LE BOTTEGHE NAPOLETANE SULLA SCENA DI BETLEMME

A cura di Ornella Amato e Camilla Giuliano

 

Introduzione

Breve storia del presepe da Betlemme a Napoli

L'origine storica del presepe va ricercata nei Vangeli di Matteo e Luca dove, in circa 180 versi, sono riportati l’arrivo di Maria e Giuseppe a Betlemme e la nascita del Cristo.

Nel 1223 San Francesco d'Assisi, a Greccio, decise di mettere in scena quanto scritto nel testo sacro, affinché tutti potessero conoscere il vero significato del Natale.

Dopo di lui furono molte le iniziative cristiane che diedero vita alla celebrazione dell’evento; dalle scene teatrali si passò alla rappresentazione con statuette prodotte artigianalmente. Il primo presepe della storia venne realizzato da Arnolfo di Cambio nel 1283 ed è oggi conservato nella basilica Santa Maria Maggiore a Roma.

 

Le origini dell’arte presepiale napoletana

Il presepe è stato ben presto apprezzato nelle corti napoletane dove, in particolare con l'arrivo dei Borboni nella seconda metà del XVIII sec., raggiunse un livello altissimo.

La storia racconta che il re Carlo di Borbone, insieme alla regina Maria Amalia e all’intera corte, era solito trascorrere parte delle giornate estive a preparare mattoncini, casette e abiti per i personaggi che avrebbero animato il presepe della Cappella del palazzo reale della capitale, prendendo spunto e idee da coloro che animavano quotidianamente i vicoli e le strade.

Nasceva così il presepe napoletano quale trasposizione plastica del centro della città, con personaggi popolari abbigliati seguendo i costumi del tempo, coi suoi colori, le sue botteghe, le grida delle madri che dai balconi chiamavano i figli che si attardavano a rincasare.

La Napoli del XVIII sec. diventava, così, una nuova Betlemme.

 

Questa nuova arte divenne un simbolo della napoletanità nel mondo tanto da essere celebrata tutt’oggi nei principali musei cittadini, come dimostrano i presepi presenti nella Cappella del Palazzo Reale nel cuore della città e alla Reggia di Caserta o anche il più famoso presepe Cuciniello all’interno del Museo Nazionale di San Martino.

 

Il 28 dicembre 1879, Michele Cuciniello, presentava al pubblico un presepe di sughero, stucco e cartapesta in cui si ricreava la città coi suoi borghi e le sue case, nel quale si muovevano personaggi del popolo napoletano che s’intrecciavano con i protagonisti della Natività.

 

Si può affermare con certezza che il diletto estivo dei Borbone ed il presepe Cuciniello rappresentino il punto di partenza dei maestri presepiali di San Gregorio Armeno[1] che hanno portato fuori dalla città un’opera artigianale tutta napoletana.

 

L’arte presepiale napoletana dei giorni nostri

I maestri presepiali di Via San Gregorio Armeno tutt’oggi mantengono viva la tradizione inaugurata dai Borbone e realizzano presepi in sughero, legno e cartapesta guardando come modello al presepe Cuciniello, abbigliando i pastori con costumi tipicamente settecenteschi, evitando di discostarsi dalla tradizione, sforzandosi di mantenerla viva.

 

Nella realizzazione del presepe, l’iconografia perseguita è sempre uguale: il centro della scena è quello della Natività, le cui statuine vengono inserite nella grotta secondo un criterio ben preciso: al centro è il Bambino alla cui sinistra è inginocchiata la Vergine, rappresentata secondo la tradizione mariana, con una tunica bianca e con indosso un manto azzurro il cui bordo è talvolta dorato; a destra, in piedi, c’è San Giuseppe con indosso una tunica ed un mantello, in genere  viola e marrone e che tiene nella mano destra una piccola lanterna, mentre, con la sinistra regge e si poggia ad un bastone.

 

Dietro la Sacra Famiglia, trovano posto il bue a destra e, a sinistra, l’asino, mentre schiere angeliche scendono sulla grotta.

Davanti o anche dentro la grotta, s’incontrano i primi due personaggi tipicamente campani: gli zampognari che, con zampogna e ciaramella, suonano la ninna nanna al Bambino Gesù.

 

Secondo una leggenda, gli zampognari suonerebbero Tu scendi dalle Stelle, canto natalizio composto da Sant’Alfonso Maria dei Liguori nel dicembre del 1754.

La tradizione vuole anche che la loro origine sia dell’area beneventana.

In Campania, gli zampognari sono considerati il vero simbolo del Natale umile e semplice, il suono della zampogna e della ciaramella si sente lungo le strade in due momenti ben precisi del mese di dicembre: nove giorni prima della Solennità dell’Immacolata Concezione, con la novena all’Immacolata, e nove giorni prima di Natale con la novena di Natale.

La loro iconografia è abbastanza semplice: oltre agli strumenti, sono sempre abbigliati con vesti che ricordano i pastori, presenti sulla scena generalmente nella parte alta, insieme al loro gregge, a ricordare l’Annuncio di Gloria dato proprio ad essi, dagli angeli.

Il centro abitato, con le sue case, le sue botteghe, i suoi abitanti, invece si sviluppa generalmente ai lati.

Le case rimarcano quelle del centro storico partenopeo e dei suoi vicoli: bucati stesi ai balconi di ferro, finestre con inferriate curve, gabbiette per gli uccellini esposte fuori ai piccoli balconi, personaggi della Napoli del ‘700 che si mostrano nel loro quotidiano, lungo le strade della città.

 

La parte di maggior interesse è di certo data dalle rappresentazioni dei mestieri: si tratta di botteghe e attività le cui mercanzie sono esposte all’esterno dei locali e che facilmente si ritrovavano non solo nel centro città, ma anche nei quartieri più popolari ai quali ci si ispirava.

Non manca mai il pescivendolo, sul cui banco non devono mancare le vasche coi capitoni e il baccalà, poiché sono parte integrante del cenone della tradizione napoletana, e il fruttivendolo con le sue primizie, che chiudono il cenone ed il pranzo di Natale, la tradizionale osteria, nella quale non è protagonista solo l’oste, ma in genere i suoi clienti che sono riuniti intorno al tavolo.

 

Tra le botteghe, un ruolo particolare è quello della pizzeria.

Quella della pizza è una tradizione antichissima, che trae origine dalla focaccia lievitata dell’epoca dei romani che a loro volta s’ispirarono, all’uso di acqua, farina e lievito di alcune popolazioni risalenti al 3000 a.C.

In realtà il termine pizza venne introdotto solo tra il 1500 e il 1600, quando veniva venduta per strada dai fornai su delle bancarelle. Inizialmente era una pietanza per il popolo povero, ma a partire dall’ 800 ebbe grande diffusione in tutta Italia divenendo simbolo della cultura napoletana.

L’arte della pizza divenne così un mestiere, il pizzaiolo più famoso della storia fu Raffaele Esposito, che nell’11 giugno del 1889 chiamò la pizza con pomodoro, mozzarella e basilico, Margherita, in onore della regina di casa Savoia e del re Umberto I.

Il mestiere del pizzaiolo divenne un’icona della tradizione partenopea, e come tale si ritrova fra le statuette dei presepi a Napoli.

 

È tradizione mettere dietro al presepe, una scenografia che ricordi paesaggi orientali o più semplicemente un cielo stellato su cui poggiare la cometa. Nel presepe napoletano, questa tradizione è mantenuta, ma è spesso affiancata da vedute della città, come il golfo col Vesuvio o scorci di strade con cupole in lontananza.

 

La presenza delle cupole delle chiese, paradossalmente, non deve sorprendere: si tratta di chiese presenti in città al momento della realizzazione dei presepi, poiché sono solo i momenti della Natività e dell’annuncio ai pastori che vengono traslati da Betlemme a Napoli.

 

Conclusioni

Il presepe napoletano, nato nella seconda metà del Settecento da un diletto estivo della corte borbonica, oggi è una forma d’arte riconosciuta in tutto il mondo, conservata nei musei cittadini, che vuole rappresentare una nuova Betlemme: una Betlemme ricostruita, guardando ai vicoli, alle strade, alle case della Napoli del XVIII sec. e di coloro che la vivevano.

I loro abiti e le loro abitudini, trasposti sul presepio, non stonano con la rappresentazione della Natività, che segue sempre l’iconografia tradizionale e che deriva dal presepe di Greggio del 1223, realizzato da San Francesco d’Assisi, ma la inglobano armonicamente, come se fosse parte naturale di esso, senza temere sbavature.

 

 

 

 

 

Note

[1] Via San Gregorio Armeno è una delle strade del centro storico di Napoli lungo la quale si trovano esclusivamente botteghe di maestri presepiali e nelle quali si realizzano pastori che ricordano quelli del ‘700 napoletano; è nota anche come la via dei presepi e del Mercatini di Natale permanenti.

 

 

 

 

Sitografia

www.artigianatopresepiale.com

www.brundarte.it

www.presepi.com

www.porcellaneartistichenapoli.com

https://www.visitnaples.eu/napoletanita/sapori-di-napoli/la-storia-del-presepe-e-dell-arte-presepiale-da-betlemme-al-presepe-cuciniello , consultato il 01/11/2022;

https://www.campania.info/napoli/cosa-vedere-napoli/san-gregorio-armeno/ , consultato il 01/11/2022;

https://storienapoli.it/2020/12/17/via-san-gregorio-armeno-storia/#:~:text=Anzi%2C%20la%20santa%2C%20in%20modo,durante%20la%20fuga%20dall'Oriente. consultato il 01/11/2022;

http://www.gessetticolorati.it/wordpress/wp-content/uploads/2016/10/scheda_presepe.pdf , consultato il 01/11/2022;

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https://italpizza.it/blog/quali-sono-le-origini-della-pizza , consultato il 05/11/2022;


SANTA MARIA DI CANNETO A ROCCAVIVARA

A cura di Marco Bussoli

 

SANTA MARIA DI CANNETO A ROCCAVIVARA

Nel Novecento, tra gli anni ’20 e gli anni ’30, nei maggiori centri di fermento culturale si discutevano le tesi di Gustavo Giovannoni sul restauro scientifico. Lontano da questi centri, però, era ancora comune ragionare secondo i dettami del restauro storico o comunque seguendo posizioni più simili a quelle portate avanti oltralpe da Eugene Viollet-le-Duc. Questo è proprio ciò che succede a partire dal 1931 quando a Roccavivara, in provincia di Campobasso, nella chiesa di Santamaria di Canneto – un piccolo santuario posto a valle, lungo il corso del fiume Trigno – il parroco Don Duilio Lemme decide di intraprendere i lavori per riportare questo luogo al suo, presunto, antico splendore.

 

Farsi un’idea di come fosse l’edificio prima dei lavori è molto complesso, dato che esistono pochissimi scatti che documentano l’edificio, ed eseguiti perlopiù dall’esterno, lasciando intravedere un edificio molto simile a quello odierno. Quella che può essere individuata come la più grave mancanza dei lavori di Don Lemme, che si attesta la direzione del cantiere, è l’inesistente documentazione fotografica relativa allo stato dell’edificio al momento dei lavori: se la mancata documentazione fotografica pregressa può essere giustificata dal poco interesse nella fabbrica, quella all’atto del cantiere è a tutti gli effetti inspiegabile.

 

Fondazione e crescita del santuario del Canneto

Come riporta già Luisa Mortari nel 1984, si fa menzione di questa chiesa nel Chronicon Volturnense, una cronaca scritta tra il 1111 ed il 1139 da un frate dell’Abbazia di San Vincenzo a Volturno (IS) che documenta la presenza di un edificio già prima della data 1179, che si può desumere dall’iscrizione in facciata (“ABBATE RAYNALDO FECIT”); tuttavia, la prima menzione in assoluto dell’edificio risale al 944, in una bolla di papa Marino II scoperta nel 1941. La presenza di edifici in quel luogo è, però, ben precedente alle possibili edificazioni di un edificio religioso cristiano, come testimoniano gli scavi che hanno riportato alla luce una domus rustica proprio nei pressi della chiesa.

 

La rifondazione dell’edificio avvenne in un momento molto movimentato per la comunità di Canneto, dato che il convento conosce in quegli anni una serie di cambiamenti di potere tra l’Abbazia di San Vincenzo a Volturno, il Convento di Montecassino, la Diocesi di Trivento e la nomina ad abazia nullius sopraggiunta nel 1079. Altri lavori vennero poi fatti nel 1505 dal cardinale Scipione Carocciolo a seguito dei danni riportati a causa di un terremoto alla fine del XV sec.

 

La facciata e la lunetta

Una volta arrivati alla chiesa si è in presenza di un edificio con un corpo più alto centrale e due più bassi corpi laterali, quello che nell’immaginario comune è una chiesa medievale. Quando, però, ci si avvicina è evidente una serie di segni sulla facciata: il paramento murario è disseminato di elementi che possono sembrare estranei, di iscrizioni, rilievi ed altri elementi. La facciata, infatti, così come il resto dell’edificio è stata rimaneggiata durante l’intervento di don Lemme, inserendovi una serie di elementi erratici e lasciando in evidenza altre sculture. Ciò che oggi si vede è però un edificio ben diverso da quello che nel 1958 è stato liberato dai lavori: nell’immaginario medievale  canonico era necessario un protiro per la chiesa, ovvero un elemento aggettante dalla facciata in corrispondenza dell’ingresso, questo non è, però, un elemento comune nelle chiese molisane ed era stato composto con l’utilizzo di materiali scultorei di risulta; nel 1978 la Soprintendenza molisana decise quindi di smontare questo elemento, assieme a tutti gli altri che erano stati fantasiosamente creati all’esterno della chiesa.

 

L’elemento più caratteristico in facciata è la lunetta sul portale, scolpita in bassorilievo e caratterizzata da una scarsa profondità e da figure piatte, come accade in numerosi altri edifici molisani. Le figure nella lunetta sono accompagnate da una cornice con il rilievo di una vite e dell’uva ed in basso dall’iscrizione che sta a testimoniare il probabile rifacimento della chiesa “ABBATE RAYNALDO FECIT … IRAE … A”. Questa iscrizione dà una possibile indicazione temporale sulla rifondazione di questo luogo, da parte di Rainaldo, abbate che resse il convento dal 1079, oppure l’abate Rainaldo di Montecassino che alcuni decenni prima reggeva questo luogo.

 

Nella lunetta sono scolpiti un agnello crucifero, ovvero con una croce, ed un leone alato, assieme a tre protomi umane e due animali. L’analisi iconologica di questa raffigurazione è molto complessa, data anche l’incerta datazione del rilievo. Sicuro è ad esempio il riferimento a Cristo nell’agnello, mentre il leone potrebbe rappresentare allo stesso tempo sia il cristianesimo che il mondo pagano. Nel medioevo, infatti, il leone alato assume entrambi i significati, rappresentando in alcuni casi il cristianesimo o San Marco, in altri casi il demonio. Le protomi invece, come riporta Berardino Incollingo dalle ipotesi di V. Ferrara, potrebbero rappresentare i martiri Primiano, Firmiano e Casto (proveniente dalla vicina Trivento, per quanto riguarda le figure umane, mentre gli animali, di cui si può forse riconoscere un toro, rappresenterebbero il mondo pagano del Sannio, cui le figure umane si oppongono.

 

 L’interno della chiesa e l’ambone-pulpito

Quando Renato Bonelli tratta l’architettura religiosa medievale parla di un orizzonte spaziale “infinito e trascendente”, facendo riferimento all’effetto prodotto dall’ombra nelle navate minori di questi edifici. Pur non potendo sapere se mai sia stato così nella chiesa di Roccavivara, è certo che oggi non sia così, ma che anzi sia l’opposto: la chiesa è infatti estremamente scura, avendo come uniche aperture delle feritoie inconsistenti nello spessore murario; l’altra fonte di luce, il rosone, è insufficiente ad illuminare propriamente lo spazio, che risulta quindi oscuro e indecifrabile.

 

L’interno della chiesa è caratterizzato quasi esclusivamente dagli apparati scultorei, anch’essi poveri, che compongono i capitelli e gli altari. I capitelli della navata destra, quasi tutti originari e coevi, sono caratterizzati dal rilievo di foglie ed elementi naturalistici, in alcuni casi anche dalla presenza di protomi animali. Elementi simili sono stati poi usati, una volta rimossi dall’originaria sede, per comporre gli altari secondari ed altri elementi nell’area presbiteriale, credendo di aggiungere valore a questi.

 

L’elemento che però colpisce una volta è il grande pulpito presente nella parte sinistra dell’aula, che occupa un’intera campata e buona parte dello spazio in altezza. Sorretto da tre archetti di diversa dimensione e caratterizzato da un rilievo in cui sei figure umane sono inserite sotto sette archetti a gruppi di tre, questo pulpito è uno degli elementi creati da don Duilio Lemme negli anni ’30. In molti si sono riferiti a questa struttura composita come ad un ambone, il luogo di lettura delle scritture talvolta presente nella zona presbiteriale, spostato poi nella navata in modo da creare un pulpito, Maria Cristina Rossi ipotizza però che questo elemento, originariamente composto dalla sola struttura di elevazione e dagli archetti con le figure umane, fosse uno jubè, un elemento liturgico di divisione del presbiterio dall’aula, diffuso in centro Italia e in disuso dopo il concilio di Trento. Questa recente ipotesi è plausibile dal punto di vista dimensionale e sembra più convincente dell’ipotesi dell’ambone, dato che ciò che oggi è visibile è il frutto della composizione di numerosi elementi disomogenei.

 

Come riporta Catalano “S. Maria di Canneto mi pare un caso eclatante di come la perdita o, nei casi più fortunati, la decontestualizzazione e riduzione a frammento di opere di decorazione possa aver gravato sull’equilibrata lettura di un monumento ed averne condizionato il giudizio […]”. Ciò che qui si è infatti cercato di far passare è che, sebbene le parti di questo monumento diano una serie vastissima di spunti, non si riesce a comprendere bene né come questo si sia evoluto, perlomeno non con chiarezza, né come alcune maestranze possano essere in relazione con questo cantiere.

 

 

 

 

Le foto presenti all'interno dell'articolo sono state scattate dal redattore

 

 

 

 

Bibliografia

Dora Catalano, Il Molise medievale tra perdite, trasformazioni e decontestualizzazioni, in Carlo Ebanista e Alessio Monciatti (a cura di), Il Molise medievale – Archeologia e Arte, All’insegna del giglio, Borgo San Lorenzo (FI), 2010;

Berardino Incollingo, La scultura romanica nel Molise, Fratelli Palombi Editori, Roma, 1991;

Maria Cristina Rossi, Il cantiere medievale di Santa Maria di Canneto: nuove prospettive di ricerca, in Daniele Ferrara (a cura di), Studi di storia dell'arte in onore di Ada Trombetta, Poligrafica Terenzi, Venafro, 2016.


LUCA GIORDANO A FIRENZE

A cura di Alessandra Becattini

 

Luca Giordano

Luca Giordano, nato a Napoli nel 1634, iniziò il suo apprendistato con il padre, anch’egli pittore e mercante d’arte. A Napoli ebbe modo di avvicinarsi al naturalismo caravaggesco che in quegli anni animava i pennelli degli artisti partenopei. Nelle prime opere attribuibili al giovane Giordano è forte, infatti, l’influenza non solo del Merisi, ma anche di alcune delle personalità artistiche di spicco della Napoli vicereale. È il caso di Jusepe de Ribera, celebre artista spagnolo attivo a Napoli nella prima metà del ‘600, che le fonti tramandano essere stato maestro del giovane Luca, ma che gli studi recenti hanno ridimensionato piuttosto a mirabile esempio da seguire e a cui ispirarsi. Infatti, gli anni Sessanta vengono identificati dalla critica come la fase “riberesca” della carriera del napoletano, cioè contraddistinta da una attenta imitazione della maniera del maestro valenciano per soddisfare una clientela desiderosa di opere della scuola tenebrista.

Giordano iniziò ben presto ad ampliare i suoi orizzonti compiendo viaggi di formazione in altri centri artistici italiani. Dalle fonti storiche viene tramandato un primo viaggio di Luca a Roma all’età di sedici anni accompagnato dal padre. Secondo la Relazione del 1681, manoscritto conservato alla Biblioteca Nazionale di Firenze, durante questa permanenza di sei mesi il giovane prodigio avrebbe eseguito una quantità di disegni tale da superare quella di un artista più maturo. Nonostante l’evidente narrazione iperbolica, gli storici hanno identificato una serie di disegni in sanguigna che riproducono opere romane, datati variamente tra il 1650 circa e il 1654, quando è attestato un secondo soggiorno dell’artista nella città papale. A Roma, dove si recò nuovamente nel 1656, dovette avvenire il primo incontro con le novità artistiche del luogo e con le opere di Pietro da Cortona, che influenzò fortemente la svolta barocca del Giordano.

Tra il 1664 e il 1665 si colloca poi il viaggio a Venezia per studiare le opere dei maestri lagunari. Secondo il Baldinucci proprio durante questo tragitto il giovane pittore avrebbe fatto una prima breve tappa a Firenze. Anche se di questa sosta non si sono tramandate ulteriori notizie, è certo che al momento del successivo soggiorno nel capoluogo toscano l’artista fosse già conosciuto in città.  Alla metà degli anni Sessanta è datato infatti l’Autoritratto (fig. 1) conservato agli Uffizi e realizzato per il cardinale Leopoldo de’Medici, alla cui collezione sono state ragionevolmente restituite altre due opere del napoletano presenti in città a quel tempo, cioè la Carità degli Uffizi e il San Sebastiano oggi alla Pinacoteca di Lucca (fig. 2), esempi della già citata fase riberesca[1].

 

Giordano è nuovamente a Firenze nel 1682 per la commissione degli affreschi della cupola della cappella Corsini nella chiesa del Carmine. Il progetto per la realizzazione della cappella (fig. 3), pensata e voluta da Bartolomeo e Neri Corsini per omaggiare l’antenato Andrea, già vescovo di Fiesole e canonizzato nel 1629, venne affidato nel 1676 all’architetto Pier Francesco Silvani, ben noto alla famiglia per il suo impegno nel palazzo del Parione. I lavori per la cappella, tra i più importanti esempi del barocco fiorentino in contesto religioso, si protrassero fino al 1683 e il 24 ottobre dello stesso anno venne traslato il corpo del santo Corsini nella sua nuova sede con una fastosa celebrazione. Al progetto artistico, caratterizzato da una armoniosa commistione di differenti opere decorative, parteciparono molteplici artefici, tra cui Giovanni Battista Foggini. A quest’ultimo vennero commissionati tre bellissimi altorilievi marmorei per gli altari della cappella, eseguiti in più mandate tra il 1677 e il 1701 e raffiguranti l’Apoteosi del santo, l’Apparizione del santo durante la battaglia di Anghiari e il Miracolo della Messa di S. Andrea (fig. 4).

 

A Luca Giordano, come già anticipato, fu invece commissionata la parte pittorica che venne ideata e portata a termine in appena otto mesi, tra il febbraio e l’agosto del 1682. Nei quattro pennacchi furono raffigurate le personificazioni delle virtù del santo (fig. 5), mentre l’intera cupola fu dedicata alla Gloria di Sant’Andrea Corsini (fig. 6), dove il santo viene accompagnato dalla Vergine in cielo al cospetto della Santissima Trinità.

La cupola del Carmine fu una rivelazione per i contemporanei artisti fiorentini: l’impostazione ascensionale e concentrica di memoria lanfranchiana viene in realtà interrotta da una moltitudine di personaggi che affollano la scena con pose dinamiche e sfalsate, ma concatenate (fig. 7).

 

Un bozzetto preparatorio, anche chiamato “macchia” nel XVII secolo, della Gloria di Sant’Andrea Corsini è recentemente entrato a far parte della collezione delle Gallerie degli Uffizi. Originariamente appartenuto ai Corsini e conservato nella Galleria del palazzo di famiglia assieme ad altre due “macchie”, del bozzetto si erano perse le tracce dal 1919 dopo che per via ereditaria era stato distaccato dalla sua sede nativa. Il recupero di questo studio non solo restituisce al pubblico una parte importante della storia dell’intervento del napoletano, ma dimostra anche quanto diffuso fosse all’epoca l’interesse collezionistico per i bozzetti preparatori degli artisti.

Durante questo secondo soggiorno a Firenze, Giordano ricevette delle commissioni importanti anche dai Medici. Sempre del 1682 è l’Apparizione della Vergine a San Bernardo (fig. 8), una tela oggi conservata nella chiesa fiorentina della Santissima Annunziata ma eseguita in origine per la volta di Santa Maria della Pace, chiesa cistercense di patronato mediceo. L’opera venne commissionata al pittore da Vittoria della Rovere, per la quale Luca aveva eseguito anche una Fuga in Egitto, oggi alla Galleria Palatina, e probabilmente realizzata quale omaggio per la granduchessa madre stessa[2]. L’attestazione di pagamento all’autore, eseguito nell’agosto del 1682, rivela che la tela per la chiesa era stata eseguita in appena 44 ore: un record di velocità che senz'altro ci dà modo di capire il motivo per cui Giordano si era guadagnato l’appellativo di “Luca fa presto”.

 

Sul finire del 1682 la granduchessa commissionò al pittore altre tre tele da eseguire per il figlio Francesco Maria, futuro governatore di Siena. Tuttavia, il secondo soggiorno del Giordano a Firenze termina repentinamente nel dicembre del 1682, quando Luca è costretto a lasciare la città per assistere la moglie malata a Napoli. Tra le commissioni lasciate in sospeso a causa del suo rientro nella città partenopea si trovano non solo tre tele richieste dalla granduchessa madre, ma anche quella che sarà la più importante commissione del suo terzo ed ultimo soggiorno fiorentino.

 

La sfarzosa decorazione della galleria e della biblioteca di palazzo Medici-Riccardi

Da un carteggio dell’epoca sappiamo che già nell’agosto del 1682 erano terminate le trattative per la decorazione della biblioteca e della galleria del palazzo dei marchesi Riccardi. Per tale commissione furono garanti dell’artista Bartolomeo Corsini, per il quale il napoletano aveva già lavorato alla decorazione della cappella di famiglia nella chiesa del Carmine, e Andrea del Rosso. Quest’ultimo, membro di una famiglia fiorentina che aveva avuto stretti rapporti commerciali con Napoli fin da inizio ‘600, ebbe plausibilmente un ruolo importante nella diffusione della fama dell’artista a Firenze.

La famiglia dei Riccardi, di rango nobiliare dal 1606, aveva visto una rapida ascesa sociale sotto l’ala protettrice dalla famiglia granducale. La rinascimentale residenza medicea di via Larga, oggi via Cavour, venne aquisita dai Riccardi nel 1659, i quali mantennero in esterno l’aspetto quattrocentesco del progetto originario di Michelozzo. Il progetto di ristrutturazione del palazzo si concentrò infatti sui lavori di ampliamento e ammodernamento della struttura, mentre alll’impianto decorativo venne affidato il compito di rifettere non soltato l’ascesa sociale del casato, ma anche il fruttuoso rapporto con il Granducato Mediceo. Esemplare in tal senso è proprio la decorazione della Galleria (fig. 9) e della Biblioteca del palazzo, che vennero costruite durante seconda fase di ristrutturazione.

 

L’impresa pittorica venne commissionata al napoletano dal marchese Francesco e venne realizzata con l’impiego di aiuti nel giro di pochi mesi, tra l’aprile e l’agosto del 1685; la decorazione della biblioteca venne invece eseguita successivamente e terminata entro il marzo dell’anno successivo, con la definitiva partenza del pittore da Firenze[3].

Il progetto della Galleria fu diretto dal noto Giovanni Battista Foggini e l’operato del Giordano affiancato da quello degli stuccatori, che decorarono le pareti della sala con meravigliosi stucchi bianchi e dorati. Gli stucchi incorniciano da un lato le finestre, dall’altro delle porte specchiate, alcune delle quali nascondono degli armadi, un tempo probabilmente usati dai Riccardi per riporre alcuni dei tesori della collezione di famiglia[4]. La sala è anche chiamata “Galleria degli specchi” per la presenza di ulteriori specchi dipinti con le quattro stagioni, la cui decorazione venne affidati ad un equipe di tre artisti: Bartolomeo Bimbi, Anton Domenico Gabbiani e Pandolfo Reschi.

Il complesso progetto iconografico della volta, che venne affidato ad Alessandro Segni, accademico della Crusca e amico dei Riccardi, è un’immensa allegoria della vita umana[5]. Questo percorso è dettato da valori spirituali e morali, rappresentati ai quattro angoli della volta dalle virtù cardinali: Giustizia, Temperanza, Prudenza e Fortezza (fig. 10). Si susseguono poi episodi mitologici, pululanti di figure, che delineano ideologicamente le stagioni che scandiscono le tappe della vita umana. Infatti, il percorso narrativo inizia idealmente da una grotta, identificata come l’antro dell’eternità, e abitata dal dio del tempo Crono e da altre divinità, come le Parche, le tre dee che tessono la vita umana. Tutte queste figure sono poi circondate da un serprente che si morde la coda, simbolo dell’eternità stessa. Il termine del tragitto umano è invece rappresentato dalle anime traghettate da Caronte verso l’oltretomba (fig. 11).

 

Al centro della volta trova posto l’Apoteosi della famiglia Medici (fig. 12), una vera e propria esaltazione e celebrazione del Granducato. Tra soffici nuvole sono rappresentati i protagonisti della scena, che si posizionano attorno a Giove, re dell’Olimpo, e portano sulla testa delle stelle luminose. La motivazione di questa scelta iconografica è dettata dal fatto che, iper onorare il casato regnante, erano stati soprannominati “stelle medicee” i satelliti del pianeta scoperti da Galileo nel 1610.

 

Dalla galleria si poteva accedere alla biblioteca, la cui volta venne decorata con l’Intelletto che contempla la Verità (fig.13). Decisamente più piccola nelle dimensioni e quasi sopraffatta dalla grande decorazione in stucco, quest’opera non raggiunge l’effetto scenografico e la magniloquenza della sala adiacente, ma completa appieno il grande programma iconografico che intendeva celebrare il granducato assieme alle sue attività intellettuali[6].

 

L’operato artistico del Giordano a Firenze, che trova indubbiamente il suo culmine con la volta del salone di palazzo Medici-Riccardi, fu un potente stimolo alla diffusione dell’arte barocca in città ed ispirò quella generazione d’artisti che negli anni a seguire si occupò della decorazione dei palazzi privati dell’élite fiorentina.

 

 

 

 

 

 

 

Note

[1] Fumagalli, Luca Giordano a Firenze: dipinti e “macchie”, p. 53.

[2] Fumagalli, Luca Giordano … cit., p. 57.

[3] Fumagalli, Luca Giordano … cit., pp. 62-63.

[4] Sparti, Ciro Ferri and Luca Giordano in the Gallery of Palazzo Medici Riccardi, p. 188.

[5] Sparti, Ciro Ferri …cit., p. 179.

[6] Fumagalli, Luca Giordano … cit., p. 63.

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

Fumagalli, Luca Giordano a Firenze: dipinti e “macchie”, in Gli Uffizi e il territorio: bozzetti di Luca Giordano e Taddeo Mazzi per due grandi complessi monastici, Firenze, 2017.

Barbolani di Montauto, La Gloria di Sant’Andrea Corsini, in “Il giornale degli Uffizi”, n. 70 (2017), pp. 2-3.

Giannini, «Rimote all’occhio». Le pitture di Luca Giordano a Palazzo Medici Riccardi, in Luca Giordano: técnica. Pintura mural, atti del congresso (Madrid, febbraio 2008), Madrid 2010

Spinelli, La cappella Corsini nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze, in Giovanni Battista Foggini. “Architetto primario della Casa Serenissima” dei Medici, Firenze 2003, pp. 42-44.

D.L. Sparti, Ciro Ferri and Luca Giordano in the Gallery of Palazzo Medici Riccardi, in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz , 47 (2003), pp. 159-221

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/luca-giordano_%28Dizionario-Biografico%29/


I BENI CULTURALI DEL TRENTINO ALTO-ADIGE E IL PRESEPE DEL DUOMO DI TRENTO

A cura di Alessia Zeni

 

 

La fine dell’anno è di solito tempo di bilanci, in particolar modo ora che siamo alla chiusura di questo magnifico percorso all’interno di “progetto storia dell’arte” e dei beni culturali del Trentino Alto-Adige. Un percorso iniziato nel 2016 per conoscere e valorizzare la storia dei beni culturali della regione, dalle opere più conosciute della città di Trento fino ad arrivare a quelle meno conosciute delle vallate trentine e dell’Alto Adige.

 

I beni culturali del Trentino Alto-Adige in “progetto storia dell’arte.it”

Nella città di Trento un grande viaggio è stato fatto nel Duomo per scoprire i segreti della sua storia e della sua struttura architettonica. Perché segreti? Come accade molto spesso per i monumenti medievali, il Duomo di Trento cela una simbologia tratta dai bestiari e dai testi biblici: dai rosoni che decorano le facciate fino alle figure antropomorfe dei vari portali di accesso. Il più grande monumento della città di Trento deve però la fama alla sua opera più importante, ovvero la Cappella Alberti che conserva il celebre crocifisso del Concilio di Trento, analizzato in tutta la sua simbologia. Rimanendo nella piazza principale della città sono state analizzate la Torre di Piazza, ex sede delle prigioni cittadine, e la simbolica Fontana del Nettuno.

In città è stato visto Palazzo Fugger Galasso, la cui leggenda lo volle plasmato dal diavolo in una sola notte, e il castello del Buonconsiglio analizzato nella sua evoluzione architettonica e nelle sue opere più importanti. Nel Castello di Trento è stata anche vista la Loggia del Romanino e la Torre dell’Aquila con il famoso Ciclo dei mesi, una delle più importanti testimonianze artistiche della vita nobile e popolare della fine del Trecento. L’architettura contemporanea con il MUSE di Renzo Piano, sede di uno dei più importanti e all’avanguardia musei di scienze del Nord Italia, e il più celebre monumento della città di Trento, ovvero il monumento dedicato a Dante Alighieri, emblema dell’italianità del popolo trentino. In ultimo, per rimanere nel contesto religioso della città: la badia di San Lorenzo, ex chiesa di Padri benedettini e domenicani, e la storia dei santi più conosciuti della città, San Vigilio, patrono di Trento, con la sacra urna delle reliquie ed un ex beato della città, ovvero Simonino da Trento che rese purtroppo celebre la città tra Quattro e Cinquecento per il primo caso in regione di antisemitismo.

 

 

All’interno del progetto divulgativo, per la regione del Trentino Alto-Adige, sono state considerate quasi tutte le peculiarità della regione: chiese, castelli, palazzi, borghi storici, i grandi pittori nativi del Trentino, fino ad arrivare all’archeologia con le palafitte di Fiavé. Per il capitolo delle grandi chiese disseminate sul territorio è stata esaminata la chiesa dell’Inviolata a Riva del Garda, una delle più belle chiese barocche del Trentino, ma anche la Pieve di Ledro nelle sue pregiate opere a stucco. Tra castelli e palazzi sono stati analizzati Castel Thun, il Castello di Arco e il Castello di San Gottardo a Mezzocorona e il Palazzo assessorile di Cles in Valle di Non. I borghi storici di Rango, Balbido, Canale di Tenno e tra le città più significative Merano e Glorenza. Inoltre, alcuni articoli sono stati dedicati alla vita e alle opere di grandi artisti del Trentino, ovvero il ritrattista d’Europa Giovanni Battista Lampi e nella pittura contemporanea l’opera di Carlo Sartori.

 

Infine, nelle vallate trentine sono state trattate molte chiese, in quanto la regione conserva gran parte del suo patrimonio artistico e architettonico negli edifici religiosi disseminati sul territorio. In Val Rendena le chiese più importanti: Sant’Antonio abate di Pelugo, la chiesa di Santo Stefano di Carisolo e la danza macabra di San Vigilio di Pinzolo. Nella valle delle mele: San Bartolomeo di Romeno, il santuario di San Romedio e la chiesetta di San Tommaso a Cavedago. Invece nel Trentino meridionale è stata studiata la chiesa di Sant’Apollinare di Prabi ad Arco con i suoi celebri affreschi, la chiesa di San Rocco a Caneve di Arco e la Chiesa della Disciplina a Riva del Garda. Nel Trentino sud-occidentale è stato fatto un viaggio tra i dipinti e le molte chiese sparse sul territorio della Valle di Ledro.

 

Il significato delle immagini e il presepe della cattedrale di Trento

Il viaggio compiuto tra i beni culturali del Trentino ha le sue radici nel significato che da sempre hanno le immagini nel mondo della storia dell’arte, dalla pittura alla scultura e finanche all’architettura. L’immagine è infatti da sempre un mezzo necessario di apprendimento per il popolo che non poteva accedere allo studio, poiché è sempre stata utilizzata nella storia come veicolo di messaggi e come strumento necessario per la diffusione della conoscenza.

In questo contesto rientra il messaggio che da sempre caratterizza il presepe, ossia quello di veicolare la memoria della nascita del Figlio di Dio. E con un presepe si conclude, infatti, il lungo viaggio nella storia dell’arte trentina: Il presepe della cattedrale di Trento, uno dei più significativi e importanti della città. Da diversi anni il Capitolo del Duomo di Trento ha deciso di dotare la cattedrale della città di un presepe degno del suo messaggio e della struttura che lo ospita: un presepe dalle grandi dimensioni, sistemato in una delle absidiole più importanti del Duomo, ossia in corrispondenza del fonte battesimale per veicolare al meglio il suo messaggio evangelico. La piccola figura del Bambinello è il centro di tutta l’opera, seguita dalle grandi statue della vergine Maria e dal padre Giuseppe sistemati in un paesaggio diroccato; alcuni pastori con le loro greggi accompagnano e vegliano il lieto evento, mentre l’angelo del Signore porta la luce nella Gloria di Dio nell’alto dei cieli. La stella cometa spunta in alto tra rovine di archi e colonne e i tre re magi - Melchiorre con l’oro, Gaspare con l’incenso e Baldassare con la Mirra - giungono alla mangiatoia del Bambinello. Un presepe pensato per la grande struttura architettonica che lo ospita, ma soprattutto per il luogo dove è stato sistemato, ovvero nella zona del battistero del Duomo di Trento, una scelta non casuale che richiama il dono della nascita nella chiesa cattolica.

 

Con il presepe del Duomo di Trento chiudo questo percorso nel grande “progetto storia dell’arte” e ringrazio Giulia Pacini, responsabile del progetto, e tutta la redazione che in questi anni ha collaborato alla cura della pagina web e degli articoli che hanno reso unico il sito web “progetto storia dell’arte.it”.

 

 

Le figure dalla 5 alla 7 sono state scattate dalla redattrice dell'articolo


ALLA SCOPERTA DI SAN BIAGIO MAGGIORE E SAN GENNARO ALL’OLMO

A cura di Ornella Amato

 

 

 

Questo diceva Maximilien Misson di Napoli: «Ce qui nous a paru le plus extraordinaire à Naples, c'est le nombre et la magnificence de ses églises ; je puis vous dire sans exagérer que cela surpasse l'immagination»[1].

Le chiese napoletano sono infatti oltre 500 e la magnificenza di ciascuna di queste è realmente straordinaria, così come sono le storie che possono raccontarci.

Specie se poi si percorre la strada del decumano inferiore, popolarmente detta “Spaccanapoli”. Qui, nel punto in cui “Spaccanapoli” diventa Via San Biagio dei Librai, incontriamo sul nostro cammino, la Chiesa di San Biagio Maggiore, popolarmente nota come San Biagio dei Librai che da il nome alla strada in cui essa si trova. Piccola e scarna, la chiesa un tempo doveva probabilmente essere stata un gioiellino dell’arte barocca.

Chiusa a seguito del terremoto del 1980, che epicentro ebbe in Irpinia ma grande strage fece in tutta la Campania, la chiesetta ha visto la riapertura solo nel 2007, come sede napoletana della Fondazione Gian Battista Vico, il filosofo napoletano nato al civico 31 di questa strada il 23 maggio 1658 e che qui fu battezzato. Su quest’ultim informazione non tutte le fonti concordano, poiché talune segnalano in suo battesimo nell’attigua chiesa di San Gennaro all’Olmo, con cui la chiesa forma un unico complesso.

La Chiesa di San Biagio Maggiore (fig. 1) si trova proprio accanto a quella di San Gennaro all’Olmo, quest’ultima così chiamata perché non lontano da essa vi era un olmo a cui venivano appesi i premi per i partecipanti ai palii cittadini o gli ex – voto eseguiti in ringraziamento a San Gennaro.

 

La sua realizzazione è stato possibile soprattutto grazie all’intervento dell’arcivescovo Francesco III Boncompagni nel 1631, dopo che, nel 1626,  Papa Urbano VIII lo trasferì  alla sede arcivescovile di Napoli dove rimase fino al 1641.

La Chiesa - anche se, per completezza, non manca chi preferisce parlare di “cappella di San Biagio” - sorge su un’area che ospitava le riunioni dei Nobili del Seggio di Nilo, sotto l’antico portico di San Gennariello. Fu costruita per ospitare le reliquie di San Biagio portate dalle suore armene arrivate a Napoli nel VII sec.   accanto a quella di San Gennaro, unendo l’antica cappella di San Biagio e la sagrestia di San Gennaro. Ad occuparsene fu per lungo tempo la Confraternita dei Librai alla quale apparteneva anche Antonio Vico,  padre del filosofo Gian Battista.

Sebbene dedicata al culto di un santo venerato in tutto il mondo, la chiesa è piccolissima. La facciata esterna è molto semplice: intonaco bianco con una finestra ed una targa che ne ricorda brevemete la storia, un portale seicentesco con porta in piperno, chiusa da un cancello che sembra quasi volerla proteggere. L’interno si presenta stretto e lungo, estremamente semplice, e un tempo custodiva l’antica statua del santo, successivamente trasferita nella vicina chiesa dei SS Filippo e Giacomo, nota come la Chiesa dell’Arte della Seta.

Sull'altare maggiore, policromo e di autore ignoto (fig. 2), si trova un quadro tardo cinquecentesco che raffigura La Vergine in gloria ed i Santi Biagio e Nicola, ad opera di un artista tardomanierista.

 

Nella stessa in via, all’incrocio con via San Gregorio Armeno, laddove lo sguardo è rapito dalla napoletanità più verace tra bancarelle di ogni specie, antichi palazzi e tesori nascosti da scoprire, ecco che ci s’imbatte in Largo degli Olmi dove si trova la già citata chiesa di San Gennaro, che appartiene allo stesso complesso monumentale con l’attigua San Biagio.

La Chiesa di San Gennaro all’Olmo (figg. 3-5), è annoverata tra le più antiche della città.

 

La prima fondazione della chiesa risale al VII secolo, ma secondo la tradizione fu una delle sei chiese di rito greco edificate al tempo dell’imperatore Costantino. Diverse fonti fanno risalire la sua edificazione al volere di Sant’Agnello, tredicesimo vescovo della città, proprio intorno alla fine del VII secolo. Venne realizzata come ex – voto in onore di San Gennaro per ringraziarlo di aver salvato la città da una violenta eruzione del Vesuvio, l’imponente vulcano campano che domina la città ed il suo golfo.

L’ingresso principale si trova all’incrocio tra via San Gregorio Armeno e via San Biagio dei Librai, dove si apre un piccolo slargo (Largo degli Olmi). Originariamente, la chiesa era denominata “San Gennaro ad Diaconiam” poiché era qui che i vescovi sceglievano i diaconi e, come Diaconia – ovvero i luoghi i cui gli stessi diaconi dispensavano le elemosine per i poveri del quartiere -  divenne la più importante della città.

Il nome rimase fino al tempo di Federico II di Svevia e vi si mantenne il rito greco fino al XIV secolo. La chiesa venne elevata a parrocchia agli inizi del XVII secolo e nuovamente restaurata dopo il terremoto del 1688 con la creazione di un pregevole apparato in stucco. Altri restauri barocchi vennero eseguiti nel XVIII secolo, quando vennero eseguiti gli altari laterali e il maggiore con la balaustra in marmi intarsiati e policromi.

Nei primi anni dell’Ottocento venne effettuato un intervento di restauro voluto dal parroco Adinolfi, con la ripavimentazione in maiolica, mentre le strutture murarie furono dipinte in azzurro e bianco (l'originale era in finto marmo). Un altro restauro fu eseguito, secondo la testimonianza di Roberto Pane, nei primi del Novecento quando l'avanzamento della facciata inglobò la vecchia scalinata.

Successivamente al terremoto del 1980 la chiesa è rimasta chiusa ed è stata recentemente recuperata, così come è accaduto per l’attigua San Biagio Maggiore, dalla Fondazione Giambattista Vico, che ne ha curato la prima sessione di restauro e la ricostruzione delle decorazioni della navata. Una seconda sessione ha avuto come obiettivo la ricostruzione presbiteriale con il cupolino (fig. 6) e il recupero delle cappelle.

 

Al di sotto dell'edificio c’è un'altra chiesa e una piccola cripta dove hanno trovato sepoltura diverse persone del popolo. La chiesa conserva anche reperti del periodo antico, come ad esempio alcune colonne paleocristiane. Gli ultimi studi e ritrovamenti indicano il sito come ossario dei santi Biagio e Gregorio. Si è scoperto, inoltre, che al suo interno è sepolto il padre di Giambattista Vico.

Oggi la chiesa – contestualmente a quella si San Biagio Maggiore -  è una delle sedi della fondazione che ha provveduto a restaurarla.

Le vicende di queste due piccole chiese, oggi riunite in un unico complesso monumentale, ci fa riflettere su come questi luoghi, un tempo dimenticati, all’improvviso si ritrovino a rivivere una sorta di  “seconda vita” che consente loro di presentarsi a chi non li conosceva e di ricordarci che, all’ombra delle grandi basiliche e dei grandi complessi, esistono anche tante piccole realtà che hanno partecipato, con inestimabili contributi, alla storia della città alla quale appartengono.

 

 

 

 

 

Note

[1]  M. Misson, Voyage d’Italie, éd. 1743, II, p. 90. Traduzione: «La cosa che ci è sembrata più straordinaria, a Napoli, è il numero e la magnificenza delle sue chiese: posso dirvi, senza esagerare, che ciò oltrepassa l'immaginabile».

 

 

 

 

 

Sitografia

Napolituristica.com

Corpodinapoli.it

Dettinapoletani.it

Napolipiù.com

Napoligrafia.it

Napolitoday.it


IL COMPLESSO RELIGIOSO DI BONARIA A CAGLIARI

A cura di Ilenia Giglio

 

 

Introduzione del complesso di Bonaria

Il complesso religioso di Bonaria si trova a Cagliari, situato in cima al colle che sovrasta l’omonimo quartiere, uno dei più antichi della città, e il mare adiacente, rendendosi facilmente individuabile da diverse posizioni. Le origini e la sua storia costruttiva sono piuttosto travagliate e hanno trovato conclusione solamente in tempi recenti, esso difatti comprende vari corpi di epoche differenti: il santuario, la basilica, il museo e gli attigui spazi del parco e del cimitero monumentale.

 

La nascita del santuario di Bonaria e la leggenda sul suo simulacro

Per ripercorrere la storia del complesso di Bonaria è necessario partire dal XIV secolo, epoca in cui ebbe inizio il dominio Aragonese in Sardegna. Nel 1324 gli Aragonesi assediarono la città di Cagliari, tentando di sottrarla al potere pisano. Essi si stanziarono sul colle che prese il nome di “Bon aire” e qui costruirono una cittadella fortificata in cui ovviamente non poté mancare un luogo di culto, ossia una piccola chiesetta dedicata alla SS trinità e Santa Maria che nel 1337 venne donata da Alfonso IV all’ordine della Mercede. I frati mercedari vi si stabilirono costituendo un convento e risistemando la chiesetta che risulta essere il primo esempio di architettura catalano-aragonese nell’isola. Costituita da un’unica navata presenta una semplice facciata a capanna con ampio rosone centrale, internamente venne ideata una volta ogivale e furono realizzate delle cappelle voltate a crociera sui due lati: tre sul lato sinistro e quattro sul destro. Sul fondo dell’ambiente la zona presbiteriale risulta rialzata rispetto al piano di calpestio e termina con un’abside poligonale in cui si trova l’altare maggiore.

La sua trasformazione in santuario è legata a una leggenda che narra un episodio avvenuto nel 1370: un veliero partito dalla Spagna che navigava verso l’Italia fu colto da una violenta tempesta che costrinse l’equipaggio a gettare in mare il carico della nave al fine di alleggerirla, nel tentativo di riuscire a salvarsi. Compresa nel carico vi era una pesante cassa in legno su cui era posto lo stemma dei frati mercedari. Quando essa toccò le acque esse si placarono così come la tempesta e l’equipaggio si accorse con stupore che nonostante il grande peso essa continuasse a galleggiare. Tentarono dunque di recuperarla ma invano, la cassa continuò a sfuggire alla loro presa allontanandosi sempre più in direzione della Sardegna.

La mattina seguente venne ritrovata arenata nella spiaggia ai piedi del colle di Bonaria, molti tentarono di spostarla ma nessuno ci riuscì, fino all’arrivo dei frati mercedari che la sollevarono con estrema facilità e la portarono all’interno della chiesetta. Una volta aperta venne ritrovata al suo interno una statua lignea della Madonna con il bambino che venne collocata sull’altare maggiore.

 

Modifiche e ampliamenti del ‘700

Quando si sparse la voce del prodigioso arrivo, la Madonna e il piccolo santuario divennero meta di pellegrinaggi che aumentarono sempre più in seguito al racconto di alcuni miracoli avvenuti al cospetto del simulacro della Vergine. Il santuario in poco tempo divenne stracolmo di ex voto e ormai troppo angusto per poter ospitare un flusso di pellegrini tanto importante. Per tale motivo si decise dunque di costruire una chiesa più grande collegata all’antico santuario, per rendere possibile ciò si dovettero abbattere le quattro cappelle posizionate a destra per creare un’arcata che mettesse in comunicazione i due ambienti. La prima pietra venne posta nel 1704, sempre per volere dei frati mercedari ma la sua costruzione si protrasse a lungo nel corso dei decenni: già una prima interruzione si ebbe tre anni dopo con lo scoppio della guerra di successione al trono spagnolo che terminò nel 1720. All’epoca la Sardegna passò sotto il dominio dei Savoia con Vittorio Amedeo II che affidò la prosecuzione dei lavori della nuova chiesa all’architetto Giuseppe Viana. Tuttavia I progressi procedettero molto a rilento e furono nuovamente bloccati durante gli eventi rivoluzionari di fine 1700.

Nel secolo successivo inoltre subì dei rimaneggiamenti anche il santuario: venne innalzata una facciata bicromia in stile neogotico in cui fu inserito il portale trecentesco dell’ormai distrutta chiesa di S. Francesco in Stampace.

I lavori della chiesa maggiore ripresero solo nel 1910, conferendo le forme di ciò che ancora oggi è possibile ammirare nonostante alcuni rimaneggiamenti e restauri degli anni successivi. Essa si presenta in stile neoclassico: la pianta a croce latina è trinavata con ampio transetto e cupola ottagonale all’incrocio dei bracci.

 

La facciata in bianco calcare è divisa in due registri: quello inferiore scandito da coppie di lesene che incorniciano i tre portali e quello superiore, diviso da una cornice marcapiano con iscrizione è costituito da un attico dove tra colonnine classicheggianti è inserita la loggia delle benedizioni, sopra di essa nel timpano venne posto lo stemma dei frati mercedari.

 

Il suo luminoso interno prende luce da una serie di finestre aperte al di sopra del matroneo e risulta scandito da quattro ampie arcate a tutto sesto poggianti su colonne binate in calcare bianco con capitelli elaborati che separano le navate. La navata centrale è voltata a botte mentre le laterali sono coperte da quattro cupolette. Nelle navate laterali inoltre si aprono quattro cappelle a sinistra e altre tre a destra in cui sono raffigurate immagini della Madonna: La Madonna del Rosario, la Madonna Immacolata, la Madonna Ausiliatrice, la Madonna Assunta, la Madonna di Fatima e il Santissimo Sacramento di Antonio Mura, la Madonna della Mercede di Gina Baldracchini e la Sacra Famiglia di Giuseppe Aprea, tutte dipinte tra il 1950 e il 1960

 

L’ampio transetto invece ospita la statua della Madonna del combattente di Francesco Ciusa, anch’esso presenta altre due cappelle per braccio: una dedicata al santissimo sacramento e l’altra alla Madonna della Vittoria o dei Caduti, ornata da un altare marmoreo in stile barocco.Nella zona presbiteriale l’altare maggiore è sormontato da un baldacchino composto da quattro colonne di marmo verde decorate in bronzo dorato e volute in marmo bianco, esso inquadra la grande tela centrale di Antonio Corriga.

 

 

I restauri contemporanei

La chiesa maggiore, pochi decenni dopo essere stata insignita del titolo di basilica minore per mano di Papa Pio XI, subì grossi danni per via dei bombardamenti della seconda guerra mondiale: nel 1943 venne distrutta la cupola, parte di una navata e gli stucchi e affreschi che la decoravano.

Con la pace ritrovata si attuarono le restaurazioni della basilica e degli spazi circostanti per mano dell’architetto Gina Baldracchini. Nel corso dei lavori il santuario venne riportato alle sue forme architettoniche originali attraverso l’eliminazione delle sovrastrutture gotiche, inoltre si decise di risistemare anche il suo interno rimuovendo l’enorme quantità di ex voto per cui si dovette trovare nuova sistemazione. Con tale finalità nel 1968 si decise di aprire un museo ancora oggi visitabile e composto da tre sale: nella prima sono conservati alcuni reperti archeologici rinvenuti sul colle di Bonaria, la seconda ospita un inestimabile raccolta di centocinquanta antichi modellini navali, ancore e le mummie di alcuni membri di famiglie nobiliari del ‘700, la terza e ultima stanza è quella dedicata al tesoro della basilica in cui vennero trasferiti tutti gli ex voto e gli arredi sacri, tra cui alcune offerte volute dai sovrani.

Ai restauri di questi anni si devono anche le risistemazioni delle aree circostanti: la scalinata e il piazzale adiacente, in cui sono state sistemate due state bronzee dello scultore Franco D’aspro che rappresentano una nave in balia dei venti e la Vergine di Bonaria, e infine il parco di Bonaria e il cimitero monumentale.

 

Il parco, una piccola zona verde nel cuore della città è molto suggestivo poiché coniuga la bellezza dei panorami all’interesse archeologico dato che al suo interno vi sono ancora testimonianze risalenti al periodo punico, quando il colle ospitava una necropoli. Il cimitero ottocentesco in cui non si praticano più sepolture dal 1968 si presenta invece come un museo a cielo aperto, in cui sono spesso organizzate visite guidate volte alla conoscenza delle memorie e del grande patrimonio che esso rappresenta per la varietà degli stili delle preziose sculture.

 

Altri restauri si resero necessari negli ultimi decenni del ‘900 per porre rimedio al decadimento delle strutture causato dall’umidità e dall’aria salmastra, essi restituirono alla città di Cagliari il gioiello che questo complesso mariano rappresenta da secoli.

 

 

 

Informazioni utili

È possibile visitare il santuario e la basilica dal lunedì alla domenica dalle 7:00 alle 11:30 e dalle 16:30 alle 19:30. Il museo segue l’orario continuato con ingresso libero. Per il parco e il cimitero monumentale: https://www.comune.cagliari.it/portale/page/it/parco_di_bonaria_nuovi_orari_di_apertura_al_pubblico_sino_al_28_febbraio_2021?contentId=NVT47276

 

 

 

 

 

Bibliografia

Pietro Leo e Padre Giuseppe Malchionna, Il Santuario e la Basilica di N.S. Di Bonaria. Società Poligrafica Sarda, Cagliari 1970.

Il santuario di N.S. di Bonaria restaurato, Cagliari, Società Poligrafica Sarda, 1960.

  1. Naitza, Architettura dal tardo ‘600 al classicismo purista. Nuoro, Illisso, 1992.

 

Sitografia

https://bonaria.eu/

https://www.sardegnacultura.it/j/v/258?s=18269&v=2&c=2488&t=1


L’ABBAZIA DI SANTA MARIA DI CHIARAVALLE DI FIASTRA

A cura di Arianna Marilungo

 

Un audace architettura romanica nel cuore delle marche: Santa Maria di Chiaravalle

Un po' di storia

L’Abbazia di Santa Maria di Chiaravalle (fig. 1) di Fiastra sorge nel comune di Urbisaglia (MC), antica città romana dal nome Urbs Salvia, tra le valli del fiume Chienti e del fiume Fiastra, nel cuore delle Marche ed alle pendici dell’Appennino centrale. Si tratta della chiesa di stile romanico più grande e sorprendente delle Marche nata nel XII secolo e retta dai monaci cistercensi che giunsero dalla lontana Lombardia insediandosi in questo spicchio di terra marchigiana.

 

La fondazione dell’Abbazia si deve all’opera del duca di Spoleto e marchese di Ancona, Guarniero II, che ebbe anche la premura di dotarla di un vasto territorio tra i fiumi Fiastra e Chienti. Secondo lo studioso Antonio Cadei, a cui si deve una delle analisi più puntuali dell’Abbazia di Fiastra, la costruzione della Chiesa è presumibilmente datata tra il 1142 ed il 1200: infatti, anche se venne consacrata nel 1173, nel 1196 non risultava ancora completata[1].

Sono state individuate cinque fasi costruttive nell’arco del XII secolo: tra il 1142 ed il 1145 è contenuto l’inizio dei lavori di costruzione che hanno interessato il blocco tra la zona del coro e l’innesto delle navate; a partire dal 1150 ebbe inizio la seconda fase che corrispose alla costruzione degli edifici della zona orientale; la terza fase edilizia iniziò a partire dal 1163 quando le fonti citano la presenza di maestranze estranee all’ordine e capeggiate da Alberico muratore ed i cui nomi sono incisi sui capitelli delle navate; la quarta fase riguardò la copertura delle navate che durò un decennio a partire dalla fine degli anni settanta; durante l’ultima fase, infine, si continuò a lavorare negli spazi del coro e del transetto con la costruzione della nuova volta del presbiterio e di quella della prima campata della navata centrale[2].

Da Chiaravalle di Milano giunsero a Fiastra ben dodici monaci che diedero avvio al carisma spirituale cistercense in terra marchigiana. La comunità ebbe un grande sviluppo: giunse ad ospitare circa cento fra monaci e conversi e venne dotata di numerosi fabbricati e terreni.

Sotto questo grande impulso il monastero ottenne la tutela imperiale e fu sottoposto direttamente alla Sede Pontificia conferendo all’abate numerosi vantaggi.

Nel 1422 Braccio da Montone, signore di Perugia e capitano di ventura, prese d’assalto l’abbazia saccheggiandola e demolendo le volte della navata e del transetto. Seguirono anni di decadimento: dal 1456 fu affidata in commenda e dal 1581 al 1773 fu concessa ai Gesuiti. I beni relativi all’abbazia furono affidati al marchese Alessandro Bandini da Camerino. Nel XIX secolo Sigismondo Bandini, figlio del citato marchese camerte, fece costruire un elegante palazzo sacrificando l’ala sud del chiostro e parte dell’ala orientale. Sigismondo Bandini morì senza eredi e l’abbazia venne trasformata in una fondazione che ancora oggi amministra il patrimonio custodendone anche il monumento[3].

 

L’architettura: i principi regolatori scelti da San Bernardo ed applicati a Fiastra

L’architettura esterna

San Bernardo (Fontaine-les-Dijon, 1090 - Abbazia di Clairvaux, 1153), fondatore dell’ordine cistercense, desiderava che i monaci vivessero una vita semplice, austera e priva del superfluo sia nella propria cella che nella mensa, ma nei momenti collettivi potevano godere di spazi più solenni e ampi, come è possibile notare nella Chiesa, nel chiostro, nella Sala del Capitolo e negli altri ambienti. Inoltre per San Bernardo l’arte era un mezzo per elevarsi a Dio, introducendo il monaco alla contemplazione della bellezza come meditazione spirituale che poteva coniugarsi anche con il loro stile di vita povero.

Tali direttive di umiltà e povertà furono pienamente soddisfatte nell’Abbazia di Fiastra, la cui architettura sintetizza ascesi spirituale e austera eleganza grazie alla sapiente composizione armonica degli spazi.

La chiesa venne costruita secondo lo stile romanico-borgognone.

La facciata della Chiesa (fig. 2), semplice nella sua imponenza e a salienti, è caratterizzata da un rosone e da un motivo trasversale di archetti ciechi a tutto sesto che si intrecciano tra loro formando altri archetti a sesto acuto. Si accede all’atrio antistante l’ingresso salendo sei gradini, di cui solo tre sono originali in marmo poiché al momento della costruzione il piano della strada antistante era più elevato. L’atrio è suddiviso in tre campate con volte che poggiano su colonne addossate ai muri terminanti con capitelli a motivi goticizzanti. Il portale d’ingresso è policromo ed ornato da tre pilastri e tre colonne con archi a tutto sesto. Prima della distruzione ad opera di Braccio da Montone la Chiesa era dotata di una torre campanaria, chiamata tiburio.

 

Lungo tutto il perimetro del muro esterno vi è un ricco fregio di archetti ciechi.

I muri esterni della navata centrale, ovviamente più alti di quelli delle navate laterali, sono ritmicamente ornati da monofore di stile romanico. Questo ritmo è similmente ripetuto nelle monofore dei muri esterni delle navate laterali. Il muro esterno dell’abside, invece, nonostante sia stato appesantito da costruzioni posteriori, conserva l’antico rosone originale.

La Chiesa è interamente costruita in laterizio. I portali, i capitelli, i rosoni ed altri ornamenti sono in pietra.

 

L’architettura interna

La Chiesa ha una pianta a croce latina a tre navate: la navata centrale presenta una copertura a travatura scoperta, mentre nella prima campata e in quella del presbiterio delle navate laterali sono rimaste le antiche volte a crociera, sopravvissute al saccheggio del 1422. Le navate sono divise da quattro grandi pilastri per parte, alternativamente quadrangolari e poligonali sormontanti da capitelli ornati (fig. 3).

 

Il presbiterio presenta una pianta quadrata fiancheggiato da quattro cappelle a pianta quadrata e voltate a botte.

Gli archi maggiori che dividono la navata centrale da quelle laterali sono sostenuti da pilastri formati da fasci di colonne, mentre i pilastri minori sono d’imposta agli archi delle navate laterali. Alle campate della navata centrale ne corrispondono due minori in ogni navata laterale. I pilastri maggiori che reggono le crociere della navata centrale, non arrivano a terra, ma si fermano a 2,40 m da terra e poggiano su un peduccio lapideo a forma di cono rovesciato arrotondato (fig. 4) e sono rafforzati anche da semicolonne addossate poste in diagonale. I pilastri minori, invece, sono quadrilobi caratterizzati da una semicolonna che parte da terra e termina tronca, dunque priva di capitello, all’altezza dei capitelli dei pilastri maggiori. I capitelli dei pilastri sono ornati da motivi floreali, agresti, arabescati, nastriformi e semplificazioni del corinzio scolpiti sulla pietra (fig. 6). Solo tre capitelli presentano motivi ornamentali diversi: il primo pilastro maggiore a sud reca scolpito il pesce eucaristico, il quarto pilastro a sud sul lato destro rappresenta la figura di un drago che inghiotte un serpente ed il corrispondente sul lato opposto rappresenta un uccello che si volge a tre gigli trifidi: possibile allusione al motivo principale dello stemma di Chiaravalle Milanese, di cui l’Abbazia di Fiastra era figlia[4].

 

Da un tempio pagano dell’antica Urbs Salvia proviene un’ara pagana (0,80x0,70 m) collocata alla base dell’attuale altare maggiore.

L’austerità della Chiesa è attenuata dal sapiente gioco di luce che entra dalle sedici monofore delle navate, otto per lato, e dai due rosoni.

Accanto all’Abbazia, sul lato destro, furono costruiti gli edifici abbaziali necessari per la vita comunitaria dei conversi e dei monaci: il chiostro, per la preghiera e la meditazione individuale, la Sala del Capitolo, per la lettura giornaliera di un capitolo della Regola di San Bernardo, per l’officio di atti penitenziali e per ricevere le istruzioni spirituali dell’abate, ed il refettorio[5] (figg. 7-8).

 

 

 

 

 

Note

[1] Paolo Piva, Marche romaniche, Jaca Book, Milano, 2003, pp. 121-123

[2] Marina Righetti-Tosti Croce, Architettura per il lavoro. Dal caso cistercense a un caso cistercense: Chiaravalle di Fiastra, Viella, Roma, 1993, pp. 97-98

[3] Paolo Piva, cit, p. 122

[4] Idem, pp. 131-133

[5] Otello Gentili, Abbazia di Chiaravalle di Fiastra, Herder, Roma, 1984, pp. 215-235

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

Otello Gentili, Abbazia di Chiaravalle di Fiastra, Herder, Roma, 1984

Paolo Piva, Marche romaniche, Jaca Book, Milano, 2003

Marina Righetti-Tosti Croce, Architettura per il lavoro. Dal caso cistercense a un caso cistercense: Chiaravalle di Fiastra, Viella, Roma, 1993


PINACOTECA RAMBALDI

A cura di Daniele Mennella

 

Introduzione

Sul crinale della collina che guarda verso il litorale ligure, tra Sanremo e Coldirodi, aggrappata al declivio, svetta la Villa Luca. Ubicata nel comune di Coldirodi, l’edificio custodisce gelosamente la collezione pittorica e libraria che Padre Stefano Rambaldi destinò al borgo natio.

 

 

Paolo Stefano Rambaldi

L’impetuosa ricerca della bellezza

 

Paolo Stefano Rambaldi, nato a Coldirodi nel Natale del 1803, appena adolescente, si trasferì nella vivace Firenze, capitale dell’arte e della cultura italiana durante i primi anni dell’800. Fervente attivista risorgimentale, per mezzo delle sue epistole entrò in contatto con le personalità politiche e culturali ottocentesche più influenti come Alessandro Manzoni, Vincenzo Gioberti e Silvio Pellico. Da sempre sensibile e attento agli sviluppi dell’arte figurativa ottocentesca, anche durante la sua prima giovinezza, raccolse un considerevole numero di dipinti. Fu però la carica di rettore del Seminario Maggiore di Piazza di Castello, che ricoprì dal 1841 al 1849 e il contatto con rilevanti circoli culturali come l’Accademia Valdarnese e la Società Promotrice di Belle arti, che gli permise di arricchire in modo considerevole la sua collezione. La fama da dissidente e i rapporti di amicizia stretti con Pellico e Gioberti, costarono tuttavia, al nostro, la rimozione dalla carica di rettore per mano degli Austriaci, che occuparono Firenze nel 1849. Visse da allora in una grave condizione di indigenza, non rinunciando ad acquistare e raccogliere morbosamente opere d’arte e pregiati manoscritti, come riportato nell’articolo pubblicato alla sua morte da ‘La Nazione’ di Firenze il 9 aprile del 1865:

«a forza di privarsi del necessario, spendendo in essi quanto a cittadino dovizioso parrebbe troppo».

La sua ferma volontà di donare i suoi beni artistici e librari al comune di Colla, oggi Coldirodi, è ben chiara nel suo testamento, dove dichiara inoltre che le tele e i manoscritti non potranno in futuro superare i confini della città natale. Il 18 giungo del 1865, la giunta comunale, riunitasi in assemblea straordinaria e sollecitata dal sindaco, decise di acquistare la raccolta del Rambaldi ed estinguere i debiti che infelicemente accompagnavano i beni.

 

La collezione pittorica

Le cento tele

 

Grazie all’inventario compilato dal pittore Alessandro Petrini, alla morte del Padre Rambaldi, riusciamo a risalire sommariamente al numero di tele possedute dal sacerdote durante l’acquisto da parte del comune di Coldirodi. Dopo la prima collocazione all’interno del palazzo del municipio e il furto delle tele sventato nel 1953, la collezione pittorica conta ad oggi cento opere. Dal 2006 la raccolta è custodita all’interno della suggestiva villa Luca. Appoggiata sul crinale della collina, la villa ospita nelle sue sette sale le opere pittoriche comprese tra il XV e il XIX secolo. Le ariose

sale, affrescate a grottesca dal pittore ligure Giovanni Morscio, guardando verso la baia di Ospedaletti, creano la possibilità di una affascinante commistione. Sembra, infatti, che il contesto storico artistico fiorentino che le opere rievocano si unisca con il panorama ligure di ponente, dove il Rambaldi ha vissuto gli anni della sua prima adolescenza. 

 

Grazie ad una importante campagna di valorizzazione e restauro, compiuta da Martino Oberto, intorno agli anni Sessanta del Novecento è possibile ad oggi apprezzare le tele in un ottimo stato conservativo. Tra le opere di argomento religioso, alle quali padre Rambaldi per sua vocazione era istintivamente legato, degne di nota

sono: San Sebastiano soccorso dalle Pie donne di Michele Rocca, la Sacra Famiglia di Fra Bartolomeo della Porta e la Santa Famiglia in faccende domestiche di Jacopo Vignali. Da considerare è anche l’attenzione di Stefano Rambaldi verso opere di stampo laico e borghese, raffiguranti principalmente nature morte e paesaggi, tra cui si annoverano alcune tele di Giuseppe Recco e di Carlo Markò

 

Madonna con Bambino Lorenzo di Credi  

Le gloriose maestranze fiorentine a Coldirodi

 

Esposta nella prima sala, che accoglie prevalentemente artisti toscani del Cinquecento, La Madonna con Bambino attribuita a Lorenzo di Credi, è considerata l’opera più antica della collezione Rambaldi. Realizzata probabilmente tra il 1475 e il 1480, restituisce la tecnica, le influenze e il prestigio che caratterizzavano l’affollata bottega di Andrea Del Verrocchio durante gli ultimi anni del Quattrocento. La Vergine è raffigurata all’interno di una stanza, intenta a reggere sulle ginocchia Gesù, al quale porge una ciliegia. Dal colore rosso vivo, il frutto potrebbe simboleggiare un rimando alla futura passione di Cristo. Sullo sfondo, oltre la finestra, si scorge un paesaggio collinare, dove campeggia, tra i folti alberi, un fiume. La monumentalità e la rigidità delle figure è chiara eredità del maestro fiorentino, Andrea del Verrocchio, ma è nella finezza dei volti, la luminosità dei colori e l’abilità nel panneggio che si nota la personalità artistica di Lorenzo di Credi.

L’influenza di Leonardo da Vinci, assiduo frequentatore della bottega, è riscontrabile nel paesaggio sfumato, eco della prospettiva aerea e nell’idea di legare dinamicamente le figure tramite la vezzosa contesa delle mani, acme e centro del dipinto.

 

Tentazioni di Sant’Antonio Salvator Rosa

La meravigliosa rappresentazione dell’orrore

 

L’indocile e ostinato pittore napoletano, Salvator Rosa, nelle tentazioni di Sant’Antonio, dipinge con estrema chiarezza e acuto ingegno l’orrore del maligno. La prima versione, dipinta dal Rosa per i granduchi di Firenze, conservata a Palazzo Pitti è databile intorno al 1646. Quella posseduta dal Rambaldi, realizzazione originale più tarda, presenta dimensioni ridotte e una resa più cupa e drammatica. In un luogo deserto e roccioso, Sant’ Antonio, intento a meditare, viene sopraffatto da un’orda di creature demoniache. Il santo, per contrastare l’orda di bestie, si torce vigorosamente sopra la stuoia, impugnando con forza una croce di legno. La resa della luce guida la composizione pittorica: in primo piano il teschio e un libro aperto, simbolo dell’attività meditativa appena interrotta e alle spalle di Sant’Antonio, risalta per le sue dimensioni, la creatura mostruosa ermafrodita. Il suo terrificante corpo è frutto dell’unione di vari animali: lo scheletro sembra ricordare un rapace in posizione eretta, il cranio ricorda quello di un cavallo con lunghe zanne di cinghiale, mentre, la sinuosa coda sembra quella tipica dei ratti. La distanza dalla tradizione figurativa, che ha come oggetto, le tentazioni di Sant’Antonio, raffigurate nel corso dei secoli da svariati artisti, rende la tela un unicum nel panorama artistico seicentesco.

 

 

 

Le immagini presenti sono state realizzata dall’autore dell'articolo

 

 

 

Bibliografia

Catalogo Pinacoteca Rambaldi di Coldirodi – Schede 1-70 ( numeri inventario : 56408-56477).

«Rivista Ingauna e Intemelia» 1958, I-II.

Perelli, M., Bragaglia, E., Grossi, T. (2006). Salvator Rosa: l'uomo, l'artista, l'antesignano. Italia: Antiga.

 

Sitografia

http://pinacotecarambaldi.it consultato il 25/07/2022

https://www.beniculturali.it/luogo/pinacoteca-rambaldi-villa-luca consultato il 26/07/2022

https://www.info-sanremo.com/pinacoteca-rambaldi.html consultato il 30/07/2022


NICOLA DI ULISSE DA SIENA: TRACCIA DI UN PITTORE TOSCANO NELLA MARCA D’ANCONA

A cura di Arianna Marilungo

 

 

Note biografiche su Ulisse da Siena

Il recupero della personalità artistica di Nicola di Ulisse da Siena è dovuto a importanti storici dell’arte che si sono impegnati nello studio delle sue opere e del loro legame con il territorio di appartenenza. Tra questi vi sono Federico Zeri, Roberto Longhi e l’erudito Romano Cordella, che hanno saputo ricostruire il percorso geografico, umano e artistico di questo importante pittore nonché creatore di una vivace bottega pittorica nel cuore dell’Italia: a Norcia, in Umbria.

È sconosciuta la data di nascita di Nicola di Ulisse da Siena attivo per tutto il secolo XV non solo in Umbria e in Toscana, ma anche nelle Marche e nell’Abruzzo. Già dal 1442 risiedeva stabilmente a Norcia, nell’attuale territorio della provincia di Perugia. Nello stesso anno assunse due commissioni che segnarono profondamente la sua carriera artistica: la decorazione della camera di Francesco Sforza nel castello del Girfalco di Fermo e la decorazione ad affresco della tribuna di Sant’Agostino a Norcia, in collaborazione con Bartolomeo di Tommaso, Andrea Delitio, Luca Alemanno e Giambono di Corrado. L’arte di Bartolomeo di Tommaso influenzò in maniera evidente la tecnica di Nicola di Ulisse soprattutto nella propensione a rendere i volumi attraverso un accentuato grafismo e nella linearità delle ornamentazioni[1]. Due anni dopo, ancora a Norcia, dipinse un’ancona per l’altare maggiore della Chiesa di San Benedetto, oggi perduta. La stessa sorte toccò ad un’altra sua opera, questa volta però a Siena: nel 1452, infatti, dipinse per il Palazzo Pubblico della sua città natale un’Assunta con angeli e santi che avrebbe dovuto decorare la residenza degli esecutori di Gabella[2]. Da questo anno tornò in quella che aveva già eletto sua residenza ufficiale, Norcia, ma intensificò gli incarichi soprattutto nelle limitrofe regioni delle Marche e dell’Abruzzo nel decennio 1460-1470. Queste due regioni, infatti, conservano molte sue opere, anche se il suo lascito artistico di maggior consistenza si trova in Umbria.

Non è noto con precisione quando morì, ma presumibilmente la morte lo colse tra il marzo del 1476, quando era impegnato a dipingere tre cappelle della pieve di Santa Maria a Norcia, e il 2 maggio 1477, quando la moglie risultava già vedova.

 

Il quadro di Sant’Andrea a San Ginesio

Una delle opere marchigiane più conosciute attribuite a Nicola di Ulisse da Siena è il Quadro di Sant’Andrea, conosciuto anche come Sant’Andrea e la battaglia tra Fermani e Ginesini [fig. 1]. Si tratta di una tempera su tavola presumibilmente datata attorno al 1463 e conservata presso la Pinacoteca Civica di San Ginesio, in provincia di Macerata. Attualmente, a causa delle lesioni subite dalla Pinacoteca a seguito del sisma del 2016, la Pala è esposta nell’Auditorium di Sant’Agostino, ex Chiesa di Sant’Agostino. La Pala fu pensata per questa stessa chiesa e, una volta ultimata, venne collocata nell’altare della seconda cappella di sinistra di giuspatronato della Comunità.

 

La tavola è stata commissionata proprio dalle autorità municipali di San Ginesio per ricordare un evento risalente al 1377: la vittoria dei ginesini all’assalto della città da parte dei fermani. Inoltre con quest’opera si intendeva rendere omaggio a Sant’Andrea, a cui tutta la comunità era molto devota poiché lo si riteneva protettore della città durante la già citata battaglia. In un manoscritto del XVI secolo si descrive così questo attacco:

“in una certa notte […] i Fermani […] inaspettatamente e senza farsi scorgere arrivando per la porta Brugiano al fine di occupare la fortezza e il colle lì prossimo, […] si erano proposti di mettere fuoco ad ogni cosa ma, saputosi il fatto e dato l’allarme, i Ginesini […] aggrediscono i nemici dispersi qua e là perché non pratici del luogo e li cacciano fuori dalla porta. Nella vicina pianura inizia la battaglia e, fatta una strage, essi sono respinti […]. E fu eretto un trofeo nella chiesa di S. Agostino, […] con la descrizione di quella circostanza, nella cappella di Sant’Andrea apostolo dal cui intervento i Ginesini affermano essere stati più volte protetti; ed ogni anno, con grande e pubblica solennità, essi riveriscono il suo altare” (da Armellini, 1994)[3].

È ipotizzabile che il fatto sia avvenuto diversamente: Fermo all’epoca era assoggetta dal tiranno Rinaldo da Monteverde e l’attacco contro San Ginesio potrebbe essere stato perpetrato da truppe mercenarie raccolte dal tiranno. Nel dipinto, infatti, mancano emblemi araldici e divise appartenenti a Fermo, al contrario lo stemma della città di San Ginesio, una squadra bianca su campo rosso, è ripetuto per ben cinque volte: sopra gli archi della porta e dell’antiporta delle mura, sul drappo pendente della tromba del soldato che si sporge da una torre, sullo scudo di un altro soldato situato sui camminamenti delle mura e sul vessillo impugnato da Sant’Andrea[4].

La scena si compone di due parti: quella superiore in cui è rappresentato il Santo apostolo protettore della città e quella inferiore in cui, al di là delle mura della città, imperversa la cruenta battaglia tra fermani e ginesini.

La fazione dei fermani è riconoscibile da una “M” sormontata da una corona raffigurata sullo scudo di un soldato, probabile allusione al tiranno Monteverde, che era a capo anche di Loro Piceno, piccolo borgo nemico di San Ginesio [fig. 2]. Altri soldati, invece, indossano dei turbanti e uno impugna una scimitarra, chiari simboli evocativi di mercenari stranieri [figg. 3 e 4]. Su due scudi dipinti di rosso campeggiano due cartigli, con motti e incitazioni in lettere gotiche: “memini” [fig. 5] e “non ti fidare e non sarai ingannato” [fig. 3]; su uno è raffigurata un’insegna guerresca e su un altro una “G” gotica minuscola al centro di una ghirlanda di rametti e foglie di alloro. La scena raffigurata è il momento decisivo della battaglia: i due schieramenti combattono senza posa e con molta forza [fig. 6].

 

Lo scontro tra le due fazioni è incorniciato dalle mura della città alternate da alte torri, porta urbica e antiporta, costruite con blocchi squadrati di pietra grigia, e percorse da strette feritoie per gli arcieri. Dagli spalti i soldati lanciano palle o tirano frecce con la balestra [figg. 7 e 8] incitati da un trombettiere e da un tamburino [fig. 9]. Le case, gli ospizi, le chiese con alti campanili cuspidati caratterizzano la città protetta da Sant’Andrea, raffigurato in atto benedicente ed identificato dalla scritta in latino a sinistra SCS ANDREAS[5][fig. 10]. Il Santo apostolo è ritratto frontalmente, come un’enorme icona che ricorda i monumentali mosaici ravennati di derivazione bizantina, con un mantello che ondeggia al vento in numerose pieghe e volute ed è affiancato da un angelo che sorregge una candela accesa, simbolo della vittoria dei Ginesini sui Fermani[6]. La ieratica fissità del Santo protettore di San Ginesio contrasta in maniera evidente con l’agitazione e la concitazione che caratterizzano la battaglia sottostante. La soluzione adottata al problema prospettico della scena ed il tono fantastico con cui viene raccontato lo scontro sono tutti evidenti richiami arcaizzanti che si affiancano agli elementi tipici del gotico fiorito – i caratteri delle scritture dei cartigli, la luminosità dei colori, il volo legnoso del panneggio della veste del Santo – presenti nella Pala.

 

Il pittore descrive accuratamente la città, riproducendo con fedeltà tutti i dettagli degli edifici, degli alberi all’interno del giardino e della donna vestita di bianco – la Fornarina – intenta ad infornare il pane e artefice della salvezza di San Ginesio: fu lei ad accorgersi dell’arrivo dei nemici e a dare per prima l’allarme dell’imminente attacco [fig. 11].

 

Questa pala d’altare è stata oggetto di numerose analisi stilistiche e critiche per le sue peculiarità derivanti dalla commistione di richiami arcaizzanti e tardo gotici riscontrabili nella resa dei dettagli naturalistici e nella precisa descrizione delle armature e dei cavalli in primo piano. In particolare i maggiori storici dell’arte italiana del XX secolo, tra cui spiccano Lionello Venturi, Federico Zeri, Antonio Santangelo e Pietro Zampetti, si cimentarono nell’analisi di questa pala per sciogliere il nodo circa il suo autore. Negli ultimi anni del secolo scorso, la critica concordò sull’attribuire la tavola a Nicola di Ulisse da Siena, sia per gli evidenti echi che richiamano la pittura senese che per i notevoli legami con l’arte miniaturistica da cui l’arte senese trasse origine. Questa tesi è avvalorata anche dalle intense relazioni politico-culturali intercorse tra il Comune di San Ginesio e la Repubblica di Siena per tutto il XV secolo.

Nel suo saggio dedicato al Quadro di Sant’Andrea pubblicato nel 1994, lo storico Luigi Maria Armellini propone una datazione agli anni attorno al 1463, quando Nicola di Ulisse si trovava a lavorare in Amandola (FM), vicino a San Ginesio, per la chiesa di Sant’Agostino[7].

 

 

 

 

Note

[1] https://www.treccani.it/enciclopedia/nicola-di-ulisse-da-siena_%28Dizionario-Biografico%29/

[2] Enrico Castelnuovo, Bruno Toscano (diretto da), Dizionario della pittura e dei pittori, Larousse Einaudi, Torino, 1992, p. 841

[3] Luigi Maria Armellini, Il quadro di Sant’Andrea: una battaglia in una tavola ginesina del 15 sec., Tipografia San Giuseppe, San Ginesio, 1994, p. 102

[4] Alessandro Marchi, Giulia Spina (a cura di), Il Quattrocento a Fermo: tradizione e avanguardie da Nicola di Ulisse da Siena a Carlo Crivelli, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2018, p. 114

[5] Alessandro Marchi, Giulia Spina (a cura di), Il Quattrocento a Fermo: tradizione e avanguardie da Nicola di Ulisse da Siena a Carlo Crivelli, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2018, p. 114

[6] Nadia Falaschini, La storica battaglia tra Ginesini e Fermani del 1377 nella tavola del secolo XV attribuita a Nicola di Ulisse da Siena, in Studia Picena: pubblicazione, Anno 2018, n. 83, Pontificio Istituto Marchigiano Pio XI, Istituto Teologico Marchigiano, Fano, pp. 51-60

[7] Luigi Maria Armellini, Il quadro di Sant’Andrea: una battaglia in una tavola ginesina del 15 sec., Tipografia San Giuseppe, San Ginesio, 1994, pp. 79-85

 

 

 

 

 

Bibliografia

Luigi Maria Armellini, Il quadro di Sant’Andrea: una battaglia in una tavola ginesina del 15 sec., Tipografia San Giuseppe, San Ginesio, 1994

Enrico Castelnuovo, Bruno Toscano (diretto da), Dizionario della pittura e dei pittori, Larousse Einaudi, Torino, 1992

Nadia Falaschini, La storica battaglia tra Ginesini e Fermani del 1377 nella tavola del secolo XV attribuita a Nicola di Ulisse da Siena, in Studia Picena: pubblicazione, Anno 2018, n. 83, Pontificio Istituto Marchigiano Pio XI, Istituto Teologico Marchigiano, Fano, 2018

Alessandro Marchi, Giulia Spina (a cura di), Il Quattrocento a Fermo: tradizione e avanguardie da Nicola di Ulisse da Siena a Carlo Crivelli, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2018.


IL DUOMO DI LARINO

A  cura di Marco Bussoli

 

La cripta di sant’Adamo

Nel territorio molisano pochi monumenti, tra quelli più studiati, presentano una pluralità di caratteri tale da renderne così complessa e affascinante un’analisi anche solo superficiale come nel caso della Cattedrale di Larino.

La città di Larino, di fondazione romana, fu sin dai primi secoli dopo la nascita del cristianesimo uno dei centri dove questo trovava numerosi proseliti, come dimostra il martirio dei fratelli Primiano, Firmiano e Casto avvenuto nel 303 d.C. a seguito di un editto di Diocleziano. Questa presenza religiosa continuò ad essere forte nei secoli successivi, fino a quando nel 668 è documentata l’istituzione della Diocesi; questa, doveva quindi essere accompagnata dalla presenza di un edificio chiesastico, di cui non si conoscono però fondazione e collocazione, sebbene alcune ipotesi siano state avanzate.

 

Come documentato dall’iscrizione sul portale della cattedrale la sua costruzione fu ultimata nel 1319, quando era Re Roberto d’Angiò, papa Giovanni XXII e vescovo della città Raone.

SI PRAESENS SCRIPTUN PLANE VIDEBIS, TEMPORA NOSTRAE LOCATIONIS HABEBIS A.D. MCCCXIX ULTIMO IULII IN CHRISTO, PONTIFICATUS DOMINI NOSTRI IOANNIS P.P. XXII ANNO III. REGNORUM SERENISSIMI REGIS ROBERTI ANNO XI. SUB PRAESULATU RAONIS DE COMESTABULO HUIUS CIVITATIS OMNIBUS MEMORIA FUIT

Tutti questi riferimenti istituzionali, comuni a numerose iscrizioni medievali, non sono rari ed hanno il compito di rendere più concreta e importante la data, che in questo caso indica la fine del cantiere di costruzione, iniziato sicuramente durante il secolo precedente.

 

La chiesa e la sua struttura

Il duomo di Larino presenta caratteri ricorrenti nelle chiese molisane del basso medioevo, con una a tre navate, priva di transetto, come accade anche nel vicino duomo di Termoli. Ciò che, però, in questo caso cambia è la facciata, che non presenta più riferimenti alle chiese della vicina provincia di Foggia, come accade ad esempio a Termoli, in cui i richiami alle cattedrali pugliesi sono lampanti, ma si adopera un modello diverso, quello abruzzese della facciata quadrata. Il modello cui Ada Trombetta si riferisce per istituire dei confronti è quello della chiesa di Santa Maria Maggiore di Lanciano (CH) che presenta, a suo dire, una simile scansione della facciata, sebbene questa non sia così ravvisabile: se il confronto si basa solo sulla presenza di un portale fortemente strombato e su un grande oculo presente sopra di esso, questo può essere esteso a numerosissimi edifici. Il pannello rettilineo della facciata con la sua scansione orizzontale può invece confrontarsi con modelli abruzzesi più lontani, fortemente rielaborati in questa opera, in cui i lapicidi molisani hanno usato il loro linguaggio adattandolo a questa nuova sintassi.

 

Una volta entrati nell’edificio si ha da subito la sensazione che lo spazio non sia regolare e osservando la controfacciata si può notare come questa sia inclinata e non perpendicolare alle navate; prolungando l’osservazione si noterà che le campate ai lati della navata principale non sono simmetriche, questo in conseguenza al disassamento della facciata. I motivi di una tale soluzione possono ricercarsi nel possibile riutilizzo strutture di fondazione già presenti sul luogo, che hanno portato alla scelta di avere la facciata inclinata, in questo modo si riusciva a fare economia sul cantiere e riuscendo anche a risparmiare del tempo. Considerato questo è facile comprendere come le navate laterali siano essere coperte da volte a crociera, mentre quella principale sia chiusa dalle capriate, dato che non sarebbe stato possibile impostare delle volte regolari sulle campate non corrispondenti. Gli slanciati pilastri presentano tra di loro un’importante differenza: mentre i quattro pilastri più prossimi all’altare sono quadrati e ribattuti da parasta solo verso l’interno, i quattro successivi sono cruciformi, più elaborati e scolpiti, fino ad arrivare al pilastro dispari che sembra essere una fusione tra questi due. L’ipotesi più convincente, avanzata anche da Trombetta, è quella che la costruzione sia stata affrontata in due tempi diversi, con una prima fase del cantiere in cui è stata edificata l’area presbiteriale e l’inizio delle navate, in cui i pilastri sono ancora paralleli, e in un secondo momento, alla ripresa dei lavori, siano stati costruiti gli altri pilastri e si sia quindi ultimata la costruzione.

 

La facciata

Come già accennato, la facciata della Cattedrale di Larino prende a modello le facciate quadrate abruzzesi e le elabora con un linguaggio scultoreo molisano. Questa è divisa in due fasce da una cornice modanata che separa la parte bassa, caratterizzata dal portale, da quella alta in cui si aprono il rosone e le due finestre che lasciano intravedere il cielo retrostante.

 

La parte bassa del fronte è in piccoli blocchi di pietra squadrati ed è decorata solo dal grande portale. Questo riprende in modo fedele i corrispondenti portali abruzzesi, quello di Lanciano in particolar modo, seppure a tratti sia ben leggibile la diversa esecuzione. Lo pseudo-protiro, che poco viene fuori dalla facciata sebbene essa sia molto scavata, si apre con due fasce più ampie in cui delle esili colonnine scolpite sorreggono due leoni che sembrano poi, salendo, sorreggere l’intera struttura; andando verso il centro inizia il susseguirsi di fasce rientranti alternate a colonnine scolpite ed interrotte da pseudo-capitelli, delle cerchiature in pietra scolpite, che non solo ornano le parti verticali, ma continuano anche nell’ogiva dell’arco. In corrispondenza dei leoni, sopra il capitello, sono presenti due grifoni a sorreggere il coronamento dell’elemento d’ingresso, chiuso a tetto. La lunetta non è composta da un unico elemento lapideo decorato, ma è parte del paramento murario in cui si incastonano le tre figure della Crocifissione, meno dinamica delle decorazioni del protiro e più acerba stilisticamente.

 

La parte alta della facciata è invece caratterizzata da tre elementi: le due bifore e il rosone. Le bifore sono strombate, incavate, nella parete in modo simile all’ingresso, con tre fasce modanate che scavano nella muratura ed una raffinata decorazione negli elementi più interni; a chiudere queste aperture, esternamente, tornano gli elementi rettilinei, qui sorretti da delle teste, decorati con motivi floreali.

 

Il rosone è l’unico elemento profondamente pugliese nel fronte, molto decorato ma poco rilevato, come nelle cattedrali della Capitanata o in quella di Termoli, decorato anch’esso dalla chiusura rettilinea modanata, sorretta in questo caso da animali, sulla cui sommità si erge una scultura di San Pardo, titolare della chiesa e patrono del centro molisano, mentre al di sotto delle fasce floreali altre figure, tra cui l’agnello crucifero, sono presenti.

 

Il Campanile ed il portale secondario

Sulla destra della chiesa, eretto su di un grande arcone in blocchi di pietra, si erge il campanile, eretto, come riportato da un’iscrizione, nel 1451 dal maestro Giovanni da Casalbore. La torre campanaria, sprovvista dei fastosi apparati decorativi del fronte, è caratterizzata dalla divisione in tre fasce del suo corpo, che incorniciano un tamponamento in muratura finemente ordita a spinapesce.

 

Superato l’arcone sulla sinistra si può vedere il portale secondario dell’edificio, anche questo decorato, ma più severo di quello principale, mancando qui le numerose fasce decorate e la profondità della strombatura.

 

L’interno della chiesa

L’interno dell’edificio ha un carattere austero nella bicromia degli elementi architettonici in pietra e nel bianco dei paramenti murari, in cui si inseriscono una serie di pale con soggetti sacri, originariamente, però, il suo aspetto doveva essere totalmente diverso, come dimostrano le poche tracce superstiti.

 

Una serie di restauri tra ottocento e novecento hanno totalmente riconfigurato l’apparato decorativo della chiesa, eliminando tutte le coloriture e coprendo gli affreschi presenti. Durante i lavori del 1952 il fortunato ritrovamento di alcuni lacerti di affreschi nella navata destra ha permesso di immaginare come l’intero edificio potesse realmente essere nei secoli precedenti. La pittura ritrovata, seppure rovinata dalla copertura di intonaco che l’ha conservata raffigura Sant’Orsola con le vergini ed altri santi; sulla volta costolonata, invece, dei motivi vegetali incorniciano angeli e figure umane, sebbene i resti siano davvero di ridotte dimensioni. Altri lacerti di colore sono tuttora presenti sui paramenti in pietra e per quanto poco visibili possono dare indizi sull’originaria decorazione della chiesa.

 

 

 

Le foto sono state scattate dal redattore.

 

 

 

Biblioteca

Maria Stella Calò Mariani, Termoli e Larino, due cattedrali, Roma, 1979.

Luisa Mortari, Molise, appunti per una storia dell’arte, De Luca Editore, Roma, 1984;

Ada Trombetta, Arte nel Molise attraverso il medioevo, CARIMMO, Campobasso, 1984;