HOKUSAI AL MUSEO «EDOARDO CHIOSSONE»

A cura di Fabio d'Ovidio

Genesi di una raccolta

L’importante collezione di stampe e pitture ukiyo-e presenti nell’attuale museo di arte orientale di Genova, intitolato a Edoardo Chiossone (Arenzano 1933 – Tokyo 1898) andò costituendosi, assieme all’intero patrimonio di questo ente, in un arco temporale di circa 23 anni (1875-1898), grazie proprio alla sua importante figura.

Chiossone, formatosi come incisore presso l’Accademia Ligustica di belle arti ed esperto nel settore dell’incisione e delle stampe delle carte valori, si trasferì nell’attuale capitale giapponese su diretto invito del governo stesso durante la restaurazione Meiji, al fine di presiedere alla direzione della nuova Officina Carte e Valori del Ministero delle Finanze; qui lavorò fino al pensionamento nel 1891, e rimase nel paese del Sol levante fino alla morte. Oltre allo svolgimento di questo compito, si occupò personalmente di realizzare le filigrane per banconote, francobolli, obbligazioni e titoli di stato che conferirono una precisa identità all’intero mondo della finanza in Giappone.

Fig. 3 - Edoardo Chiossone.

Il periodo storico in cui Edoardo Chiossone visse in Giappone si colloca cronologicamente tra il 1867 e il 1912, in un momento cruciale per la storia di questa nazione. Dopo il declino della famiglia Tokugawa a capo dello shogunato – che amministrò politicamente il Giappone tra 1603 e 1867 – il nuovo governo capì che per entrare in competizione industriale, tecnologica e finanziaria con le principali potenze occidentali, doveva aggiornarsi prendendo a modello quelle stesse potenze; per fare questo vennero chiamati da tutto il mondo studiosi occidentali, specializzati in vari settori, noti con il nome di Oyatoi gaikokujin (onorevoli stranieri noleggiati), con il fine di trasformare l’impero giapponese da un paese agricolo-feudale ad uno industrializzato. In realtà, l’apertura del Giappone al mondo occidentale era avvenuta a metà Ottocento, quando l’ammiraglio statiunitense Perry nel 1853 aveva obbligato il Paese a tale apertura, pena il bombardamento via mare della baia di Edo (la futura Tokyo, sede allora del governo shogunale): in seguito a questo evento si verificarono le firme di alcuni trattati con Olanda, Francia, Gran Bretagna, USA e Russia.

L'intera raccolta del museo fu inizialmente regalata attraverso testamento all'accademia di belle Arti della città di Genova, affinché l'intero patrimonio raccolto da Chiossone fosse esposto e reso accessibile al pubblico.

Tralasciando tutti i bronzi, le lacche, le stoffe, i libri e le armi esposti, le stampe e le pitture ukiyo-e appartenenti ai periodi Edo e Meiji costituiscono la più importante collezione di questo tipo presente sul suolo italiano; inoltre questa raccolta di opere figurative è conosciuta nel mondo come una tra le più corpose di esemplari antichi e rari in ottimo stato di conservazione, selezionati da Edoardo Chiossone stesso grazie alla sua conoscenza in campo grafico.

Sotto il profilo iconografico, l'intero insieme di stampe e dipinti qui presenti abbracciano l'intero corpus di soggetti e temi raffigurati, andando così a testimoniare e a ricostruire tutte le tappe dell'evoluzione stilistica di questo particolare linguaggio artistico tra la metà del XVII secolo sino alla fine del XIX.

Per formare questa collezione l'incisore genovese si appoggiò e sfruttò la conoscenza del pittore Kawanabe Kyosai (1831-1889), il quale raccoglieva in sé non solo l’eredità della scuola classica di pittura Kano, ma anche quello della scuola ukiyo-e tramandatogli da Utagawa Kuniyoshi (1798-1861), che seppe indirizzarlo nell’acquisto delle differenti opere d’arte oggi presenti a Genova.

Storia del museo e delle sue sedi

Non appena l'intera collezione che Edoardo Chiossone aveva raccolto durante il suo periodo in Giappone raggiunse la città di Genova, nel 1905, trovò sistemazione al piano nobile della sede dell'Accademia di belle Arti. Durante questo periodo venivano esposti in maniera permanente circa 150 dipinti ukiyo-e e decine di stampe dei principali artisti di questo movimento.

Seguendo le condizioni che Chiossone aveva inserito nel proprio testamento in merito all'esposizione di questa raccolta, il comune del capoluogo Ligure nel 1948 approvò la progettazione e costruzione di una sede ad hoc stabile e definitiva per raccogliere il museo. L'area ad esso dedicata venne rintracciata all'interno del parco cittadino dove sorge villetta Di Negro, una residenza ancora presente in città, ma inagibile a causa dei bombardamenti subiti durante la Seconda Guerra Mondiale. L’edificio, ideato dall'architetto Mario Labò, venne costruito nel corso di tutti gli anni ’50 e ’60, per poi essere inaugurato nel maggio 1971. Sotto un profilo meramente estetico il complesso museale presenta una struttura di gusto razionalista con all'interno un grande piano terreno rettangolare da cui si innalzano cinque gallerie a sbalzo che seguono la lunghezza dei due lati maggiori dell'edificio.

Nell’esposizione del piano terreno sono presenti una serie di grandi statue in bronzo, fuso a cera persa, che raffigurano un Buddha nella posizione del loto, un karashishi (animale mitico della tradizione orientale, dalle forme canine, protettore delle abitazioni), e un gruppo di gru.

Nelle prime quattro gallerie, conservati in teche, si trovano una serie di manufatti e prodotti artistici dell’Asia orientale: specchi, statue raffiguranti il Buddha storico in differenti posizioni dello yoga e realizzate in differenti materiali, maschere del teatro classico dei no armature complete da guerrieri samurai, servizi da tè e armi.

Nell’ultima galleria invece sono presenti teche che sovente sono vuote: questo non è dovuto ad una dimenticanza dei vari curatori nell’esposizione delle opere presenti né ad una penuria di oggetti, quanto al fatto che queste teche servono per accogliere le punte di diamante della collezione, ovvero i dipinti e le stampe che per motivi di conservazione posso essere esposti circa 60 giorni in 2 anni, a temperatura, umidità e luce controllata onde evitare che le singole opere si danneggino, anche perché sono per natura sprovviste di una cornice – in senso occidentale – di supporto. Questa particolare procedura espositiva non è solo dettata da motivazioni di conservazione artistica, ma anche dalla modalità tradizionale con cui i giapponesi espongono le proprie opere d’arte: questi infatti – a differenza degli occidentali che espongono le opere in maniera perpetua – decidono a seconda del periodo dell’anno di esporre determinate opere e di celarne altre, che vengono riposte in appositi contenitori conservati in stanze estremamente sicure.

Katsushika Hokusai (1760-1849): biografia e opere

Hokusai, grazie alla fama di cui gode in Occidente, merita di essere inserito nel novero dei maggiori pittori della storia dell’arte mondiale. Condusse la sua esistenza e la sua attività artistica prevalentemente nella capitale amministrativo/shogunale Edo (oggi Tokyo). Venne introdotto al mondo della cultura borghese da Katsukawa Shunsho, ma si ritiene abbia anche frequentato gli atelier di altri artisti ukiyo-e.  Durante la sua attività artistica realizzò migliaia di opere impiegando tecniche differenti: xilografia, disegno, pittura, grafica editoriale e manualistica per artigiani e futuri pittori. Il suo operato ha dato origine a composizioni innovative, e i suoi colori hanno una risonanza non solo tra gli artisti nipponici a lui successivi, ma anche tra quelli occidentali: nei decenni dopo la sua morte – complice anche l’apertura del Giappone alle potenze Occidentali – si assistette in tutta Europa alla moda del giapponismo al punto tale che molti artisti, soprattutto impressionisti, collezionarono stampe giapponesi o ne eseguirono copie pittoriche (vedere tra gli altri Van Gogh).

Hokusai, che significa Atelier del Nord, non è il suo vero nome ma l’artista iniziò ad impiegarlo dal 1796, il che dimostra, con gli altri nomi da lui impiegati, un’immensa devozione al culto dell'Orsa Minore. Nel corso dei suoi 90 anni di vita, l'artista scelse di assumere nomi diversi, al fine di rimarcare le differenti fasi del suo operato e del suo linguaggio artistico. Sebbene nel corso della sua vita cambiò oltre 120 nomi circa, la critica ha stabilito per convenzione di suddividere la sua produzione attorno a soli sei.

Il nome impiegato per indicare l’artista durante la produzione giovanile e la sua formazione sotto Katsukawa Shunsho è Shunro (1778-1795) che significa splendore di primavera. A questa prima fase risalgono le stampe che hanno come soggetti gli attori kabuki[1]  e le cortigiane di Yoshiwara[2].

Dopo la morte del maestro, l’artista decise nel biennio 1795-1797 di assumere il nome di Sori Hokusai: durante questi due anni, Hokusai iniziò a frequentare sempre più assiduamente i circoli letterari di Edo. Sotto il profilo artistico incominciò ad eseguire illustrazioni per antologie diverse e stampe per una cerchia di clienti raffinata, colta e sensibile. In queste opere, l’artista cominciò ad esprimere un proprio stile originale, al punto che la sua produzione iniziò ad essere tenuta in gran conto dagli ambienti letterari e soprattutto dai poeti.

Dal 1798 al 1805 l’artista prese il nome di Katsushika Hokusai. A cavallo tra i due secoli, continuò con la produzione di opere che avevano segnato la fase precedente. Maturò nuove esperienze ed interessi tra cui il gusto per l'eccentrico e per le tecniche di rappresentazione dello spazio usate in Occidente, come la prospettiva geometrico-lineare. Al 1804 risale la pubblicazione della serie di stampe Le 53 stazioni del Tokaido: con quest'opera si affermò in maniera definitiva e univoca la fama della sua arte al grande pubblico.

In tutto il terzo decennio del XIX secolo (1810-1820) Hokusai è noto come Katsushika Taito. Questi furono gli anni in cui si dedicò principalmente alla manualistica, tra le varie pubblicazioni si possono citare le Istruzioni per disegni rapidi e il primo dei dodici volumi del Manga (1819), una vera e propria enciclopedia dedicata al disegno, l’ultimo volume sarà edito nel 1832.

Nei 14 anni successivi (1820-1834) assunse il nome di Iitsu (nuovamente uno), a manifestare un totale rinnovamento. Questa fase è ricchissima di opere rilevanti, tra queste la serie delle Trentasei vedute del monte Fuji (di cui fa parte la Grande Onda 1830-1832).

Negli ultimi 15 anni della sua vita, si fece chiamare Gakyorojin Manji (Il vecchio pazzo per la pittura). A questo fase è datata l’edizione in tre volumi delle Cento vedute del monte Fuji (1835-1847/1849).

 

Note

[1] Il kabuki è il teatro borghese, nato nel corso del ‘600 e avente come soggetto l’esaltazione della vita dei borghesi.

[2] Yoshiwara era il quartiere dei piaceri della capitale amministrativo-shogunale Edo. Il termine cortigiana è un false friend, non indica una donna di corte, ma una prostituta; solitamente con questo termine si fa riferimento ad una prostituta colta in grado di intrattenere il proprio cliente non solo sessualmente, ma anche sotto un profilo intellettuale. Da non confondere assolutamente con geisha che era una mera intrattenitrice, sebbene anche loro spesso instaurassero con i loro clienti relazioni carnali.

 

Bibliografia

Donatella Failla, La rinascita della pittura giapponese. Vent'anni di restauri al museo Chiossone di Genova. Catalogo della mostra, Genova, 27 febbraio-29 giugno 2014

Donatella Failla, Dipinti e stampe del mondo fluttuante: capolavori Ukiyoe del Museo Chiossone di Genova, Genova 2005

Donatella Failla, Capolavori d’Arte Giapponese dal periodo Edo alla Modernizzazione. Catalogo della mostra. Genova, 25 Luglio 2001 - 16 Giugno 2002

Donatella Failla (a cura di) Edoardo Chiossone, un collezionista erudito nel Giappone Meiji. Catalogo mostra, Roma, 31 gennaio - 16 marzo 1996

Visite guidate presso il Museo Chiossone tenute dalla professoressa Donatella Failla, già curatrice del museo

Lezioni universitarie del corso Storia dell’arte dell’Asia orientale tenuto dalla professoressa Donatella Failla

 


ORAZIO GENTILESCHI. LA FUGA IN EGITTO E ALTRE...

Recensione a cura di Silvia Piffaretti

Anche se il timore avrà sempre più argomenti, scegli la speranza, così dichiarava Seneca, citato da Gian Domenico Auricchio, Presidente della Camera di Commercio di Cremona, in occasione della nuova mostra curata da Mario Marubbi dal titolo “Orazio Gentileschi. La fuga in Egitto e altre storie” presso la Pinacoteca Ala Ponzone di Cremona e aperta al pubblico dal 10 Ottobre 2020 al 31 Gennaio 2021. Quest’ultima rappresenta un importante segnale per la città poiché secondo Luca Burgazzi, attuale Assessore alla Cultura, le istituzioni culturali di fronte alle difficoltà non devono scoraggiarsi ma, al contrario, aprire la via della ripartenza per ricondurre lo spettatore ad un’esperienza reale, e non virtuale, dell’arte. Dunque la città, attraverso l’attualità del tema del viaggio e della fuga di fronte a momenti difficili, riparte dalla cultura per riflettere su valori e virtù che han consentito di affrontare il buio periodo della pandemia.

 La mostra, dunque, opera una riflessione su tale tema a partire dalla figura di Orazio Gentileschi (1563-1639) che, a seguito della formazione romana, girò l’Italia e giunse perfino alla corte francese e poi inglese dove rimase fino alla morte. L’artista, come scrisse Roberto Longhi, fu il più meraviglioso sarto e tessitore che abbia mai lavorato tra i pittori e a inizio Seicento, apertasi la strada del caravaggismo, ne fornì una personale interpretazione in cui il realismo di luci, superfici e incarnati si combinava a un brillante colorismo e a un forte rigore disegnativo-compositivo.

Ingresso e prima parte: Pier Paolo Pasolini e la Madonna col Bambino

La mostra si apre con un ledwall, sulla destra, su cui scorrono scene della fuga in Egitto tratta da “Il Vangelo secondo Matteo” del 1964 di Pier Paolo Pasolini, mentre sulla sinistra la citazione dell’episodio tratta dal Vangelo sopracitato ci introduce alla vicenda, si legge: Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo», e così Giuseppe fece rifugiandosi in Egitto fino alla morte del sovrano.

Fig. 1 - Ingresso alla mostra. (www.popolis.it).

Da questo corridoio si accede alla prima sala dove si può ammirare, sulla sinistra, una statuetta di età tolemaica della dea egizia Iside col figlioletto Horus, mentre sulla destra la raffigurazione della Madonna col Bambino in un paesaggio di Orazio Gentileschi, dove sono visibili il giallo e il blu delle vesti e la dolcezza materna che si ritroverà anche nelle due versioni della fuga.

La seconda parte: le due versioni del Riposo durante la fuga in Egitto

Tale parte della mostra è dedicata alle due tele del “Riposo durante la fuga in Egitto”, tema indagato all’iniziò dell’attività dell’artista e ripreso durante il soggiorno inglese. All’epoca infatti era comune che un’artista realizzasse più opere del medesimo soggetto con lievi variazioni che, in questo caso, riguardano le posizioni dei personaggi e i colori delle vesti che sembrano essere invertiti. Nella sala le due tele vengono affiancate sulla parete per permettere all’osservatore un diretto confronto, sulla sinistra vi è quella appartenente ad una collezione privata datata 1612, mentre sulla destra quella del Kunsthistorisches di Vienna non precedente al 1626 e firmata in basso a sinistra, che si discosta dalla precedente per il formato rettangolare che mostra maggiormente Giuseppe.

L’ambientazione di entrambe le tele è molto scura e caratterizzata da una parete di fondo tagliata da un’elegante luce diagonale che, all’interno dell’allestimento museale, sembra quasi il fascio di una luce reale. Nelle tele è chiaro come Gentileschi, a detta di Longhi, si distingua dai suoi contemporanei per la preparazione lenta delle forme, per la sottigliezza dellimpasto, per la morbidezza quasi serica delle pieghe, per il non raro cangiare con cui dipingeva. Nella scena la madre e il bambino, da cui lo spettatore è subito rapito, si collocano sulla destra. In particolare, la madre rivolge un pacato e amorevole sguardo materno al piccolo che, a sua volta, volge l’occhio verso lo spettatore. Della Vergine, abbigliata in una veste indagata nelle pieghe rigonfie, si nota la precisione dei tratti morbidi e delicati del viso e la minuzia dell’intrecciata capigliatura. Giuseppe, sulla sinistra, è rappresentato assorto nel riposo e segnato sulla fronte da realistiche rughe dalla muta espressività.

La terza parte: lindagine attorno al tema

La terza parte della mostra si concentra sull’esposizione di ulteriori dipinti, ma anche sculture, miniature, vetrate, avori e incisioni legati al tema a partire dal Medioevo per giungere fino al Novecento. Tra i dipinti in esposizione vi è la “Fuga in Egitto” del 1436 del pittore e miniatore Giovanni di Paolo. La piccola tavola raffigura in primo piano la Madonna, sul dorso di un mulo, con in braccio il Bambino e accompagnata da Giuseppe col bastone e il sacco da pellegrino.

Di epoca successiva è la rielaborazione della fuga di Pietro Ricchi, detto il Lucchese, datata 1645 in cui domina il buio rischiarato da una luce rivelatrice indugiante sul volto della madre che, con leggiadria, accarezza il volto del piccolo che cerca a sua volta il contatto; sullo sfondo vi è un Giuseppe addormentato. Del 1707 è la suggestiva tela de “Il sogno di san Giuseppe” del Legnanino dove, in un contesto appena suggerito, sono protagonisti l’angelo e Giuseppe dai volti definiti da una luce che costruisce espressivi giochi chiaroscurali, mentre la Vergine e il bambino sono rischiarati da un piccolo lume.

Un’interpretazione originale e insolita è invece data nel 1880 da Luc-Olivier Merson, dove un bagliore lunare fa luce su una sfinge egizia che ospita la Vergine col Bambino, mentre sulla destra Giuseppe giace addormentato a terra accanto a un debole fuocherello e all’asino. Caratteristica è la realizzazione di Mario Sironi del 1930, nata come copertina della “Rivista illustrata del Popolo d’Italia”, dove con stile sintetico e classico pone la Sacra Famiglia in un contesto urbano a cui aggiunge la cometa, di norma non presente nell’episodio, per dare dinamismo e luce.

In questo modo la mostra volge al termine conducendo lo spettatore all’uscita attraverso le sale della collezione permanente ricche di grandi capolavori. La mostra dunque testimonia come, attraverso una solida collaborazione museale, sia possibile fare dell’arte e della cultura una sorgente di bellezza che può divenire strumento di riflessione e accrescimento dell’individuo, specialmente dopo un periodo come quello appena vissuto.

 

Informazioni per la mostra

Orari:

dal 10 ottobre 2020 al 31 gennaio 2021

da martedì a domenica dalle 10:00 alle 18:00

 

Informazioni:

www.musei.comune.cremona.it - [email protected] - 0372/407770

www.turismocremona.it - [email protected] - 0372/407081

 

Prenotazioni:

www.musei.comune.cremona.it - [email protected] - 0372/407770

 

Biglietti:

acquistabili presso la sede del Museo Civico "Ala Ponzone” e online su www.vivaticket.it

Intero: € 7,00   Ridotto: € 5,00

 

Visite guidate:

è possibile prenotare gratuitamente una visita guidata alla mostra

mercoledì e venerdì - ore 16.00

sabato e domenica - ore 11,00, 14.30, 16.30

prenotazione obbligatoria - massimo 10 persone per gruppo

 

Visite guidate gruppi:

I gruppi devono prenotare obbligatoriamente l’ingresso. Ogni gruppo potrà essere di massimo 10 persone. Per i gruppi più numerosi, il museo mette a disposizione gratuitamente una seconda guida per permettere l’accesso contingentato del gruppo diviso. Per usufruire di questa opportunità è necessario prenotare almeno una settimana prima tramite la biglietteria. Tutti i gruppi con guida dovranno essere dotati di radiomicrofono. Nel caso non ne fossero provvisti è possibile noleggiarlo al costo di 3€ a persona.

 

Catalogo:

Editore Bolis. Prezzo di vendita 38€

In vendita presso il bookshop della mostra a 30€


SAN MAURO E I LUOGHI DEL PASCOLI

A cura di Jacopo Zamagni
Fig. 1 - Ritratto di Giovanni Pascoli.

La Romagna, oltre a conservare splendidi borghi e castelli medievali, ha visto nascere tante personalità illustri destinate a rimanere nel firmamento della storia dell’arte e della cultura. Questo articolo concentrerà l’attenzione su una figura che, come poche altre, ha creato un legame indissolubile tra il suo paese natale, San Mauro di Romagna, e le sue opere: Giovanni Pascoli, uno dei più importanti poeti italiani dell’Ottocento e figura di spicco, insieme a Gabriele D’Annunzio, del Decadentismo italiano.

San Mauro Pascoli è un piccolo municipio situato nei pressi del Rubicone compreso in un’area fra la via Emilia e il mare. Non lontano dal comune si innalza maestoso il palazzo settecentesco della Torre, cuore della tenuta dei principi Torlonia, dove visse anche Giovanni Pascoli quando era fanciullo. Il compendio sorge nei pressi dell’antica Giovedìa, un tempio romano dedicato a Giove Capitolino difronte al quale, secondo la tradizione, Giulio Cesare sostò in preghiera dopo l’attraversamento del Rubicone.

Circa a metà del XII secolo in Romagna cominciarono ad affermarsi le autonomie comunali e San Mauro diventò parte del feudo dei Malatesta, potente famiglia che in questa regione vantava svariati possedimenti e numerosi castelli. Durante il periodo del dominio malatestiano, San Mauro venne inserita nell’ambito territoriale del castrum Savignani, ma i Sammauresi non accettarono questa collocazione e, nella prima metà del XV, secolo riuscirono ad ottenere l’autonomia. Ai Malatesta subentrarono gli Isei, poi gli Zampeschi ed infine i Riario. L’inizio del Cinquecento vide l’arrivo di Cesare Borgia detto il Valentino, figlio di papa Alessandro VI. Alla morte del pontefice San Mauro passò per brevissimo tempo alla Repubblica di Venezia per essere ceduta nuovamente al Papa, che assegnerà il feudo ancora ai Riario e poi agli Zampeschi. Nel 1578 S. Mauro ritornò sotto il diretto dominio della Chiesa e seguì tutte le vicissitudini del territorio romagnolo fino all’Unità d’Italia.

Nel marzo del 2019 è stato inaugurato il Parco Poesia Pascoli, un progetto culturale promosso dall’amministrazione comunale di san Mauro Pascoli che vuole valorizzare sia la figura di Giovanni Pascoli che gli edifici storici del territorio sammaurese. I beni inclusi nel succitato progetto che verranno di seguito illustrati sono il Museo Casa Pascoli e Villa Torlonia, nota anche come “la Torre”.

MUSEO CASA PASCOLI

Fig. 2 - Ingresso del Museo Casa Pascoli.

Il Museo Casa Pascoli è la casa che, il 31 dicembre 1855, ha dato i natali a Giovanni Pascoli e che lo ha ispirato per alcuni dei suoi più noti componimenti. Pascoli visse qui fino all’età di sette anni, per poi trasferirsi coi fratelli maggiori al collegio di Urbino; trascorrerà poi a San Mauro le vacanze estive. Come molti edifici storici romagnoli, anche Casa Pascoli subì ingenti danni durante la Seconda Guerra Mondiale e fu necessario ristrutturare l’edificio per poterlo riportare al suo aspetto originario.

Fig. 3 - Museo Casa Pascoli con annesso giardino esterno.

La casa all’esterno si presenta con un’architettura molto sobria, tipica delle case di campagna ottocentesche. Una volta varcato l’ingresso troviamo sulla destra la cucina, l’unico degli ambienti domestici ad essere scampato ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale e che si può ammirare nel suo aspetto originale. La stanza presenta in alto una grande trave in legno e in fondo un grande focolare con utensili e mobili d’epoca.

Salendo al primo piano della casa, si accede agli ambienti più intimi e suggestivi. La prima stanza è la camera da letto, all’interno della quale si trovano la culla in legno appartenuta al piccolo Giovanni e una teca che conserva alcune lettere scritte da Pietro Guidi detto “Pirozz” , amico fraterno del poeta.

Di fronte alla camera da letto si trova lo studio del Pascoli, dove sono esposti importanti documenti storici, come le prime edizioni delle poesie pascoliane con dediche autografe che l’autore donò al Comune di San Mauro.

Fig. 8 - Studio del Pascoli e sullo sfondo libri e vocabolari appartenuti al poeta (da Archivio fotografico Museo Casa Pascoli).

La visita prosegue nell’adiacente giardino dove, ancora oggi, si conservano alcune delle specie botaniche che Pascoli citò nei propri componimenti, tra cui le rose rampicanti, i giaggioli e l’erba cedrina.

Fig. 9 - Giardino esterno del Museo Casa Pascoli.

La visita si conclude giungendo al cospetto della chiesetta dedicata alla Madonna dell’Acqua, un piccolo oratorio annesso al giardino di Casa Pascoli che fu luogo di consolazione spirituale per la madre del poeta, il quale, nel maggio del 1897, scrisse ai suoi amici di San Mauro: «E l’ospite saluterà commosso il mio mondo ideale che ha per confini l’Uso e il Rio Salto e per centro la chiesuola della Madonna dell’Acqua e il camposanto fosco di cipressi».

Fig. 10 - Chiesetta della Madonna dell‘Acqua.

VILLA TORLONIA (LA TORRE)

Fig. 11 - Complesso di Villa Torlonia.

Villa Torlonia è un grande residenza rustica situata a pochi chilometri di distanza da San Mauro Pascoli. E’ giunta fino a noi nell’aspetto che si consolidò nel XVIII secolo. L’edificio, già proprietà dei principi Torlonia, è formato da un corpo centrale contenente un ampio cortile interno e due edifici minori laterali: il primo, sulla sinistra, serviva come abitazione del fattore e magazzino; l’altro, sulla destra, è la piccola chiesa ottocentesca dei Santi Pietro e Paolo. La parte più antica di Villa Torlonia è rappresentata dalle cantine sottostanti l’attuale sala degli Archi, corrispondenti alle fondazioni del Castrum di Giovedìa (XI secolo).

La Torre riveste una particolare importanza non tanto per l’interesse artistico, quanto per la testimonianza che offre di un mondo agricolo ormai scomparso, dell'organizzazione sociale ed economica di cui le varie aree dell'edificio sono espressione. Villa Torlonia si impose nel tempo come una tenuta agricola di primaria importanza per il territorio romagnolo e non solo, raggiungendo livelli di assoluta eccellenza. Fra i prodotti che si affermarono a livello internazionale si ricordano i vini - compreso uno spumante denominato pretenziosamente “La Tour” - e la selezione delle razze bovine, che portarono alla vittoria in importanti concorsi nazionali ed esteri.

Fig. 15 - Cortile interno di Villa Torlonia.

La Corte di Giovedìa fu riconvertita da castello a masseria fortificata dominata da un’imponente torre, così come la si può vedere rappresentata nella Galleria delle Carte Geografiche dei Musei Vaticani.

Fig. 16 - Torre di Giovedìa.

Nel XVIII secolo la proprietà del complesso passò al nipote di Pio VI, Luigi Onesti Braschi. Nel secolo successivo divenne proprietà del principe Alessandro Torlonia, il quale nominò Giovanni Pascoli senior amministratore dei suoi beni in Romagna. A questi succedette per un breve periodo il figlio Ferdinando, il quale però morì improvvisamente. Nel 1855 gli subentrò il nipote Ruggero, che sostituì lo zio Giovanni anche nel ruolo di mandatario dei Torlonia. Ruggero aveva sposato, nel 1849, la sammaurese Caterina Vincenzi Allocatelli e i coniugi avevano fissato la loro dimora nella casa di lei, in paese. Qui nacquero ben dieci figli fra cui Giovanni (1855-1912), il futuro poeta.

La famiglia si trasferì alla tenuta della Torre nel 1862, e lì rimase fino al 1867, data della tragica morte - rimasta impunita - di Ruggero Pascoli, assassinato sulla via Emilia da due sicari mentre tornava in calesse da Cesena. Questo grave lutto stravolse la vita di tutti i membri della famiglia, i quali furono costretti a fare ritorno alla casa materna dove, purtroppo, sia la sorella che la madre si spensero l’anno successivo. Questi ulteriori drammatici eventi causarono la dispersione dei restanti membri della famiglia, i quali riportarono gravi traumi psicologici, come si evince dalle loro tormentate vite e dalle pagine poetiche del Pascoli.

Fig. 17 - Ritratto della famiglia Pascoli.

Nel secolo scorso la proprietà di Villa Torlonia fu smembrata e gli edifici furono in gran parte abbandonati, andando incontro ad un inesorabile deterioramento Nel 1974 il compendio è stato dichiarato di interesse storico dal Ministero della Pubblica Istruzione. Nel 1983 il Comune di S. Mauro ne ha acquisito la proprietà e lo ha restaurato, rendendolo fruibile alla collettività. Attualmente la struttura ospita convegni, spettacoli teatrali, mostre temporanee ed il Museo Multimediale Pascoliano.

 

Bibliografia

SUSANNA CALANDRINI, San Mauro; Giovedìa; La Torre, Pazzini Industria Grafica s.r.l., Verucchio, 1989.

ACCADEMIA PASCOLIANA SAN MAURO PASCOLI, Il Supplemento ai Quaderni di San Mauro – 4 – Giovanni Pascoli LA TORRE San Mauro, Tipografia BAIARDI s.n.c., San Mauro Pascoli, 1995.

SUSANNA CALANDRINI, Storia di S. Mauro Pascoli, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena, 2000.

 

Sitografia

www.casapascoli.it

www.parcopoesiapascoli.it


CORRADO PELLINI: IL “PITTORE DEL SILENZIO”

A cura di Matilde Lanciani
Autoritratto, 1930.

Corrado Pellini è stato un artista marchigiano protagonista del movimento di Ritorno all'Ordine fra i due conflitti mondiali, poco conosciuto dalla critica per via della morte prematura a soli 25 anni per tubercolosi, che non diede modo al promettente talento del pittore di manifestarsi appieno. Nacque a Montelupone, in provincia di Macerata, nel dicembre del 1908 da una modesta famiglia: il padre Aurelio, brigadiere della finanza e la madre Adalgisa, sarta ma affetta da malattia invalidante. L’eccezionale talento di Pellini emerse già quando frequentava la Scuola d’ Arte a Macerata e fu evidenziato dal  prof. Lazzaro, che lo volle come suo assistente per l’esecuzione di alcuni lavori di pittura e decorazione a Treia, all'Istituto Salesiano di Macerata, a Fiuminata e Caramanico. A questi anni appartiene una serie di paesaggi della campagna maceratese, in cui si esprimono l’essenzialità dei volumi e la linearità della pennellata.

Viale di arbusti, 1927 ca., olio su legno, collezione privata.

Dopo aver conseguito la licenza della scuola superiore, si iscrisse nel 1930 all'Accademia delle Belle Arti di Roma diretta da Ferruccio Ferrazzi su spinta dello stesso prof. Lazzaro e dell’artista Cesare Peruzzi, il quale aveva esposto nel 1915 alla Terza Mostra Internazionale della Secessione di Roma a fianco di  Cézanne, Renoir e Casorati.  In questo periodo Pellini collaborò alla realizzazione degli affreschi del soffitto di Palazzo Venezia con il prof. Dal Prai, condividendo con lui gli aspetti positivi e le problematiche dell’avventura romana che gli diede occasione di conoscere e frequentare molti degli artisti della scuola romana (Scipione, Mafai, Trombadori, Pirandello).

A causa della mancanza di mezzi finanziari non poté continuare a frequentare l’Accademia a lungo ed  iniziò anche ad avvertire i primi sintomi della tisi, che lo avrebbe poi inevitabilmente portato alla morte il 18 marzo del 1934. Tornò quindi a Montelupone dove si ritirò nel suo studio a dipingere: il suo più grande successo fu la sua personale a Macerata nel 1932 insieme ad artisti marchigiani come Bartolini, Ciamberlani, Bruno Da Osimo, Mainini e in seguito, nel 1933, la prima mostra a Montelupone. L’artista era molto amato dai giovani che erano soliti ritrovarsi nel suo studio a chiedere consigli e ad osservare il suo lavoro.

La retrospettiva a lui dedicata, nel 2004, proprio a Montelupone,  presentava 300 opere di cui alcune facenti parti di collezioni private. L’artista era solito utilizzare la tavola di compensato dove dipingeva da entrambi i lati ed era inoltre inserito in un gruppo di artisti maceratesi degli anni ’20-’30 appartenenti alla scapigliatura futurista. Ciò è testimoniato dai contatti con Mario Buldorini, pittore e scenografo tra i fondatori del “Gruppo Boccioni” a Macerata e Ivo Pannaggi, rinomato pittore futurista. Infatti a Porto Sant'Elpidio, sempre in provincia di Macerata, alcuni dei discendenti di quest’ultimo hanno segnalato l’appartenenza di uno dei quadri del Pellini a Pannaggi, che lo aveva acquistato per poi regalarlo a sua figlia. Sono stati infatti reperiti alcuni pezzi non firmati ma riconducibili all'autore grazie all'indagine del critico Lucio Del Gobbo e agli studi di Goffredo Giachini. Dal 1929-30 l’artista iniziò a firmarsi con uno stile grafico che seguiva la moda liberty, dal 1925 in poi la sua tecnica ebbe una svolta: dalla pennellata veloce, ricca di fraseggi cromatici, passò ad una composizione a larghe campiture di colore con un’evocativa sintesi coloristica.

Pellini fu sicuramente influenzato dal clima fervente in ambito artistico post-bellico: gli impressionisti, “ultima raffica di gioia e felicità”, come sottolineava Montale (Giachini), avevano segnato una già netta chiusura verso la tradizione. A Roma la rivista “Valori Plastici” con Carrà, De Chirico e Melli tentava il ritorno all’ordine ormai totalmente soppiantato dalle avanguardie come Cubismo e Futurismo. Si ricorda la partecipazione dell’artista alla 93° Rassegna per Amatori e Cultori nella sala Picena a Roma, la collettiva del 1935 e quella del 1995 a Macerata.

Le opere di Corrado Pellini, che è stato definito “il pittore del silenzio” per il suo raccolto lirismo, sono caratterizzate da una calma e serena pacatezza e da un'ineluttabile attesa. I soggetti sono cieli lividi e nature morte, nudi delicati ed elementi naturalistici come alberi contorti e paesaggi marchigiani con ulivi e vegetazione locale, albe e tramonti, ambientazioni marine. I toni sono lievi e morbidi, esprimono la spensieratezza di un artista ancora ventenne che è costretto ad abbandonare una carriera promettente e la sua stessa vita per colpa della malattia. Semplicità e onestà i caratteri portanti della sua poetica. Enrico Franchi, letterato e giornalista, scrisse su di lui:

“La sera che si avvicina, è tutta armonia di tinte delicate, quelle che formano una delle attrattive di questa luminosa provincia. Un’armonia fatta per ispirare pittori e poeti dall'anima pura”.

Panorama, 1927, olio su compensato, 28x45 cm, collezione privata.

 

Bibliografia e Sitografia

http://www.larucola.org/2014/07/04/i-paesaggi-di-corrado-pellini/

http://www.valledelpensare.it/it/punto-di-interesse/poi/casa-natale-corrado-pellini-79/

Con la gentile concessione del materiale fotografico e documentario da parte del prof. Goffredo Giachini.


UMBERTO BOCCIONI AL MUSEO DEL NOVECENTO

A cura di Michela Folcini

Per poter apprezzare a pieno l'arte di Umberto Boccioni, nella fattispecie le opere conservate al Museo del Novecento di Milano, è necessario introdurre alcuni concetti riguardo le pratiche artistiche dei primi decenni del secolo XX.

Le Avanguardie europee

La tendenza a liberare definitivamente il colore puro e il disegno dalle tradizionali convenzioni che avevano governato il modo di fare pittura porta all’affermazione, nei primi anni del Novecento, della nascita di nuovi linguaggi artistici, definiti oggi dagli storici dell’arte come Avanguardie.

Il termine Avanguardia – che deriva dal linguaggio militare – indica movimenti e gruppi di artisti che operano con posizioni più spericolate rispetto alla maniera e al gusto in quel momento dominanti, e fautori di un radicale rinnovamento delle inclinazioni e intenzioni dell’arte contemporanea.

Ma dove nascono e dove si sviluppano questi nuovi linguaggi?

L’Europa degli anni Dieci e Venti è il terreno su cui sorgono le Avanguardie. Gli artisti più anticonvenzionali lasciano il loro contributo nella consolidazione di queste correnti pittoriche, che si riveleranno fondamentali per lo sviluppo dell’arte contemporanea dei decenni successivi.

In Francia Henri Matisse fonda il gruppo dei fauve, corrente dell’Espressionismo francese, che si inserisce in dialogo diretto con quella di Dresda nata nel 1905 e conosciuta come il gruppo Die Brücke; nel 1907 Pablo Picasso esordisce con l’opera Les demoiselles d’Avignon inaugurando definitivamente la stagione del Cubismo; nel 1909 l’Italia contribuisce alla diffusione delle avanguardie attraverso la nascita del Futurismo; a Monaco tra il 1911 e 1912 Kandinskij pone le basi per l’Astrattismo, linguaggio artistico che sconvolgerà definitivamente l’approccio pittorico; infine, in continuità con le prime avanguardie, si inseriscono nel panorama europeo altri movimenti: Dadaismo, Surrealismo, Neoplasticismo o De Stijl e l’Art Nouveau.

L’era del Futurismo: avventura, grinta, velocità

Nel febbraio del 1909 Filippo Tommaso Marinetti, principale animatore del gruppo, traccia i fondamentali lineamenti del Futurismo in Fondazione e Manifesto del Futurismo, pubblicato a Parigi e a Milano. Un anno dopo la pubblicazione del manifesto ufficiale, gli artisti Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla e Gino Severini firmano il Manifesto dei pittori futuristi che sancisce l’estensione delle linee del Futurismo nel campo delle arti figurative.

La pittura futurista cerca di ricollegarsi ai filoni artistici di Manet, Monet, Matisse, Cézanne, all’interno dei quali il colore e la forma sono gli assoluti protagonisti. Tra i caratteri del nuovo movimento si evidenzia il rifiuto dell’immobilità della tradizione e l’affermazione di una nuova estetica della velocità.

L’arte futurista vuole esaltare ogni forma di originalità, anche se temeraria, anche se violenta, per arrivare, con nuovi mezzi a rendere e magnificare la vita odierna, incessantemente e tumultuosamente trasformata dalla scienza vittoriosa” (da “Il Manifesto dei pittori futuristi”). Scrive Umberto Boccioni, principale esponente del Futurismo italiano, che “Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido”. Sono le parole che scrive nel Manifesto tecnico del 11 aprile 1910, parole accolte da tutti gli artisti del movimento e testimoni di un nuovo sguardo nei confronti dell’arte, della società e della politica.

Boccioni nelle collezioni del Museo del 900 di Milano

Il Museo del Novecento di Milano, uno dei più importanti e conosciuti musei dedicati all’arte contemporanea, conserva all’interno dei suoi spazi una sezione dedicata alle opere futuriste. Nelle sue sale è possibile ripercorrere gli sviluppi cronologici e artistici del Futurismo italiano grazie alla presenza di un nucleo di opere d’arte dedicato ai grandi esponenti di questa corrente: Umberto Boccioni, Giacomo Balla, Fortunato Depero, Gino Severini, Carlo Carrà, Ardengo Soffici sono i nomi dei grandi artisti futuristi che si incontrano passeggiando nelle sale del Museo del Novecento, testimoni di un momento significativo per la storia dell’arte contemporanea e per le vicende legate al panorama culturale della Milano dei primi due decenni del secolo.

Probabilmente ogni artista di questo movimento italiano meriterebbe un approfondimento, ma è Umberto Boccioni colui che ha saputo operare una trasfigurazione espressiva dei propri soggetti realistici, arrivando a definire una poetica soggettiva degli stati d’animo.

Il Museo del Novecento di Milano conserva nella sua collezione permanente più di dieci opere realizzate dall’artista, presentate in un percorso cronologico con lo scopo di illustrare agli spettatori l’evoluzione del linguaggio creativo sviluppato da Boccioni.

La prima opera che si incontra entrando nella sezione dedicata è Signora Virginia, 1905, olio su tela, un ritratto che a livello esecutivo risente degli influssi di Giacomo Balla e Severini: da Balla riprende l’attenzione al dato naturalistico, filtrato da una pennellata di matrice divisionista derivata dalle esperienze di Severini. Il soggetto è ritratto da basso verso l’alto e inserito nella sfera intima della casa. Il ritratto è la prima opera di Boccioni acquistata da una collezione pubblica e incarna le caratteristiche dei quadri dedicati alle figure materne.

Fig. 1 - Umberto Boccioni, Signora Virginia, 1905, olio su tela, Museo del Novecento, Milano. Fonte: https://www.museodelnovecento.org/.

Il trittico degli Stati d’animo (Quelli che restano, 1911; Gli addii, 1911; Quelli che vanno, 1911) è una serie di tre quadri separati, ma in stretto rapporto tra di loro; gli Stati d’animo vogliono raccontare le emozioni suscitate dalla partenza e dal distacco. A differenza dell’opera precedente, qui ogni pennellata è veicolo di espressività: linee confuse, sussultanti e che si fondono in gesti che esprimono agitazione frenetica.

Fig. 2 - Umberto Boccioni, Stati d’animo, 1911, Museo del Novecento, Milano. Fonte: https://twitter.com/museodel900/.

A partire dai dipinti e dalle sculture realizzati tra il 1911 e il 1913, appare un dinamismo che permea ogni corpo, permettendo all’artista di concentrarsi sulla dialettica del movimento relativo e assoluto di una figura o di un oggetto: l’obiettivo è una ricerca di continuità formale tra interno ed esterno, tra oggetto e ambiente. Ciò è possibile riscontrarlo nelle due opere Umberto Boccioni, Elasticità, 1912 e Umberto Boccioni, Costruzione spiralica, 1913, nelle quali l’artista comincia a focalizzarsi sulle ricerche volte alle trasformazioni dell’oggetto all’interno di uno spazio.

La compenetrazione tra interno ed esterno, oggetto e spazio, è possibile riscontrarla anche nell’opera Umberto Boccioni, Carica di lancieri, 1915 dove l’impeto e la velocità delle masse dei cavalieri si contrappone alla staticità dei soldati. Ogni segno tracciato sul supporto è in sintonia con il momento storico che l’artista sta vivendo in quel momento, ovvero la Prima Guerra Mondiale, che per i futuristi veniva considerata come “igiene del mondo”.

Fig. 5 - Umberto Boccioni, Carica di lancieri, 1915, Museo del Novecento. Fonte: https://artsandculture.google.com/.

Le ricerche di Umberto Boccioni in campo artistico non rimangono legate alla sola azione pittorica, ma sperimentate anche in campo scultoreo e plastico.

Una delle maggiori ricerche plastiche si rintraccia in Umberto Boccioni, Sviluppo di una bottiglia nello spazio, 1912, bronzo; la scultura deve essere in grado di far vivere gli oggetti rendendo plastico il loro prolungamento nello spazio; Boccioni rivisita il tema della natura morta studiando il rapporto tra la bottiglia e lo spazio circostante: la bottiglia si smembra secondo i canoni del Cubismo e si modella nell’atmosfera e nello spazio in cui è inserita.

Questo breve percorso dedicato all’arte di Umberto Boccioni si chiude presentando uno dei capolavori dell’artista: Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio, 1913, bronzo, opera che consolida tutte le ricerche sul dinamismo. L’artista segue il concetto secondo cui l’immagine deve essere “manifestazione dinamica della forma, rappresentazione dei moti della materia”: la macchina del corpo umano in movimento è rappresentata nel suo energico groviglio di muscoli e tendini e, al tempo stesso, si fonde aerodinamicamente con l’ambiente, nel suo maestoso incedere quasi sfaldandosi nell’atmosfera circostante.

 

Bibliografia

Mattioli Rossi (a cura di), Boccioni. Pittore scultore futurista, cat. mostra (Milano, Palazzo Reale, 5 ottobre 2006 – 7 gennaio 2007), Milano, 2006.

V.W. Feirabend, Umberto Boccioni. La rivoluzione della scultura, 2006.

Bora, G. Fiaccadori, A. Negri, A. Nova, I luoghi dell’arte. Nascita e sviluppi dell’arte del XX secolo, Electa Scuola, 2014.

Rossi (a cura di), Umberto Boccioni (1882-1916). Genio e memoria, cat. mostra (Milano, Palazzo Reale, 23 marzo-10 luglio 2016; Rovereto MART – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, 4 novembre 2016-19 febbraio 2017), Milano, 2016.

 

Sitografia

https://www.museodelnovecento.org/


PALAZZO BARBERINI A ROMA (II PARTE)

A cura di Maria Anna Chiatti

Dopo aver delineato la storia della costruzione di Palazzo Barberini[1], ci si soffermerà ora su una selezione di capolavori di carattere decorativo e strutturale che vi sono contenuti. Queste opere sono tanto rappresentative nel panorama artistico del XVII secolo da aver contribuito a costruire il grande mito del Barocco Romano, con un conseguente forte riverbero sulla fama della famiglia Barberini.

Le scale monumentali

L’odierno accesso al palazzo avviene attraverso la grande corte occidentale, su via delle Quattro Fontane. Da qui il visitatore che desideri entrare negli spazi del museo può ammirare dapprima le sale del pianterreno, per poi salire al piano nobile servendosi del cosiddetto scalone di Bernini. Questa grande scalinata a pozzo quadrato, costruita intorno al 1630, è in effetti tradizionalmente riferita al genio di Gian Lorenzo Bernini (1598 - 1680) e rientra nella sezione progettuale dell’edificio che prevedeva l’ampliamento del palazzetto Sforza, comprato dai Barberini nel 1625, che oggi rappresenta gran parte dell’avancorpo nord della struttura.

Il progetto dello scalone doveva necessariamente tenere conto della precedente articolazione dei livelli, giacché questo sarebbe andato ad impostarsi nella porzione mediana dello stabile esistente; a partire dal pianterreno la scala doveva collegare l’ingresso principale della Cavallerizza sul cortile (distrutto per la creazione di via Barberini nel 1926) con la scalinata preesistente che portava al giardino e ai livelli superiori[2]. Bernini creò una scala perfettamente proporzionata, anche se, incredibilmente, non del tutto simmetrica per via degli spazi a disposizione. Le rampe di gradini sono sostenute da colonne binate fino al primo piano, poi da pilastri. Sulle pareti si aprono una serie di nicchie che ospitano ognuna una statua, mentre verso l’interno si vede dischiudersi sotto di sé il grande pozzo quadrato man mano che si sale, come fosse una corte interna: il vano a cielo aperto crea effetti di luce particolarmente suggestivi, molto adeguati a stupire gli ospiti del palazzo (la scala nord serviva da ingresso di rappresentanza ed era quindi più frequentata di quella posta a sud, fig. 1).

Lo schema dello scalone quadrato si discosta molto dai due tipi più diffusi nei palazzi romani del Cinquecento, a rampe parallele accostate o a chiocciola.

 

In netta contrapposizione, sia per ubicazione nella villa che per forma e stile, è la meravigliosa scala di Francesco Borromini (1599 - 1667), oggi utilizzata come uscita dal percorso espositivo del museo (fig. 2). Si tratta di una gradinata senza soluzione di continuità, che sembra arrotolarsi (o srotolarsi) come un lungo papiro per tutta l’estensione verticale di Palazzo Barberini; la pianta ovale consente una salita più agevole rispetto a quella a chiocciola, secondo un modello codificato nel XVI secolo dal Vignola (1507 - 1573), da Sebastiano Serlio (1475 - 1554) e da Andrea Palladio (1508 - 1580). In questo caso la luce entra dalla sommità aperta, ma anche dalle finestre della facciata.

La scala serve l’ala sud del palazzo, ed era riservata ad una circolazione più ristretta e privata rispetto al corrispettivo a nord, poiché portava agli appartamenti privati del cardinal Francesco, fino alla biblioteca all’ultimo piano[3]. Ogni girata si compone di dodici colonne binate in stile dorico, con capitelli decorati con piccole api (che sono il simbolo del casato). L’ecletticità dell’architetto è ben dimostrata nella realizzazione della struttura spiraliforme, che Borromini utilizzò con successo anche in altre opere.

Le volte affrescate

Al contrario degli scaloni monumentali, che sono “soltanto” due, i soffitti decorati nelle stanze della residenza sono di un numero quasi incalcolabile. Due sono gli esempi illustri su ci si soffermerà, con la speranza di suscitare in chi legge una dose di curiosità che sia il motore di una visita alla Galleria Nazionale d’Arte Antica.

I soffitti dei saloni più ampi del palazzo rappresentano due trionfi divini, e celebrano il papato di Urbano VIII: si tratta del Trionfo della Divina Sapienza, dipinto da Andrea Sacchi (1599 - 1661) tra il 1629 e il 1631 in un salone dell’ala nord, e del Trionfo della Divina Provvidenza, realizzato da Pietro da Cortona (1596 - 1669) dal 1633 al 1639 nel grande salone centrale a doppia altezza.

Per ciò che concerne la Divina Sapienza, i precedenti iconografici sono davvero scarsi, se si escludono le rappresentazioni medievali della Saggezza (raffigurata con lo scudo nella mano destra e il libro con i sette sigilli nella sinistra)[4] alle quali tuttavia Sacchi non guardò: in questo affresco (fig. 3) la personificazione della Sapienza Divina è assisa in trono, al centro della scena, circonfusa della luce di un grande sole che le splende alle spalle. Tutto intorno i suoi attributi si incarnano nei toni pastello delle figure di undici fanciulle: Nobiltà, Eternità, Soavità, Divinità, Giustizia, Forza, Beneficienza, Santità, Purezza, Perspicacia, Bellezza. Ognuna di loro reca il simbolo dell’attributo che rappresenta; dall’alto scendono due giovani alati con un leone e una lepre, emblemi dell’amore e del timor di Dio[5]. Le fanciulle rappresentano inoltre le costellazioni, pervadendo così l’opera di Sacchi di una importante valenza politica di autocelebrazione, con una funzione che si potrebbe quasi definire apotropaica[6]: tutte le virtù sono riunite nella congiuntura astrale sotto cui Urbano VIII è diventato papa, il 6 agosto 1623, con la conseguente supposizione del pontefice di incarnarle tutte.

Confrontando questa ordinata e soffusa rappresentazione (ascrivibile al filone classicista del barocco) con il maestoso affresco nel salone di rappresentanza che raffigura Il trionfo della Divina Provvidenza, ci si rende immediatamente conto di trovarsi di fronte ad un codice del tutto diverso: si tratta del manifesto programmatico del nuovo linguaggio barocco.

In questa enorme composizione, Pietro da Cortona si dimostrò capace di riscrivere la tradizione della decorazione ad affresco articolata su quadri riportati, creando uno spazio aperto che sfonda illusionisticamente la parete. Questo elaboratissimo soggetto fu ideato dal poeta Francesco Bracciolini (1566-1645) per glorificare il pontefice e la sua famiglia, ed elogiato da molti letterati e intellettuali, tra i quali Girolamo Tezi (1580?- 1645) nelle Aedes Barberinae ad Quirinalem descriptae, pubblicato nel 1642.

Il titolo completo dell’opera in effetti è Il Trionfo della Divina Provvidenza e il compiersi dei suoi fini sotto il pontificato di Urbano VIII, e risulta facilmente intuibile il valore celebrativo sotteso dalla committenza. Per mezzo di più di cento personaggi, accompagnati da innumerevoli ronzanti api, Pietro da Cortona celebrò il potere politico e spirituale della famiglia Barberini, creando uno spazio tanto dilatato che l’occhio umano - dabbasso - non riesce a percepire completamente: si può notare il cornicione rettangolare, dipinto come se fosse scolpito nel marmo, e la divisione della volta in cinque parti. Nel riquadro centrale, su uno scranno di nuvole, siede la Provvidenza Divina con lo scettro in mano mentre la Fama incorona lo stemma Barberini. Nelle grandi fasce laterali virtù e vizi si combattono, e le prime vincono sempre sui secondi. Sui lati corti sono rappresentati Minerva che piega i giganti ed Ercole che caccia le Arpie; sui lati lunghi, invece, il Buongoverno garantisce la pace sconfiggendo la guerra, e la Teologia e la Religione allontanano dissolutezza e lascivia. La vastità dell’affresco basterebbe da sola a scatenare meraviglia nell’osservatore, che si ritrova inoltre immerso in un vortice di figure, «in una sequenza turbinosa di immagini»[7] con un ritmo frenetico.

Quest’opera, realizzata in sette anni, consacrò Pietro da Cortona come uno dei protagonisti incontrastati della pittura romana del Seicento.

Fig. 5 - Il salone di Pietro da Cortona. Credit: https://www.barberinicorsini.org/.

Nei prossimi articoli si tratterà della decorazione dell’appartamento settecentesco della principessa Cornelia Costanza (ultima discendente diretta dei Barberini), del mecenatismo di papa Urbano VIII e di una selezione dei capolavori conservati alla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini.

 

Note

[1] A tal proposito si veda l’articolo al link https://www.progettostoriadellarte.it/2020/09/01/palazzo-barberini-a-roma/?swcfpc=1

[2] La gradinata che si può apprezzare oggi è infatti il rifacimento di una precedente, e fu costruita tra il 1673 e 1679.

[3] La biblioteca del cardinale Francesco Barberini contava circa 40.000 volumi, ed era seconda soltanto alla Biblioteca Vaticana, della quale oggi è parte.

[4] D. Gallavotti Cavallero, Il programma iconografico per la Divina Sapienza nel Palazzo Barberini: una proposta, estratto da Studi in onore di Giulio Carlo Argan, Multigrafica Editrice, Roma 1984, p. 270.

[5] Cfr. sito della GNAA al link: https://www.barberinicorsini.org/opera/allegoria-della-divina-sapienza/

[6] Lett. che allontana l’influenza maligna.

[7] C. Bertelli, G. Briganti, A. Giuliano, Storia dell’arte italiana, vol. 3, Bruno Mondadori, Milano 2009, p. 328.

 

Bibliografia

Antinori A., Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, in Scotti Tosini A. (a cura di), Storia dell’Architettura Italiana. Il Seicento, tomo I, Electa, Milano 2003, pp. 140 - 145

Bertelli C., Briganti G., Giuliano A., Storia dell’arte italiana, vol. 3, Bruno Mondadori, Milano 2009

Circolo Ufficiali delle Forze Armate d’Italia, Palazzo Barberini, Palombi Editori, Roma 2001

Gallavotti Cavallero D., Il programma iconografico per la Divina Sapienza nel Palazzo Barberini: una proposta, estratto da Studi in onore di Giulio Carlo Argan, Multigrafica Editrice, Roma 1984, pp. 269 - 290

Mochi Onori L., Vodret R., Capolavori della Galleria Nazionale D’Arte Antica. Palazzo Barberini, Gebart, Roma 1998

Spagnolo M., I luoghi della cultura nella Roma di Urbano VIII, in Luzzatto S., Pedullà G. (a cura di), Atlante della Letteratura, vol. 2, Einaudi, Torino 2011, pp. 387 - 409

 

Sitografia

Sito delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica al link: https://www.barberinicorsini.org/ (ultima consultazione 06/10/20)

Dizionario Biografico degli Italiani alla voce:

Urbano VIII, papa (http://www.treccani.it/enciclopedia/papa-urbano-viii_%28Dizionario-Biografico%29/ (ultima consultazione 25/09/20)


VAN GOGH I COLORI DELLA VITA

Recensione mostra "Van Gogh i colori della vita" a cura di Mattia Tridello
Introduzione
“Van Gogh non era pazzo”. Con questa breve ma intensa frase Marco Goldin (curatore della mostra) apre gli esiti delle ricerche e del lungo studio svolto sull’opera di uno dei più famosi artisti della storia dell’arte, di un personaggio per troppo tempo rilegato alla figura del genio matto e tormentato che ora, grazie alla mostra in oggetto, potrà essere osservato da un taglio inedito e ben più veritiero. Van Gogh, infatti, se si dovesse usare una metafora, fu come Icaro: si avvicinò in fretta al sole per carpirne, intravederne e comprenderne le cromie dell’umanità, con il suo abile pennello intrise di viva materia la tela facendone scaturire visioni di incredibile bellezza e autentica sperimentazione coloristica. Rimase attaccato a quel bagliore dorato delle soleggiate giornate vissute tra i campi di grano, a quelle ore passate accanto ai covoni, a quelle spighe che tanto appassionatamente raffigurò. Ancora, vedendo i suoi quadri, lo si può immaginare mentre errante passeggia con il suo cavalletto sulle spalle, attraversa distese assolate, colline, paesi e città riposandosi sotto il bagliore delle stelle del firmamento. Van Gogh, dunque, non era un semplice artista pazzo, ma fu un abile tessitore delle vicende della vita tramite quel colore che mai nessuno, prima di lui, seppe così egregiamente interpretare e rendere proprio.
In questa cornice si apre il 10 Ottobre, per chiudersi l’11 Aprile 2021, dopo una trepidante attesa, la mostra “Van Gogh, i colori della vita” presso il Centro culturale San Gaetano di Padova. Fornita di ben 82 capolavori del maestro olandese, l’esposizione apre i battenti dopo un lungo periodo di chiusura che a ha più volte messo in discussione l’affermarsi e la conferma dell’evento stesso. Tuttavia, trovarsi a distanza ravvicinata con alcune delle più conosciute opere dell’artista implica una domanda da porsi circa la loro presenza in una città antica e assai ricca di cultura come Padova. Ebbene, potrà risultare sorprendente ma è proprio lo stesso Van Gogh a raccontarlo dopo aver letto un articolo, indicatogli dal fratello Theo, sulla rivista “Dei due mondi”. In esso si narrava della visita che Boccaccio fece a Francesco Petrarca proprio a Padova presso la casa, accanto al Duomo, di quest’ultimo. Durante l’incontro i due capisaldi della letteratura italiana si intrattennero a conversare nel giardino dell’abitazione. Immaginando una situazione simile, pochi mesi prima dell’arrivo di Gauguin, Van Gogh volle ricreare alcuni quadri con vedute di giardini per arredare la futura stanza dell’amico, sperando che anche loro avrebbero potuto dialogare in serena tranquillità come i due poeti italiani. Comprendere, quindi, come l’artista avesse già avuto conoscenze della città veneta, permette all’esposizione di inserirsi non a caso nel tessuto culturale cittadino, anzi di essere un punto di riferimento per i visitatori e i turisti in cerca di una mostra che non sia solo un arido elenco di quadri ma un racconto cronologico della vita, attraverso la pittura, dell’artista olandese. Per questo motivo l’itinerario proposto mira a ricostruire non un unico tema, ma anzi un preciso e dettagliato percorso, l’intero cammino dell’attività di Van Gogh, concentrandosi dagli inizi fino alle ultime opere realizzate poco prima della scomparsa. L’ottantina di quadri e disegni riuniti eccezionalmente al San Gaetano sono frutto di importanti prestiti concessi da alcuni dei più autorevoli musei vangoghiani del mondo, basti citare il Van Gogh Museum di Amsterdam e il Kröller-Müller Museum di Otterlo. Avere la possibilità di visitare la mostra permette al visitatore, quindi, di immergersi nel racconto della vita dell’artista tramite la sottile ma fulgida narrazione di alcuni dei più famosi capolavori che, straordinariamente, sono visibili in una sede diversa da quella olandese, in un luogo che per la prima volta li riunisce e ne permette l’osservazione, concedendo così al visitatore di instaurare un rapporto diretto con ciò che fu, divenne e continuerà ad essere Van Gogh.
Il percorso di visita
Giunti al primo piano della sede espositiva, la mostra si presenta suddivisa in 7 sale che ricostruiscono cronologicamente la formazione e le tappe che diedero una significativa svolta all’opera pittorica dell’artista tramite una successione di disegni e quadri intervallati da alcune citazioni dal vasto e ricco epistolario intrattenuto da Vincent con il fratello Theo. Per consentire e garantire una visita in sicurezza, oltre agli ingressi scaglionati, la visita nelle prime sale è contingentata e prevede un tempo massimo di permanenza.
Sala 1
La prima sala della mostra si presenta al visitatore con un quadro riprodotto ma non più esistente. Si tratta dell’opera intitolata “Il pittore sulla strada di Tarascona” (Fig. 1), che venne distrutta da un bombardamento alleato su Magdeburgo durante la Seconda Guerra Mondiale. Il quadro, raffigurante lo stesso Vincent mentre è intento ad attraversare eroicamente la campagna di Arles per andare incontro al suo quotidiano lavoro, segnò e influenzò indelebilmente uno dei più importanti e innovativi artisti del secolo scorso, Francis Bacon, che decise di ispirarsi a quest’ultimo capolavoro per crearne ben sei reinterpretazioni, tre delle quali sono esposte proprio in mostra (Fig. 2).

Fig. 1: “Il pittore sulla strada di Tarascona” (perduto)
Le grandiose tele del pittore statunitense, realizzate tra la fine del 1956 e l’inizio del 1957, sono volte proprio ad enfatizzare la figura eroica di un uomo, Van Gogh, che in controcorrente e con uno stile personalissimo affrontò con i suoi colori l’esistenza terrena.

Fig. 2: Sala 1
Sale 2-3
La seconda e la terza sezione dell’esposizione (Fig. 3-4), attente nel ricostruire i primi approcci di Van Gogh con il disegno, mettono in luce il percorso molto breve (1880-1881) che vide l’artista cimentarsi con i primi schizzi realizzati al di fuori delle lettere indirizzate al fratello. Proprio nel medesimo periodo di soggiorno tra le miniere di carbone della zona del Borinage in Belgio, si assiste alla ripresa dell’epistolario con Theo che, precedentemente, aveva subito una battuta d’arresto. In una lettera Van Gogh comunica chiaramente, anche visto l’impegno utilizzato per i suoi primi disegni ispirati alla vita quotidiana, la volontà di compiere il mestiere dell’artista nella vita.

Sala 4
L’itinerario di formazione dell’artista olandese prosegue nella quarta sala (Fig. 5) dove, investigando il periodo trascorso da quest’ultimo a Nuenen nel Brabante, possono essere osservati i primi lavori che mostrano una maggiore affinità con il disegno e permettono di comprendere come l’artista, affascinato dalla teoria del colore di Charles Blanc, inizi a sperimentare il primo uso dei colori complementari. Tuttavia, almeno per questo periodo, Van Gogh continua ad essere legato alla narrazione degli episodi della vita giornaliera di contadini e tessitori, anticipando sia nello stile che nella scelta dei temi la pittura dei “Mangiatori di patate” (Fig. 6-7).

Dopo un breve soggiorno di tre mesi ad Anversa, Van Gogh si trasferisce finalmente a Parigi nel 1886, più precisamente a Montmartre, dove risiedeva il fratello, interrompendo per ovvi motivi la corrispondenza con lui e privandoci del racconto quotidiano della sua vita nella capitale francese. Quest’ultima, tuttavia, oltre ad essere teatro di scambio di influenze artistiche, sarà il luogo in cui Vincent vedrà per la prima volta dal vero un quadro impressionista. La vivida, nuova interpretazione della realtà portata avanti da esponenti quali Gauguin, Seurat e Signat (in sala sono esposte alcune tele) influenzerà profondamente la pittura del giovane olandese tanto da farne scaturire capolavori assoluti della sua neonata cifra stilistica, opere che sono esposte eccezionalmente in questa sezione (Fig. 8. Tra quest’ultime non si può non citare il celeberrimo “Autoritratto con il cappello di feltro” (Fig. 9) che, nella sua piccola dimensione, costituisce un punto di riferimento all’interno dell’esposizione stessa.

Sala 6
Il 19 Febbraio 1888 Van Gogh lascia Parigi per recarsi, alla ricerca del caldo sole del sud, ad Arles. I quindici mesi trascorsi nella cittadina furono determinanti per l’affermazione dello stile coloristico dell’artista. Sotto la luce del paese egli iniziò ad affrontare in pittura numerosi e svariati temi, da quelli legati alle nature morte e ai fiori a quelli ritrattistici ispirati, per lo più, alle poche persone che egli conosceva e con cui aveva stretto qualche contatto. Non a caso la sala (Fig. 10) vanta la successione dei quadri raffiguranti i cosiddetti “Amici di Arles”, tra questi, il postino Roulin (Fig. 11) e i coniugi titolari del Cafè de la Gare in Place Lamartine ubicato sotto l’abitazione di Van Gogh (Fig. 12).

 

Nella sala trova spazio anche un interessante confronto che permette di comprendere come l’artista non sia stato influenzato solamente dallo stile impressionista e post-impressionista, bensì anche da i grandi maestri realisti del passato come Millet. Non a caso proprio un quadro di quest’ultimo è stato collocato vicino all’opera intitolata “il seminatore” di Van Gogh (Fig. 13).

Fig. 13: il seminatore
Il periodo trascorso tra la città e i suoi dintorni venne segnato e caratterizzato dalla permanenza, dal 23 Ottobre al 23 Dicembre 1888, di Paul Gauguin. Gli esiti del contrastato rapporto di amicizia tra i due artisti si concretizzarono in una crisi profonda che coinvolse Van Gogh fino al famoso taglio dell’orecchio e alla decisione autonoma di rifugiarsi nell’istituto di malattie mentali di Saint- Remy.
Sala 7:
Gli ultimi quindici mesi dell’esistenza del tormentato ma geniale Van Gogh, dal Maggio del 1889 alla fine di Luglio del 1890, trascorsero prevalentemente sotto i cieli di Saint-Remy. Il periodo di un anno trascorso tra le mura della casa di cura per malattie mentali di Saint-Paul-de-Mausole, nel medesimo paese, costituisce sì un periodo intenso e complicato costellato da ben quattro crisi, ma anche un’incredibile stagione di puro colorismo che, attraverso i quadri ritraenti i covoni di grano (Fig. 14-15) e le nubi dense ma bianche e languide, costituiscono il testamento spirituale dell’artista. Gli ultimi 70 giorni della sua esistenza combaciano con la piena adesione al nuovo stile, una pittura carica di materia ma altamente luminosa e vibrante nelle forme, nuova nelle dimensioni e sorprendentemente vivace nei colori. La parte finale della sala è volta quindi, tramite pannelli fotografici, ad illustrare i campi di grano e quei paesaggi che accompagnarono Van Gogh fino alla morte, fino a quella tomba che, non a caso, è riprodotta sull’ultima parete dell’esposizione.

Quella lastra che custodisce il corpo di uno dei più geniali artisti del XIX secolo ancora alimenta e continua ad emanare intense suggestioni che mai smetteranno di essere accolte. Un esempio è ancora il fascino che la pittura di Van Gogh ha esercitato su una serie di artisti contemporanei che, in concomitanza con la mostra, hanno realizzato alcune reinterpretazione dell’opera vangoghiana tramite quadri, disegni e addirittura capi d’abbigliamento. Questo dunque non è altro che il chiaro, indiscutibile risultato dell’eredità culturale e pittorica che l’artista olandese ci ha lasciato, di quell’intimo e profondo sentimento umano che nei suoi quadri ha voluto far trasparire, di quel girasole che, sulla sua tomba, evoca e continuerà per l’eternità a tramandare il testamento di una vita, il colore.
Informazioni per la visita:
VAN GOGH. I COLORI DELLA VITA
Padova, Centro San Gaetano
10 ottobre 2020 - 11 aprile 2021
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ORARIO MOSTRA
(ultimo ingresso 70 minuti prima della chiusura)
da lunedì a giovedì: 10 - 18
venerdì: 10 - 19
sabato: 9 - 20
domenica: 9 – 19
BIGLIETTI
(prezzi comprensivi di diritto di prenotazione)
Intero € 17,00
Ridotto € 14,00 studenti maggiorenni e universitari fino a 26 anni con tessera di riconoscimento, oltre i 65 anni, giornalisti con tesserino
Ridotto € 11,00 minorenni (6-17 anni)
BIGLIETTI CON VISITA GUIDATA
(prezzi comprensivi di diritto di prenotazione)
Intero € 24,00
Ridotto € 21,00 studenti maggiorenni e universitari fino a 26 anni con tessera di riconoscimento, oltre i 65 anni, giornalisti con tesserino
Ridotto € 18,00 minorenni (6-17 anni)
Per i titolari di biglietto gratuito (bambini fino a 5 anni compiuti - accompagnatore di persone non abili) la visita guidata resta a pagamento (€ 7).
GRUPPI
(15 persone)
Intero € 13,00
Ridotto € 10,00 minorenni (6-17 anni)
SCUOLE
Le scuole interessate a una visita guidata sono pregate di contattare, a partire dall'1 settembre, il nostro call center (0422 429999 - [email protected]).
INGRESSO GRATUITO
Bambini fino a 5 anni compiuti, accompagnatore di persone non abili.
Per i disabili che necessitino di accompagnatore e per chi accompagna in mostra bambini fino a 5 anni, è necessario fare la prenotazione tramite call center 0422 429999.


LA LOGGIA DEL ROMANINO AL MAGNO PALAZZO

A cura di Beatrice Rosa

Introduzione

Il 25 febbraio 1528 venne posata la prima pietra del Magno Palazzo, l’edificio commissionato dal cardinale Bernardo Clesio che rinnovò l’aspetto del Castello del Buonconsiglio a Trento. Un palazzo che rivestì un ruolo fondamentale nel panorama storico artistico della Regione[i].

Nel 1531 i lavori architettonici del Palazzo stavano per concludersi: il cardinale cominciò così a ideare la decorazione pittorica e a reclutare artisti; per farlo si rivolse alla corte estense di Ferrara facendo arrivare a Trento importanti pittori tra cui Dosso Dossi con il fratello Battista, il bresciano Girolamo Romani, detto il Romanino, e il vicentino Marcello Fogolino. La presenza di questi artisti in città comportò la diffusione dell’arte rinascimentale in Trentino e data la varietà di provenienza dei pittori, il Magno Palazzo divenne fonte di uno stile artistico così peculiare da essere denominato “clesiano”[ii].

Bernardo Clesio, dato il suo ruolo di cardinale, fu spesso in viaggio per l’Europa; cosa che, tuttavia, non lo limitò nell’essere un committente molto attento. Ciò si evince dalla fitta corrispondenza tra lui e gli artisti; il Clesio scriveva infatti frequentemente per assicurarsi che i lavori procedessero positivamente e soprattutto per informarsi che le tempistiche e l’impegno economico fossero rispettati. Oltre a questo, Bernardo discuteva direttamente con i pittori sui soggetti delle opere, che dovevano essere adatti a un palazzo privato ma allo stesso tempo consoni a una sede diplomatica volta all’accoglienza di delegazioni straniere[iii].

Girolamo Romanino e la loggia

Tra gli artisti reclutati dal Clesio c’era il bresciano Girolamo Romanino, uno tra i più importanti interpreti della scuola lombarda. Alla sua iniziale formazione fra Brescia e Venezia su opere di Tiziano e Giorgione, si aggiungono presto alcune suggestioni derivate dal pittore milanese Bramantino, dal bergamasco Lorenzo Lotto e dal cremonese Altobello Melone[iv].

Bernardo Clesio, quando nel 1531 Romanino si propose per diventare parte dell’équipe impegnata nella decorazione del Magno Palazzo, scrisse in una lettera quanto fosse felice per “quello excellente pittore bressano che si ha offerto venire”[v]. Il pittore si presentò alla corte quando i lavori stavano per cominciare e il Clesio aveva già tessuto buoni rapporti con il ferrarese Dosso Dossi. Come sottolineato precedentemente, Bernardo Clesio fu un committente molto attento: per la decorazione pittorica redasse un programma con le sue indicazioni relative agli artisti impegnati e al suo progetto di decorazione per gli spazi principali della residenza, tutti affidati a Dosso[vi]. Una situazione destinata a cambiare con l’arrivo di Romanino, al quale vennero assegnati alcuni ambienti del palazzo. Il più importante è la loggia che si trova al primo piano del Magno Palazzo, aperta in cinque arcate sul cortile dei Leoni, che Bernardo Clesio definì “una delle principale parte atte ad rendere grandissimo ornamento a tutta essa fabbrica”[vii] (fig. 1).

Fig. 1 – La loggia del Castello del Buonconsiglio.

Per quanto riguarda il tema della decorazione pittorica della loggia, fu il committente stesso ad esprimersi scrivendo in una lettera:

Circa la pittura de la logia publicha, de la qual lui desidera che li demo un thema, vui sapete la nostra resolutione, desideremo sia fatto uno bellissimo friso et sia depento li cantoni solamente et li volti de sopra depinto de Azuro, cum cosse d’oro tirate dentro[viii]

Da queste parole si evince come il cardinale desse indicazioni precise per quanto riguarda la collocazione dei dipinti, e come lasciasse al contempo molte libertà ai pittori sul soggetto. Sono prescrizioni che il Clesio scrisse quando ancora l’artista scelto era Dosso Dossi e che, nel momento in cui arrivò Romanino, passarono direttamente a lui.

Già in questo breve brano si nota l’adesione puntuale al Trattato di architettura, uno scritto del 1460-1464 per il duca Francesco Sforza di Antonio di Pietro Averlino, conosciuto come Filarete[ix]. In una parte di questo trattato vengono date indicazioni sulla realizzazione di un “palazzo ideale” e con queste pagine si spiega la scelta tematica della loggia del Romanino che rispecchia ciò che Filarete considerava adatto per il palazzo ideale:

Alle volte di sopra voglio che sia come Fetonte mena i cavalli de Sole, e così Dedalo quando vola, così un poco più in basso, e come Bacco va per rapire Adriana, e come Giove e Ganimede.[x]

Posizionandosi al centro della loggia e alzando lo sguardo, si può ammirare il vasto riquadro centrale con la corsa attraverso il cielo di Fetonte sul carro del Sole, proprio come indicato da Filarete (fig. 2). L’iconografia di questo episodio deriva da Ovidio, il quale narra che Fetonte, per dimostrare la sua divina discendenza, un giorno si recò all’estremo Est per incontrare il padre Sole. Il dio promise al figlio che avrebbe fatto qualsiasi cosa per dimostrare che ne fosse il padre. Fetonte ottenne quindi il permesso di guidare il carro del Sole per un giorno; il giovane fu però avventato e si dimostrò inesperto, perdendo il controllo del carro e avvicinandosi troppo alla Terra asciugandone i fiumi e provocando incendi.

Fig. 2 – La volta della loggia.

Tale immagine può quindi essere letta sia con un intento moraleggiante, con l’invito a guardarsi dal troppo ardire che conduce alla rovina, sia come immagine allegorica del Sole stesso. Nella loggia del Romanino, il carro segue infatti il percorso del sole, partendo da Oriente e andando verso Occidente. Al centro è presente questo episodio mentre i due campi laterali contengono le figure allegoriche delle stagioni: la Primavera e l’Estate, l’Autunno e l’Inverno, tutte figurazioni stagliate sul cielo azzurro[xi] (fig. 3 e 4).

I lati della composizione centrale sono decorati con dieci pennacchi rappresentanti figure virili, dalle membra vigorose. Alcuni di essi hanno la barba e i capelli scompigliati dal vento, per alludere illusionisticamente a come la loggia fosse aperta agli agenti atmosferici[xii] (fig. 5).

Fig. 5 – Figura virile dei pennacchi.

Sulle vele tra i pennacchi sopra citati, Romanino dipinge venti ovali contenenti finte sculture stagliate su un fondo a finto mosaico dorato (fig. 6). Il pittore bresciano concepisce anche dieci lunette lungo le pareti che presentano immagini di carattere non unitario: episodi profani, alcuni tratti dal mito greco e dalla storia romana, altri dalla Bibbia[xiii].

Fig. 6 – Scultura su fondo in finto mosaico.

Gli episodi meglio conservati sono quelli delle parete occidentale, sulla sinistra un Concerto di flauti e sulla destra l’episodio di Giuditta e Oloferne (fig. 7). Dall’altro lato della loggia la parete orientale ospita invece la raffigurazione del Concerto campestre e Amore e Psiche (fig. 8). Il lato lungo della loggia, infine, presenta sei episodi: la Morte di Virginia uccisa dal padre, il Suicidio di Lucrezia, le Grazie, il Suicidio di Cleopatra, un Concerto e Dalila che taglia i capelli a Sansone addormentato[xiv] (fig. 9).

Romanino realizza anche un affresco molto interessante accanto alla scala di accesso al piano superiore che, a differenza degli episodi analizzati finora, è di dimensioni gigantesche: esso raffigura lo “Scacciaimportuni”, un uomo armato di bastone che allontana delle persone, impedendo loro di recare disturbo nella dimora privata del vescovo accendendo al piano superiore[xv] (fig. 7).

Girolamo Romanino rimase a Trento un solo anno, dal 1531 al 1532; in questo breve periodo riuscì a lasciare un segno nel panorama storico artistico della città con uno dei suoi capolavori, la loggia che noi tutti oggi conosciamo come loggia del Romanino.

 

Note

[i] https://www.progettostoriadellarte.it/2020/08/07/il-castello-del-buonconsiglio-a-trento/

[ii] https://www.progettostoriadellarte.it/2020/08/07/il-castello-del-buonconsiglio-a-trento/

[iii] https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento

[iv] Girolamo Romanino, in Enciclopedia dell’arte, a cura di P. de Vecchi e A. Negri, 2002, p. 1076.

[v] L. Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo  (MI) 2006, pp. 258-269.

[vi] L. Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo  (MI) 2006, pp. 258-269.

[vii] E. Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

[viii] L. Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo  (MI) 2006, pp. 258-269.

[ix] Filarete, in Enciclopedia dell’arte, a cura di P. de Vecchi e A. Negri, 2002, p. 402.

[x] L. Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo  (MI) 2006, pp. 258-269.

[xi] E. Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

[xii] E. Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

[xiii] E. Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

[xiv] E. Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

[xv] E. Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

 

 

Bibliografia

 Chini, in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, 2006, pp. 272-274, cat. 51

Filarete, in Enciclopedia dell’arte, a cura di P. de Vecchi e A. Negri, 2002, p. 402

Girolamo Romanino, in Enciclopedia dell’arte, a cura di P. de Vecchi e A. Negri, 2002, p. 1076.

Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo (MI) 2006, pp. 258-269.

 

Sitografia

 

https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento

https://www.progettostoriadellarte.it/2020/08/07/il-castello-del-buonconsiglio-a-trento/

 

REFERENZE DELLE IMMAGINI

  1. https://www.comune.trento.it/Aree-tematiche/Turismo/Conoscere/Citta-alpine/Citta-alpine-dell-anno/Trento/Castello-del-Buonconsiglio-Loggia-del-Romanino
  2. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento
  3. Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo (MI) 2006, pp. 258-269.
  4. Camerlengo, La loggia del principe. Temi mitologici negli affreschi di Romanino a Trento, fonti e motivi in Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento Italiano, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 2006), a cura di L. Camerlengo, Cinisello Balsamo (MI) 2006, pp. 258-269.
  5. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento
  6. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento
  7. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento
  8. https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/loggia-romanino-castello-del-buonconsiglio-trento
  9. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Romanino_Loggia_Buonconsiglio_TN_3.jpg

IL CONVENTO DI SAN GIACOMO A SAVONA

A cura di Gabriele Cordì

“Sorge questo convento sul colle di Valloria, il più alto della valle, gode di grande respiro d’aria e di cielo, vasta è da qui la visione del ligure mare e, verso la città, dell’accogliente e sicuro porto”.

 Fra’ Dioniso da Genova, 1647.

Introduzione

Il convento di San Giacomo, o complesso conventuale del San Giacomo, si trova a pochi passi dal centro storico di Savona, adagiato su un colle ricco di verde e palazzine liberty che sovrasta il porto e gode di una vista privilegiata sulla costa ligure (fig.1). A distanza di circa cinque secoli è ancora nella stessa posizione, orientato con la facciata della chiesa a ponente, come doveva apparire ai tempi di Papa Sisto IV, Giulio II, Gabriello Chiabrera e altri grandi nomi della cultura italiana ed europea che hanno lasciato un solco profondo nella storia secolare del convento francescano. Oggi la chiesa e il convento sono in stato di abbandono, la facciata rischia di collassare su se stessa, gli affreschi absidali si stanno sbriciolando e, molto probabilmente, sotto lo strato di intonaco che ricopre le pareti della chiesa si potrebbero celare altre meraviglie a noi sconosciute. Dal 2016 il destino del San Giacomo è migliorato grazie alle numerose attività organizzate dall’associazione “Amici del San Giacomo”, ODV che si occupa principalmente della valorizzazione del monumento e della sensibilizzazione al suo recupero. Nel 2018 sono stati esposti i libri appartenenti all’antica biblioteca conventuale in una grande mostra allestita nelle sale della Pinacoteca Civica di Savona a cura di Romilda Saggini e GBM Venturino. I pannelli eseguiti in occasione dell’evento sono oggi conservati e visibili a tutti nell’aula studio del Campus universitario di Savona.

Fig. 1

Il convento di San Giacomo: 550 anni di storia

Nel 1470 l’Ospedale di Misericordia di Savona dona dei terreni in località Valloria ai Frati Minori Osservanti (mendicanti e zoccolanti) di San Francesco d’Assisi. Papa Paolo II, nato Pietro Barbo, consente l’edificazione della chiesa e degli edifici circostanti. Inizialmente i francescani predicano nelle piazze ma, con il passare del tempo, necessitano di spazi sempre più ampi per contenere i fedeli. Nonostante le regole dell’Ordine impongano dimensioni ridotte, il progetto della nuova chiesa prevede spazi tutt'altro che piccoli. I lavori iniziano nel 1471 e proseguono sotto la supervisione di Fra’ Angelo da Chivasso, autore di uno dei manuali più celebri del tempo: la Summa casuum conscientiae, soprannominata in seguito Summa Angelica.

La costruzione procede velocemente sotto il pontificato del savonese Sisto IV; la chiesa di San Giacomo diventa il luogo principale dove accogliere i sepolcri delle famiglie savonesi illustri del tempo. Le cappelle laterali vengono abbellite così da grandi quadri e affreschi. Grazie alle numerose donazioni, i lavori della chiesa si concludono nel 1476. Papa Sisto IV nel 1479 fa costruire un ponte a quattro archi per collegare il convento alla città.

Il convento di San Giacomo: la chiesa

La chiesa del convento di San Giacomo è caratterizzata architettonicamente da una sola grande navata coperta da un tetto “a capanna” sorretto da possenti capriate in legno di cipresso. La povertà dell’aula, tipica dei canoni dell’ordine francescano, entra in contrasto con le decorazioni pittoriche murali e la sontuosità degli altari delle dieci cappelle laterali di proprietà delle illustri famiglie savonesi, coperte su ambo i lati da una volta a crociera. In fondo alla navata è ancora visibile il pontile medievale che, prima di cadere in disuso con il Concilio di Trento (1545-1563), aveva la funzione di separare simbolicamente e fisicamente i fedeli dal clero, e architettonicamente l’aula dal presbiterio e dal coro, spazi essenzialmente riservati ai prelati. L’architetto GBM Venturino, grande studioso dell’antico complesso e autore delle famose ricostruzioni digitali di monumenti liguri medievali, ne parla chiaramente in termini tecnici: “[...] Nelle chiese ortodosse sopravvive ancora l’iconostasi, una parete ricca di immagini sacre che divide la parte riservata ai fedeli da quella del clero. Qui il pontile ne occupa lo stesso spazio; è molto leggero, diviso da tre archi a sesto ribassato sorretti da due colonnine con capitello.

Oltre alla primitiva funzione, diventa un rialzo praticabile per i musici ed i componenti della “schola cantorum”, tenuti in gran conto nelle funzioni dei francescani [...]”. Al di là del pontile si trova la zona praticabile solo dal clero, composta dal presbiterio rettangolare, che ospitava il coro dietro all’altare maggiore, e dall’abside semi-ottagonale, affrescata nel Cinquecento dal genovese Ottavio Semino, figlio d’arte di Antonio e fratello di Andrea, anch’egli pittore (fig.2,3). La chiesa accoglie tuttora le spoglie mortali del poeta savonese Gabriello Chiabrera.

La fornitissima biblioteca

Nel 1647 Fra’ Dioniso da Genova definisce la biblioteca del convento di San Giacomo con l’aggettivo “instructissima”, ovvero “fornitissima”, per via del lodevole numero di volumi che essa custodiva. È stata uno dei principali centri della cultura del tempo, famoso per i suoi numerosi codici e manoscritti preziosi, ed ha goduto di grande prestigio culturale per secoli. Molti dei volumi che conservava sono stati dispersi nel tempo e destinati ad altri conventi francescani nel resto d’Italia. I libri provenienti dal convento savonese sono riconoscibili a primo impatto: sono rilegati in pergamena e sul dorso mostrano l’inconfondibile scritta in caratteri gotici “Sancti Jacobi Savonae”.

Il declino

Nel 1810 i saccheggi e le ruberie napoleoniche colpiscono il complesso conventuale savonese. E’ solo l’inizio del degrado. Nel 1809 Papa Pio VII viene imprigionato a Savona da Napoleone Bonaparte, ma non riesce a far nulla per tutelare il convento. Con il passare dei secoli la sua struttura viene plasmata a seconda della funzione che gli attribuiscono le autorità: lazzaretto, ospedale, cimitero, reclusorio e infine caserma.

Bibliografia

GBM Venturino, La chiesa fantasma, Edizione speciale fuori commercio stampata con il patrocinio della Consulta Culturale Savonese, Grafiche F.lli Spirito. (http://amicidelsangiacomo.org/wp-content/uploads/2020/05/San-Giacomo1.pdf)

Romilda Saggini, GBM Venturno, I libri ritrovati, Edizione speciale, 2018, Grafiche Fll.i Spirito.

 

Sitografia

www.amicidelsangiacomo.org

 

Fotografie

Fig. 1,4,5: Fotografie aeree di Luigi Bertogli

Fig. 2,3: www.amicidelsangiacomo.org


IL MUSEO DELLA CERAMICA A RAITO

A cura di Rossella Di Lascio

Introduzione

La cittadina di Vietri sul Mare (SA), primo paese della Costiera Amalfitana, vanta un’antica e fiorente tradizione ceramica, ancora oggi uno dei cardini dell’economia locale. Il rapporto quasi “simbiotico” tra Vietri e la ceramica è visibile ovunque: all’interno (pavimenti e suppellettili) e all’esterno (mattonelle votive) degli edifici del centro storico, nelle numerose botteghe che perpetuano una tradizione artigianale così dinamica e vitale; nella splendida cupola maiolicata della chiesa principale di Raito, dedicata a San Giovanni Battista, di impianto seicentesco, che sorge nel punto più alto del centro cittadino; nella celebre e grandiosa Fabbrica di Ceramiche di Vincenzo Solimene, progettata e realizzata nel 1954 dall’architetto torinese Paolo Soleri e situata all’ingresso della città, che colpisce per il suo impianto originale e la sua vistosità cromatica, dovuti ai suoi tubuli cilindrici in cotto, di colore rosso mattone e verde.

In definitiva, la storia, le tradizioni, le abitudini, la vita quotidiana dei vietresi si possono “leggere” attraverso la ceramica, a cui è dedicato il Museo della ceramica, o Museo Provinciale della Ceramica, a Raito di Vietri sul Mare.

Il museo della ceramica a Raito di Vietri

Nel 1970 Raffaele Guariglia, ambasciatore d’Italia, cavaliere dell’Ordine di Malta e Ministro degli Esteri del governo Badoglio, dona all’Amministrazione Provinciale di Salerno la sua villa estiva a Raito di Vietri sul Mare. Il complesso è costituito da una grande villa a due piani, più un pianterreno e ampie soffitte praticabili per un totale di trentasei vani, con annessa un’antica cappella dedicata a San Vito, riaperta al pubblico nel 1931 per volontà del proprietario, all’interno della quale è custodito un grande presepe artistico del Settecento, di tradizione napoletana. Contiene una ricca biblioteca composta da circa quattromila volumi inerenti il settore storico-diplomatico ma anche le scienze politiche ed economiche, oltre che collezioni di oltre cento fra dipinti, acquerelli, stampe, disegni, ceramiche, porcellane ed argenterie preziose. Si aggiungono un vasto parco che, a sua volta, comprende giardini e terreni agricoli, e la Torretta Belvedere, destinata, su indicazione dell’allora direttore dei Musei Provinciali del Salernitano, Venturino Panebianco, ad ospitare il primo nucleo di un Museo della Ceramica.

La nascita del Museo della ceramica vietrese è stata possibile grazie alla collaborazione di gruppi di appassionati locali e di sensibili privati e collezionisti che, con cospicue donazioni di pezzi ceramici, hanno integrato le collezioni provenienti dai Musei Provinciali e dalla stessa Villa Guariglia. Esaminando la produzione degli ultimi quattro secoli, il Museo fornisce un’idea più esauriente della plurisecolare tradizione ceramica vietrese che, da tempi lontani fino ai giorni nostri, continua vitale ed ininterrotta. Il suo aspetto attuale è il risultato degli ultimi interventi compiuti negli anni ‘30 del Novecento: nel 1936, infatti, Raffaele Guariglia sposa in seconde nozze la spagnola Paz Mazzorra y Romero e, in suo onore, commissiona al geometra Napoleone Marano di Napoli il progetto di ristrutturazione della Torretta Belvedere e la realizzazione del viale d’accesso. Ciò spiega le merlature di coronamento di tipo aragonese e la finestra catalana che attualmente caratterizzano l’edificio.

Il primo nucleo espositivo del Museo è stato inaugurato il 9 maggio del 1981.

Il museo della ceramica di Raito: il percorso museale

Il percorso museale si articola secondo un criterio tematico - cronologico, suddividendosi in tre principali settori:

1) il primo comprende oggetti legati ad esigenze spirituali, come targhe, pannelli votivi ed acquasantiere domestiche, testimonianze di una produzione di carattere religioso e devozionale;

2) il secondo accoglie oggetti legati ad esigenze materiali, d’uso quotidiano, come vasi per olio detti “ogliaruli”, bottiglie, vasi per acqua, brocche, piatti, zuppiere, lumi ad olio, vasetti portafiori, etc., databili tra la fine del Seicento e gli inizi del Novecento;

3) il terzo è dedicato al “Periodo Tedesco”.

L’itinerario della visita è arricchito da riproduzioni fotografiche, bozzetti delle opere e da foto d’epoca degli artisti del Novecento al lavoro presso le fabbriche locali di ceramica I.C.S., Pinto, Cioffi. Nella sala intitolata a Venturino Panebianco è ospitata una piccola biblioteca fornita di testi relativi alla ceramica in generale e a quella di Vietri in particolare, mentre all’interno della Villa è presente un Auditorium che proietta video riguardanti il “periodo tedesco”.

Il Museo diventa, così, un luogo di conoscenza, di riflessione e di approfondimento della materia ceramica, capace di venire incontro alle esigenze, agli interessi, ai gusti di un pubblico variegato e di consentirgli un approccio più consapevole alla ceramica.

Il primo settore

Il primo settore è dedicato ad acquasantiere, targhe e pannelli devozionali, interessanti esempi di religiosità popolare e punto di riferimento indispensabile per i credenti. Sono espressione di “un’emotività collettiva”, di una “preghiera visibile”, un mezzo per instaurare con il sacro un rapporto più intimo ed esclusivo. Attraverso targhe votive e pannelli devozionali si invoca la protezione su case, rioni, strade, incroci, contro le avversità naturali ed i pericoli sociali; sui viandanti, ai quali indicano la giusta direzione; costituiscono una sorta di ex voto, ai quali si manifesta la propria riconoscenza per una grazia ricevuta. Le targhe votive non provengono solo da Vietri ma anche dalle frazioni vicine, come Marina di Vietri, Molina, Dragonea, Benincasa, Raito, la cui esposizione è integrata dalla documentazione fotografica di quelle che non possono essere rimosse dai loro luoghi originari, in quanto murate lungo le pareti esterne delle abitazioni o disseminate per le strade. Ciò rappresenta per il visitatore uno stimolante invito a passeggiare alla scoperta delle stradine, dei vicoli di Vietri. I caratteri peculiari di targhe e pannelli devozionali sono la gamma cromatica variopinta, la figurazione prevalentemente frontale, l’assenza della terza dimensione e l’angolosità dei tratti. Tra i Santi maggiormente ritratti spiccano due figure: San Giovanni Battista, patrono di Vietri, considerato dalla Chiesa precursore di Cristo, e Sant’Antonio Abate che, secondo l’iconografia tradizionale, è sempre accompagnato da un maiale e da una fiamma[1].

Le acquasantiere nascono come elemento devozionale proprio delle classi rurali, destinate ad essere appese al muro accanto alla testata del letto, come dimostrano i fori tutt’ora presenti sugli esemplari custoditi nel Museo. Con il tempo il loro utilizzo si è esteso anche alle classi più agiate, che hanno preferito modelli più complessi ed elaborati, per cui i ceramisti hanno rielaborato i modelli usati dagli architetti napoletani di età manieristica e barocca per la costruzione delle fontane. Ciò spiega le ricche cornici che la maggior parte di esse presenta, con capitelli decorati che sorreggono archi o architravi, colonne (spesso tortili), motivi floreali, palmette, conchiglie, putti reggenti drappeggi o baldacchini, etc.

Il secondo settore

Il secondo settore riguarda la ceramica popolare di uso comune, soprattutto dell’Ottocento, prodotta principalmente per la tavola. Questi oggetti, nonostante il prevalente scopo pratico (le forme variano, infatti, a seconda della funzione), non trascurano l’aspetto estetico, come si evince dalla vivace ed esuberante gamma cromatica ripresa dalla tavolozza classica dei “faenzari” (produttori di ceramiche) vietresi incentrata prevalentemente sulle tonalità del giallo, blu, arancio, rosso, verde ramina e manganese, e dalla maestria ed inventiva dei ceramisti che campiscono le superfici con le più svariate decorazioni: fiori, uccelli, pesci, vedute di paesi, scene campestri o di pesca, velieri, motivi geometrici o stilizzati, etc.

Tali caratteristiche si ritrovano, ad esempio, nell’ “ogliarulo”, il vaso monoansato per l’olio, una delle tipologie più diffuse. Esso possiede il caratteristico bordo “a piattino” con il beccuccio singolo o doppio, per facilitare il versamento dell’olio e ridurne la dispersione, ai cui lati sono collocati i motivi ricorrenti di due occhi, talvolta semplificati con veloci pennellate. Questo motivo antropomorfo, tutt’ora presente nella produzione ceramica delle regioni meridionali, potrebbe avere un significato apotropaico, cioè quello di evitare lo spreco, la perdita di liquidi considerati preziosi come l’olio, presagio di cattiva sorte. La gamma cromatica è basata prevalentemente sull’uso del blu, del rosso e del verde ramina e si attinge ad un repertorio floreale, prediligendo rose orientali o piccole roselline.

Altrettanto interessanti sono i cosiddetti “caponcielli”, grandi piatti dal diametro compreso tra i 40 - 43 cm., usati come piatti da portata unici, legati all’abitudine dei ceti più poveri di attingere il cibo comunitariamente oppure per essiccare al sole gli ortaggi destinati alla conserva invernale. Quando il diametro supera i 44 - 45 cm. il piatto è chiamato “realcapone”, la cui superficie più ampia consente una maggiore varietà di motivi iconografici, sia profani che religiosi. Il soggetto centrale attinge, principalmente, dal mondo naturale: uccelli, pesci, galli, frutta, fiori (in rari casi, anche scene bucoliche o figure femminili), mentre le fasce di margine presentano motivi geometrici o astratti.

Una sezione a parte è dedicata alle “riggiole”, tipiche dell’Italia meridionale ed insulare, a cui è stato dedicato uno spazio specifico dal 6 luglio del 2001 all’interno di Villa Guariglia. Così definite nel gergo dialettale, sono mattonelle in cotto dipinte a mano che si contraddistinguono per ricchezza decorativa e vivacità cromatica, adatte, per la loro resistenza, a rivestimenti parietali e pavimentali. Nel caso delle fabbriche vietresi la riggiola ha una forma quadrata, i cui lati misurano 19 cm., diversamente dalle altre fabbriche, anche regionali, dove ha un lato di 20 cm. Databili tra la fine del Settecento e gli inizi del Novecento, provengono da donazioni e da resti pavimentali di chiese dei dintorni. Agli impianti decorativi pavimentali a tema unico delle ampie composizioni settecentesche, si sostituisce, nell’Ottocento, la decorazione della singola mattonella, in cui un soggetto ricorrente è il rosone centrale, ma sono presenti anche motivi geometrici radiali o stellari, di derivazione orientale, come la caratteristica stella a otto punte, oppure arabeschi, derivanti dalla tipologia decorativa napoletana.

Le riggiole campane attingono anche dall'antichità greco - romana, nota attraverso i reperti degli scavi di Pompei, che rivive nei motivi a nastro circolare e ricorrente, a meandro, “ad onde correnti”, a scacchiera, etc.

In quelle risalenti agli ‘30 e ‘40 del Novecento riprese, principalmente, dal pavimento del Palazzo della Provincia di Salerno, prevalgono motivi floreali ed animali, questi ultimi dedicati a scene marine popolate da pesci, granchi, lumache, meduse, etc.

La gamma cromatica delle riggiole è vastissima e gioca su due o tre colori su fondo bianco o su ricche policromie. Questi pezzi presentano anche un certo interesse storico, in quanto recano il marchio di antiche e spesso scomparse aziende, i cui nomi più ricorrenti sono Cioffi, Cossa, Del Vecchio, Pinto, Punzo, Solimene, i fratelli Tajani, etc. Se, inizialmente, il Museo ospitava solo una trentina di riggiole vietresi e napoletane, oggi questo settore annovera oltre trecento esemplari, grazie a numerose donazioni italiane ed estere e a recuperi vari. Alcuni esemplari arrivano dal Portogallo e dalla Tunisia, donati da artisti quali il portoghese Manuel Cargaleiro e il tunisino Khaled Ben Slimane, entrambi nel 2002.

L’8 marzo del 1999, al pianoterra della Villa, in uno spazio originariamente usato come cantina e garage, è stata inaugurata una seconda sezione museale, che ospita le collezioni private acquisite dal Settore Beni Culturali della Provincia di Salerno, ossia le collezioni Di Marino, Camponi e Dölker. La loro acquisizione rappresenta una tappa fondamentale del programma di ricerca e di recupero della ceramica vietrese nel mondo (pezzi provenienti da Italia, Londra, Parigi, New York, Belgio, Uruguay, Argentina) e costituisce un’azione di potenziamento del Museo stesso, grazie all’introduzione di opere di alto valore storico ed artistico sempre più difficili da reperire sul mercato dei collezionisti, delle aste o presso gli antiquari ceramici. Si comprende, dunque, che lo scopo è fare di questo Museo un polo di riferimento per il Sud, un centro di studio e di conoscenza della ceramica del Meridione.

Il terzo settore: il periodo tedesco

Al cosiddetto “Periodo Tedesco” è dedicata la sezione più ampia e di maggiore interesse del Museo, che fornisce nuovi stimoli alla ceramica vietrese. Agli inizi del Novecento la produzione ceramica vietrese attraversa un periodo di stasi creativa e produttiva, ancorata a vecchi modelli ottocenteschi, a forme e a decori ripetitivi e sterili, che non comunicano più nulla, incapace di rinnovarsi. Datato tra il 1920 e il 1947, tale periodo è così chiamato per la presenza, nelle fabbriche di ceramica e nei laboratori artigianali, di artisti stranieri provenienti dal Nord Europa, soprattutto dalla Germania, i quali giungono in Italia alla ricerca non tanto della tradizione artistica italiana più alta, come quella rinascimentale, ma per approfondire la conoscenza delle tradizioni popolare e figurativa altomedievale. Quest’ultima, definita “primitiva”, viene guardata con rinnovato interesse all’inizio del XX sec. in area germanica, in quanto riabilitata dalla “Scuola di Vienna”. Il riferimento culturale del periodo tedesco è la stagione espressionista, un espressionismo che però, migrando al Sud, perde la sua carica drammatica, il senso di angoscia, di disperazione esistenziale, per incontrare e dialogare con la cultura locale. Si tratta di un linguaggio essenziale, estremamente semplificato e di comunicazione immediata, fondato sul prevalere della linea e su una gamma cromatica squillante (bruno manganese, blu oltremare, verde ramina, giallo solare) che evidenzia e costruisce le cose, i volumi, e di forte impatto visivo. Il rapporto tra i tedeschi e i vietresi ha portato, perciò, alla nascita di una lingua nuova, mista, un vietrese - tedesco, definito “tedeschiese”.

Le tecniche e le forme usate dagli artisti tedeschi sono ancora quelle locali, a cambiare sono i motivi decorativi ed iconografici che ciascuno di loro adatta alla propria sensibilità ed alle proprie capacità, stimolati dalla bellezza e dalle novità dell’ambiente con cui entrano in contatto.

Ai tradizionali motivi decorativi vietresi in voga fino agli inizi degli anni ‘20, quali fiori, frutta e Santi, si sostituiscono le scene di vita quotidiana del Meridione e le sue tradizioni, nuove ed affascinanti agli occhi degli stranieri, come ricorda Irene Kowaliska: “Le tecniche usate dagli stranieri erano quelle locali, tradizionali… Abbiamo invece rinnovato le decorazioni. Ai bordi tradizionali, agli ornamenti, ai fiori, ai frutti, abbiamo aggiunto le scene della vita primitiva del meridione che ci circondava e che era nuova per i nostri occhi. Abbiamo dipinto le barche, i pescatori, i pesci, i venditori con il cesto sulla testa, le donne con le brocche e con il bambino al petto, gli innamorati, le Marinelle, le feste con le processioni, i musicanti, il mare, la luna ed il sole e tanti asinelli! …”

Il loro merito è stato quello di aver riscoperto e portato sulla ceramica un repertorio umano e naturale che l’abitudine, la consuetudine della visione, impediva ormai di cogliere e di assaporare.

Richard Dölker e Irene Kowaliska sono due tra i maggiori esponenti del periodo tedesco.

Richard Dölker (Schomberg 1896 - Turingia, Germania dell'Est 1955) giunge a Vietri nel 1923 e vi trascorre otto anni, dando vita ad uno dei momenti più alti della storia della ceramica italiana, in cui mescola tradizione mediterranea e cultura mitteleuropea. Dölker è affascinato dal mondo e dalla cultura mediterranea, dalla luminosità dei suoi colori e dall’essenzialità delle sue rappresentazioni, come dimostrano i suoi viaggi nel Sud Italia (Sicilia, Sardegna) e nell’Africa del Nord. Il suo linguaggio è fondato sull’essenzialità e sull’estrema semplificazione delle forme, sulle immagini sobrie e spigolose, su una narrazione immediata degli eventi, senza alcun indugio descrittivo, e su di un segno nitido, incisivo, di tipo xilografico, che evidenzia i tratti fisionomici, le vesti, i volumi. Guarda con interesse sia alla figurazione altomedievale, attingendo i suoi soggetti di animali dai bestiari medievali o dai graffiti arcaici e riprendendo lo sviluppo verticale della narrazione dai bassorilievi romanici, sia all’arte paleocristiana, per ciò che riguarda le storie della Bibbia. In queste ultime, spesso il fondo è nero, per mettere in risalto la drammaticità delle scene raffigurate e, per contrasto, la vivacità dei colori impiegati.

Dölker è noto per aver creato, nel 1922, la caratteristica figura dell’asinello, piuttosto buffa, con le orecchie lunghissime e le zampe storte. L'asinello, caro all’iconografia cristiana, è figura ricorrente nell’arte tedesca che, sin dal Medioevo, lo ha idealizzato in sculture assai belle, a grandezza naturale. La predilezione dell’artista per questa figura appartiene ad un bagaglio di tradizioni sacra e popolare germanica, ma è anche un richiamo al Meridione mediterraneo. L’asinello è entrato a fa parte dell’immaginario collettivo di Vietri, tanto da diventare il simbolo della città e della sua ceramica.

Irene Kowaliska (Varsavia 1905 - Roma 1991), dopo essersi diplomata alla “Scuola di Arti Applicate” di Vienna, giunge a Vietri nel 1931. Nella sua produzione cessa “l’horror vacui”, quell’ossessione figurativa dei tedeschi che tendono a campire tutto lo spazio dell’oggetto, secondo i modelli altomedievali di riferimento. La Kowaliska, invece, “lavora per sottrazione, sul minimo assoluto, inaugura una sorta di linea anoressica in ceramica”. Le sue sono immagini isolate, eseguite con un tenero grafismo, dalle linee ampie e morbide, come in un disegno dell’infanzia, e collocate in uno spazio vuoto (o al massimo punteggiato da segni astrali e fiori), che rinviano al mondo fiabesco ed incantato della tradizione dell’est europeo, evocando una dimensione sospesa tra realtà e sogno. Sono esili silhouettes che si contraddistinguono per la loro fissità statica, l’arcaica compostezza, i gioiosi decori delle vesti e l’impiego di colori dalle tonalità delicate. Nell’agosto del 1932 l’artista compie un viaggio in Sardegna che la segna profondamente: all’epoca, la Sardegna era quasi un paese fuori dall'Italia, dal mondo, si entrava in contatto con una realtà completamente diversa dal proprio modo di vivere, fortemente legata alle proprie tradizioni arcaiche. Tracce di questo viaggio sono ravvisabili nel motivo ricorrente del copricapo, del velo in testa portato dalle donne, tipico della sua produzione, e nel motivo dell’asinello, ripreso proprio dal paesaggio sardo. I volti dei suoi personaggi, dai grandi ed espressivi occhi neri, suscitano serenità e tenerezza, mentre l’inserimento di parole come marina, amore, fortuna, o di nomi di persona ripresi dal popolo, quali Maria, Pietro, Anna, Rosa, Carmine, aumenta l’effetto colloquiale dell’opera.

Le parole diventano parte integrante della figurazione, conferendole un carattere ancora più intimo, familiare, privo di quell’accento duro, incisivo, proprio di Dölker.

In definitiva, i pezzi ceramici conservati nel Museo hanno il compito di assicurare la loro conoscenza alle nuove generazioni, che sia si espressione di una creatività contemporanea, ma che muova i suoi presupposti dalla storia, con cui instaura un rapporto dialettico. Ciò significa che la tradizione può arricchire il presente soltanto se dialoga con esso, se si cala e si confronta con la vita attuale, senza chiudersi in sé stesso, riducendosi a memoria nostalgica o a puro ripiegamento archeologico.

 

[1] La presenza del maiale rimanda ad un privilegio concesso nel 1095 all’Ordine dei monaci antoniani di allevare questo animale, in quanto il suo lardo veniva impiegato come medicina per curare l’herpes zoster, volgarmente detto “fuoco di Sant’Antonio”. Il fuoco, invece, ricorda le numerose guarigioni miracolose ottenute per intercessione del Santo durante un’epidemia che infestava la Francia, nel periodo della traslazione delle sue reliquie da Costantinopoli in Europa. A Vietri, il fuoco assume anche un altro significato, strettamente legato alla ceramica: la figura di Sant’Antonio Abate rinvia all’attività di lavorazione dell’argilla, essendo il protettore dei ceramisti, il “padrone del fuoco”, il benevolo custode del forno dove cuociono le terrecotte.

Il “ciucciariello” di Vietri sul Mare.
Torretta Belvedere.
Piastrelle quadrate (Napoli e Vietri, seconda metà e fine ‘800).
Richard Dölker.
Irene Kowaliska.

 

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