LA CATTEDRALE DI CATANIA

A cura di Mery Scalisi

 

Dalla lunga Via Etnea, cuore di Catania, strada principale di circa 2.8 km (partendo dal Tondo Gioeni nella parte alta), attraversando tutta la zona centrale della città si arriva fino a piazza Duomo, nella cosiddetta parte bassa, la piazza principale della città, nella quale convergono tre strade: Via Etnea, Via Giuseppe Garibaldi e Via Vittorio Emanuele II. (fig. 1, 2)

 

Di ragguardevole importanza, gli edifici che si affacciano sulla suddetta Piazza sono: Palazzo degli Elefanti, che ospita il Municipio, la suggestiva fontana dell’Amenano e al centro, poi, il simbolo della città, u Liotru (l’elefante), in basalto nero e sormontato da un obelisco collocato al centro della Fontana dell’Elefante. Un elefante, simbolo della cittadina etnea, rivolto con lo sguardo proprio all’edificio più importante di Catania, la maestosa Cattedrale dedicata alla Patrona della città, Sant’Agata, principale luogo di culto cattolico per la città, chiesa madre dell’arcidiocesi metropolitana e sede della stessa parrocchia (fig. 3).

 

Fatta edificare dal Conte Ruggero, tra il 1078 e il 1093, nel cuore della città, tra il vecchio porto arabo e il foro romano (oggi piazza Duomo) in un’area archeologica di epoca romana, l’edificio prenderà vita sopra appunto un impianto termale del secondo secolo d.C., le Terme Achilliane, così da mettere in atto la pratica costantiniana che vedeva i luoghi pagani trasformati in luoghi di culto cristiano.

La storia della Cattedrale è chiaramente presente nella stessa architettura, nella quale è possibile notare la fusione di diversi stili, quali normanno, aragonese, barocco e neoclassico: un’opera d’arte

vera e propria, un monumento storico, segno visibile della fede del popolo catanese, che nasce nel cuore pulsante della città. Nella magnificenza con cui questo edificio medievale si presenta, destinato a luogo di culto, è possibile notare come i suoi edificatori si siano impegnati a regalare uno spazio sacro in cui una volta entrati Dio risulta essere tra le persone.

La sua inaugurazione, in presenza di un Ruggero soddisfatto e del vescovo benedettino Angerio (quest’ultimo giunto dal monastero dell'Ordine benedettino di Sant'Eufemia e nominato vescovo della ricostituita diocesi della città proprio dal sovrano normanno) avverrà nel 1094 con la presenza del popolo catanese festoso ed emozionato.

Dal momento della cerimonia di inaugurazione, nel corso degli anni, le sorti della Cattedrale, che si presentava maestosa e con un importante e isolato campanile dietro le absidi (tra il 1867 e il 1869 l'architetto Carmelo Sciuto Patti realizzò l'attuale campanile e la lanterna della cupola), hanno subito varie vicissitudini, tra queste il catastrofico terremoto del 1169, poi l’incendio del 1194.

In origine l'interno presentava imponenti colonne di granito, con capitelli, fregi e ornamenti la cui svariata lavorazione indicava la diversa provenienza e il riutilizzo di parti di templi pagani e rovine romane.

Al momento dell’inaugurazione, la Cattedrale presentava diverse porte; le principali dovevano essere due, di ridotte dimensioni, piuttosto modeste, per permettere un adeguato ingresso al flusso dei devoti che vi si recava, ma disarmoniche rispetto al resto dell’architettura, rispettivamente una sulla parete nord, di fronte l’attuale Via Vittorio Emanuele II, l’altra, il portale delle scimmie, in marmo e risalente al XIII secolo, sola nel prospetto, oggi abbellisce l’ingresso della Chiesa Sant’Agata al Carcere.

É importante ricordare che tutte le limitazioni in cui si troverà a sorgere la Cattedrale nascono dal periodo storico in cui essa viene edificata, un momento incerto in cui, reduci dalla violenza Saracena, la Cattedrale viene pensata come fortezza, con un sistema di difesa che al suo esterno la vede proteggersi con un antemurale merlato e feritoie con camminamenti, in cui i soldati del Conte sorvegliavano attenti. Anche l’interno si adegua al periodo in cui viene edificata: le navate laterali erano prive di altari secondari, ammessi solo nel XV secolo.

Le navate, tre, erano separate da due file di colonne di granito fino al 1693, anno del disastroso terremoto che colpì anche la Cattedrale, che nella sua ricostruzione, nelle mani di Palazzotto, conosciuto anche come Fra Liberato, furono sostituite da pilastri.

Nel continuare gli interventi di riedificazione della Cattedrale dopo il disastroso terremoto, l’architetto Vaccarini, servendosi di sei delle originarie colonne di granito, decide di intervenire nell’arricchimento della prima zona del prospetto barocco.

L'edificio attuale, riedificato nel 1711, è opera dell'architetto Gian Battista Vaccarini che ne disegnò la facciata in stile barocco siciliano.

Da ovest (con tre portali, uno maggiore centrale e due minori ai lati) si può ammirare la facciata principale, con i suoi 36,50 metri di larghezza per 38 metri di altezza. Attraverso una breve scalinata in marmo di Taormina, che termina in una cancellata in ferro battuto ornata con santi in bronzo, si arriva al sagrato, diviso dal resto della  piazza da una balaustra in pietra bianca ornata con cinque grandi statue di santi in marmo, S. Saverio, S. Giacomo, S. Sesto, S. Attilio, Beato Bernardo Scammacca, e su via Vittorio Emanuele altre quattro statue, S. Rosalia, S. Lucia, S. Attanasio (vescovo catanese), S. Leone da Ravenna (vescovo catanese). (fig. 4, 5, 6, 7, 8)

 

Il prospetto si presenta su tre ordini sovrapposti, in stile corinzio, e attico in marmo di Carrara: nel primo ordine sono presenti sei colonne di granito di antica lavorazione provenienti forse dal Teatro Romano, sopra le quali è visibile lo stemma della famiglia Galletti, cui apparteneva il vescovo Pietro Galletti, e due grandi finestre ovali ai lati, accompagnate da due acronimi riferiti alle frasi legate al culto della Santa: MSSHDEPL e NOPAQVIE. Al secondo ordine si notano sei colonne, meno grandi, e due piccole poste ai lati dell'ampio finestrone centrale, con la statua marmorea di Sant'Agata fra gli angeli, al centro, sopra il portale d’ingresso, con ai lati le statue di Sant'Euplio a destra e San Berillo a sinistra, poi otto putti disposti simmetricamente fra il primo e il secondo ordine e  un ultimo gruppo di angeli al vertice, esattamente ai piedi della Croce pontificale.

Il nuovo portale d’ingresso, in legno, risalente al 1738 e realizzato dall’architetto Giovanni Battista Vaccarini, è diviso in 32 formelle, finemente scolpite e ospita stemmi, simboli e motti riguardanti i fondatori della Cattedrale, Papi, Vescovi e richiami alla protezione della Santa Patrona Agata; ai lati della porta centrale, su due alti supporti, sono poste le statue in marmo di san Pietro e san Paolo (fig. 9, 10, 11).

 

La pianta della Cattedrale è a croce latina. Il corpo principale, dal portale al fondo dell’abside, misura 96 metri di lunghezza per 12 metri circa in larghezza, mentre il transetto, si presenta come un rettangolo di 40,5 m per 12,20. (fig.12, 13)

 

Alzando lo sguardo è visibilela volta, ad un’altezza di 26 metri, in pietra, il cui spessore è di 60 cm, e risulta essere ancora quella costruita da Palazzotto nel ‘700; questa, durante una serie di restauri nel 1958, fu privata degli stucchi e rimase priva di rivestimento, presentandosi agli occhi dell’osservatore quasi come un imponente residuo post-bellico.

Lungo tutta la Cattedrale corre il fregio arabesco, su lesene scanalate, una scultura in pietra bianca calcarea proveniente dall’area siracusana (fig.14).

 

In entrambe le navate laterali sono presenti imponenti pale d’altare, in importanti e monumentali cornici in stile barocco di legno scolpito e dorato.

Nella navata di destra, sotto il secondo arco, si trova un monumento marmoreo, opera dello scultore fiorentino Giovanni Battista Tassara, che si eleva sulla tomba del cigno catanese Vincenzo Bellini, celebre compositore di opere liriche, scomparso prematuramente a Puteaux, in Francia, e a Catania rientrato nel settembre del 1876 (fig.15). Continuando lungo la navata destra, alla fine di questa si trova la Cappella della Santa Patrona Agata, il cui ingresso è sbarrato da un cancello, che per quanto si mostri finemente decorato e intagliato, si presenta più come una protezione, dentro la quale le reliquie della Vergine Martire, custodite in diverse teche d’argento, sono conservate nella cosiddetta cammaredda (cameretta) a sinistra (fig.16).

 

La navata di sinistra ospita quattro monumenti funebri dedicati vescovi di Cataniapoi, alla fine di questa, si può vedere la Cappella del SS. Crocefisso, opera di Domenico Mazzola, non molto luminosa e contenente un grande crocifisso attorniato da due statue della Madonna Addolorata e di San Giovanni, una Via crucis e monumenti sepolcrali di alcuni esponenti della casata aragonese (fig.17).

 

La navata centrale, dal suo ingresso, termina con un’abside normanna, coperta con volta a botte ogivale e terminante con una parete semicircolare, decorata da un ciclo di affreschi, opera del pittore romano Giovanni Battista Corradini, commissionato da Innocenzo Massimo e risalente al 1628. L’opera vede protagonisti i santi patroni della città di Catania, con San BerilloSant'EuplioSanto Stefano protomartire nei quadroni del catino absidale e Sant'Agata, la cui "Incoronazione" è raffigurata al centro della calotta absidale. Due colonne a sorreggere l’arco absidale e la monofora ogivale, in asse e chiusa da vetrata, continuano a ricordare l’epoca normanna (fig.18, 19).

 

Un coro ligneo barocco conclude la parte legata all’abside seguendone il perimetro; realizzato dallo scultore napoletano Scipione di Guido, commissionato dal vescovo Giovanni Corrionero alla fine del XVI secolo, comprende anche la cattedra all'estrema destra, il cui ordine superiore è costituito da 34 stalli decorati a bassorilievo, nei quali vengono riprodotte scene raffiguranti la vita, il martirio di Sant'Agata e i momenti della traslazione delle reliquie da Costantinopoli a Catania.

Il presbiterio, preceduto da una rampa di scale che lo delimita sulla parte anteriore, ospita, in posizione avanzata, l’altare maggiore e l’ambone (tribuna rialzata che nelle prime chiese cristiane serviva alla lettura dell'Epistola e del Vangelo, oggi podio con leggio da cui si tengono le letture bibliche e omelie), realizzati nel 2000; l'antico altare, invece, in stile neoclassico si presenta in marmo policromo e si trova nella Cappella della Madonna del Rosario con accesso nel transetto di destra (fig.20).

 

L'attuale altare in bronzo versus populum, commissionato dal vescovo Luigi Bommarito allo scultore Dino Cunsolo insieme all'ambone e al porta cero pasquale, sostituisce il primitivo altare collocato attualmente nella Cappella della Vergine del transetto destro.

Nella parte opposta all’abside, nella controfacciata, si trova la cantoria (originariamente posizionata nell'abside centrale, alle spalle dell'altare maggiore) in stile neoclassico realizzata nel 1926 su progetto di Carmelo Sciuto Patti e dentro la quale si trova l’organo monumentale, commissionato dal cardinale Giuseppe Benedetto Dusmet all'organaro francese Nicolas Théodore Jaquot nel 1877 (fig.21).

 

La Cattedrale di Catania, per i catanesi rappresenta il luogo dell’anima in cui ritrovarsi a vivere la propria fede e i momenti che la avvicinano alla Santa Patrona; varcando il portale d’ingresso, infatti, la prima impressione che si ha è quella di sentirsi piccoli e persi nello spazio, nonostante la sua essenzialità, ma allo stesso tempo imponenza, è come se venissimo travolti dalla grandezza, prima ancora dell’edificio, di Dio stesso.

 

 

 

Tutte le foto presenti sono state scattate dalla redattrice

 

 

 

Bibliografia

Can. Domenico Reale, Guida alla Cattedrale di Catania, a cura di Mons. Mauro Licciardello

La Cattedrale di Catania, a cura dell’Ufficio per i Beni Culturali dell’Arcidiocesi di Catania, Edizione Arcidiocesi di Catania

Adolfo Longhitano, La parrocchia nella diocesi di Catania, prima e dopo il concilio di Trento, Studio Teologico S.Paolo, Catania Edizioni Grafiser, Troina (CT), 2017

Antonio Coco e Enrico Iachello (a cura di), Il porto di Catania, storia e prospettive, Arnaldo Lombardi Editore, Catania, 2003

Lucio Sciacca, La città, da Katana a Catania le lunghe radici, Cavallotto edizioni, Catania, 1980

Il tesoro di Sant’Agata. Gemme, ori e smalti per la martire di Catania, EAC Edizioni Arcidiocesi Catania, 2006


IL COMPLESSO MONUMENTALE DEI GIROLAMINI

A cura di Ornella Amato

 

 

Introduzione

Il Complesso Monumentale dei Girolamini o di San Filippo Neri è situato nel cuore del decumano maggiore della città di Napoli tra via Duomo e via dei Tribunali, ed è uno dei siti più grandi della città, formato dalla Chiesa con due chiostri ed annessa biblioteca, in via dei Tribunali e la Quadreria in Via Duomo.

La particolarità del suo nome è legata ad una “storpiatura” che ha dato il dialetto napoletano nel ricordare il primo luogo in cui si riunirono i seguaci di San Filippo Neri: la chiesa di San Girolamo della Carità a Roma, soprannominando “Girolamini” coloro che provenivano da tale chiesa e, di conseguenza, gli oratoriani di San Filippo Neri.

 

Pianta del complesso religioso dei Girolamini a Napoli

 

 

Legenda del complesso:

  1. Chiesa dei Girolamini
  2. Cappella di San Giorgio e San Pantaleone;
  3. Cappella di Santa Maria della Neve e Sant'Anna;
  4. Cappella di San Carlo Borromeo;
  5. Cappella di Sant'Agnese;
  6. Cappella di San Francesco d'Assisi;
  7. Cappella di San Francesco di Sales;
  8. Transetto sinistro - cappellone della Natività;
  9. Cappella di San Filippo Neri;
  10. Presbiterio;
  11. Cappella dell'Immacolata;
  12. Transetto destro - cappellone dei Santi Martiri;
  13. Crociera;
  14. Cappella di Santa Maria Maddalena dei Pazzi;
  15. Passaggetto;
  16. Cappella dell'Epifania;
  17. Cappella di San Girolamo;
  18. Cappella di San Giuseppe;
  19. Cappella di Sant'Alessio;
  20. Sacrestia;
  21. Oratorio dell'Assunta;
  22. Scalone d'ingresso al convento (da via Duomo);
  23. Chiostro piccolo;
  24. Chiostro degli aranci;
  25. Scale per i piani superiori;
    -Quadreria dei Girolamini;
    -Biblioteca dei Girolamini;
  26. Facciata di palazzo Seripando (su via Duomo)

 

L’area di Via Duomo: Chiesa, Chiostro e Biblioteca 

L'intera pianta della struttura si rivela complessa ed articolata date le enormi dimensioni per le quali tende ad estendersi da una strada all'altra della città.

La vastità del complesso ne ha consentito l’utilizzo per gli usi più diversi: infatti, durante i mesi immediatamente successivi il rovinoso terremoto che colpì la Campania il 23 novembre del 1980, a seguito del quale molte famiglie dovettero lasciare le loro abitazioni, l’edificio fu utilizzato come rifugio.

 

La Chiesa

Il cantiere della chiesa inizia nel 1590 su progetto di Giovanni Dosio, ma la facciata viene rifatta circa 150 anni dopo su disegno dell’architetto Ferdinando Fuga, che era stato chiamato a Napoli da Carlo di Borbone.

La Chiesa – oggi sconsacrata - e le sue strutture annesse, sono espressione del tardo manierismo e del barocco napoletano.

L'interno è un trionfo di marmi policromi, ori ed affreschi realizzati dai migliori esponenti della scuola napoletana, in particolare Luca Giordano, Bernardo Azzolino e Belisario Corenzio.

 

La Chiesa è a croce latina, divisa in tre navate con cappelle laterali, la pavimentazione è completamente in marmo policromo, con motivi esagonali che esaltano il bianco del marmo di Carrara; volgendo gli occhi al cielo, lo sguardo è folgorato dalle stuccature dorate del soffitto cassettonato, di cui ne risaltano la magnificenza.

Questo motivo si ripete anche nelle volte e nelle cupole che ricoprono le cappelle laterali che

sono arricchite da tele e opere scultoree, realizzate delle maestranze del ‘600 napoletano.

Al centro c’è il visitatore che si trova, pertanto, nel mezzo di una struttura che lo circonda e lo avvolge poiché nel suo silenzio assordante, tipico del barocco napoletano qui a “parlare a gran voce” è tutta l’arte in essa racchiusa, raccontando il ‘ 500, il ‘600 e il ‘700 napoletano.

 

La Sagrestia

Alle spalle dell'abside si trova la sacrestia con la volta affrescata e al centro l’affresco di San Filippo in gloria che, stando alla guida del Celano, è attribuita a Luca Giordano mentre le quadrature con gli angeli a Nicola Rossi; l'altare è di epoca settecentesca e, inizialmente, era stato concepito per accogliere alle sue spalle la tela dell'incontro tra Cristo e San Giovanni Battista di Guido Reni. Attualmente l'opera originale è conservata nella quadreria mentre sull'altare è stata sostituita da una copia.

La pavimentazione riprende i motivi del pavimento interno alla chiesa, mentre di notevole interesse è la porta dorata settecentesca, decorata con i simboli della Congregazione di San Filippo Neri: il giglio e la stella a otto punte.

 

I Chiostri

All'interno del complesso convivono due chiostri monumentali: il Chiostro Piccolo ed il Chiostro Grande.

Il Chiostro Piccolo è detto “della Porteria” ed è anche ricordato come chiostro piccolo maiolicato per la tipologia della pavimentazione; si trova all'interno della parte più antica del complesso e, probabilmente, era stato edificato nel giardino del palazzo nobiliare rinascimentale su cui poi successivamente è stata ricostruita l’intera struttura.

Il Chiostro Grande, invece, è detto così soprattutto per le grandi dimensioni rispetto al precedente, è di epoca più tarda (risalirebbe al XVI sec.) ed è caratterizzato dalla tradizionale architettura quadrangolare, circondata dalle finestre delle celle dei monaci; è detto anche “degli Aranci” per gli alberi di agrumi che vi si coltivano.

 

La Biblioteca

La Biblioteca Statale Oratoriana del Monumento Nazionale dei Girolamini, aperta al pubblico sin dal 1586, è la seconda biblioteca italiana per numero di libri, infatti conta una raccolta di circa 160.000 titoli, di cui oltre 100 sono incunaboli, oltre 5000 edizioni del ‘500, periodici e testi musicali.

È soprattutto legata a materie umanistiche, teologiche, filosofiche e musicali ed è la più antica delle biblioteche napoletane aperte al pubblico.

La biblioteca, in passato, purtroppo ha subito numerosi furti per diverse centinaia di volumi.

Attualmente non è visitabile poiché oggetto di un articolato restauro.

 

L’area di Via Duomo

La Quadreria

La Quadreria dei Girolamini è la pinacoteca del complesso.

Situata nella zona del Duomo, si è andata costruendo grazie alle committenze fatte dalla chiesa e alle donazioni ricevute da privati nel corso del tempo; si trova all'interno del complesso ed è accessibile sia dal chiostro grande che da via Duomo.

Il catalogo della quadreria è ricchissimo di nomi di pittori attivi negli anni del barocco napoletano: in origine la sua sede era la sacrestia dietro l'abside della chiesa, attualmente è allestita al primo piano del convento.

 

Battistello Caracciolo, Luca Giordano e la sua bottega, Guido Reni, Ribera, Santafede, Francesco Solimena, Massimo Stanzione, Andrea Vaccaro, sono solo alcuni dei nomi presenti nel catalogo della pinacoteca che, nella sua ricchezza, correda e soprattutto completa un complesso dalle mastodontiche dimensioni, inserito del tessuto urbano di cui è diventato parte integrante.

 

 

 

Sitografia

sites.google.com/monumentonazionaledeigirolamini

napolike.com

bibliotecadeigirolamini.beniculturali.it

beniculturali.it/luogo/complesso-dei-girolamini

https://www.artribune.com/arti-performative/cinema/2020/12/sky-arte-furto-biblioteca-girolamini-napoli/


IL “CRISTO DELLA DOMENICA”

A  cura di Alessia Zeni

 

Un esempio a Tesero in Val di Fiemme

L’iconografia de il “Cristo della domenica”

Una singolare e alquanto rara immagine è la raffigurazione de il Cristo della domenica che ha preso piede tra il Trecento e il Cinquecento fra le popolazioni dell’area alpina. Un’immagine che si diffuse nel nord Italia, nel centro Europa e nell’area meridionale dell’Inghilterra compreso il Galles, per ammonire i credenti sul lavoro domenicale e garantire loro un posto in Paradiso. Una diffusione così ampia da assumere una propria terminologia a seconda delle aree geografiche entro le quali si è sviluppata, come nel caso di Feiertagschristus in area tedesca. Le immagini corrispondenti a questa iconografia giunte fino a noi sono poco più di una sessantina, ubicate prevalentemente nelle aree a ridosso dell’arco alpino centro-orientale (Austria, Germania, Italia settentrionale, Svizzera, Repubblica Ceca e Slovenia)[1].

 

 

Si tratta di una raffigurazione dal significato molto forte perché ricordava al fedele il divieto di lavorare la domenica e di rispettarla come giorno di preghiera e di riposo, poiché anche Dio risposò il settimo giorno della creazione. Prevalentemente dipinta sulle pareti esterne delle chiese, esposte alla vista dei fedeli, ai quali si presentava l’immagine di un Cristo della Passione, nudo con il solo perizoma, sofferente e trafitto, non dai chiodi della crocifissione, ma dagli strumenti impiegati nelle attività lavorative quotidiane. In queste immagini il Cristo è presentato con una lunga serie di arnesi da lavoro, oggetti sia maschili che femminili (l’aratro, la zappa, recipienti ecc.), ma anche con piccole scene ad illustrare ciò che non si deve e si può fare nel giorno del riposo e della preghiera.

L’origine di questa raffigurazione ha radici nel cuore del Cristianesimo, quando prese piede l’immagine di Cristo con l’Arma Christi, ovvero con gli strumenti della Passione. Nel tempo i simboli torturatori della Passione di Cristo (chiodi, lancia, spugna) vennero trasformati in oggetti quotidiani da lavoro per colpire e martirizzare il corpo nudo di Cristo che subiva così una seconda crocifissione. Un’immagine che è andata scomparendo dopo il Concilio di Trento che imponeva un maggiore rigore nella realizzazione delle immagini sacre e con la Controriforma che riteneva le immagini devozionali irrispettose nei confronti della vera fede. In questo nuovo contesto il “Cristo della domenica” veniva interpretato come immagine popolaresca e oltraggiosa all’immagine santa di Cristo, tanto da determinare la distruzione di molte di queste raffigurazioni, a favore di soggetti in grado di elevare meglio l’anima di Dio. Le poche che si sono salvate è stato per negligenza di qualche parroco locale che non applicò le nuove direttive dei vescovi, coprendo o distruggendo queste immagini[2].

Tra il Trentino e l’Alto Adige si contano pochissimi esempi, l’immagine più bella e meglio conservata in regione è sicuramente il Cristo della domenica della chiesetta di San Rocco a Tesero, in Val di Fiemme, nel Trentino orientale.

 

La chiesa di San Rocco a Tesero

 

La chiesetta di San Rocco si trova nel centro del paese di Tesero, sullo stesso sagrato della vicina parrocchiale di Sant’Eliseo e sarebbe stata costruita come cappella dell’attiguo cimitero. È stata edificata nel 1528 per voto formulato durante la peste del 1515, anche se in merito non ci sono documenti che lo comprovano, ma la sola dedicazione a San Rocco, santo protettore contro la peste[3]. Venne consacrata il 25 ottobre 1538 da monsignor Vicenzo Negusanti, suffraganeo del principe vescovo Bernardo Clesio con un altare dedicato ai Santi Rocco e Alessio che porta la pala del 1613 di autore ignoto con la Santa Vergine e i Santi Rocco ed Alessio[4].

 

 

È orientata a nord-est e presenta una facciata a capanna interamente affrescata, preceduta da una tettoia murata sul lato sinistro e aperta sul lato destro, sotto la quale si aprono un portale e due finestre rettangolari. L'interno è ad aula unica con presbiterio rialzato e sormontato da una volta reticolata e affrescata.

 

La chiesa presenta affreschi sia interni che esterni e proprio questi hanno reso celebre questa antica cappella; in particolare è l’affresco de il Cristo della domenica, dipinto a grandi dimensioni sulla facciata dell’edificio che ha contribuito a diffondere la storia di questa chiesetta (Fig. 5). Sulla facciata della cappella un primo frescante dipinse nel 1541 il riquadro a sinistra dell'ingresso, ovvero una Madonna in trono con Gesù Bambino in piedi sulle sue ginocchia, il committente e il Simonino da Trento (Fig. 6). Secondo la data posta in alto a destra della facciata, un secondo frescante intorno al 1557 avrebbe decorato l’Annunciazione (Fig. 5 e Fig. 7) e lo stesso potrebbe aver dipinto tutto il rimanente della facciata: i due affreschi del muro laterale di sinistra raffiguranti la Resurrezione (Fig. 8) e Gesù nell’orto degli ulivi, l’affresco in basso a destra che rappresenta la Pietà (Fig. 7) e il grande Cristo della Domenica[5].

 

Sempre nel 1541, il medesimo frescante ebbe la committenza di affrescare la volta del presbiterio con la decorazione delle vele: la Madonna incoronata col Bambino, il Dio Padre in gloria e i simboli dei quattro evangelisti (Fig. 3). Infine, sulla parete di fondo, a forma di ampia mezzaluna, il pittore raffigurò una sacra composizione sullo sfondo di un paesaggio alpino ricco di montagne: il Cristo crocifisso con ai lati la Madonna e san Giovanni, San Valerio vescovo e San Rocco con un angelo e il cane che ha in bocca il pane, San Valentino che risana un bambino e San Sebastiano (Fig. 3)[6].

 

Il “Cristo della domenica” di Tesero

 

Il Cristo della domenica affrescato sulla facciata principale della chiesetta di San Rocco a Tesero è una delle raffigurazioni meglio conservate nel Trentino e nel territorio dell’arco alpino, dipinta a grandi dimensioni per ricordare ai fedeli che entravano nel cimitero o si recavano nella parrocchiale di Tesero il precetto di rispettare la domenica come giorno di preghiera e di riposo. Un affresco molto grande e ancora oggi ben visibile per chiunque giunga dalla strada principale, sottostante al sagrato della chiesetta.

Per richiamare il fedele a rispettare la domenica, il pittore che dipinse questo affresco presentò il Cristo con una lunga serie di oggetti e di persone che illustrano ciò che non si deve fare o usare la domenica ed alcune immagini che illustrano ciò che invece si dovrebbe fare. L’affresco ha un grande Cristo nel centro della raffigurazione che mostra le mani forate dai chiodi, non ha la corona di spine, ma una grande aureola, è nudo, vestito del solo perizoma e i suoi piedi, anche questi forati, appoggiano su un prato verde. Lo sfondo è dato da un cielo bianco e azzurro sul quale sono dipinti oggetti, cose e persone legate alle attività lavorative quotidiane sia maschili che femminili. Alcune di queste attività sono accompagnate da angioletti, su chi compie buone azioni, e da diavoletti con fiammelle rosse, su chi compie invece cattive azioni. L’affresco è inserito in una cornice dipinta a riproduzione del marmo rosso, nella quale, in alto, è inserita la seguente scritta di ammonimento: “Infra tutti li altri mali selerati, la dominicha sancta voi non santifichati // anci ogni zorno voi lavorati e ogni mal la mia dominicha voi fati” che tradotta “Oltre a tutte le altre azioni malvagie, voi non santificate la domenica, anzi, la domenica lavorate come tutti gli altri giorni e commettete ogni sorta di peccato”[7].

 

Le attività e gli oggetti descritti nell’affresco sono molti e mostrano un’interessante pagina della vita medievale dell’epoca. Partendo in alto a sinistra troviamo dipinti nella prima fila: un calice, una brocca, uno specchio e quattro strumenti per la tessitura (pettine, peso, agganciafilo, coltello), un libro sopra la testa del Cristo, tre attrezzi da falegname (tenaglia, martello e sega), fuso e navetta per la tessitura, una zappa e un bastone. Nella fila sottostante: tre pani, un’ascia da boscaiolo, una forca da fieno, una frusta, un rastrello da fieno e un badile, un’accetta in alto, una forbice in mezzo e una roncola in basso. Accanto a questi oggetti da lavoro sono dipinti una boccia, a fianco del braccio destro di Cristo, i dadi da gioco, ai lati della testa di Cristo, e, per proseguire con gli attrezzi da lavoro, un falcetto messorio e un falcetto da foraggio a fianco del braccio sinistro di Cristo, un martello da muratore, una cazzuola e subito sotto nove birilli con la boccia[8].

A metà dipinto, dalla parte dell’anca destra del Cristo: un mugnaio vestito di bianco invita nel mulino una donna con un carico sulle spalle sul quale si trova un diavoletto; sotto di loro un uomo col bastone e con la gerla sulle spalle, sulla quale c'è un diavoletto; una balestra e un archibugio e due amanti nel letto sulla cui testiera compare un diavoletto. Vicino all'anca del Cristo vi sono due fedeli a mani giunte, sui quali vi è un angioletto, con un bambino che assistono ad una funzione davanti ad un altare a portelle e, infine, una donna con un angioletto sulle spalle che dà in elemosina un pane ad un poveretto inginocchiato[9].

Dalla parte opposta è dipinta: una chiave, una giovane donna che si specchia sulle cui spalle vi è un diavoletto, una spada, un “fièl” (attrezzo per battere le granaglie), un arcolaio, una falce, una forbice tosapecore. Sotto: un uomo con la canna da pesca e un pesce appeso all'amo, una coppia danzante al ritmo di un piffero suonato da un bambino (un diavoletto sia sulle spalle dell'uomo sia su quelle del pifferaio) e un bottaio pure con un diavoletto sulle spalle che lavora ad una grande botte[10].

Infine, sopra il prato, a sinistra, sono dipinti: un contadino con un diavoletto sulle spalle che ara con l’aratro trainato da una coppia di buoi, una donna seduta che lavora alla zangola aiutata da un diavoletto, un tavolo da osteria con due clienti e un diavoletto; a sinistra, sotto: una donna che lavora su un pentolone, una grande incudine con martello da fabbro e, sotto il piede sinistro di Cristo, una donna che zappa nel campo. Per chiudere, a destra del Cristo, sopra: un uomo col diavoletto sulle spalle che guida un carro per il trasporto di legname trainato da una coppia di buoi (anche sul carico vi è un diavoletto); a destra, sotto: due persone che litigano coi cappelli a terra, un uomo che semina e all'estremità altre due persone che lavorano la terra[11].

Per concludere, l’autore del grande Cristo della domenica di Tesero è ignoto, ma potrebbe trattarsi di qualche pittore itinerante proveniente dalle regioni vicine che si spostava di vallata in vallata con i suoi attrezzi da lavoro per dipingere chiese e facciate che gli venivano commissionate. Purtroppo anche l’epoca di esecuzione rimane incerta fra il 1541 e il 1557, le uniche due date che sono dipinte all’interno e all’esterno della chiesetta di San Rocco.

 

 

Si ringrazia la Biblioteca comunale di Tesero per il materiale bibliografico.

 

 

La foto 2 e le foto dalla 4 alla 10 sono state realizzate dalla redattrice dell'articolo

 

 

 

Note

[1] M. Ferrero, Il Cristo della Domenica: un’iconografia tra arte e religione, pp. 33-34.

[2] Ivi, p. 34.

[3]http://www.chieseitaliane.chiesacattolica.it/chieseitaliane/schedacc.jsp?sinteticabool=true&sintetica=true&sercd=26371#

[4] I. Giordani, L'affresco del “Cristo della domenica”, p. 1.

[5] Ibidem.

[6] Ivi, p. 2

[7] Ivi, p. 4

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, p. 5.

 

 

 

 

Bibliografia

Guido Giacomuzzi (a cura di), Guide del Trentino. Val di Fiemme storia, arte, paesaggio, Trento, Temi, 2005, pp. 182-183

Marco Ferrero, Il Cristo della Domenica: un’iconografia tra arte e religione. Un esempio vicentino, in “Progetto Restauro. Trimestrale per la tutela dei Beni Culturali”, 42, 2007, pp. 33-37

"I peccati della domenica": la profanazione del riposo festivo nell'iconografia del "Cristo della domenica", in “L'informatore comunale di Mariano Comense”, 6, 2007, pp. 30-33

Italo Giordani, Chiese, cappelle, edicole e affreschi a carattere religioso a Tesero. Appunti del prof. Italo Giordani per la conferenza tenuta a Tesero il 5 febbraio 2009, in stioridifiemme.it

Italo Giordani, L'affresco del “Cristo della domenica” sulla facciata della cappella di san Rocco a Tesero, 2020, in storiadifiemme.it

 

Sitografia

http://www.chieseitaliane.chiesacattolica.it/chieseitaliane/schedacc.jsp?sinteticabool=true&sintetica=true&sercd=26371#

https://www.beweb.chiesacattolica.it/edificidiculto/edificio/26371/Chiesa_di_San_Rocco_Tesero


ALIGI SASSU

A cura di Ludovica Diana

Aligi Sassu

 

 

Aligi Sassu, artista nato il 17 luglio del 1912 a Milano dal matrimonio di Lina Pedretti, originaria di Parma, e di Antonio Sassu, originario di Thiesi in Sardegna, ha rappresentato un interessante punto di congiunzione tra panorama artistico italiano e internazionale. Artista cosmopolita e particolarmente recettivo rispetto alle novità del suo tempo, ha viaggiato ed esposto in Spagna, America, Cina, Sud America e molti altri paesi.

Da sempre affascinato dalle tecniche artigiane, Sassu è stato in grado di sperimentare molti differenti mezzi artistici e di lasciarsi ispirare da influenze sempre nuove; ha lavorato infatti con matita e inchiostro su carta, acqueforti, acquetinte, ceramica, pittura ad affresco, a secco, ad olio, ad acrilico e perfino sculture bronzee di grandi dimensioni .

La formazione milanese gli permise di conoscere direttamente gli ambienti artistici d'avanguardia, a cui si avvicinò grazie al padre, Antonio Sassu, anch'esso artista, oltre che militante socialista. Infatti, Aligi, formò la propria coscienza civile e politica in tale area, rimanendo sempre legato a degli ideali di libertà e giustizia, spesso immaginati e rappresentati artisticamente in chiave utopica. Pensava infatti che l'immaginazione potesse essere uno strumento per il cambiamento, un'occasione per vedere nuovi mondi.

Tale sviluppata sensibilità politica è da leggere in relazione anche al suo legame con Thiesi, in cui visse per circa tre anni a partire dai primi anni Venti, ma che frequentò anche da adulto avendo modo di comprendere le istanze di rinnovamento e il senso di ingiustizia radicati nel popolo sardo, oltre che la produzione artistica regionale, che ebbe sotto agli occhi fin da piccolo e che, in questi termini, ha indubbiamente costituito per lui un modello.

 

La giovinezza

L'esperienza futurista

Il giovane Aligi ebbe modo di frequentare precocemente esposizioni artistiche e biblioteche milanesi e, altrettanto rapidamente, appena adolescente, si fece avanti insieme all'amico Bruno Munari presentandosi a Filippo Tommaso Marinetti. I due infatti presero successivamente parte ai lavori del Secondo Futurismo, mentre, a partire dal 1925, lavorò da apprendista in un'officina litografica mentre la sera frequentava dei corsi dell'Accademia di Brera. Tuttavia, ciò dovette farlo in una condizione di effettiva precarietà sul piano economico, causata anche dalle persecuzioni politiche che il padre dovette subire in quanto antifascista. Nonostante le difficoltà il padre fu per Sassu un’importante figura di riferimento; Antonio Sassu aveva infatti collaborato con Carlo Carrà, i due avevano realizzato una serie di immagini di propaganda socialista, e trasmise al figlio le istanze di progresso e modernizzazione proprie dell'universo futurista.

Il processo di appropriazione delle logiche del movimento non avvenne attraverso la riproduzione pedissequa dei suoi linguaggi, infatti, Sassu, che rapidamente si discostò dalla stilizzazione, imputava - sia al Primo che al Secondo Futurismo - di aver fatto perdere complessità alla figura umana. Pubblicò allora il suo Manifesto della Pittura Dinamismo e Riforma muscolare, firmato con Bruno Munari e uscito nel 1928, in cui i due giovani artisti denunciavano apertamente l'appiattimento della realtà dovuto a un eccessivo utilizzo della linea dinamica che inevitabilmente stava portando a una tendenza all'astrazione.

Nemmeno Umberto Boccioni, il più espressionista dei futuristi, che riservò sempre una certa attenzione alle forme della realtà, si salvò dalle critiche dei due artisti, Sassu, che tra l'altro aveva avuto modo di vedere diverse opere del maestro tra cui il bozzetto per La città che sale che si trovava a casa di Fedele Azari, lo giudicava comunque troppo influenzato da un’astrazione fine a se stessa.

Sassu aveva sempre nutrito una certa curiosità nei confronti dell'indagine sociale, mettendo apertamente l'uomo al primo posto. Lo rappresenta deformato ma mantenendo sempre una tendenza al vero; le sue figure sono riconoscibili e comunicative proprio perché per lui l’arte deve essere un'occasione per responsabilizzare sul piano civile il pubblico.  Sono anni storicamente molto significativi quelli in cui lavora Sassu, si trova infatti a cavallo tra la Seconda Guerra Mondiale e il dopoguerra, alle prese con un grande esempio di disfacimento morale e umano.

 

L'amore per l'uomo e l'istanza politica

Sassu continuò a frequentare ambienti futuristi e partecipare alle mostre organizzate da Marinetti fino agli anni Trenta; finita l'esperienza cominciò un' inesorabile transizione stilistica che, tuttavia, non fu mai orientata verso il ''ritorno all'ordine'' tipico dell'epoca fascista - di cui furono un esempio i lavori del gruppo Novecento di Margherita Sarfatti.

 

Da questo momento in poi, l'universo pittorico di Sassu sarà costellato di essere umani,  spesso socialmente caratterizzati e per questo rappresentanti di diversi mondi: i ciclisti, gli scioperanti, gli operai, i minatori, i guerrieri rivoluzionari, i volti dei Cafè e delle case d'appuntamento, importanti personaggi storici, ma anche gli Uomini Rossi e gli Argonauti. Si tratta della volontà di raccontare l'uomo e il suo sentire, sempre con un riferimento spiccatamente politico, indipendentemente dalla scelta di farlo immaginandolo in chiave mitica, come agente del processo storico o come protagonista di microcosmi meritevoli di essere scoperti e raccontati.

Lo slittamento tematico fu affiancato da un utilizzo sempre più elaborato e libero del colore e della pennellata, coerentemente a quanto accadeva sul piano internazionale. Infatti, la serie di Uomini Rossi, che presenta le categorie umane più disparate - dai Ciclisti ai Calciatori, dai Giocatori di Dadi ai Ragazzi sulla Spiaggia, dai Musicisti ai Circensi - fanno eco a quanto realizzarono quegli artisti espressionisti politicamente schierati e che protestano contro le catastrofi originate dai Regimi totalitari, tra cui James Ensor, Pablo Picasso ed Emil Nolde.

In Italia tale atteggiamento di sovversione rispetto all'indirizzo culturale stabilito dal regime è rintracciabile solo nella produzione della Scuola Romana di via Cavour, gruppo nato nel 1927 grazie all'incontro di Mario Mafai, Antonietta Raphaël e Gino Bonichi, detto Scipione, schieratosi apertamente contro il gruppo Novecento, e concentrato in modo particolare sulla rappresentazione dei desolati esterni romani, proprio nel momento in cui era in atto il piano regolatore fascista interessato alla demolizione di antiche porzioni cittadine in un'ottica di riqualificazione.

 

Sassu diede la più grande dimostrazione di impegno politico mantendendo sempre una ferrea posizione antifascista. Nel 1934, il ritrovamento di un vecchio amico, Raffaellino De Grade, vicino ad esso sul piano ideologico, gli diede la possibilità di frequentare una rete di giovani dediti all'attivismo politico e informati sugli eventi internazionali.

L'istanza politica venne esplicitamente espressa per la prima volta nell'opera Fucilazione nelle Asturie, realizzata nel 1934, riferimento alla Rivoluzione delle Asturie, manifesto di opposizione al regime dittatoriale e frutto dello sdegno provato da parte dell'artista nei confronti delle vicende che porteranno alla Guerra Civile Spagnola.

L'opera, caratterizzata da un massiccio approccio materico e da una pennellata espressionista, crea un'atmosfera che, soprattutto nella scelta del tema, fa eco al dipinto 3 Maggio 1808 realizzato nel 1814 da Francisco Goya, raffigurante la resistenza delle truppe madrilene dinanzi agli invasori francesi durante la Guerra d'Indipendenza Spagnola.

Tuttavia, nuovi ostacoli non tardorno ad arrivare nella vita di Sassu che, dopo aver preso parte ad un'organizzazione antifascista e aver realizzato un volantino con moti insurrezionali, venne arrestato e condannato a dieci anni di reclusione, che fortunatamente non scontò mai perchè, nel 1938, ricevette la grazia del re, diventando un sorvegliato politico.

Ciò nonostante, la produzione di opere politiche continuò anche dopo la condanna, tra queste molto significativa è I martiri di Piazzale Loreto, esposta nel 1954 alla Biennale di Venezia e comprata da Giulio Carlo Argan per la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma. In quest’opera Sassu raffigura un evento a cui aveva preso parte in prima persona, ovvero l'uccisione di quattordici partigiani ad opera di un reparto della Repubblica Sociale. L’artista riporta sulla tela i numerosi corpi ammassati senza vita, con i volti emaciati e con un utilizzo ridondante del rosso ad evocare lo spargimento di sangue. La sua condizione di sorvegliato rese sconveniente l'esposizione di opere in contesti politicamente connotati, infatti, nonostante fosse un componente attivo del gruppo Corrente non partecipò mai alle loro mostre. Corrente era all’epoca il più importante gruppo di intellettuali schierati contro il regime fascista, ne faceva parte anche Ernesto Treccani che spinse per la creazione di un periodico il quale però ebbe vita breve; già nel 1940 Mussolini ne sospese le uscite poiché troppo sovversivo.

 

La pittura murale come pittura sociale

Nel 1939, poco dopo il suo arresto, Aligi Sassu realizzò il suo primo affresco, chiamato Diana e Callisto, in cui la scena mitica allude metaforicamente alla necessità umana di libertà, intesa ovviamente anche in senso civile.

Nel 1950, invece, iniziò a dedicarsi alla pittura murale, proprio nel momento in cui il Fascismo ne faceva uso a fini propagandistici, si pensi all'opera di Mario Sironi, anch'esso componente del gruppo Novecento, e al Manifesto della Pittura Murale, da lui redatto nei primi anni Trenta.

 

La Miniera, realizzata senza disegni preparatori nella foresteria della miniera metallifera di Monteponi, situata ad Iglesias, una delle più note e caratteristiche dell'Isola, fu solo la prima di una serie di opere di pittura murale che l'artista realizzò nei più diversi luoghi e con i più svariati stili e tecniche. Molti di questi lavori furono realizzati proprio in Sardegna. in La Miniera, l'artista, cosmopolita e ormai quasi quarantenne, riflette sulla fatica del minatore che rappresenta infatti con una muscolatura plastica e particolarmente enfatizzata e completamente dedito al conseguimento del proprio lavoro. La risolutezza del minatore si riflette anche nei paesaggi di Nebida e Fontanamare.

Nel 1962, Sassu fece invece tappa a Thiesi, paese natale della sua famiglia, situato a 40 km da Sassari. Lo stesso anno venne approvato dal Parlamento Italiano il Piano di Rinascita - che intendeva applicare delle speciali misure volte alla modernizzazione dell'isola - e Sassu contestualmente realizzò, in un'area denominata successivamente ''Sala Aligi Sassu”, una personificazione della Sardegna con trachite rosa e pietra vulcanica. Quest'ultima è sì distesa, ma il suo corpo è in tensione e prova ad alzarsi, a rinascere.

A coronamento di tale immagine metaforica, nella fascia superiore della parete, venne illustrata una vicenda fondamentale per la storia dell'isola: i moti angioini, ossia i moti insurrezionali guidati dal professore di diritto, nonchè giacobino, Giovanni Maria Angioj, portati avanti nell'ultimo decennio del XVIII secolo e che culminarono, il 28 aprile 1974, nella cacciata dei piemontesi e del Vicerè Balbiano, dopo che questi ultimi rifiutarono la richiesta del popolo sardo di maggiore autonomia politica, nonché quella di ottenere maggiore possibilità  d'impiego civile e militare. La giornata del 28 Aprile è stata successivamente istituzionalizzata come festa e viene chiamata Sa die de sa Sardigna, ossia La giornata della Sardegna.

 

Le battaglie

La grande curiosità nutrita nei confronti della storia dell'arte e dell'uomo è la causa del dialogo ininterrotto che Sassu instaurò con i modelli del passato, mai riprodotti acriticamente, ma sempre risemantizzati e strumentalizzati per la narrazione della contemporaneità, seppure in chiave simbolica.

Ciò è stato reso manifesto nelle opere in cui si dedicò alla tematica mitica e ai suoi celebri personaggi - si pensi agli Argonauti, portatori delle passioni umane - ma anche nello sguardo alla pittura Romantica e Rinascimentale.

Negli anni Trenta Sassu ebbe modo di conoscere alcuni affreschi dipinti da Masolino da Panicale a Castiglione Olona, nel Varese, gli affreschi di Beato Angelico realizzati per il Convento di San Marco a Firenze e, sopratutto, un'opera che lo colpì particolarmente: La Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, situata presso la Galleria degli Uffizi di Firenze.

Tale incontro assume ancora più valore se lo si legge in relazione a quelli avvenuti successivamente con altri due grandi maestri della storia dell'arte, Thèodore Gericault - di cui studiò, al Louvre, La zattera della Medusa e i quadri di cavalli e battaglie - ed Eugène Delacroix - padre del Romanticismo Francese, del quale apprezzò la complessità della rappresentazione e la volontà di raccontare la lotta che l'uomo si trova a dover ingaggiare costantemente per la costruzione della propria identità.

E' nelle numerose battaglie - probabilmente la serie di opere in cui Sassu affronta la tematica della conflittualità e delle passioni umane più direttamente -  che si può notare in maniera evidente l'attenzione plastica che caratterizza la sua pittura, nonchè un preludio della sua attività scultorea. Sempre nello stesso contesto, traspare l'approfondito studio della forma equina, uno dei tratti distintivi del pittore, che infatti realizzò numerose serie di cavalli per mezzo di tecniche differenti.

 

Ceramica e scultura

Albisola, comune in provincia di Savona, è un luogo in cui gli artisti da anni si cimentano con la scultura della ceramica vi si recarono alcuni dei più importanti esponenti del Secondo Futurismo, nonché altri artisti celebri tra cui Lucio Fontana. Sassu vi lavorò per un periodo tentando anche di  ad aprire un proprio studio in Val Ganna e qui dipinse le Cronache di Albisola. Si trattava di un’opera a parete purtroppo ormai dispersa che tentava di rendere il variopinto universo di personalità che si trovava nella patria della ceramica d'avanguardia.

Nel 1939 realizzò la sua prima ceramica, un Ciclista, rimanendo fedele ai temi della pittura, infatti, poco dopo fu il momento dei cavalli. Questo sviluppo tematico, come spesso accade nella produzione di Sassu, è portato avanti nei più svariati modi: i cavalli sono impennati, innamorati, marini, sono decorazioni su oggetti oppure delle statuette di ceramica a tutto tondo. L'apice della ricerca fu raggiunto con la realizzazione delle sculture di grandi dimensioni, come il Grande cavallo rampante, realizzato in bronzo nel 1960 e svettante davanti alla Pinacoteca di Brera.

 

Il sacro

Considerando la varietà di temi affrontati da Sassu, non poteva mancare quello sacro, le prime opere in cui viene trattato in maniera esplicita sono del 1932, affrontato all'insegna del modernismo e spesso usato come strumento di critica della condotta ecclesiastica.

I corpi bitorzoluti e sempre plastici di opere come le Crocifissioni e le Deposizioni sono icone della sofferenza umana, mentre le versioni dei Concili - dove i conciliaboli sono rappresentati con espressioni grottesche e attorniati da oro e porpora, colori usati spesso in modo ridondante come a voler simboleggiare l'eccessiva opulenza - sono un'evidente accusa rivolta al carattere troppo ''terreno'' della Chiesa.

Un'esemplare di arte sacra, nonchè una delle più importanti opere a mosaico dell'artista, è stata da lui realizzata nel 1966 nelle pareti dell'abside e delle navate della Chiesa di Nostra Signora del Carmine a Cagliari, distrutta dai bombardamenti aerei del 1943 e ricostruita successivamente. In queste grandi opere Sassu raxxonta la storia della Madonna del Carmine e della costituzione dell'ordine carmelitano.

Il 17 luglio del 2000 Aligi Sassu si spense a  Pollença, comune di Maiorca, luogo in cui viveva con il soprano Helenita Olivares,  sua seconda moglie. Le sue ceneri vennero sparse nella zona di Capo Caccia, mare algherese, come lui stesso aveva prescritto.

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

Simona Campus, Aligi Sassu, Ilisso, Nuoro, 2005

 

Sitografia

https://www.sardegnaturismo.it/de/entdecken/thiesi, ultima consultazione 31\08\2022

https://www.comune.legnano.mi.it/news/58/123/5484/?channel=date&sezione=news&day=27&month=5&year=2022

https://www.sardegnacultura.it/j/v/253?s=35897&v=2&c=2487&c1=&visb=&t=1, ultima consultazione 31\08\2022


IL DUOMO DI POZZUOLI

A cura di Camilla Giuliano

 

 

 

Il Tempio di Augusto

Il Tempio di Augusto fu realizzato in età Augustea tra il 27 a.C e il 14 d.C, costruito per volere del mercante Lucio Calpurnio[1] come tributo ad Ottaviano Augusto quando era ancora in vita.

Fu eretto sui resti del primo tempio, visibile dal mare, di età Repubblicana, un Tempio Capitolio risalente al 194 a.C dedicato alla Triade Capitolina[2] .

Il Tempio sorge nell’attuale Rione Terra[3], ove la città di Pozzuoli[4] venne trasformata in importante porto romano, fungendo da grande scalo per i rifornimenti alimentari, in particolare il grano importato da Alessandria d’Egitto per l’annona di Roma che a quel tempo assisteva ad una pericolosa carestia.

L’edificio fu costruito da Lucio Cocceio Aucto, architetto ed ingegnere romano alle dipendenze di Marco V. Agrippa[5], pensato per essere realizzato interamente in marmo bianco con blocchi a secco, senza l’utilizzo di malta; dall’impianto rettangolare orientato in direzione nord-sud.

Il Tempio è detto pseudoperiptero esastilo[6], caratterizzato da un ampio spazio sui quattro lati che circondano il corpo centrale, nove colonne scanalate di ordine corinzio di tradizione tardo-ellenistica sui lati maggiori (fig. 1); inoltre, due rampe laterali ascendenti al basamento del pronao, permettono l’accesso al culto nella parte sud dell’edificio.

 

Basilica di San Procolo Martire

A seguito della caduta dell’Impero Romano d’Occidente prima e d’Oriente poi ed in seguito all’invasione dei barbari, la popolazione puteolana decise di insediarsi sulla rocca fortifera della città, il Rione Terra.

Tra il V e VI secolo con l’avvento dell’evangelizzazione, fu costruita una chiesa dedicata al santo patrono della città, San Procolo, uno dei sette martiri puteolani assieme a San Gennaro[7].

La chiesa sarebbe stata costruita intorno al tempio con l’utilizzo integrale delle strutture preesistenti.

In epoca barocca, attorno al 1632 - 1636 cominciò un’opera di restauro dell’intera città comprendente la Cattedrale e la Basilica del santo patrono di Pozzuoli. I lavori, iniziati per opera del contributo del frate Martin de Leòn y Cardenas, arcivescovo cattolico spagnolo e vescovo della diocesi flegrea, vennero commissionati all’architetto Bartolomeo Picchiatti con la collaborazione dello scultore Cosimo Fanzago. Quel che restava del vecchio Tempio augusteo non venne demolito bensì inglobato nella struttura del Duomo nascente, le colonne furono assorbite delle mura che circondavano la cappella barocca e sul tetto venne eretto un imponente campanile e venne anche spostata l’entrata alla direzione nord dalla direzione sud.

L’interno della cappella barocca presentava un altare di marmi policromi ed un ciborio decorato con pietre preziose, oggi scomparse a causa di saccheggi avvenuti nei secoli, ospitante dodici tele, più una dietro l’altare, la pala di Agostino Beltrano raffigurante La decapitazione di San Gennaro (fig. 2), dei più importanti pittori del Seicento: Francesco e Cesare Fracanzano, Giovanni Lanfranco, Onofrio Giannone, Paolo Finoglio, Agostino Beltrano, Massimo Stanzione e Artemisia Gentileschi. Quest’ultima è autrice di tre opere presenti nella chiesa, tra cui San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli, un olio su tela dalle grandi dimensioni a lungo conservato presso il Museo Nazionale, oggi collocato nel Museo Diocesano di Pozzuoli, retrostante al Duomo[8].

La scena rappresentata è quella del martirio di San Gennaro, nel momento in cui il santo e i suoi seguaci stanno per essere dati in pasto a delle belve dalle fattezze irriconoscibili, ma queste, ammansite, quasi si inginocchiano al suo cospetto leccandogli i piedi in segno di sottomissione.

Artemisia riprende con estremo realismo i personaggi situandoli all’interno dell’anfiteatro Flavio di Pozzuoli laddove il martirio sarebbe dovuto avvenire. La firma dell’artista presente nella tela in basso a destra (“Artemisia Gentileschi” e non più “A. Gentileschi”) venne recuperata solo dopo gli anni 70’ del 1900 a seguito di un importante restauro.

Le altre due tele della pittrice presenti nel Duomo sono I santi Procolo e Nicea e l’Adorazione dei Magi, quest’ultima conservata presso il Museo di San Martino di Napoli per cinquant’anni prima di tornare alla sua collocazione originaria nella cappella.

 

Il Museo Diocesano

Nel Museo Diocesano, situato lungo il retro della chiesa, oltre al San Gennaro di Artemisia Gentileschi sono presenti oggetti sacri come un’ampollina con il sangue di San Gennaro, un busto in bronzo e argento che raffigura il santo suddetto ed utilizzato durante le processioni di paese; e una collezione che raccoglie i più antichi reperti archeologici rinvenuti nell’area flegrea, tra cui vasi in ceramica corinzia risalenti al VII secolo a.C. Nella basilica è presente quella che viene definita come la “piccola cappella sistina di Pozzuoli”, una sala antistante l’altare del Duomo in cui sono presenti gli affreschi di tutti i vescovi a partire da Cardenas fino alla metà del 1700, cui però manca la parte sottostante degli affreschi a causa di atti di vandalismo.

 

L’incendio e il restauro

Tra la notte del 16 e 17 maggio del 1964 un incendio distrusse gran parte della cattedrale, caddero il tetto della navata centrale e il campanile edificato nel 1633, gli affreschi seicenteschi furono distrutti, mentre la zona presbiterale rimase intatta, eppure dalla distruzione vennero scoperte delle colonne nascoste del Tempio di Augusto e recuperate per opera del professore e restauratore Ezio De Felice che, insieme all'architetto Paolo Di Monda e all'ingegnere Mario Cappelli, che abbatterono una parte della cappella barocca per riportare alla luce il vecchio tempio. Il 2 marzo del 1970 un allarme di bradisismo costrinse la popolazione ad evacuare il Rione Terra abbandonando la cattedrale e gli edifici circostanti. Nel 1971 venne emanata una legge che prevedeva che tutti gli immobili di proprietà della chiesa fossero di proprietà del comune di Pozzuoli, ma ciò non li salvò dagli atti di vandalismo e saccheggio durati fin oltre il 1980[9].

Nel 2003, venne emanato dalla Regione Campania un Concorso internazionale per la progettazione del restauro del monumento puteolano. Vinto dall'architetto Marco Dezzi Bardeschi il progetto, intitolato “Elogio del palinsesto”, prevedeva il reinserimento dell’antica struttura con quella barocca in concomitanza di elementi contemporanei (fig. 3): l’antico pronao divenne l’atrio d’accesso alla chiesa, gli intercolumni laterali dell’antico Tempio vennero rinchiusi entro pareti di cristallo (fig. 4) e sullo stesso cristallo, visibile all’entrata del Duomo, furono serigrafate quattro colonne. Il tetto dell’antica navata centrale del Tempio fu coronato da un trasparente baldacchino a calotta stellata, in cui la posizione delle luci riproduce la costellazione di una notte del 61 d.C in cui San Paolo di Tarso sbarcò a Pozzuoli consacrando il Tempio augusteo come Chiesa cristiana.

I lavori di restauro sono durati 10 anni e l’11 maggio del 2014 il Duomo di Pozzuoli, Basilica e Cattedrale di San Procolo, venne riaperto al culto.

 

 

 

 

 

 

 

Note

1 Attestato dalle iscrizioni latine presenti sulla parte del colonnato “L. Calpurnius L.f. templum Augusto cum ornamentis d.s.f” in traduzione “Lucio Calpurnio, figlio di Lucio, dedicò a sue spese questo tempio ed il suo arredo ad Augusto”.

2 Giove, Giunone e Minerva.

3 Termine di origine medievale usato dai marinai per indicare il villaggio e/o le città situate in opposizione al mare.

4 Puteolis latina dei tempi romani risalgono alle prime colonizzazioni del 530 a.C di popolazioni greche che scappavano dal governo di tipo tirannico di Policrate.

5 Stratega di Augusto.

6 Che dal greco significa “che ha intorno ali”.

7 Subirono la decapitazione nel 305 d.C durante le persecuzioni nei confronti dei cristiani per opera dell’imperatore Diocleziano.

8 La tela presente al centro della parete nord-ovest della basilica è in realtà una stampa che sostituisce l’originale esposto al museo.

9 Anno del terremoto dell’Irpino durante il quale venne allontanato il vescovo della diocesi dalla chiesa.

 

 

 

 

Bibliografia

Amedeo Visconti, Massimiliano Lanzillo, Archaiologhìa, cap. 3.1, La parola ai manufatti: Età geometrica, Età del ferro. D6, Anafora attica, Geometrico Medio, pp. 24-25, Ed.Tiotinx Edizioni S.r.l 2020.

 

Sitografia

https://www.puteolisacra.it/il-progetto/ , consultato il 29/04/2022

https://www.romanoimpero.com/2010/12/puteoli-pozzuoli-campania.html , consultato il 06/05/2022

https://www.themaprogetto.it/tempio-duomo-pozzuoli-elogio-del-palinsesto/ , consultato il 06/05/2022

http://www.campiflegrei.it/desktop/Duomo%20di%20Pozzuoli.html , consultato il 17/05/2022

https://web.faraone.it/realizzazioni-faraone/tempio-di-augusto-pozzuoli/ , consultato il 17/05/2022

https://faraone.it/realizzazioni/tempio-di-augusto-pozzuoli/ , consultato il 17/05/2022


LA CHIESA DI SANTA MARIA DELL’ANIMA A ROMA

A cura di Andrea Bardi

 

Storia di Santa Maria dell'Anima

La vicenda storica della chiesa di Santa Maria dell’Anima, attuale sede del Pontificio Istituto Teutonico nei pressi di piazza Navona, vuole come cornice il fenomeno tutto romano delle chiese nazionali. Epicentro di un costante flusso di pellegrini da tutto il continente, l’Urbe vide sorgere, al calar del Medioevo, una serie di istituti di assistenza specificatamente legati a comunità nazionali. Sebbene il concetto di natio non corrispondesse totalmente con quella che è la sua accezione moderna (alcuni degli allora “stati nazionali” oggi sono realtà politiche regionali), la convergenza di determinati elementi (provenienza geografica, comunanza linguistica e adesione a un insieme di pratiche identitarie) forniva spesso e volentieri lo stimolo iniziale alla costruzione di veri e propri spazi fisici comunitari. Fu in questo clima che il mercante olandese Johannes Peters di Dordrecht, giunto a Roma da membro della guarnigione militare pontificia, decise di acquistare tre case nel Rione Parione, per poi riqualificarle come ospizio per tutti i pellegrini provenienti dalla natio Almanorum: era il 1390, e si celebrava il terzo Anno Santo nella storia della Chiesa. Mancando l’unità nazionale, e di conseguenza un santo patrono (La Spagna aveva S. Giacomo, la Francia S. Luigi), l’ospizio si affidò al patronato di Santa Maria dell’Anima, protettrice dei bisognosi. Neanche due decenni dopo, quello che nacque come istituto assistenziale si sganciò definitivamente dall’amministrazione romana. Poco prima di morire (1406) papa Innocenzo VII Migliorati pose l’ospizio sotto il patrocinio diretto della Curia Romana. L’ospizio, intanto, si era trasformato, grazie all’azione di Dietrich von Niem, in una vera e propria confraternita, della quale egli assunse l’incarico di primo provisor (provveditore), termine con il quale verranno indicati tutti i successivi soprintendenti dell’Anima di lì a venire. La crescita esponenziale della comunità tedesca a Roma rese necessaria la demolizione dell’ospizio (1431-1433) e il suo successivo trasferimento. Negli ambienti originari venne invece innalzata una chiesa gotica a tre navate. Eugenio IV, promotore dell’iniziativa, volle una chiesa a tre navate e sei cappelle laterali (tre per lato). La sua partenza per Firenze, nei primi anni Quaranta, non fermò la confraternita, che in assenza del papa provvide da sola al completamento dell’edificio (1446). Nulla rimane, purtroppo, della prima fondazione quattrocentesca, ricostruita pochi decenni dopo, ancora con un Giubileo a fare da volano per un ulteriore rinnovamento delle strutture. È del 24 settembre del 1499, infatti, il documento di delibera della confraternita, all’interno del quale le intenzioni dell’Anima apparivano chiare. La nazione tedesca avrebbe dovuto primeggiare nel confronto con le altre nazioni, e per farlo avrebbe puntato sulle specificità linguistiche della sua architettura. Una chiesa spiccatamente tedesca (“Alamannico more compositum”, così recitano le carte), che potesse gareggiare con la vicina, e recentemente rinnovata nel suo paramento frontale, chiesa di San Giacomo degli Spagnoli. Erigere una chiesa “tedesca” significava in primis portare l’alzato delle navi laterali alla stessa altezza di quella principale, secondo il modello della “chiesa a sala” (Hallenkirche) nordica. In secondo luogo, anche le maestranze impiegate nella costruzione dovevano essere tedesche. L’allora soprintendente dei lavori, il maestro di cerimonie pontificio Johannes Burckard – provveditore dell’Anima dal 1494 – prese a cuore il progetto “tedesco” della fondazione, anche se la sua visione dovette collassare con il desiderio della confraternita di aggiornarsi su dettami squisitamente rinascimentali e “italiani”. Desiderio reso possibile dalla consulenza chiesta a Donato Bramante, allora impegnato anche sul fronte “nemico” della corona iberica, in un episodio citato anche da Giorgio Vasari nella Vita del maestro urbinate:

“Trovossi al consiglio dello accrescimento di San Iacopo degli Spagnuoli in Navona e parimente alla deliberazione di Santa Maria de Anima, fatta condurre poi da uno architetto todesco”

L’identità di questo “architetto todesco”, tuttavia, ancora non è stata svelata. L’unico nome attestato dai documenti di pagamento, infatti, è quello del fiesolano Bartolomeo Lante, connesso anche lui a Bramante per aver collaborato con il maestro nella vicina S. Maria della Pace[1]. Con l’Anno Santo l’Anima ottenne la licenza di demolizione dell’edificio (21 febbraio 1500) e provvide alla posa della prima pietra (11 aprile) riservata al legato imperiale Matthias Scheidt come atto di rinsaldamento del legame tra confraternita e Sacro Romano Impero. Dieci anni dopo, sotto il rettorato di Willem von Enckenvoirt – braccio destro di papa Adriano VI (1521-1523) – venne consacrata la zona presbiteriale; dopo altrettanti anni, venne completato anche il campanile gotico (1520), elemento marcatamente “tedesco” della struttura nei rivestimenti cuspidali a maioliche colorate. Il completamento dell’edificio avvenne nel 1523, mentre per la consacrazione vera e propria della chiesa si dovette aspettare il novembre del 1542. A quella data, tuttavia, anche le decorazioni erano ben lungi dall’essere ultimate (è del 1541 il primo intervento di Francesco Salviati nella cappella del Margravio di Brandeburgo), e ciò dovette avvenire, in sostanza, per scarsa disponibilità economica. Differentemente dalle altre chiese nazionali, alle quali era costantemente garantita la disponibilità delle casse statali, l’Anima si reggeva su donazioni private, su iniezioni di liquidità da parte della banca Fugger e sui proventi delle indulgenze. Fu proprio in riferimento a una delle questioni più spinose sollevate da Lutero che l’Anima manifestò il suo silenzioso clamore antiprotestante. L’affidamento del patronato di una delle cappelle al Margravio Albrecht di Brandeburgo, strenuo difensore del commercio della salvezza, valse da solo come la più netta presa di posizione che la chiesa cattolica potesse mai auspicarsi in quel delicato momento storico. La chiesa mantenne il ruolo di avamposto cattolico romano anche a Concilio ultimato (1563), con l’edificazione della tomba del duca di Julich-Kleve-Berg[2] e, nel Seicento, con la definizione del programma iconografico delle cappelle di San Benno e di San Lamberto. Ancora tra Cinque e Seicento, la chiesa (a cui dal XV secolo era stato concesso il privilegio della sepoltura in loco) divenne il luogo prescelto da numerosi patrizi provenienti dai paesi cattolici del nord Europa. Inoltrandosi nel secolo, tra il 1635 e il 1644 vennero conclusi i lavori anche nella sagrestia, su progetto di Paolo Maruscelli. Attorno alla metà del Settecento (1749), invece, gli interventi in stile barocco di Paolo Posi ampliarono il coro, che venne rivestito di preziosi stucchi dorati. Le pareti laterali del presbiterio vennero profondamente modificate nel loro assetto originario, tramite la ricollocazione di alcuni gruppi scultorei (la tomba di Andrea d’Austria subì lo spostamento in controfacciata, mentre al suo posto venne collocato il monumento al duca Karl Friedrich). Un secolo più tardi (1874-1875) la chiesa assunse gli sfarzi che le tinte neorinascimentali di Emilio Stramucci e Ludwig Seitz (pittore tedesco allievo del Nazareno[3] Friedrich Overbeck) intendevano dare alla volta, alle finestre, al coro e alla navata principale (nonché alle tribune dell’organo, progettate dall’architetto Luca Carimini).  L’ultimo intervento decorativo sulla chiesa, interessata recentemente anche da un’importante campagna di restauro (terminata nel 2014) è stato patrocinato dall’attuale rettore Franz Xaver Brandmayr, che ha deciso di avvalersi della collaborazione dell’austriaco Johann Weyringer.

 

Descrizione

Esterno: La facciata

L’attuale spartito architettonico del fronte dell’Anima risponde alla configurazione da essa assunta in occasione del terzo e ultimo intervento di ricostruzione, fortemente promosso dalla confraternita all’approssimarsi del Giubileo del 1500[4]. Il nuovo profilo rettangolare, al limite del quadrato perfetto, doveva parlare una lingua ben diversa da quell’alamannico more inizialmente auspicato da Burckard e dai confratelli stessi. Il dirottamento dello sforzo produttivo in direzione di un linguaggio più asciutto, solenne e “italiano”, è testimoniato dall’affidamento di alcuni lavori a Bartolomeo Lante[5] in luogo di mastri nordici (impiegati anche dal Burckard per la sua casa romana) nonché dalla presenza di elementi sangalleschi nella morfologia dei basamenti[6] e dei capitelli. La facciata attuale [fig. 1], terminata nel 1514, si offre allo spettatore come un grande corpo in mattoni rossi e pietra chiara[7] suddiviso in tre ordini.

 

Il primo, delimitato in tutti e due gli angoli da un doppio partito di paraste corinzie, accoglie tre aperture timpanate. Il portale principale, inquadrato anch’esso da due paraste corinzie, custodisce tra gli spioventi del timpano triangolare il gruppo scultoreo con la Madonna delle Anime, attribuito a Bartolomeo Lante e completato attorno al 1538 [fig. 2]. Le terminazioni timpanate ai lati, invece, rispettano un profilo lunettato. Pressando delicatamente gli acanti dei capitelli, l’iscrizione dedicataria (TEMPLUM BEATE MARIE DE ANIMA HOSPITALIS TEUTONICORUM MCXIII) è protetta da una trabeazione dentellata in leggero aggetto. Lo spartito architettonico ha ritmo analogo anche nei due ordini superiori: mentre nel secondo le paraste, in luogo dei portali, definiscono lo spazio d’esistenza di tre grandi finestre ad arco, nell’ultimo l’oculus centrale è accostato a due rilievi: allo stemma di Massimiliano I d’Asburgo (sulla sinistra) si accompagna l’insegna dell’ivi sepolto papa Adriano VI (sulla destra). La partitura esterna della facciata, tuttavia, non coincide con l’organizzazione degli spazi interni, andando a negare così una tendenza assai generalizzata nella progettazione architettonica dell’epoca.

 

Le tre navate, portate alla stessa altezza secondo il modello tedesco delle Hallenkirchen, superano di gran lunga il primo ordine esterno. La questione della corrispondenza tra esterno e interno, rintracciabile anche nella coeva facciata di San Giacomo degli Spagnoli (oggi Nostra Signora del Sacro Cuore), ha condotto alcuni studiosi, come Renata Samperi, a formulare ipotesi circa l’aspetto originario del prospetto. Una soluzione interessante, nota la studiosa, potrebbe essere fornita da una variazione sul tema della forma basilicale. Variazione tutta sangallesca[8]  giocata sull’introduzione, tra i due ordini, di un attico mediano. Le ipotesi formulate dalla Samperi, così come da altri studiosi, permettono quantomeno di tentare l’individuazione, se non di un nome preciso, quantomeno di un ambito culturale ben definito, ovvero quello dell’universo bramantesco-sangallesco. Ai nomi dei due maestri, tuttavia, se ne affianca un altro, ancora in via congetturale, per la progettazione degli ambienti della volta: Andrea Sansovino.

 

Esterno: il campanile

Risalente al 1520, il campanile di Santa Maria dell’Anima presenta una conformazione nettamente “tedesca” rispetto al corpo di fabbrica principale. Modificato in corso d’opera il progetto iniziale della chiesa, esso si presenta come il marchio di fabbrica, come l’unico elemento veramente gotico individuabile nel complesso [fig. 3]. Il motivo per cui una tale dovizia di lemmi gotici sia andata concentrandosi soprattutto nella torre campanaria è presto detto: essendo la chiesa oscurata da un filario di abitazioni che divideva l’allora Via Millina (oggi Via di S. Maria dell’Anima) da piazza Navona, l’unico elemento che potesse svettare tra i caseggiati prospicienti la facciata era proprio il campanile. L’alzato del paramento murario in mattoni rossi si divide in due ordini. Il primo è costituito da una semplice monofora cieca a tutto sesto. Il secondo, partendo dall’alto, è chiuso su ogni faccia da paraste ioniche binate che stringono al loro interno una bifora a tutto sesto. L’estremità finale della torre vede infine la presenza della monumentale guglia rivestita a maioliche policrome protetta in basso da quattro timpani ad arcata cieca polilobata.

 

L’interno

Cronologia

Il nome di Andrea Sansovino gravita attorno alle questioni relative alla progettazione della volta del coro. I pagamenti dal 1504 menzionano infatti un certo “maestro Andrea fiorentino”, contattato per ultimare proprio le volte del coro, i cui spazi vennero realizzati a partire dal maggio di quell’anno. Gli ambienti del coro, consacrati nel novembre 1510, furono i primi in ordine di esecuzione dopo i partimenti esterni del corpo. Partimenti che definirono la chiesa nel suo curioso profilo trapezoidale. L’occupazione di suolo pubblico concessa alla confraternita nel 1500, infatti, venne sfruttata appieno dall’architetto, il quale profittò della situazione per allargarsi in direzione del Vicolo della Pace, ottenendo così anche l’effetto di regolarizzare l’assetto viario del Rione[9]. Portata a termine la fabbrica del coro, nel 1515 il nuovo provveditore Willem von Enckenvoirt si occupò della direzione dei lavori nella parte centrale del corpo e nelle cappelle laterali (1516). Facendo fede alla delibera iniziale, la nuova chiesa avrebbe dovuto munirsi di un corpo longitudinale a tre navate con ben dodici incavi laterali. Ad oggi, invece, l’Anima conta solo otto cappelle gentilizie, e non dodici: tuttavia, il motivo di tale ridimensionamento è ancora oscuro agli studi. In ogni caso, la fabbrica dell’Anima si chiuse nel 1523; prima di essere consacrata, tuttavia, passarono quasi vent’anni. La cerimonia solenne venne celebrata, infatti, solo il 25 novembre del 1542.

 

Gli spazi

Le navate e la volta

Le navi dell’Anima, portate alla stessa altezza già in fase progettuale secondo il modello delle Hallenkirchen nordiche, devono il loro attuale splendore agli interventi condotti su di esse negli anni Settanta dell’Ottocento [fig. 4].

 

Sulle crociere delle volte fu impegnato l’allora trentenne Ludwig Seitz (1844-1908). Le volte, i cui stucchi dorati ribadiscono le antiche linee di forza dei costoloni, vennero ricoperte a fresco dai sigilli di sei principati elettorali del Reich (eccezion fatta per la Boemia), affiancandoli, sulle vele risultanti, a ritratti di santi tedeschi. Sulle navi laterali, la costante presenza dei marchi Fugger e von Enckenvoirt – nonché di quello della Confraternita – ricorda agli astanti i passati fasti dell’Anima. Le crociere a loro volta insistono su pilastroni compositi con paraste corinzie addossate. Le basi dei pilastri, a loro volta, contengono iscrizioni commemorative dei numerosi defunti ivi sepolti dalla seconda metà del Cinquecento.

 

Controfacciata: tombe e vetrate

Insieme alle cappelle gentilizie che occupano le navate laterali della chiesa, un primo momento di iconografia controriformata è offerto al visitatore dalle due tombe che fiancheggiano il portale d’accesso. Entrando nella chiesa, sulla destra troviamo la Tomba di Andrea d’Austria [fig. 5]. Opera dello scultore Gillis van Vliete, è inquadrata da colonne corinzie e sormontata da un timpano spezzato. Il defunto cardinale, morto nel 1600, è colto nell’atto di pregare, alle spalle un rilievo con l’Ascensione. La collocazione attuale del complesso funerario di Andrea non corrisponde al suo posizionamento originario. Inizialmente, infatti, doveva ornare le pareti laterali del coro, da cui venne spostato solo nel 1751. Separata dal portone principale, un’altra tomba, quella dei cardinale Willem von Enckenvoirt [fig. 5], anch’essa destinata al presbiterio. Morto nel 1534, affidò l’esecuzione dei lavori a Giovanni Mangone, che completò la struttura nel 1538. Inquadrato da due colonne corinzie, il catafalco del cardinale poggia, alle sue estremità, su due aquile. Il corpo del defunto, sdraiato poggiando il gomito destro su di un cuscino e la mano sulla testa, precede una lastra a rilievo con Dio Benedicente.

 

Ad un periodo decisamente successivo risale la Madonna delle Anime dipinta sulla vetrata centrale [fig. 6]. Eseguita da Ludwig Seitz, comprende, nella sua sezione centrale, la Vergine in trono con Bambino[10] il cui volto è valorizzato dall’emiciclo superiore della nicchia in cui si inserisce. Due angeli, riccamente abbigliati, rivolgono il loro sguardo a due figure vestite solo con un perizoma: sono le anime a cui la Vergine offre protezione. In basso al centro, l’aquila bicipite della casata d’Asburgo. Ai lati della finestra, l’ultimo intervento di Johann Weyringer (2013-2019) comprende i rilievi in vetro dell’Arcangelo Michele e di un Angelo con tromba.

 

Le cappelle laterali di destra

La prima cappella che si apre sulla navata destra è dedicata a Benno di Meissen, vescovo vissuto nel XI secolo e canonizzato da Adriano VI nel 1523. Un secolo dopo, il ricco agente dei Fugger Johannes Lambacher, donando all’Anima una considerevole somma di denaro, volle destinarla alla decorazione della cappella. La pala d’altare [fig. 7], eseguita nel 1618 ed opera del caravaggesco veneziano Carlo Saraceni, narra l’episodio del Miracolo di San Benno (il ritrovamento delle chiavi di Meissen, gettate in acqua dal vescovo Benno in fuga da Enrico IV che lo accusava di tradimento, all’interno del corpo di un pesce offerto a Benno da un locandiere).

 

La pala d’altare si inscrive in un’edicola a timpano spezzato, fiancheggiata a sua volta dalle epigrafi in marmo nero di Bernardino Radi recanti iscrizioni celebrative del donatore, sormontate a loro volta dallo stemma di Lambacher. Proseguendo, la cappella dedicata a S. Anna conteneva inizialmente un gruppo ligneo policromo raffigurante S. Anna Metterza (S. Anna con la Vergine e il Bambino). L’opera, poi ricollocata nel Collegio Sacerdotale, venne sostituita da pitture a fresco di Cornelius Leysen rinvenute in occasione delle ultime campagne di restauro. In seguito all’ampliamento dell’intitolazione della cappella anche all’Immacolata Concezione, voluta da Johannes Savenier, la parete di fondo venne impegnata dalla pala di Giacinto Gimignani (Madonna con Bambino e S. Anna), del 1640 [fig. 8]. La decorazione della cappella prosegue con tre busti in marmo: a destra quelli di Johannes Savenier e del nipote Gualtiero Gualtieri, rispettivamente di Alessandro Algardi ed Ercole Ferrata, collocati in aggetto rispetto alla scarsa profondità della nicchia in cui si trovano; a sinistra, un altro busto, stavolta del cardinal Johannes de Sluse, è invece frutto del talento di Francesco Cavallini. A differenza della cappella di San Benno, unica eccezione, la cappella di S. Anna è, così come le altre, interamente decorata a fresco. Giovan Francesco Grimaldi riempì la restante porzione della parete di fondo con tre Storie di S. Anna, per collocare poi la Gloria di S. Maria e S. Anna sulla calotta absidale.

 

La terza cappella di destra venne affidata al patronato dei Fugger, ricchissimi banchieri di Augusta, diretti finanziatori della confraternita. Attorno agli anni Venti del XVI secolo Jakob Fugger convocò Giulio Romano assegnandogli, per la parete di fondo della cappella di famiglia, una Sacra Famiglia con i SS. Giovannino, Giacomo e Marco[11].Morto Jakob Fugger (1525) i lavori ripresero solo nel 1549 per iniziativa del nipote Anton. Le Storie della Vergine Maria di Girolamo Siciolante da Sermoneta vennero così completate nel 1560. In seguito al trasferimento della pala sull’altare maggiore del coro (1750) sulla parete di fondo venne posizionato un Crocifisso ligneo di Giovan Battista Montano (1584), ancora oggi in loco [fig. 9].

 

L’ultima cappella di destra, detta della Pietà, deve il suo nome al gruppo scultoreo del Lorenzetto che dal 1560 occupa, inserita all’interno di un nicchione marmoreo aperto sul lato superiore, la parete di fondo. Spoglia di decorazioni prima di quella data, la cappella doveva custodire altri affreschi del Sermoneta, purtroppo perduti. Anche per l’altare si dovette aspettare la fine del Settecento, con l’intervento di Ottavio Perini e Antonio Baldi, mentre la porzione superiore della parete fu riempita a stucchi monocromi da Giovanni Carani [fig. 10].

 

Le cappelle laterali di sinistra

Alla cappella di San Benno, prima di destra, corrisponde, sul lato sinistro, un altro ambiente connotato dalla precisa iconografia controriformistica. È la cappella che Lambertus Ursinus de Vivariis, provveditore dell’Anima ai primi del Seicento, fece consacrare al suo santo patrono, le cui reliquie si trovano nell’Anima dal 1636. Come Lambacher, egli affidò la pala a Saraceni, il quale nel 1618 licenziò un meraviglioso Martirio di San Lamberto [fig. 11]. Ai lati dell’edicola centrale, i due epitaffi in marmo nero coronati dai busti dei donatori commemorano Lamberto e il nipote, Egidius Ursinus de Vivariis, per volontà del quale il pittore “bambocciante”[12] Jan Miel decorò le pareti con le Storie di S. Lamberto.

 

Il secondo spazio a sinistra è dedicato al santo boemo Giovanni Nepomuceno, canonizzato nel 1729. Cinquant’anni più tardi, la confraternita dell’Anima decise di intitolargli una cappella. La primitiva pala d’altare, con la Vergine Maria che appare a San Giovanni Nepomuceno, opera di Anton Von Maron, venne sistemata in sagrestia. La semplice edicola a timpano lunettato venne completata, nel 1877, dalla pala con S. Giovanni Nepomuceno e il beato Johannes Sarkander [fig. 12,] altra opera di Seitz, che prima proseguì suddividendo la parete superiore in tre Scene della vita di San Giovanni Nepomuceno, e infine completò il lavoro con la Gloria della Vergine contornata da angeli.

 

La cappella di Santa Barbara, assegnata negli anni Trenta del Cinquecento alla confraternita, fu decorata a partire dal 1531 per volontà di un suo influente membro, nonché provveditore dell’Anima in quel periodo, ovvero il cardinale Willem von Enckenvoirt. Il blasone del cardinale (tre aquile su fondo oro) si ripete su entrambi i basamenti dell’edicola a tempio che, puntando sull’effetto di composta solennità conferito dall’accostamento di pilastri ionici scanalati con un semplice timpano triangolare, accoglie la Santa Barbara che intercede per Enckenvoirt dinanzi alla Santissima Trinità [fig. 13], capolavoro giovanile ad olio su pietra di Michael Coxcie[13]. Il pittore fiammingo, all’epoca tra i maggiori rappresentanti del raffaellismo romano, eseguì per la cappella anche le Storie di S. Barbara sulla parete di fondo e l’Ascensione con gli Apostoli e la Vergine Maria nella calotta.

 

L’ultima cappella sulla sinistra, nonché la più famosa dell’intero complesso, è la cappella del Margravio Albrecht di Brandeburgo. Cardinale nel 1518, fu da sempre un acerrimo nemico di Lutero. Tramite la mediazione dell’agente dei Fugger Quirinus Galler e del mercante Johannes Lemeken[14], il cardinale si assicurò il denaro da disporre per la decorazione della cappella. L’architettura dell’edicola, a timpano lunettato sorretto da colonne composite è opera di Bartolomeo Lante. I brani pittorici, invece, vennero eseguiti in due momenti differenti (1541-43 e 1549-50) da Francesco de’ Rossi detto il Salviati. Al primo momento va fatta risalire la monumentale Resurrezione a fresco [fig. 14] e la Pentecoste nel registro superiore della calotta, mentre alla fine degli anni Quaranta va datata la pala d’altare con la Deposizione, curiosamente anch’essa a fresco [fig. 15].  

 

La sagrestia

Tramite un ambiente adiacente alla cappella del Margravio si accede all’anticamera della sagrestia. Quest’ultima, realizzata tra gli anni Trenta e Quaranta da Paolo Maruscelli, ha profilo rettangolare e volta ribassata. Riccamente decorata a stucchi dorati, contiene, nella parte centrale, un’Assunta del pittore viterbese Giovan Francesco Romanelli (anni Trenta del Seicento), racchiusa all’interno di una profilatura ottagonale a sua volta contornata da una trama di festoni vegetali in stucco e aquile bicipiti. Le vele della volta introducono piccole lunette che fanno da casa per le figure di sei papi di lingua tedesca, tra i quali anche lo stesso Adriano VI. Sulle pareti vennero collocati altri dipinti a tema mariano: la Natività di Gilles Hallet, l’Annunciazione di Giovanni Maria Morandi, la Visitazione di Giovanni Bonati e una S. Anna che istruisce la Vergine Maria, copia di un altro quadro di Hallet. Sopra la porta della sagrestia, invece, si trova l’originale pala di San Nepomuceno di Anton von Maron. Oggi in una collezione privata, ma originariamente concepita per la sagrestia[15], è la Natività di Carlo Maratta, rifiutata dai confratelli per il costo eccessivo e venduta dal pittore al conte Friedrich Christian di Schamburg – Lippe.

 

Il coro

Il primo intervento consistente sulle pareti del coro fu attuato, tra il 1536 e il 1542, da Giovanni Mangone. L’architetto, responsabile anche del catafalco funebre del cardinale Enckenvoirt, realizzò in quegli anni il maestoso altare marmoreo. Alle sue spalle, prima della ricollocazione settecentesca della Pala Fugger di Giulio Romano, avrebbe dovuto trovarsi un gruppo scultoreo della Madonna delle Anime, simile a quello eseguito dal Lante per il timpano del portale maggiore, che tuttavia non venne mai portato a compimento. In via provvisoria, venne collocata la Pietà del Lorenzetto; una volta trasferita anch’essa (1560) nell’ultima cappella di destra, sull’edicola dell’altar maggiore venne collocato un grande tabernacolo eucaristico, oggi perduto.

Ai lati dell’altare due nicchie custodiscono due figure femminili: sono le virtù teologali della Fides (sulla sinistra) e della Religio (sulla destra). La parete di fondo si completa con due scene mariane di Ludovico Stern (Natività e Morte della Vergine) e con la vetrata della Trinità di Ludwig Seitz. L’abside, i cui stucchi dorati disegnano l’originaria partizione costolonata, convoglia le linee degli ori al centro della calotta, all’interno del quale il monogramma dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria sostituì quello di Giulio II. La decorazione del presbiterio continua lungo le pareti laterali seguendo un programma che, se in origine avrebbe dovuto confermare lo stretto rapporto tra Adriano VI e Enckenvoirt (la cui tomba si trovava dirimpetto a quella del pontefice), oggi, con lo spostamento del catafalco del cardinale in controfacciata, sancisce invece la salda alleanza tra la curia romana e i principi cattolici. La tomba di Adriano VI, voluta da Enckenvoirt – ma non dal pontefice – e affidata all’architetto senese Baldassarre Peruzzi, assume le forme di un monumentale arco trionfale fiancheggiato da due ordini di nicchie ad arco inquadrate da colonne composite. Insistendo su un basamento a rilievo, dove coppie di putti sorregge l’insegna di Adriano accompagnando dai lati l’epitaffio centrale, la struttura parte da una grande lastra, anch’essa a rilievo, con l’ingresso di Adriano VI a Roma, fiancheggiata da due virtù cardinali, Iustitia e Fortitudo, alle quali si sovrappongono Prudentia e Temperantia. Il catafalco del pontefice è introdotto da un’iscrizione celebrativa, che percorre il complesso in larghezza, ideato da Enckenvoirt e riferito alla cattiva fama di cui Adriano godeva presso i romani[16].

PROH DOLOR! QUANTUM REFERT IN QUAE TEMPORA VEL OPTIMI CUIUSQUE VIRTUS INCIDAT

(AHIMÉ! QUANTO INFLUISCE L’EPOCA IN CUI SI MANIFESTA LA VIRTÙ, ANCHE QUELLA DI UN GRANDE UOMO)

 

Il sarcofago vero e proprio, inciso con le parole ADRIANUS VI PP (“Adriano Vi Pontefice) e preceduto dallo stemma di Adriano, è sormontato dalla figura dormiente del papa, ritratto da Michelangelo da Siena nella stessa posa in cui Mangone effigiò von Enckenvoirt. Al di sopra della trabeazione, una lunetta a rilievo con la Madonna con Bambino e gli Apostoli Pietro e Paolo. Al di sopra del frontone triangolare, un rilievo con la Fides.

Munita anch’essa dalla forma di un arco a tre fornici, la tomba di Karl Friedrich di Julich-Kleve-Berg venne posizionata in luogo del monumento funebre di Enckenvoirt. Il giovane duca ereditario, morto di vaiolo nel 1575 proprio in occasione di un soggiorno a Roma, era per il papato – ed in particolare per il papa di allora, Gregorio XIII Boncompagni – l’alleato principale dell’ortodossia cattolica nelle burrascose terre germaniche. Alla sua morte, il pontefice volle ad ogni costo commemorare il giovane duca, finanziando direttamente la costruzione del suo monumento funebre, chiamando tre scultori di provenienza fiamminga: Nicolas d’Arras, Gillis van de Vliete e Pierre de la Motte. Mani giunte, rivolto verso il coro, il giovane duca, riccamente abbigliato, assiste devotamente al Giudizio Finale a rilievo nella porzione centrale della lastra. Nelle nicchie laterali a conchiglia, invece, due figure allegoriche di Caritas e Prudentia che in origine dovevano ornare il monumento di Andrea d’Austria. Al loro posto, in queste nicchie, le stesse allegorie di Fides e Religio che ad oggi fiancheggiano l’altar maggiore.

 

 

 

 

 

 

Note

[1] A Lante spetta anche la realizzazione della facciata e del frontone per l’abitazione del notaio Johannes Sander di Nordhausen, attiguo rispetto alla chiesa.

[2] All’epoca dell’anno Santo del 1575, il duca ereditario Karl Friedrich di Julich – Kleve – Berg era il più forte alleato cattolico di Gregorio XIII in Germania. La costruzione della tomba rispondeva alle prescrizioni della chiesa controriformata stabilite da Carlo Borromeo nelle Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae (1577).

[3] I Nazareni, raccolti attorno alla Confraternita di San Luca di Vienna prima di occupare il monastero romano di S. Isidoro, furono un gruppo di pittori tedeschi che facevano del ritorno all’arcaismo quattrocentesco e della prevalenza dei temi sacri i loro marchi di fabbrica.

[4] Al febbraio di quell’anno risale la concessione della licenza di occupazione di suolo pubblico da destinare a nuovi ambienti della chiesa.

[5] Lante fu coadiuvato da Andrea da Settignano.

[6] Renata Samperi nota l’introduzione, tra il toro inferiore e la scozia delle basi, di un elemento a gola rovesciata riscontrabile anche nel cortile superiore del Belvedere.

[7] L’associazione tra i due materiali si diffuse molto durante gli ultimi anni del Quattrocento. Un esempio su tutti, Palazzo della Cancelleria.

[8] L’elemento dell’attico mezzano compare, infatti, in un disegno del progetto della chiesa di Loreto di Antonio da Sangallo.

[9] All’epoca, per una questione di decoro pubblico, la razionalizzazione dello spazio urbano aveva nella creazione di viae rectae uno dei suoi punti di forza.

[10] I modelli figurativi a cui sembra attingere Seitz sono le pale d’altare eseguite in ambito veneziano degli ultimi decenni del Quattrocento.

[11] I santi Giacomo e Marco vennero scelti per omonimia con due morti della famiglia Fugger (Jakob e Markus Fugger).

[12] Con “Scuola dei Bamboccianti” si intende lo stuolo di pittori che, sulla scia di Pieter van Laer “il bamboccio”, si dedicò alla descrizione di brani della vita agreste romana.

[13] La tecnica dell’olio sulla pietra ebbe in Sebastiano del Piombo uno dei suoi più illustri portavoce. Non si esclude, infatti, che il giovane Coxcie la apprese dal maestro.

[14] Lo stesso Vasari, nella vita del Salviati, scrive di come egli “nella chiesa de’ Tedeschi cominciò una cappella a fresco per un mercante di quella nazione”.

[15] La Natività di Maratta è citata nelle Vite da Giovan Pietro Bellori: “Dipinse Carlo un quadro della Natività della Vergine, ricercatone da signori deputati di Santa Maria dell’Anima della nazione tedesca, da collocarsi in una delle quattro facce della sagrestia.”

[16] Una nota pasquinata, diffusa ai tempi in cui Adriano era ancora sepolto a S. Pietro, recitava: “hic jacet impius inter Pios” (“qui giace un non pio tra i Pii”).

 

 

 

 

 

Bibliografia

Amadio, Siciolante, Girolamo, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, 92, 2018.

Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Roma, Tipografia Vaticana, 1891.

P. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, Roma, Mascardi, 1672.

Cheney, De’ Rossi Francesco detto il Salviati, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, 39, 1991.

Kubersky – Piredda, T. Daniels, Santa Maria dell’Anima, Ruswil, Archipel Verlag, 2020.

Leuschner, The Young Talent in Italy, in Michael Coxcie (1499-1592) and the Giants of his Age, a cura di K. Jonckheere, Londra, 2013, pp. 50-63.

Lorizzo, Carlo Maratta e la chiesa di Santa Maria dell’Anima: il restauro della pala di Giulio Romano e la Nascita della Vergine per la sacrestia, in “Rivista d’Arte”, 5, 3, 2013, pp. 241-256.

Monbeig Goguel, Francesco Salviati e il tema della Resurrezione di Cristo, in “Prospettiva”, 13, Firenze, Centro di Della, 1978, pp. 7-23.

Nova, Francesco Salviati and the ‘Markgrafen’ Chapel in S. Maria dell’Anima, in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, 25, 3, Firenze, 1981, pp. 355-372.

Ottani Cavina, Saraceni, Carlo, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, 90, 2017.

Parlato, Giulio Romano, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, 57, 2001.

Rendina, Le chiese di Roma, Roma, Newton Compton, 2000.

Samperi, La fabbrica di Santa Maria dell’Anima e la sua facciata, in “Annali di architettura”, 14, 2002, pp. 109-128.

Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze, Giunti, 1568.


LA CHIESA DI SAN MICHELE A CAGLIARI

A cura di Ilenia Giglio

 

San Michele a Cagliari

 

La chiesa di San Michele a Cagliari, facente parte del complesso monumentale comprendente anche l’ex residenza gesuitica, sorge nel suggestivo quartiere di Stampace. La sua costruzione è collegata alla presenza gesuitica in Sardegna e ancora oggi rimane la principale testimonianza di arte barocca nell’isola. La compagnia di Gesù, già presente in Sardegna nella città di Sassari, giunse a Cagliari nel 1564 per costruirvi una comunità, stabilendosi nell’attuale chiesa di Santa croce in castello. Negli anni direttamente successivi si decise di ampliare il noviziato: ciò fu reso possibile dalla bolla pontificia di Gregorio XIII, grazie a cui poterono iniziare i lavori in via Monti, antico nome di via Ospedale, sul sito della chiesa dei santi Michele e Egidio. Visto il grande numero di novizi gli spazi si rivelarono ben presto insufficienti e si rese necessario un ampliamento del noviziato, una grossa spesa a cui i gesuiti non poterono far fronte. Tuttavia nel 1795 mons. Giovanni Sanna vescovo di ampurias decise di indirizzare una grossa donazione alla compagnia che poté così riprendere i lavori adattando il noviziato alle proprie esigenze.

 

La costruzione della chiesa

Sempre grazie a un’altra donazione si deve la nascita della bellissima chiesa di San Michele, la cui costruzione venne avviata diversi decenni dopo rispetto al noviziato. Infatti il cantiere venne aperto solo nel 1674, quando il giurista Francesco Angelo Dessi lasciò alla compagnia una copiosa eredità che permise, non solo di ristrutturare il complesso gesuitico, ma appunto anche di annettervi una nuova chiesa. Il progetto, che doveva seguire gli stretti parametri edilizi gesuitici, venne affidato al lombardo Francesco Lagomaggiore e prese forma negli ultimi anni del 1600 quando venne inaugurata, sebbene fossero ancora da completare i lavori della facciata e della sagrestia, conclusi intorno agli anni ’20 del secolo successivo. Nel 1738 la chiesa venne poi consacrata a San Michele Arcangelo dal vescovo di Usellus e Terralba, mons. Antonio Carcassona.

La chiesa di San Michele fu una delle poche chiese a superare senza troppe peripezie la prima soppressione della compagnia voluta da Papa Clemente XIV nel 1773, difatti qui si concentrarono moltissimi ex gesuiti sardi e grazie a loro si salvò il patrimonio artistico della chiesa, eccezion fatta degli arredi liturgici distribuiti in altre chiese dell’isola.

 

La facciata

La chiesa risulta abbastanza singolare nel capoluogo, discostandosi dalla maggior parte degli altri edifici religiosi che seguono essenziali linee romaniche e neoclassiche. La sua struttura in tufo argilloso ripropone la forma tipica di un retablo presentandosi tripartita longitudinalmente, con un’ampia facciata ulteriormente scandita in registri orizzontali. Il primo registro presenta tre ampie arcate incorniciate da semicolonne con capitelli corinzi che immettono a un portico voltato a crociera. Al di sopra della trabeazione fittamente decorata si erige il livello intermedio che segue la tripartizione sottostante, attraverso l’uso di colonnine che accompagnano la successione di finestre perpendicolari agli ingressi. Tali finestre rettangolari sono incorniciate da cariatidi e sormontate da timpani spezzati che racchiudono tre differenti stemmi: quello centrale riferito alla compagnia di Gesù, mentre gli stemmi laterali sarebbero invece dedicati ai due benefattori, a destra mons. Sanna e a sinistra Francesco Angelo Dessi. Infine il registro superiore, caratterizzato da sobrie volute laterali presenta ancora una volta delle colonnine entro cui si apre un’edicola dove è posta la statua del patrono, sormontata da un frontone triangolare.

 

Accedendo al portico il primo elemento che cattura l’attenzione è il cosiddetto pulpito di Carlo V addossato alla parete. Pare che esso provenisse dalla chiesa dei Frati minori conventuali di S. Francesco in Stampace e il motivo della denominazione ci viene fornito da un’iscrizione latina che lo circonda e che narra come nel 1535 Carlo V, diretto a Tunisi, sbarcò prima a Cagliari e qui si fermò ad ascoltare la messa seduto proprio su questo pergamo. Il portale invece si trova sulla destra, in cima a una scalinata marmorea e risulta ruotato di novanta gradi rispetto all’orientamento della facciata.

 

La pianta e l’interno

 

Il corpo della Chiesa sorge dall’incontro tra la pianta centrale e quella longitudinale grazie a un’espediente utilizzato anche in altre chiese gesuitiche dell’isola: la pianta ottagonale ad aula unica si dirama in otto cappelle radiali, di cui due centrali notevolmente maggiori per consentire l’ampliamento a croce in mancanza del transetto. Le cappelle sono comunicanti tra loro in modo da formare un deambulatorio scandito da ampie paraste, le maggiori, riccamente decorate e affrescate, sono fornite di altare e sono dedicate a sant’Ignazio da Loyola e San Francesco Saveriosi, inoltre si aprono direttamente sulla volta della chiesa. Le altre sei, minori di dimensioni, sono invece voltate a botte e dedicate a Luigi Gonzaga, Francesco Borgia, Maria Bambina, Sacro cuore, San Juan Francisco Regis e la Vergine con il bambino. Le paraste sorreggono l’ampia trabeazione su cui si innesta la cupola tramite raccordi a vela e pennacchi dove sono raffigurati gli evangelisti. Esternamente la cupola poggia su un tamburo ottagonale su cui si aprono quattro finestre alternate ad altrettanti ottagoni ciechi, e termina in un lucernario, alla sua base invece sono stati affiancati due campanili a vela, entrambi a due luci.

 

Tuttavia ciò che davvero rimane impresso dell’interno della chiesa di San Michele è la ricchezza delle decorazioni, perfettamente aderente alla linea barocca: essa è stracolma di stucchi, affreschi e marmi. Questi ultimi sono stati ampiamente utilizzati nella zona presbiteriale dove si trova anche l’altare maggiore composto da paliotto marmoreo entro colonne tortili. Esso venne realizzato a Genova da Giuseppe Maria Massetti e poi assemblato in loco da Pietro Pozzo, ponendo al di sopra la statua lignea di San Michele risalente al 1600. Lo sfarzo del marmo venne ripreso oltre che nella pavimentazione policroma anche nel monumento funebre del Dessi.

La chiesa è composta da altri due ambienti in cui si accede tramite le ultime cappelle: l’antisacrestia e la sacrestia. In questi spazi trionfa la pittura, le pareti difatti sono interamente decorate da stucchi dorati e ampie tele, più di venti in totale, attinenti alla spiritualità.

 

I soggetti trattati nell’antisacrestia sono i misteri dolorosi e gloriosi del rosario, dell’artista Giuseppe Deris, accompagnati dalle sei statue dei misteri della passione di Gesù Cristo dello scultore Limois, che ancora oggi vengono portate in processione. La sacrestia invece è caratterizzata da una volta a botte lunettata dove una folta schiera di putti regge i tre medaglioni affrescati raffiguranti la cacciata degli angeli ribelli ad opera di San Michele e il trionfo del nome di Gesù, opera dell’Altomonte anche conosciuto come Hoheberg, autore di molti altri affreschi della chiesa e che in questo caso si ispirò probabilmente all’affresco che il Baciccia realizzò nella volta della chiesa del Gesù di Roma. Le pareti della sacrestia sempre affrescate dell’Altomonte presentano nei lati brevi scene bibliche in cui compare l’arcangelo Michele mentre i lati lunghi ospitano otto rappresentazioni di miracoli dei santi gesuiti (in collaborazione con Domenico Colombino). La punta di diamante è probabilmente la strage degli innocenti posta sopra l’ingresso, la più grande tela sacra di Cagliari.

 

 

 

Informazioni utili

La chiesa è sita in via Ospedale, è visitabile nei giorni feriali dalle 10:30 alle 12:30 e dalle 17 alle 20:30. Nei giorni festivi invece dalle 10 alle 12 e dalle 19 alle 21.

 

 

 

 

Bibliografia

Naitza, Architettura dal tardo ‘600 al classicismo purista. Nuoro, Illisso, 1992.

Corrado Maltese, Arte in Sardegna dal V al XIII secolo, Roma, De Luca, 1962.

 

Sitografia

https://sanmichelecagliari-gesuiti.it/

https://www.sardegnacultura.it/j/v/253?v=2&c=2488&t=1&s=19254


SANTA MARIA DELLA PIAGGIOLA

A cura di Teresa Beccaccioli

 

 

La raffinatezza di Ottaviano Nelli nella città dei ceri

 Recenti studi hanno fatto emergere una nuova gemma preziosa del territorio umbro, situata nella bella terra di Sant’Ubaldo.  Gubbio, infatti, oltre ad essere la patria del celebre Oderisi, diede i natali anche ad un altro grande pittore, vissuto tra la fine del Trecento e la metà del secolo successivo: Ottaviano di Martino Nelli. Volendo riassumere in poche righe quella che fu la vita iperattiva ed appassionata del Nelli, si potrebbe iniziare dall’anno di nascita, che si colloca attorno al 1370. Al tempo, la città era nel pieno di una rinascita sociale e culturale, avvenuta grazie all’arrivo dei Montefeltro nel 1384; questi, fortemente appoggiati dal popolo, cercarono di instaurare una signoria, mantenendo salde le istituzioni comunali e sostenendo le corporazioni artigianali.

Nelli - o Melli (forse nipote del famoso Mello da Gubbio) – si trovò così, più volte, a lavorare per la nobile famiglia con la quale collaborò spesso negli anni, come attesta la familiarità del tono con il quale il pittore rispose ad una lettera di Caterina Colonna – che nel 1434 era la seconda moglie di Guidantonio da Montefeltro – avvertendola circa il ritardo nella realizzazione di un’opera da lei commissionatagli.

Le notizie sul Nelli lo vogliono alla guida di una bottega molto attiva ed eclettica dove, alla pittura a fresco e a quella su tavola, vengono realizzate anche decorazioni polimateriche, nelle quali si attesta anche l’impiego della cera, visto il legame con suo suocero, il più grande rivenditore di cera di Gubbio. A una produzione più ordinaria, poi, si alternava anche la realizzazione di stemmi e stendardi, disegni e progetti per carpenterie. È noto, inoltre, che il Nelli ebbe un ruolo non indifferente nella realizzazione dei monumenti funebri dei genitori di Guidantonio.

La “gemma preziosa” di cui si è accennato è però un affresco rappresentante una Madonna col Bambino tra due angeli, oggi conservato nella chiesa di Santa Maria della Piaggiola, purtroppo attualmente inagibile a causa dell’ultimo terremoto che ha colpito quest’area. La chiesa venne eretta solo nel secondo decennio del XVII secolo, presso la porta di San Pietro, appena fuori le mura urbiche ed in prossimità di una veneratissima edicola, la cosiddetta Maestà della Piaggiola. Nel 1454 la confraternita dei Putti de’ Bianchi, a cui apparteneva l’edicola, decise di erigere un oratorio proprio in quell’area, visto il grande afflusso di fedeli che la visitavano ogni giorno. Ma fu solo nel 1624 che si procedette al distacco a massello dell’affresco in questione che venne murato all’interno dell’altar maggiore. Un’operazione di questo tipo fu possibile anche grazie al contributo finanziario del conte Vittorio Chiocci, a cui spettava il giuspatronato della cappella. Per dare nuova facies all’antica immagine mariana, venne chiesto a due artisti pesaresi, Marco e Paolo Guidangeli, di realizzare una cornice in stucco con angioletti svolazzanti, nella quale inserire il frammento di un affresco che, nella sua collocazione originale, doveva essere sicuramente più ampio e completo, e che, attribuito alla bottega – il nome avanzato è stato quello di Francesco Rossi – è stato riscoperto come opera autografa solo negli ultimi anni, anche grazie agli studi elaborati per la recente mostra tenutasi a Gubbio, intitolata  Oro e colore nel cuore dell’Appennino: Ottaviano Nelli e il 400 a Gubbio[1]

La commissione per la Madonna giunse a Ottaviano Nelli nel 1405, in una fase estremamente produttiva per l’artista, che proprio in quel periodo tentava una sintesi delle varie esperienze formative vissute negli anni della giovinezza, dal diffuso neogiottismo ai latenti influssi gotici. Nell’affresco in questione, la Madonna è raffigurata di tre quarti, mentre sorregge in piedi il suo bambino che, con magnifica icasticità, benedice e sventola un cartiglio sul quale si legge: “[Ego sum] lux mundi qui sequ[itur me] / [n]on ambulat [in tenebris]” (Gv 8,12).  Il trono su cui siede la Madre rappresenta un grandioso esercizio di prospettiva nel quale anche la collocazione originale dell’affresco doveva svolgere un importante ruolo. La costruzione architettonica dei troni è senza dubbio uno dei fondamenti della pittura di Ottaviano Nelli: una composizione così ardita, arricchita non solo da marmi policromi e trafori ma anche da statue, pinnacoli e animali fantastici, in altri casi, dimostra un esplicito riferimento dell’autore a quello che viene definito neo-giottismo, il fenomeno di “ritorno a Giotto” e una consapevolezza della sua eredità che ha caratterizzato la fine del XIV secolo e che si è espresso, nella pittura di Nelli, anche nel frequente utilizzo di scorci illusionistici, come quello nel quale doveva essere immerso il nostro affresco nella sua collocazione originale.  Questi troni “torreggianti e cuspidati”, come li definisce Andrea De Marchi[2] nel grandioso catalogo della recente mostra sull’artista, presuppongono la conoscenza del pittore delle Maestà in trono dell’Italia nordorientale: sembrerebbe probabile, infatti, che proprio durante il primo decennio del 1400 –  più precisamente tra il 1404, anno di morte di Antonio da Montefeltro, e il 1409 – il pittore avesse viaggiato nel Nord Italia.

Ad uno sguardo ravvicinato, sono altri i particolari che possono essere notati, dalla policromia dei marmi messi in scena alle mattonelle decorate con elementi geometrici della seduta, fino alla zoccolatura su cui poggiano bifore angolari dal sapore gotico, dai pilastrini tortili e capitelli compositi. Dagli archetti trilobati, inseriti in più grandi ogive, si affacciano poi due angioletti oranti dalle vesti a toni pastello. Il postergale cuspidato, poi, è arricchito ai margini da decorazioni fitomorfe che il Nelli sembrerebbe aver preso in prestito direttamente dal capolettera di un codice miniato. Altre cuspidi e pinnacoli dovevano presenziare nella originale ed incorrotta versione del nostro affresco. La cura per i dettagli e la minuziosità del Nelli per le decorazioni, rese con mano d’orefice, non risparmiano le vesti dei due protagonisti: il bambino indossa l’oppelanda – un mantello chiuso molto diffuso alla fine del Trecento – che Nelli potrebbe aver carpito dallo studio delle opere di Cola Petruccioli, pittore orvietano attivo nella seconda metà del 1300. Usata più volte per il Bambino, ma anche per gli angeli, è una vesticciola abbottonata sul collo, con grandi maniche a sacco, visibile, ad esempio, anche nella Madonna del Belvedere della chiesa di Santa Maria Nuova a Gubbio. Lo avvolge, come in un caldo abbraccio, un mantello bianco con risvolto rosso, tutto ornato da ricami dorati. La Vergine, invece, abbigliata secondo la classica iconografia, indossa un abito rosso e un mantello blu –  anche questo con delicati motivi dorati – e porta, sul capo, un velo bianco che, solo a livello delle orecchie, lascia intravedere il maphorion sottostante, reso con impercettibili pennellate. I volti e gli incarnati di un’opalescenza levigata, sono avvolti dalla luce che colora sfumature sensibili e avvolgenti.

 

 

 

 

Note

[1] A cura di Andrea de Marchi e Maria Rita Silvestrelli, Palazzo Ducale e Palazzo dei Consoli 23 settembre 2021- 09 gennaio 2022.

[2] De Marchi A., Silvestrelli M. R., Oro e colore nel cuore dell’Appennino: Ottaviano Nelli e il ‘400 a Gubbio, Silvana Editoriale, 2021.

 

 

 

 

 

Bibliografia

  1. De Marchi, M. R. Silvestrelli, Oro e colore nel cuore dell’Appennino: Ottaviano Nelli e il ‘400 a Gubbio, Silvana, Cinisello Balsamo, 2021.

IL MONASTERO ALTOMEDIEVALE DI TORBA A CASTELSEPRIO

A cura di Beatrice Forlini

 

 

Storia del luogo

L’antico monastero femminile di Torba (fig.1), un tempo parte di un complesso di edifici di età tardoantica, sorge oggi in una zona boschiva alle pendici del colle di Castelseprio, nella provincia di Varese. La vicenda di Torba ha infatti origini antichissime, il primo nucleo costruttivo era un castrum cinto da mura difensive con la funzione di avamposto militare a protezione dall’incombente minaccia di invasione da parte dei popoli barbarici. Di questo blocco rimangono, fortunatamente, ancora oggi importanti tracce, nonostante le numerose modifiche del sito avvenute nel corso dei secoli. Legato a Torba rimane però soprattutto un mistero; nonostante i numerosi studi, che anche nell’ultimo periodo hanno portato all’attenzione nuove considerazioni e ipotesi, non si è ancora arrivati a scoprire la destinazione d’uso effettiva della torre altomedievale entrata poi a far parte del monastero benedettino.

 

 Il monastero

In epoca medievale questo sito ebbe grande importanza continuando a mantenere la funzione di cittadella fortificata ma, come testimoniato dalla chiesa di S. Maria Foris Portas e dai resti del monastero e della chiesa di Santa Maria  (fig. 2), in una veste totalmente cambiata. A partire dal VIII secolo, infatti, venne fondato un monastero benedettino, gestito da monache, le quali si impegnarono per trasformare la vecchia architettura militare in un luogo di culto; l'antica torre di vedetta, usata per il controllo dei passaggi sul fiume Olona, entrò a far parte del monastero, così come il corpo trasversale che sorgeva su parte delle mura antiche. Si impegnarono inoltre per far edificare una chiesa ad aula unica, absidata e con cripta.

Per circa sette secoli la comunità femminile abitò questo luogo, lasciando in eredità una serie molto particolare di affreschi realizzati nella torre: sicuramente interessanti per la loro particolarità iconografica, hanno però spesso messo in difficoltà gli studiosi per via della complicata interpretazione.

Nel XVI secolo le monache Benedettine si trasferirono nella vicina località di Tradate, lasciando l'edificio in affitto a contadini locali, e per questo luogo cominciò un lento declino. L'edificio subì quindi un’ulteriore trasformazione diventando sede delle nuove abitazioni dei massari e la piccola chiesa di Santa Maria fu adibita a stalla.

Il complesso, dunque, si tramutò in azienda agricola e, a inizio Ottocento perse definitivamente la propria funzione religiosa. Al momento dell'allontanamento dei contadini, l'edificio versava in uno stato di degrado molto avanzato ma fu fortunatamente acquistato nel 1977 da Giulia Maria Mozzoni Crespi che lo donò al FAI. Grazie all’intervento del Fondo Ambiente l’ex monastero riacquisì importanza, si trattò inoltre di uno dei primi beni acquisiti dall’associazione e questo ha permesso i tempestivi interventi di risanamento e di restauro per salvare il complesso architettonico del monastero.

Anche se è stato fortemente ristrutturato e rimaneggiato rispetto a come doveva apparire in origine, l’acquisto è stato fondamentale per dare inizio a numerosi studi analitici, anche a livello archeologico. Grazie ai molteplici studi, alcuni ancora in corso, si sta cercando di ricostruire la storia di questo luogo particolare e di far sì che ottenga la giusta considerazione in qualità di uno dei più antichi e autorevoli monasteri altomedievali, di cui rimane la straordinaria torre a quattro livelli.

Tappa fondamentale per questo millenario complesso fu sicuramente l’inserimento nel 2011 tra i beni patrimonio UNESCO. Il sito infatti è ancora oggi teatro di importanti ritrovamenti di epoca longobarda ed è tra le tappe imprescindibili del percorso della via Francisca del Lucomagno, cammino che si sviluppa per oltre 100 km toccando numerosi luoghi di interesse. Una parte del complesso è oggi adibita a ristorante.

 

La Struttura

Il portico del corpo longitudinale del monastero doveva avere tre grandi archi (fig. 3), i quali vennero tamponati al momento della spartizione dell’ambiente tra famiglie contadini, con l’obiettivo di ricavarne nuovi locali di residenza, ma successivamente ripristinati grazie al restauro FAI. In questa parte è situato oggi il ristorante, impostato sulla spina romana della muratura tardoantica; essa è ancora in parte visibile all'interno del refettorio, dove si trova anche il grande camino molto antico. La presenza di portici testimonia inoltre l'ospitalità che doveva essere riservata a pellegrini e viaggiatori di passaggio, offrendo un luogo coperto per il riposo, erano poi presenti ambienti della clausura e la torre a più livelli.

 

La Torre

La Torre di Torba (fig. 4) venne con molta probabilità costruita utilizzando materiale di riuso ricavato dalla demolizione di complessi cimiteriali di epoca romana. Secondo molti studiosi l’edificazione della torre è attestabile intorno alla fine del V secolo e doveva essere inizialmente munita sia a est che a nord di contrafforti di sostegno. Con la conversione del complesso a monastero la struttura iniziale della torre è stata per ovvie ragioni profondamente modificata e successivamente vi è stato aggiunto, ormai in epoca rinascimentale, un quarto livello in altezza.

Con la perdita del suo ruolo di bastione difensivo, l’architettura della torre venne addolcita;  vennero costruite delle scale esterne in muratura, le feritoie vennero trasformate in finestre e il secondo piano venne adibito ad oratorium monasteriale con pareti dipinte ad affresco. Questi sono presenti anche nel primo piano, ma frammentari, anche se più integri rispetto a quelli presenti nella chiesa adiacente.

I primi tre livelli appartengono sicuramente alla fase più antica di riqualificazione della torre (VIII-IX secolo) anche se si sono fatte molte supposizioni su quale fosse la funzione di questa torre all’interno del monastero, soprattutto perché ci sono solo pochissimi altri esempi di torri altomedievali ancora in alzato.

Quasi sicuramente il primo piano, oggi quasi interrato, è stato utilizzato per molto tempo come cucina e/o magazzino visto il ritrovamento di numerosi resti di focolari, mentre è più difficile stabilire la precisa destinazione d’uso dei due piani soprastanti, visto anche le diverse fasi di intonacatura e decorazione riscontrate da particolari analisi archeologiche.

 

Sono molto interessanti, infatti, i resti di affreschi del terzo piano (fig. 5-6-7) dove è dipinto Gesù tra santi e apostoli a rappresentare probabilmente una sorta di Dèesis, un soggetto utilizzato spesso nel medioevo per decorare facciate e absidi; sono però anche rappresentate le monache in una sorta di processione, per essere ricordate e celebrate nel tempo. Questi frammenti rivelano inoltre la prevalenza di molti personaggi vescovili, che testimonierebbero una committenza importante per l’epoca, ancora da provare.

Il secondo piano invece è di più difficile interpretazione perché all’inizio era stato lasciato a rustico, facendo pensare che si trattasse di un luogo non cerimoniale ma più di servizio. Alcuni studiosi ritengono possibile che il piano fosse adibito a sepolture a cassa o comunque non interrate, di cui però non c’è traccia e che sarebbero state senza dubbio molto inusuali per l’epoca.

In un secondo momento poi, in concomitanza con la decorazione ad affresco del terzo piano, anche questo secondo ambiente venne affrecsato; di queste decorazioni rimangono pochi frammenti e di difficile interpretazione, sono infatti per lo più simboli e qualche frammento figurato come quello che reca la raffigurazione di una monaca che probabilmente fu badessa del monastero: Aliperga.

 

 

 

 

 

Bibliografia

Castelseprio e Torba: sintesi delle ricerche e aggiornamenti, a cura di Paola Marina de Marchi, 2013, SAP libri, Mantova.

 

 Sitografia

https://fondoambiente.it/luoghi/monastero-di-torba

https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/LMD80-00784/

http://archeologiamedievale.unisi.it/castelseprio/larea-archeologica/torba/gli-affreschi


MARIA LAI

A cura di Denise Lilliu

 

La vita di Maria Lai

Tra le protagoniste donne della nostra storia dell’arte contemporanea non si può fare a meno di pensare a Maria Lai, nata nel 1919 A Ulassai, un piccolo paese ubicato nell’entroterra sardo.

Tra Ulassai e le campagne di Gairo Lai passò la sua infanzia. Un’infanzia in cui l’aria di campagna giocò un ruolo fondamentale per la salute cagionevole della giovane Maria. Già da questi primi momenti, poi, emerge la sua forte passione per il disegno e l’arte, a tal punto che i suoi genitori decisero di iscriverla ad un istituto nella città di Cagliari, una realtà indubbiamente più prestigiosa rispetto alle scuole del suo piccolo paese. A Cagliari suo professore fu Salvatore Cambosu, scrittore molto rinomato a cui va il merito di essere riuscito a trasmettere alla giovane Maria la passione per le parole e per la letteratura.

Nel 1939, spinta da un forte desiderio di indipendenza, Lai si trasferisce a Roma, dove inizia a frequentare il liceo artistico. Nella capitale muove i primi passi nel mondo dell’arte, e anche se lentamente, inizia ad essere notata, ad acquisire visibilità nell’ambiente romano, indubbiamente più ricco di stimoli e di possibilità rispetto a ciò che l’isola poteva darle in quel momento.

Dopo il diploma, il percorso di Maria continua nella città di Venezia, dove inizia a frequentare l’Accademia delle Belle Arti che le spiana definitivamente la strada per una brillante carriera nel mondo dell’arte. È a Venezia che Lai conosce, al tempo delle prime battute della seconda guerra mondiale, lo scultore Arturo Martini.

Sul finire della guerra Maria decide di tornare nella sua isola, dove riprende il sodalizio con il suo ex professore delle scuole medie Salvatore Cambosu. Da quel momento in poi Lai partecipò a diverse mostre, alcune con artisti molto prestigiosi del calibro di Lucio Fontana, per poi abbandonare nuovamente la Sardegna e ritornare a Roma. L’isola, del resto, era diventato un luogo insicuro per Maria, in seguito al rapimento di suo fratello, in una vicenda molto probabilmente legata alle scorrerie dei banditi della Barbagia.

In questo periodo Lai iniziò un’attività in proprio, aprendo il suo primo studio artistico e dimostrando una forte volontà di sperimentazione tecnica, prima di isolarsi e di non esporre più nessun lavoro per oltre dieci anni.

All’apertura di uno studio ha seguito anche l’apertura di un museo nel suo paese, il museo “Stazione dell’Arte”. Il museo, che custodisce al suo interno la più grande collezione pubblica delle sue opere, ha purtroppo rischiato, a discapito degli abitanti di Ulassai e dei visitatori, di chiudere i battenti. La sua arte ebbe un grande riscontro, in Sardegna, nel suo paese – a cui destinò molte delle sue opere pubbliche – ma anche in Italia e nel mondo. Proprio in Sardegna, a Cardedu, Maria Lai si spense nel 2013, all’età di novantatre anni.

 

La foto rappresenta Maria Lai fotografata nel 2012, ormai anziana.

Le opere di Maria Lai, che venne peraltro insignita di una laurea honoris causa in lettere, sono oggi esposte in alcuni dei musei più importanti del mondo, dal Centre Georges Pompidou di Parigi al MoMA di New York, passando per Firenze e addirittura per Roma, a palazzo Montecitorio.

 

La foto rappresenta il Museo Stazione dell’arte, chiamato così perché nato dentro una ex stazione ferroviaria.

 

L’artista tessile

Quella per l’arte, per Maria Lai, non era certamente l’unica passione. L’artista, infatti, era solita cimentarsi nella poesia, scrivendo componimenti che poi riportava nelle sue opere – soprattutto su tela – motivo per cui le è stato dato l’appellativo di “artista tessile”. Le frasi, le poesie, venivano cucite nei telai, sopra i libri e addirittura nel pane, legandosi indissolubilmente alla terra e avvicinando, in un certo senso, la pratica della Lai all’Arte Povera.

Proprio i telai rappresentano e simboleggiano la donna sarda e il lavoro femminile, divenendo lo strumento più congeniale all’artista per raccontare storie. A questo filone appartengono le cosiddette favole cucite, una serie di tre opere legate alla letteratura. Le “fiabe”, ma anche i “miti, leggende, feste, canti, arte” ebbero del resto sempre un ruolo di primo piano nella pratica artistica di Lai, che le considerava il mezzo con cui l’uomo riusciva a “mettere insieme il visibile e l’invisibile.

Alla prima di queste favole, Tenendo per mano il sole, opera che diede anche il titolo a una delle sue mostre, fanno seguito tenendo per mano l’ombra e Curiosape. Quest’ultima, poi, altro non è che la reinterpretazione di una favola scritta originariamente da una bambina in occasione di un concorso letterario. Curiosape era un’ape molto creativa, curiosa per l’appunto, e molto allegra, motivo per cui venne condannata dalla regina, per la quale la troppa allegria rappresentava una pericolosa fonte di distrazione e di perdita di tempo dal lavoro, dagli affari quotidiani.  Successivamente, però, il ruolo di Curiosape venne rivalutato, e a lei venne affidato il compito di organizzare eventi e spettacoli per intrattenere e ravvivare l’ambiente tra le api.

 

Legarsi alla montagna

La sua opera più conosciuta e meravigliosa, anch’essa legata al suo paese, è peròLegarsi alla montagna, ovvero una performance con la quale l’artista è riuscita a coinvolgere la maggior parte degli abitanti del paese. L’origine della performance è da ritrovarsi in una leggenda del “Sa Rutta de is'antigus” (La grotta degli antichi), assai nota nel paese e ispirata ad un fatto realmente accaduto. Secondo la leggenda, una bimba, diretta verso la montagna con una cesta di cibo da portare ai pastori, fu costretta per il sopraggiungere di un temporale a cercare riparo all’interno di una grotta.  che con un cesto di cibo era diretta verso la montagna per portare da mangiare ai pastori, durante la salita si sviluppa un forte temporale che la costringe a cercare riparo dentro una grotta. Nella caverna la bambina nota un filo azzurro, un piccolo nastro grazie al quale riuscì a salvarsi dalla successiva frana.

È proprio il filo azzurro ad essere il punto centrale dell’opera di Lai, messa in scena per le vie del paese l’8 settembre del 198. Un evento unico, spettacolare e dalla forte carica di modernità – specialmente in territorio sardo – prontamente documentato sia da troupe fotografiche che da giornalisti accorsi sul posto. La performance dell’artista e degli abitanti di Ulassai durò tre giorni, e in questo periodo di tempo il filo, un nastro lungo circa ventisette kilometri, venne tagliato, distribuito tra gli abitanti del paese e infine portato per tutte le strade. Il nastro stava a simboleggiare il legame fisico e mentale che univa indissolubilmente tra loro tra le case, le persone e i luoghi, creando un legame di amicizia e di fratellanza fino ad arrivare alla montagna, il Monte Gedili, simbolo del paese.

Per Maria Legarsi alla montagna è la sua prima opera d’arte “relazionale”, una grande innovazione con cui riesce a coinvolgere anche il pubblico – che diventa conseguentemente esecutore e quindi “artista” a sua volta – anche se a primo impatto la proposta di Lai fece registrare un certo scetticismo da parte dei compaesani.

 

Informazioni utili per visitare il museo

Il Museo è visitabile anche senza visita guidata dalle 9:30 alle 19:30.

Aperto dal Martedì alla Domenica. Chiuso il Lunedì.

 

 

Sitografia

Il Museo -  Stazione Dell'Arte - Museo d'arte contemporanea (stazionedellarte.com)

Maria Lai, Opere e parole • Oltre l'Arte (lezionidarte.it)