominazioni che tuttavia non intaccarono il desiderio originale per cui venne costruita; quello di omaggiare degnamente quel gruppo di Santi e Protomartiri che innalzarono le fondamenta del primo cristianesimo padovano, e che proprio lì trovarono il riposo delle spoglie mortali. Anche se meno frequentata dai flussi turistici della città che di norma si concentrano esclusivamente alla Basilica di Sant’Antonio, Santa Giustina è stata e continua a essere la più antica testimonianza storica, artistica e cristiana della Padova romana, il più vetusto edificio sacro che detiene numerosi primati storici e artistici, che con questa trattazione si cercherà di rendere più noti. Basti pensare che, per le sue incredibili dimensioni, essa è stata collocata al nono posto tra le più grandi basiliche del mondo; o al fatto che racchiude le sepolture di importanti, numerosi santi, primo fra tutti l’Evangelista Luca. La notevole rilevanza e la singolare corrispondenza tra i corpi venerati nel santuario alimentano e favoriscono, quasi come un unicum nel panorama ecclesiale italiano, una corrispondenza tra le sepolture di una martire dell’età tardo-antica e paleocristiana, ovvero Santa Giustina, uno dei dodici Apostoli di Cristo, San Mattia e infine Luca, l’unico Evangelista che, oltre a scrivere il Vangelo omonimo, compose anche gli Atti degli Apostoli. Si può comprendere, dunque, come l’eccezionalità indiscussa del luogo sia non solo il frutto dell’amore degli abitanti e dei monaci benedettini che fin dal X secolo se ne presero cura, ma anche il risultato cronologico di numerosi interventi e sovrapposizioni storiche che cominciarono dall’epoca romana fino a arrivare al XVII secolo. Per poter rintracciare la genesi dell’antichissima area sacra occorre quindi calarsi a ritroso nei secoli e più precisamente negli anni delle persecuzioni romane, nelle quali trovarono la morte molteplici martiri, tra i quali anche la Santa titolare del complesso abbaziale che corona la città patavina.

Il contesto storico

Prima della risistemazione settecentesca di Prato della Valle, l’area odierna, chiamata Campo di Marte o Campo Marzio, era essenzialmente un vasto spiazzo in terra battuta adibito a crocevia di strade e tragitti che confluivano all’ingresso delle mura del centro cittadino. Patavium (questo il nome di Padova durante la dominazione romana) grazie al fatto di essere attraversata dal Medoacus (l’odierno fiume Brenta) divenne, a partire dall’età augustea (31 a. C), un importante centro di scambi commerciali con le altre città settentrionali dell’impero come Adria e Este. Le abbondanti risorse agricole, l’allevamento dei cavalli e la pastorizia contribuirono a creare un clima di floridezza economica che perdurò fino al II secolo d. C. In tale contesto storico, il primo cristianesimo padovano non tardò ad essere presto perseguitato dalle autorità romane che videro in quest’ultimo una dottrina contraria ai principi politici e sociali su cui era stato fondato l’impero. Nonostante i divieti imposti anche dalle leggi locali, il credo cristiano iniziò a diffondersi a Padova e nelle zone limitrofe diventando ben presto la religione della maggior parte della popolazione e di alcuni ceti patrizi vicini alle famiglie imperiali. Così, per i primi tempi, i cristiani si riunivano per celebrare l’Eucarestia e leggere i testi sacri in case private messe a disposizione dalle famiglie più abbienti, le cosiddette “domus ecclesiae”. La sepoltura dei defunti avveniva invece all’interno di necropoli in gran parte occupate da sepolture di cittadini pagani, come nel caso dell’area cimiteriale presente all’estremità del Campo Marzio. Quest’ultimo, caratterizzato dalla presenza di un teatro chiamato “Zairo”, era affiancato da una zona sepolcrale collocata pressappoco al di sotto dell’attuale basilica di Santa Giustina e fu il luogo in cui quest’ultima, secondo le più antiche testimonianze, venne martirizzata (Fig. 1).

Fig. 1 – Pianta di Patavium con indicata l’area dell’attuale Prato della Valle e della basilica.

Il martirio di Santa Giustina e la genesi della basilica

Il legame della futura basilica con la figura della Santa trova origine direttamente dal martirio che quest’ultima subì proprio nel Campo Marzio vicino al teatro Zairo. Le testimonianze della condanna e del supplizio inflitto a Giustina si possono rintracciare all’interno del suo testo agiografico, la “Passio” che, secondo l’opinione di alcuni storici del secolo scorso (R. Zanocco e J. Bue), sarebbe da far risalire a un periodo compreso tra il VI e il X sec d. C. Cercando di riassumere brevemente il testo antico si possono facilmente constatare non solo le vicende che avvennero durante il processo, ma anche le origini della giovane padovana. Giustina proveniva infatti da una distinta famiglia locale e secondo la tradizione, mentre l’imperatore Massimiano si trovava di passaggio in città, venne arrestata e brutalmente condotta al cospetto dell’imperatore presso il tribunale istituito in Campo Marzio. Rifiutatasi di abiurare e di rendere omaggio al dio pagano Marte, venne condannata alla pena capitale per mezzo della spada. La sentenza, avvenuta a poca distanza dal luogo, venne eseguita il 7 ottobre 304. I padovani presenti, colpiti dal forte ardore con cui la ragazza aveva professato il proprio credo, raccolsero il corpo e lo seppellirono presso la zona cimiteriale adiacente al luogo del martirio. Ben presto la venerazione per la sepoltura della Santa fece sì che venisse edificata una piccola cappella cimiteriale volta a custodire le sacre spoglie. Tuttavia, il primo intervento che pose l’inizio della lunga storia costruttiva della basilica si deve rintracciare poco dopo il 520 d. C. quando il patrizio e prefetto del pretorio romano Opilione fece  costruire un sacello e una basilica sul luogo della sepoltura di Giustina e degli altri martiri che, come lei, avevano condiviso la stessa sorte (Fig. 2). L’edificio, secondo le testimonianze dell’epoca, meraviglioso per fattura e decorazione artistica, venne arricchito di corpi e reliquie di molti altri santi della diocesi e costituì il luogo prescelto dai primi vescovi della città per la collocazione della loro tomba.

Fig. 2 – Pianta del complesso fatto costruire da Opilione, in ero è evidenziato il sacello.

Il complesso paleocristiano, che rimase intatto per secoli, venne colpito da un’ingente calamità nel 1117 poichè, a causa di un violento terremoto, crollò. Dalla devastazione si salvarono solamente alcune piccole parti di muratura e l’antico sacello annesso al corpo basilicale. La storia costruttiva, sebbene rallentata a causa del disastro naturale, non si arrestò, anzi si arricchì di nuove ricostruzioni e ambienti volti a conservare i numerosi corpi di santi e protomartiri che a partire dall’XI secolo iniziarono ad essere ritrovati e riscoperti. Questi ultimi, essendo stati nascosti durante il periodo delle invasioni barbariche per il timore che venissero rubati o profanati, tornarono a essere esposti alla venerazione popolare. Per primi vennero riesumate le spoglie di S. Massimo Vescovo, S. Giuliano, S. Felicita Vergine e i SS. Innocenti; nel 1075 rivide la luce il corpo di San Daniele, nel 1174 quello di Santa Giustina e durante il 1177 quello dell’Evangelista Luca.

Le vicende architettoniche e stilistiche del complesso mutarono nel corso dei secoli tanto che l’antica struttura venne ampliata con un profondo coro (ancora esistente) e con la cappella contenente l’arca sepolcrale di San Luca (Fig. 3). Proprio per la decorazione di quest’ultima i monaci benedettini neri che a partire dal 971 amministravano il complesso abbaziale decisero di commissionare nel 1453 ad Andrea Mantegna un polittico da porre sull’altare accanto alla tomba dell’Evangelista. La pala (Fig. 4), in loco fino al 1797, a causa delle soppressioni napoleoniche venne asportata dalla chiesa di Santa Giustina e destinata ad essere custodita alla Pinacoteca di Brera, dove ancora oggi si trova.

La ricostruzione cinque-seicentesca

A partire del XVI sec, nel momento più alto di espressione culturale e artistica della città patavina, iniziarono a essere elaborati una serie di progetti e ipotesi avanzate prima con l’intenzione di ristrutturare superficialmente la struttura, per poi tramutarsi nella decisione di ricostruire completamente l’intero complesso basilicale e monastico per rendere esplicito il prestigio sociale e culturale assunto dall’abbazia nel corso del tempo. In questo frangente di fervore edilizio nacque e si sviluppò il progetto architettonico della basilica attuale. Il piano unitario di Santa Giustina non venne progettato da un unico architetto, bensì da una commistione di esperti; tra questi si ricordano il monaco Girolamo da Brescia, Matteo da Valle, Alessandro Leopardi, Andrea Briosco, Andrea da Valle e infine Andrea Moroni.

L’esterno della Basilica di Santa Giustina

Principalmente privo di decorazioni, l’esterno del corpo basilicale (Fig. 4) si presenta monumentale al visitatore, rivelando solo nei lati lunghi della costruzione alcuni abbellimenti ad intonaco come ad esempio le cornici dentellate che incorniciano il tetto a due spioventi delle cappelle laterali e del transetto. L’elemento che tuttavia colpisce maggiormente l’attenzione dell’osservatore è senz’altro il cospicuo numero di cupole che, disseminate su tutta la copertura, contribuiscono a slanciare la mole già possente della basilica e grazie alla copertura a piombo e ai tamburi intonacati, diventano un elemento di riconoscimento visibile anche a distanze elevate. Di notevole impatto visivo sono anche i numerosi oculi circolari di influenza bramantesca che abbelliscono sia la facciata incompiuta che i lati delle navate.

Fig. 5 – Esterno della basilica.

L’interno

L’interno della Basilica di Santa Giustina (Fig. 6) si rivela come uno dei più esemplari e ben riusciti capolavori dell’architettura veneta cinquecentesca, tanto che la sua dimensione in lunghezza (122 metri) è annotata sul pavimento della navata centrale della Basilica di San Pietro in Vaticano. La grandiosa dimensione, come dal resto anche la pianta, non è altro che il risultato della perfetta fusione dello stile imperiale romano con il gusto tardo rinascimentale. La planimetria (Fig. 7) mostra infatti una pianta complessa ma allo stesso tempo chiara e solenne. Il corpo basilicale, formato da tre navate separate tra loro da possenti pilastri rivestiti di paraste ioniche, presenta ben 14 cappelle minori, 7 per parte, che si aprono sulle navate laterali. Di singolare interesse è proprio il sistema architettonico nel quale queste vengono inserite: in pianta per ogni campata della navata antistante corrispondono due cappelle separate tra loro da un sottile muro; in alzato, invece, queste sono raggruppate sotto un unico arco centrale dal quale si apre un oculo circolare che permette l’illuminazione della volta a botte (Fig. 8). La successione prospettica delle navate laterali risulta arricchita dalla presenza di un altro modulo che viene ripetuto più volte in corrispondenza dei pilastri della navata centrale: un arco a tutto sesto (che si imposta sullo stesso livello delle cappelle) sorregge un alto architrave con un piccolo rosone che a sua volta diventa il piano trasversale sul quale si imposta la volta soprastante (Fig. 9). Tali elementi, così elaborati e ripetuti secondo schemi unitari, permettono che l’ambiente risulti non solo armonioso ma anche compatto e proporzionato. Magnifico nella sua ferma austerità, lo spazio interno è scandito sia da netti contrasti volumetrici che da intensi equilibri tra ombra e luce, tra una diffusa e calma luminosità che invade e sembra riflettere in tutto l’edificio sacro. Ogni elemento architettonico è evidenziato da modanature grigie che dividono l’ambiente in tanti spazi, alcuni più aperti e altri, come le cappelle, più raccolti. La copertura delle campate della navata centrale presenta delle cupole ribassate senza tamburo, decorate con lacunari circolari (Fig. 10) che proseguono fino all’intersezione con l’ampio transetto. L’area della crociera è infatti ottenuta grazie a uno schema geometrico ben preciso che ripropone su tutti i tre lati del presbiterio un modulo unico e definito. Accanto all’area absidata centrale compaiono due cappelle semicircolari per parte che, intersecandosi con le altre presenti nel transetto, creano quattro piccoli spazi quadrati sui quali si impostano le cupole minori. Al di sopra del braccio trasversale trovano collocazione due cupole con tamburo che vengono separate, tramite volte a botte, da una calotta ulteriore ubicata nel punto di intersezione della crociera. L’ultima cupola per ordine di collocazione è situata nella profonda abside dello spazio liturgico presbiteriale. Come si può notare da un confronto tra l’esterno e l’interno della basilica, le cupole citate, anche se al di fuori presentano le lanterne (Fig. 11), all’interno sono formate da una calotta leggermente ribassata e sono sprovviste dell’apertura circolare che introduce la lanterna superiore (Fig. 12a-12b).

Fig. 11 – Cupole esterne della basilica.

Nell’analizzare il vasto edificio, la trattazione cercherà di porre maggiore attenzione su quegli spazi che attraggono maggiormente l’interesse del visitatore che, nel suo itinerario, si addentra alla scoperta delle molte meraviglie del santuario. Per tale motivo ci si appresterà a descrivere diffusamente sia la zona presbiteriale di Santa Giustina (con particolare attenzione alla Cappella di San Luca, all’altare maggiore e al sarcofago di San Mattia), sia ai resti più antichi della storia basilicale dell’abbazia, ovvero, il corridoio dei Martiri e il sacello paleocristiano (Fig. 13).

Fig. 13 – A altare e cappella di San Luca, B altare maggiore, C arca di San Mattia, D corridoio dei Martiri, E sacello di San Prosdocimo.

La tomba di San Luca

Originariamente, come illustrato in precedenza, l’arca contenete le spoglie dell’Evangelista non si trovava nella posizione attuale. Tramite una solenne funzione, il corpo di San Luca venne traslato dall’antica cappella trecentesca all’interno del nuovo braccio sinistro del transetto della basilica nel 1562, quando i lavori di ricostruzione erano quasi ultimati. Tuttavia, prima di approfondire le vicende legate alla presenza del corpo santo a Padova e la sua sistemazione nel sarcofago, occorre innanzitutto chiarire alcuni dati biografici e agiografici legati alla vita di colui che, a differenza di come molti pensano, non fu uno degli Apostoli scelti da Gesù. Le notizie riguardanti la sua vita possono essere desunte da tradizioni antichissime risalenti al II e III secolo. Egli, probabilmente originario di Antiochia di Siria, divenne compagno di San Paolo nei suoi viaggi apostolici, è proprio quest’ultimo a citarlo più volte come fedele collaboratore e evangelizzatore all’interno di lettere e scritti. Fin dai tempi antichi Luca venne preso come protettore e intercessore per i medici, specialmente padovani, poiché dalla lettera di Paolo ai Colossesi (4,14) l’Evangelista viene chiamato più volte con il termine “medico”. A veridicità del fatto, dopo un attento esame del Vangelo e degli Atti degli Apostoli, si possono rintracciare numerosi riferimenti alla medicina, una particolare attenzione alla narrazione delle guarigioni operate da Cristo e un attento uso di termini specifici in alcuni episodi narrati. Si veda ad esempio il samaritano che cura il viandante aggredito con olio e vino oppure la descrizione del sudore con gocce di sangue di Gesù durante la preghiera nell’orto degli ulivi.

Una tradizione analoga vede quest’ultimo come patrono anche degli artisti in virtù del fatto che, secondo i racconti proliferati in epoca bizantina e medievale, egli sarebbe stato il primo iconografo della storia a ritrarre il volto di Cristo e Maria per espresso volere di quest’ultima tramite la scrittura di tre proto-icone: la Chalkopratissa o Advocata (Maria che intercede per la salvezza dei peccatori), la Hodigitria (la Madonna che regge il bambino sul braccio sinistro e che “indica la via”) e la Panaghia Dexià (la Madre di Dio con il Bambino sul braccio destro). Inoltre, dopo l’assunzione di Maria in Cielo in Anima e Corpo, Egli avrebbe dipinto ulteriori raffigurazioni. Esempi di tali icone sacre si possono rintracciare a Bologna nel Santuario della Madonna di San Luca, a Santa Maria Maggiore a Roma (Salus popoli romani) e in molte altre località; ciò in virtù del fatto che tali modelli iconografici si diffusero velocemente nei secoli diventando presto oggetto di numerose copie. Una raffigurazione attribuita al Santo si trova proprio sopra la sua tomba nella basilica di Santa Giustina e istituisce, straordinariamente, un connubio unico in tutto il panorama basilicale italiano.

L’Icona della madonna Costantinopolitana 

La presenza della veneranda Immagine nella basilica padovana può essere ricondotta, grazie agli antichi documenti ritrovati, al periodo compreso tra il XII e XIII secolo. L’Icona, anticamente conservata nel sacello annesso alla costruzione basilicale, è secondo alcuni storici la più antica immagine mariana presente nella città, tanto da essere sempre stata ritenuta miracolosa da parte della devozione popolare. Per tale motivo più volte veniva portata in solenne processione e ad essa erano affidate continue preghiere per scongiurare il pericolo di carestie e siccità. L’immagine sacra che si può osservare oggi nella Cappella di San Luca, tuttavia, non si presenta nella sua forma stilistica originaria. Durante il Cinquecento, a causa del deperimento e il cattivo stato di conservazione della tavola antica, venne realizzata una copertura metallica sbalzata soprastante chiamata "riza" volta sia a proteggere la lesionata immagine, sia a nasconderne i difetti del tempo. Quest’ultima mascherava completamente l’antica effige, poiché anche i volti di Maria e Gesù (le parti originali meglio conservate) vennero ricoperti da una tela dipinta per l’occasione (Fig. 14). Solo nel 1959 la vera icona (Fig. 15) venne separata dalla riza in bronzo dorato che la proteggeva: così facendo, si dovette provvedere alla sistemazione non più della singola icona ma di ben due immagini. La risposta al problema si concretizzò con la designazione di due diverse collocazioni: la copertura cinquecentesca venne posta stabilmente al di sopra della tomba di San Luca in un elaborato espositore con due angeli ad opera di Amleto Sartori (1960), mentre la tavola originale venne custodita all’interno di un apposito spazio nel monastero benedettino.

Il tipo iconografico

Il genere iconografico al quale l’immagine, tradizionalmente, appartiene sarebbe quello della Madre di Dio Odighitria (letteralmente colei che indica la via) nel caso dell’icona padovana, il gesto viene reso pittoricamente dalla mano di Maria che con il mignolo sinistro indica Cristo.  La particolarità della tavola, tuttavia, consiste nella direzione in cui è rivolto lo sguardo delle figure: Gesù è rivolto verso l’esterno dell’opera e insieme a Maria guarda direttamente l’osservatore, quasi a voler instaurare un diretto e profondo dialogo spirituale con lui (Fig. 15 a). Tali peculiarità fanno sì che l’icona possa essere accostata maggiormente al tipo iconografico della “Madre di Dio della consolazione” o “Palestinskaia”.

Il corpo di San Luca nella Basilica di Santa Giustina

Tornando ad analizzare le vicende legate all’Evangelista, bisogna innanzitutto comprendere il perché della presenza delle sue spoglie proprio a Padova. Secondo la tradizione Egli morì all’età di 84 anni e venne sepolto nell’antica Tebe, capitale della regione greca della Boezia. Dalla prima sepoltura in territorio greco, il corpo, come riferisce anche San Girolamo, venne portato nella Basilica dei Dodici Apostoli a Costantinopoli per esservi custodito. Le notizie storiche riguardanti la vicenda sembrano tacere per lunghi anni, per poi ricomparire in epoca medievale quando, nel 1177, nell’area cimiteriale di Santa Giustina in Campo Marzio, venne testimoniato il ritrovamento delle sacre spoglie di Luca a seguito di numerosi fatti prodigiosi come profumi e sogni premonitori a coloro che frequentavano il luogo. A conferma dell’identità del corpo venne trovato anche un cosiddetto titulus, ovvero un’iscrizione recante il nome di Luca e tre rappresentazioni di vitelli sulla cassa tombale. L’eccezionale scoperta indusse l’abate monasteriale Domenico, e il Vescovo di Padova Gerardo Offreducci, a far confutare la veridicità del ritrovamento a Papa Alessandro III che si trovava in quel momento a Ferrara. Per spiegare il trasporto del sarcofago da Costantinopoli a Padova, la medesima tradizione (che si sta ancora studiando e verificando) indicherebbe l’avvenimento di quest’ultimo durante la persecuzione iconoclasta dell’VIII secolo, e quindi è lecito ipotizzare che il corpo insieme all’icona siano stati spostati per sfuggire alla profanazione.

L’arca sepolcrale

Il sarcofago dell’Evangelista (Fig. 16), opera raffinata di scuola pisana, venne realizzato a cura dell’abate Mussato intorno al 1316. La struttura (Fig. 17) è caratterizzata dall’elevazione su cinque sostegni verticali costituiti da quattro colonne laterali e un elemento scultoreo centrale, ritraente angeli.  La cassa tombale si presenta rivestita da un elegante involucro in porfido verde che racchiude al suo interno tre riquadri per parte sui lati lunghi e due su quelli corti (Fig. 18). All’interno di questi ultimi trovano spazio dei raffinati bassorilievi che riproducono, sia sul fronte che sul retro, la stessa successione di figure, quasi una processione formata da un angelo con torce, uno atto nell’incensare con il turibolo il sarcofago e il bue alato con il Vangelo (il simbolo di riconoscimento nel tetramorfo dell’Evangelista). L’animale alato compare anche sul lato corto destro dell’arca, mentre sul sinistro emerge la rappresentazione di Luca stesso con i suoi scritti.

Fig. 18 – Arca di San Luca, vista dall’alto e disposizione dei bassorilievi nei fronti.

Il contenuto dell’arca

L’interno del sarcofago, per secoli venerato come il contenitore delle spoglie dell’Evangelista Luca, venne aperto nel 1998 per poter ispezionare i resti, sottoporli ad indagini scientifiche e donarne un frammento significativo al Metropolita di Tebe, Hieronymos (Fig. 19-19 a). Formatasi una commissione scientifica, al seguito di numerose indagini, si arrivò alla conclusione che lo scheletro conservato a Padova apparteneva a un uomo morto in tarda età (tra i 70 e gli 85 anni) alto circa 163 cm. Inoltre le ossa conservate a S. Giustina corrisponderebbero al cranio presente a Praga (prelevato dall’arca e consegnato dai monaci al re di Boemia Carlo IV nel 1354). La conservazione molto accurata e rispettosa dei resti nel sarcofago, insieme all’elevato numero di oggetti di origine orientale deposti sul suo fondo, denotano un particolare interesse, fin dall’antichità, a voler a tutti i costi preservare i resti di un individuo santo e importante.


SAN CESAREO, IL DUOMO DI TERRACINA

A cura di Andrea Bardi

La concattedrale di San Cesareo: storia

Nell’area che dal I secolo a.C. ospitava il Foro Emiliano (dal nome di Aulo Emilio, il magistrato romano che lo fece completare[1]), e precisamente al di sopra del podio del Tempio Maggiore cittadino, il Capitolium[2], si trova la cattedrale di Terracina, intitolata ad uno dei suoi patroni, San Cesareo, martire di origine cartaginese sotto Traiano [fig. 1].

Fig. 1

Le prime notizie della Basilica Sancti Cesarii, nonostante fosse documentata una folta comunità di fedeli già sotto Gregorio Magno (590-604)[3], risalgono al periodo carolingio, e precisamente al pontificato di Leone IV (847-855). Secondo il Liber Pontificalis, infatti, fu questo pontefice a donare alla Basilica una veste liturgica recante il proprio nome. Al momento della donazione della veste, tuttavia, l’areale del Foro era già stato interessato da una fase di ristrutturazione (probabilmente in occasione della visita dell’imperatore Costante II nel 662) voluto dal consul et dux di Terracina, il dominus Giorgio. L’intervento di riqualificazione del Foro da parte di Giorgio è ben testimoniato da un’iscrizione graffita su una colonna, evidentemente di spoglio, del portico della cattedrale (MVNDIFICATVS EST FORVS ISTE TEMPORE DOMINI GEORGII CONSVL ET DVX). Bisogna aspettare l’ultimo quarto del XI secolo, tuttavia, per la consacrazione della cattedrale. Nel 1073 papa Alessandro II (1061-1073) donò personalmente la diocesi[4] (e di conseguenza anche la cattedrale) a Desiderio, abate di Montecassino (futuro papa Vittore III). L’anno successivo un altro monaco cassinese, Ambrogio, fece consacrare l’edificio al martire Cesareo[5]. Il duomo terracinese divenne il centro della comunità cattolica nel 1088, anno in cui a Vittore III seguì al soglio pontificio Urbano II (1088-1099), eletto al termine di un conclave tenutosi proprio all’interno della cattedrale. L’elezione di Urbano costituì l’acme di un profondo percorso di rinnovamento dell’edificio che, in pieno accordo con i dettami della Riforma Gregoriana[6], doveva coinvolgere anche l’episcopio, che fu perciò dotato di una struttura claustrale[7]. Pochi decenni dopo, e precisamente sotto la guida di Eugenio III, venne completata la decorazione musiva del grande fregio sul portico. Al XIII secolo, invece, risalgono il cero pasquale di Crudele (1245)[8] e il grande campanile laterale. Dopo circa quattrocento anni, un ulteriore momento chiave interessò la morfologia della chiesa di San Cesareo: l’intervento settecentesco (1729) coinvolse la copertura a capriate lignee (sostituita da una volta a botte), la terminazione a tre absidi dell’edificio (rimpiazzata da un coro quadrangolare) e il ciborio medievale, che lasciò spazio ad un grande baldacchino tardobarocco. Fu solo negli anni Venti del Novecento, tuttavia, che il duomo subì l’ultimo intervento sulle sue strutture. Per interessamento del ministro dell’Educazione Nazionale Fedele, si volle effettuare un intervento in stile che riportasse la facciata alla sua conformazione medievale, sostituendo le crociere del portico con un soffitto a capriate lignee e demolendo il nartece (atrio tra la facciata e la navata della chiesa, originariamente adibito ai catecumeni, fedeli non ancora ammessi al battesimo)[9].

 Esterno di San Cesareo

L’attuale duomo di Terracina si innesta sul podio dell’antico Capitolium romano, reimpiegandone la cella scandita all’esterno da una serie di semicolonne scanalate. Al di sopra della gradinata del podio romano si innesta un portico a sei colonne interrotto al centro da un’arcata a tutto sesto[10]. Le colonne, di altezza diseguale tra di loro, sono completate da basamenti di altezza variabile, che recano ognuno coppie di animali [fig. 2], purtroppo scarsamente leggibili ma ancora identificabili (scimmie con strumenti musicali, leoni, pantere, caproni).

Fig. 2

Il portico, coinvolto nel corso del restauro in stile nel 1926 (intervento finalizzato a ripristinarne la struttura originaria) venne completato nel XII secolo, poco dopo la chiusura del cantiere della chiesa ad opera del cardinale Benedetto, titolare di San Pietro in Vincoli morto nel 1128. La committenza benedettina è identificabile grazie ad una iscrizione sulla cornice del portale centrale (“BENEDICTVS S[AN]C[TA]E ROMANAE AECCLESIAE DEI GRAZIA CARDINALEM”). Sul lato destro della trabeazione soprastante corre invece un interessantissimo fregio musivo a schema libero. Il tema del portico, la Redenzione, è qui concretizzato dalla presenza di una serie di animali fantastici con forte valenza simbolica. L’inserimento di una croce patente, di un’imbarcazione e di due iscrizioni è una dichiarazione programmatica della pertinenza alla seconda crociata proclamata da papa Eugenio III nel 1147. Le iscrizioni, infatti, recano i nomi di due cavalieri crociati locali, Goffredo d’Egidio [fig. 3] (GVTIFRED EGIDII MILES) e Pietro del Prete (PETRVS PBRI MILES) [fig. 4].

La prima crociata, indetta proprio da Urbano II, eletto proprio a San Cesareo, era ormai troppo datata per essere oggetto di committenza[11]. Il portico presenta un’ulteriore iscrizione (PALATIVM T[ER]RAC IMP[ERATO]R VALE [NTINIANU]S SILVINIAN[US] CINA LEONTIVS S[ANCTUS] CES[ARIUS] LEONI) relativa ai nomi dei personaggi che erano ritratti nella parte sinistra del fregio. Valentiniano III, imperatore che dedicò un sacello a Cesareo dopo che quest’ultimo aveva guarito miracolosamente la madre, Galla Placidia; Silviano, vescovo cittadino per pochi mesi nel 444; Leonzio, console di Fondi convertito da Cesareo; Cesareo, santo martire titolare del duomo. Alle gesta passate dei santi patroni della città (Cesareo e Silviano) venivano associati i protagonisti dell’allora presente di Terracina (Goffredo e Pietro). Alle estremità del portico l’edificio è chiuso a sinistra dal campanile[12] e a destra da Palazzo Venditti, sede del Comune[13]. Il campanile in laterizio [fig. 5] presenta quattro ordini aperti da bifore (l’ultimo da una trifora) affiancate da arcate acute cieche. Esso si imposta su una volta a crociera su base quadrata, segno evidente della penetrazione in area terracinese delle modalità costruttive cistercensi.

Fig. 5 - credits to: http://www.medioevo.org.

Interno della concattedrale

La chiesa deve il suo attuale impianto planimetrico al periodo romanico (fine XI secolo), tra la donazione di papa Alessandro II a Desiderio e l’elezione di Urbano II. L’intervento sulle preesistenze antiche consistette nella riduzione dell’ampiezza della cella per la creazione di nuove pareti laterali, più vicine alla nave centrale. Tra queste ultime e la muratura originaria si creò così uno spazio di risulta, privo di copertura e costantemente esposto alle intemperie, che portò ad una lenta e prevedibile usura della pavimentazione romana originaria. La parete di fondo del Capitolium venne poi dotata di tre absidi, ricavate a partire dai volumi di alcuni piedistalli basamentali sui quali poggiavano statue di divinità. La chiesa, a tre navate e a terminazione triabsidata, segue da molto vicino la nuova abbazia di Montecassino voluta dall’abate Desiderio. I confronti più diretti, tuttavia, rimangono in ogni caso quello con Sant’Angelo in Formis ma soprattutto con Sant’Agata dei Goti[14]. In alzato, l’edificio somma a un unico ordine di arcate a tutto sesto (sostenute da dodici colonne marmoree di spoglio), la grande botte settecentesca in sostituzione all’originario sistema a capriate. Il gioco decorativo della pavimentazione romana, realizzato mediante una sapiente combinazione di marmi e paste vitree, si snoda in un pattern policromo, dalla grande maestria decorativa, fatto di rotae (cerchi), losanghe e quadrati [fig. 6].

Fig. 6 - credits to: http://www.medioevo.org.

Il pulpito, anch’esso caratterizzato dalla compresenza di marmi policromi e paste vitree lavorati a intarsi geometrici, è a cassa rettangolare [fig. 6]. Sorretto da quattro colonne su leoni stilofori, ognuna delle quali dotata di un capitello diverso dall’altro (curioso è il capitello con tre telamoni) [fig. 8], esso viene sostenuto al centro da un corpo a base ottagonale. Affianco al pulpito, il cero tortile pasquale, datato 1245 e realizzato da un certo Crudele.

Lungo le navate laterali, poi, si aprono gli spazi di sei cappelle (tre per lato). Al culmine delle navate laterali troviamo due cibori medievali (XIII secolo), con gli altari contenenti le reliquie dei Ss. Silviano, Silvia e Rufina (navata sinistra) e di S. Eleuterio (navata destra). Il Ciborio di S. Silviano [fig. 9] [fig. 10] eleva le sue quattro colonne di marmo di reimpiego a partire da una base quadrata. Sui suoi capitelli, corinzi, poggia un architrave di spoglio che introduce il baldacchino a tronco di piramide dalla base ottagonale. Sulla lastra marmorea dell’altare un S. Silviano benedicente è affiancato dalle Ss. Silvia e Rufina, rispettivamente a sinistra e a destra. Il Ciborio di S. Eleuterio [fig. 11] [fig. 12] mantiene elementi analoghi in pianta e in alzato, mentre la lastra sul fronte dell’altare ospita il santo nell’atto di benedire la città.

Il baldacchino centrale, tardobarocco, risale al 1729. La copertura lignea poggia su colonne scanalate culminanti su capitelli compositi [fig. 13]. L’altare centrale, posto al centro del baldacchino, custodisce le reliquie dei Ss. Cesareo, Giuliano, Felice ed Eusebio, ritratti sulla lastra frontale e collocati ai piedi di una scalinata. Il baldacchino settecentesco anticipa gli spazi del coro, culminanti con una statua lignea di S. Pietro in Trono (XIX secolo) [fig. 14].

Introdotto da una grande arcata a tutto sesto, le sue pareti sono decorate da pontefici e santi vescovi a monocromo inscritti in nicchie ad arco. Sebbene non siano state fatte ancora attribuzioni certe, l’ipotesi più accreditata vede nella squadra del pittore gaetano Sebastiano Conca (1680-1764) l’equipe addetta al completamento di questi brani. L’arco trionfale del coro lascia spazio all’episodio dell’Ordinamento di Epafrodito a vescovo di Terracina, che, insieme ai tre episodi della volta del coro (Elezione di Urbano II; Gloria di S. Urbano; Pietro l’Eremita chiede al papa di liberare Gerusalemme dagli infedeli) sono invece opere accertate di Virginio Monti (1852-1942). Le testimonianze pittoriche delle cappelle laterali di San Cesareo sono assai poche. La prima cappella sulla destra è senza dubbio la più interessante. Essa presenta, sul lato di fondo, due figure di santi a fresco dall’identità chiarissima. Sono S. Pietro, sulla sinistra, e S. Paolo sulla destra. Al di sotto dello strato di intonaco, in corrispondenza della figura di Paolo, è stata recentemente rinvenuta una figura di santo apostolo i cui attributi iconografici (bastone da pellegrino, borsa a tracolla, libro) rimandano inequivocabilmente alla figura di S. Giacomo Maggiore [fig. 15], mentre l’insieme dei tratti stilistici portano con un certo grado di certezza a un pittore aggiornato al linguaggio napoletano di Pietro Cavallini (1240-1330 ca.)[15]. Il sottarco della cappella, tra grottesche, girali vegetali e cornici in stucco, introduce tre riquadri con un’Orazione nell’Orto, una Flagellazione di Cristo e, al centro, un Padre Eterno.

Fig. 15

Le altre cappelle non presentano alcuna decorazione pittorica, essendo molti dipinti stati trafugati alla fine del secolo scorso (tra il 1989 e il 1991 sono scomparsi una copia dal Battesimo di Cristo di Carlo Maratta in S. Maria degli Angeli, una Sacra Famiglia e una Santa Brigida). Ai lati dell’absidiola minore, in corrispondenza del Ciborio del vescovo Eleuterio, si trovano i brani pittorici più interessanti e risalenti alla fine del X secolo. Una testa imberbe [fig. 16], facente parte di un originario ciclo pittorico di cui essa è l’unica porzione superstite, è connotata dal forte linearismo e dalla carica espressiva che caratterizzano il coevo stile beneventano. Successiva rispetto alla testa, una fascia in finto marmo [fig. 17] tra l’absidiola e la zona presbiteriale, altro elemento che permette una collocazione abbastanza precisa nel quadrante culturale della pittura campana del tempo (Cripta di Giosuè in S. Vincenzo al Volturno). In corrispondenza dei gradini del presbiterio, poi, un velarium [fig. 18] (pressoché coevo alla lastra in finto marmo) segnato nella sua parte alta da due linee nere ondulate e, in verticale, da bande rosse.

Fig. 16
Fig. 19

 

 

Note

[1]Al centro del lastricato del Foro si trova l’iscrizione “A(ulus) AEMILIUS A(uli) F(ilius) STRAVI [T]”.

[2] Fino allo scorso secolo era visibile, dal retro del Duomo in corso Anita Garibaldi, l’iscrizione recante il nome dell’architetto, un certo C. Postumio Pollione.

[3] Terracina era, alla metà del V secolo, importante kastron militare bizantino contro la pressione dei Goti da sud, in occasione della cosiddetta “guerra greco-gotica”.

[4][4] La donazione riguardò la “civitatem terracinensem cum pertinentiis suis”.

[5] L’influenza di Montecassino su Terracina era, all’epoca della donazione, già avviata, a partire dall’episcopato del monaco Teodaldus attorno alla metà del XI secolo.

[6]Dal nome di Gregorio VII (1073-1085).

[7] Durante i lavori di ristrutturazione dell’episcopio (1994) sono state rinvenute colonne romane di riuso, collegate tra loro mediante arcate a tutto sesto, evidentemente afferenti al chiostro del vescovado.

[8] La datazione (31 ottobre 1245) è incisa sul lato verso l’altare: A.D. MCCXLV MEN. OCT. DIE ULTIMA. Sul lato rivolto alla navata centrale, invece, l’iscrizione “CRUDELES OPE” è testimonianza esaustiva dell’identità dell’artefice.

[9] Durante la visita pastorale del 1580 le colonne erano sedici. In seguito alla demolizione novecentesca, il numero scese a dodici. Due colonne erano collocate all’apertura del nartece verso la navata, le altre due ai lati della confessio, ovvero la cella in cui vengono conservate le reliquie del santo.

[10] Prima del recupero delle forme originarie a seguito dell’intervento novecentesco, il portico era voltato a crociera e le arcate a sesto acuto sono state sostituite da una serie di archi ciechi a sesto ribassato, secondo il modello rintracciabile anche in S. Giorgio al Velabro.

[11] Le analisi paleografiche dell’iscrizione hanno inoltre confermato la pertinenza al XII secolo.

[12] Costruito successivamente rispetto al portico: lo spazio per i pilastri del campanile venne ricavato a partire da un taglio della modanatura di base.

[13] Recenti ipotesi vorrebbero il palazzo la residenza della famiglia dei Pironti, che avrebbero commissionato anche il campanile. Un membro della famiglia dei Pironti, seguendo tale lettura, potrebbe essere il personaggio che si nasconde dietro il ritratto scolpito sul pilastro del campanile.

[14] Sant’Agata è il parallelo più convincente proprio per la realizzazione delle absidi entro preesistenze murarie, nonché per la presenza del presbiterio rialzato.

[15] Pietro Cavallini giunse a Napoli nel 1308, lavorando alla Cappella Brancaccio in San Domenico Maggiore e in Santa Maria Donnaregina.

 

Bibliografia

di Gioia, La cattedrale di Terracina, Roma, Rari nantes, 1982.

Nuzzo, La decorazione pittorica della cattedrale di Terracina dal X al XIV secolo alla luce delle recenti scoperte. Dall’influenza beneventana alla pittura della Riforma, ai percorsi delle botteghe cavalliniane nel Lazio meridionale, in Una strada nel Medioevo. La via Appia da Roma a Terracina (a cura di M. Righetti), Roma, Campisano, 2014, pp. 217 – 236.

T. Gigliozzi, Nuovi elementi per la fase architettonica altomedievale della cattedrale di Terracina e inedite testimonianze del periodo ‘desideriano’, in Una strada nel Medioevo. La via Appia da Roma a Terracina (a cura di M. Righetti), Roma, Campisano, 2014, pp. 201-216.

T. Gigliozzi, I segni della Riforma nella cattedrale di Terracina. La chiesa, il chiostro, il portico, la cattedra, in “Arte Medievale”, IV serie, Milano, Silvana, 2016, pp. 27-34.

Nuzzo, I segni della Riforma nella cattedrale di Terracina. Temi e simboli nel fregio musivo del portico, in “Arte Medievale”, IV serie, Milano, Silvana, 2016, pp. 35-44.

Scavizzi, Conca, Sebastiano, in Dizionario Biografico degli italiani, 27, 1982, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana.

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Sitografia

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http://www.treccani.it/enciclopedia/sebastiano-conca_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/virginio-monti_(Dizionario-Biografico)/


LA BASILICA DI SAN PAOLO MAGGIORE A NAPOLI

A cura di Ornella Amato
Fig.1 - Piazza san Gaetano.

Introduzione

Per poter apprezzare la profonda bellezza del complesso della Basilica di San Paolo Maggiore occorre fare alcune precisazioni introduttive.

Nel 1995 l’UNESCO ha dichiarato il centro storico di Napoli Patrimonio dell’Umanità. Esso racchiude quasi tre millenni di storia e risulta essere il più vasto d'Italia e uno dei più vasti d'Europa con i suoi 17 km², i suoi  monumenti, che sono testimonianza della successione di culture del Mediterraneo e dell'Europa. Le strade del centro storico di Napoli, sebbene seguano la struttura stradale originaria dell’antica città che fu della Magna Grecia, mantengono tutt’oggi la denominazione di Decumani, che presero nella successiva epoca romana.

In particolare, lungo il Decumano maggiore – uno dei salotti culturali della città – s’incontrano piazze e monumenti che custodiscono fatti ed eventi che hanno segnato la storia del capoluogo campano e dei suoi abitanti.

È proprio qui che, in posizione pressoché centrale, ci si imbatte in Piazza San Gaetano che sorge sull’area in cui esisteva l’antica agorà greca, diventata poi il foro in epoca romana ove– in pompa magna - si accoglievano gli imperatori.

Successivamente, a partire dell’ epoca angioina, qui si svolgevano le funzioni dei Sedili della città, ovvero delle istituzioni amministrative di Napoli i cui rappresentanti, detti gli Eletti, si riunivano nella vicina chiesa di San Lorenzo Maggiore per perseguire il bene comune della città. A cinque dei sei seggi avevano diritto di partecipare i nobili, mentre il resto dei cittadini era aggregato nel sesto seggio, ovvero quello del popolo.

Questa era la piazza per eccellenza dove si discutevano trattati di guerra e di pace, ed era qui che accorreva il popolo napoletano richiamato alle armi dal suono delle campane.

LA BASILICA DI SAN PAOLO MAGGIORE A PIAZZA SAN GAETANO

Il nome della piazza- in un primo momento nota come Largo San Paolo e su cui si erge la basilica di San Paolo Maggiore - deriva dalla presenza della tomba di San Gaetano nella basilica stessa, oltre che dalla presenza della statua dedicata allo stesso Santo, eretta come ex-voto per la liberazione della peste che colpì la città nel 1656 e che seminò morte ovunque. I cadaveri furono oltre 200.000 su un totale di circa 450.000 abitanti, e la capitale fu messa letteralmente in ginocchio.

Il grido di preghiera affinché il morbo cessasse fu affidato non solo alla Chiesa, ma in un certo qual modo anche agli artisti, ai quali furono commissionate diverse opere che non solo la testimoniarono, ma che furono soprattutto ex-voto di ringraziamento per il cessato morbo.

Fig. 2 - Micco Spadaro, Piazza Mercatello durante la peste del 1656, Napoli Museo di San Martino.
Fig. 5 - Napoli, Mattia Preti - Porta San Gennaro Affresco votivo per la scampata pestilenza del 1656 – come da bozzetti conservati al Museo di Capodimonte.

A questo filone di arte devozionale appartiene anche la statua dedicata a San Gaetano Thiene che oggi s’innalza sulla piazza.

Gaetano Thiene, da sempre molto amato in città, qui visse fin dal 1538, anno in cui ricevette in concessione dal Viceré don Pedro da Toledo la Basilica di San Paolo, ove si insediò con i chierici regolari teatini, e vi rimase fino al 1547. Sarà poi beatificato l’8 ottobre 1629 da Papa Urbano VIII.

Il 7 Agosto del 1656 i rappresentanti della città si recarono scalzi e con un cordone al collo sulla tomba del Beato Gaetano Thiene, in San Paolo Maggiore, per chiedere la liberazione dalla pestilenza con la promessa di iscriverlo tra i Santi Patroni della città. Fonti mediche e sanitarie raccontano che da quel giorno non si contarono più vittime e che il morbo cessò improvvisamente. Una delegazione partì quindi alla volta di Roma per incontrare Papa Alessandro VII e chiedergli di iscrivere il nome del Beato Gaetano Thiene nel Registro dei Santi, ma soprattutto tra i compatroni della Città. La canonizzazione però avverrà solo il 12 Aprile del 1671 ad opera di Clemente X.

Ciononostante i teatini della Basilica di San Paolo Maggiore vollero ugualmente la realizzazione di un monumento al Beato Gaetano come ex-voto per la grazia ricevuta, e ne affidarono il progetto e l’esecuzione a Cosimo Fanzago, che avrebbe collaborato con Andrea Falcone.

L’opera, in marmo e piperno, fu realizzata tra il 1657 e il 1664, ma il risultato probabilmente non piacque ai teatini, in quanto non ne soddisfò la volontà di avere una statua sviluppata soprattutto in altezza.

Nel 1670 si decise di rimettere mano all’opera e, a seguito di un precedente ritrovamento nei pressi del Duomo di una colonna che si voleva utilizzare per la Guglia di San Gennaro (realizzato per ex-voto per lo scampato pericolo durante l’eruzione del Vesuvio del 1631 e realizzato entro il 1660), si pensò di utilizzarla per la guglia del Santo, ma la famiglia Pisani, che aveva un palazzo nell’area limitrofa, vi si oppose per timore di un eventuale crollo.

Il monumento, pertanto, rimase nelle sue forme fino al 1737, anno in cui Don Alfonso Carafa, a sue spese e per sua devozione, lo fece completare: la statua seicentesca fu sostituita con l’attuale che fu realizzata probabilmente a Roma in epoca imprecisata da un De Angelis, ma comunque entro il 1747, con le braccia aperte simbolo dell’accoglienza ai fedeli e alla loro protezione. Affacciandosi su Via San Gregorio Armeno, che è la strada dei maestri presepai, San Gaetano è considerato il loro protettore: il Santo si trova, secondo un’interpretazione diffusa, in una posizione di estasi, anche se l’aureola argentea che ne coronava il capo attualmente è stata sostituita con una copia; sul basamento vi sono due iscrizioni che ne raccontano la storia di opera nata per ex-voto, mentre alla base fanno da contorno quattro angeli marmorei; la colonna che regge la statua –oggetto di discussione e che avrebbe dovuto innalzare al cielo la statua del Santo - rimase nei laterali della Basilica per essere poi successivamente portata, anche se spezzata, al Museo Archeologico Nazionale e, solo nel 1914, riuscì ad ottenere una definitiva collocazione nell’attuale e centralissima  Piazza Vittoria ed è stata dedicata ai “Caduti del mare”.

Alle spalle della statua, sulla piazza, si erge maestosa la Basilica di San Paolo Maggiore.

Fig. 8 - Piazza san - Gaetano Basilica di San Paolo Maggiore e Statua votiva a San Gaetano.

La Basilica di San Paolo Maggiore fu costruita sui resti del Tempio dei Dioscuri, ovvero i gemelli Castore e Polluce, figli di Zeus, il cui mito era fortemente sentito non solo in Grecia, ma anche in tutta la Magna Grecia. Tale tempio probabilmente fu realizzato nel V sec. a.C., e attualmente ne restano le colonne, i capitelli corinzi ed i relativi architravi; sarebbe stato poi ristrutturato sotto gli anni di Tiberio dal liberto Pelagonte, più o meno nei primi anni del I sec. d.C. – come dimostra l’iscrizione incisa sull’architrave – quando il culto dei due Argonauti era diventato di tipo dinastico e collegato ai membri della famiglia imperiale.

Fig. 12 - Andrea Palladio - Studio del Capitello Corinzio del Tempio dei Dioscuri di Napoli – quarto chlibro de “I Quattro Libri dell’Architettura”.

La prima chiesa fu edificata tra l’VIII ed il IX sec. d.C. per celebrare la vittoria dei napoletani sui Saraceni, avvenuta nel giorno di San Paolo (da qui la titolazione della Chiesa al Santo di Tarso) ma si hanno notizie certe solo a partire dal 1538, quando Pedro de Toledo la diede in concessione a Gaetano Thiene e ai chierici regolari teatini. Dopo la morte di Thiene, gli stessi teatini si attivarono per una vera e propria opera di rinnovamento.

Parteciparono  i grandi nomi del panorama artistico napoletano, a partire da  Massimo Stanzione  che nel 1642 ne affrescò il soffitto della navata centrale, poi nel 1671 Dionisio Lazzari -  in occasione delle celebrazioni per la canonizzazione di Gaetano Thiene - realizzò una volta in muratura che collegava la facciata della chiesa alle colonne del vecchio tempio pagano; probabilmente, proprio a causa dell'intervento operato da Lazzari, la struttura antica, notevolmente appesantita, finì col crollare durante un violento terremoto, avvenuto nel 1688, provocando anche il crollo di tutte le colonne, tranne le due tutt’oggi visibili. Ciò che rimaneva delle colonne fu utilizzato per decorazioni interne.

Fig.13 - La facciata della Chiesa prima e dopo il crollo dovuto al terremoto del 1688, in un’immagine di Carlo Celano del 1692 in "Notizie del bello, dell'antico e del curioso della città di Napoli".

Nel Settecento i lavori di abbellimento proseguirono soprattutto a opera di Domenico Antonio Vaccaro e Francesco Solimena, che riutilizzarono i marmi antichi crollati con il terremoto, rilavorandoli e mettendoli in opera all'interno per rivestire il pavimento e le paraste della navata centrale.

Per quel che concerne la Basilica, bisogna comunque precisare che è più corretto parlare di “Complesso monumentale”, poiché la Basilica stessa include due edifici religiosi di piccole dimensioni: il Santuario di San Gaetano Thiene e la Chiesa del Santissimo Crocifisso.

Fig. 14 - Chiesa del Santissimo Crocifisso - esterno.

La struttura della Chiesa del Santissimo Crocifisso  è collocata alla base dell'antico tempio dei Dioscuri. Negli anni sessanta del Novecento il fabbricato fu messo in collegamento con il Succorpo della Basilica, causando lo stravolgimento dell'impianto originario. L'interno del complesso è costituito da tre navate, di cui la principale è adibita a luogo di culto, mentre le laterali costituiscono la sacrestia, gli uffici e un cimitero venuto alla luce nel 1962 a seguito di lavori di ristrutturazione.

Il Santuario di San Gaetano Thiene  è  invece un luogo di culto che fu progettato da Francesco Solimena, che realizzò anche gli affreschi presenti nella navata, mentre i bassorilievi raffiguranti le Storie di San Gaetano di Thiene sono invece  di Domenico Antonio Vaccaro. Qui è custodita la tomba del Santo titolare.

Fig.15 - Santuario di San Gaetano Thiene - interno.

Lasciando tali strutture, si ritorna sulla facciata della Basilica, progettata da Arcangelo Guglielminelli ed alla quale si accede attraverso un’elegante scala e  dove, oltre alle già citate colonne, sono da segnalare le lesene scanalate con capitello e le statue raffiguranti i santi Pietro (a sinistra) e Paolo (a destra), entrambe di Andrea Falcone e datate 1671.

All’interno la basilica presenta una pianta  a croce latina e  tre navate con cappelle laterali.

Fig. 18 - Pianta della Basilica e del Complesso.
  1. Chiesa del Santissimo Crocifisso detta la Sciabica
  2. Santuario di San Gaetano Thiene
  3. Resti del Tempio dei Dioscurie ingresso alla basilica di San Paolo
  4. Angelo Custode di Domenico Antonio Vaccaro
  5. Cappella di San Carlo Borromeo
  6. Cappella di San Giuseppe Maria Tomasi
  7. Cappella dei Santi Pietro e Paolo
  8. Cappella Flasconi (o dell'Angelo custode)
  9. Cappella dell'Immacolata (o dei Santi Pietro e Paolo)
  10. Cappella "anonima"
  11. Cappella Firrao
  12. Abside
  13. Cappella di Sant'Andrea d'Avellino
  14. Sacrestia di Solimena
  15. Cappella "anonima"
  16. Cappella del beato Paolo Burali d'Arezzo
  17. Cappella della Purità
  18. Cappella di San Gaetano Thiene
  19. Cappella della Natività
  20. Cappella del beato Giovanni Marinoni
Fig. 19 - Interno della Basilica.

Il soffitto originale con gli affreschi raffiguranti le Storie di Pietro e Paolo e la Vittoria dei Napoletani sui Saraceni dello Stanzione è stato danneggiato gravemente durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. La basilica è notevolmente impreziosita dalla policromia marmorea e dalla statuaria: ne è testimonianza l’Angelo Custode del Vaccaro, esposto sul lato sinistro della navata  centrale e databile al 1724; secondo un manoscritto la statua venne scolpita su volontà dei padri teatini per ricordare un angelo che, nel 1648, con in mano un cartiglio sul quale vi era incisa la frase Hic est fratrum amator, qui multum orat pro populo (questi è l'amico dei suoi fratelli, che prega molto per il popolo), riuscì a fermare i tumulti della folla napoletana che, affamata, tentava disperatamente di saccheggiare il convento.

Fig. 23 - Domenico Vaccaro – L’Angelo Custode.

Altro scrigno d’arte è la Cappella Firrao, ubicata sul lato sinistro dell'abside della chiesa lungo la parete presbiterale, considerata una delle espressioni barocche più riuscite dell’intero complesso religioso. La cappella, i cui  lavori iniziarono nel 1640 e terminarono appena due anni dopo, attualmente si presenta nel suo aspetto originario, con all’interno gli affreschi nella cupola opera  di Aniello Falcone che risalgono al 1641.

L'elemento centrale dell'ambiente è la scultura raffigurante la Madonna delle Grazie (1641), opera di Giulio Mencaglia, il quale ricevette tale commissione proprio da Cesare Firrao che volle quella scultura nella cappella di famiglia e che ne fu committente ufficiale, a testimonianza della devozione dei Firrao verso il culto mariano.

Ai lati della figura sacra vi sono le due principali figure della famiglia, inginocchiate dinanzi alla Madonna: sul lato sinistro è proprio Cesare Firrao, mentre sul lato destro è Antonio Firrao, padre di Cesare.

All’interno dello stesso complesso si trova la Sagrestia, interamente affrescata da Francesco Solimena verso la fine del Seicento con AngeliAllegorieVirtù e la Caduta di San Paolo e di Simon Mago sulle grandi pareti frontali: i lavori in sacrestia furono eseguiti secondo i più tipici canoni del barocco napoletano, con gli affreschi caratterizzati da incorniciature decorate con motivi fitomorfi e floreali, attraverso stucco e dorature di Lorenzo Vaccaro.

Ultimi nel complesso di San Paolo Maggiore sono i due Chiostri: il Chiostro Piccolo, eretto alla fine del ‘500 dai padri teatini, presenta una pianta rettangolare con un pozzo al centro a cui - si racconta – accorresse tutta la popolazione napoletana poiché conteneva l’acqua più fresca della città; contemporaneo alla sua edificazione è anche il Chiostro Grande, che dal 1866 è sede dell’Archivio Notarile della città.

Fig. 26 - Chiostro piccolo.

Nel complesso ha sede il primo Museo Permanente del Presepe napoletano. Qui è possibile ammirare il presepe che il maestro Antonio Cantone realizzò per Papa Francesco nel Natale del 2013 in piazza San Pietro e che fu successivamente restituito alla  città.

Esso ha trovato posto nella navata sinistra della chiesa e occupa una superficie di oltre sessanta metri quadrati. L’opera è composta da sedici figure, vestite con abiti del Settecento napoletano realizzati con tessuti in seta di san Leucio.

 

 

Bibliografia

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Nino Leone, La vita quotidiana a Napoli ai tempi di Masaniello, Milano, 1994

AA.VV., Napoli e dintorni, Touring Club Italiano Milano 2007

 

Sitografia

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http://incampania.com/location/basilica-san-paolo-maggiore-napoli/

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