TARQUINIA CITTÀ ETRUSCA

“… Qui rise l’Etrusco, un giorno, coricato, cogli occhi a fior di terra, guardando la marina. E accoglieva nelle sue pupille il multiforme e silenzioso splendore della terra fiorente e giovane, di cui aveva succhiato il mistero gaiamente, senza ribrezzo e senza paura, affondandoci le mani e il viso…”

Vincenzo Cardarelli,

Profughi, Viaggi nel Tempo

Tarquinia: una città etrusca

Tarquinia, un'antica città etrusca, è rinomata per la necropoli con le sue tombe dipinte, dichiarate dall'Unesco “Patrimonio Mondiale dell’Umanità”, e per il Museo Archeologico Nazionale (allestito nel rinascimentale Palazzo Vitelleschi), che annovera nelle sue sale una straordinaria raccolta di reperti. Le origini mitiche della città sono da ricondurre alla leggenda di Tirreno, figlio del re della Lidia: egli guidò metà della popolazione del regno di suo padre sulla costa italica compresa tra la foce dell’Arno e quella del Tevere per fondarvi una nuova nazione: l’Etruria. Tarquinia e le dodici città dello stato sarebbero poi state fondate da Tarconte, principe della Lidia, figlio (o fratello?) di Tirreno.

Il comprensorio archeologico di Tarquinia, con la città posta in posizione panoramica su un piccolo altipiano in prossimità del mare, sorge sul così detto Colle della Civita, un ampio pianoro isolato e battuto dai venti. Qui si trovano evidenze archeologiche molto importanti dell’area sacra della città; vi sono stati ritrovati moltissimi dei reperti oggi conservati al Museo di Palazzo Vitelleschi, compresi i famosi Cavalli Alati, simbolo di Tarquinia in tutto il mondo.

Si tratta di un gruppo fittile databile tra il IV e il III sec. a.C., che raffigura due cavalli scalpitanti e pronti a spiccare il volo: quest’opera decorava il frontone del grande tempio chiamato Ara della Regina, un grandioso edificio dedicato ad una divinità sconosciuta, ubicato nell'area sacra della Civita.

 

Nel museo sono esposti tre straordinari oggetti in bronzo, risalenti al VII sec. a.C., rinvenuti nella nuda terra dell’area sacra: un’ascia, una tromba di liuto e uno scudo decorato a sbalzo.

La cura nella deposizione degli oggetti ha fatto sin da subito pensare che appartenessero a qualcuno che aveva esercitato un potere sacro ed eccezionale. Tuttora non si sa chi fosse il possessore, forse un condottiero che aveva conquistato con la forza l’apice della gerarchia politico-militare della città; forse il rappresentante più ricco di un gruppo di famiglie potenti; forse un sacerdote dotato di capacità divinatorie non comuni. Come che sia, i Tarquiniesi lo chiamavano Lauchma, Lucumone: a Roma un personaggio di questa levatura avrebbe avuto l’appellativo di Rex.

Altro eccezionale reperto conservato all’interno del museo è il sarcofago marmoreo di Laris Pulena, il Magistrato, membro di una aristocrazia tarquiniese gelosissima dei suoi privilegi. Oggi egli continua a scrutare i visitatori con lo sguardo severo e le sopracciglia aggrottate, semidisteso a copertura del suo stesso sarcofago. Con la molle mano inanellata indica, nel volumen che tiene srotolato davanti a sé, la storia della propria famiglia.

 

Altri celebri reperti esposti all’interno del museo sono il Ryton, vaso a forma di testa femminile dallo sguardo enigmatico e dalla sottile ironia, del ceramista Charinos, e la Coppa di Oltos, dalle dimensioni eccezionali prodotta nell’officina di Euxiteos, raffigurante un’assemblea divina.

Al secondo piano sono conservati gli affreschi staccati di due tombe, che non si sarebbero altrimenti salvati dalla distruzione a causa delle pessime condizioni ambientali in situ. Una di queste è la tomba del Triclinio (470 a.C. ca.), che restituisce un’idea assai dettagliata delle fastose celebrazioni in onore del defunto, durante le quali il connubio tra cibo, musica e danza, era inscindibile. Sulla parete di fondo tre coppie di commensali banchettano serviti da un giovane coppiere, mentre un suonatore di diaulos (il flauto a doppia canna) allieta il simposio. Sulle pareti laterali si svolge una danza con giovani di ambo i sessi.

Se servisse un’ulteriore nota di colore, questa è fornita dalla presenza, sia nei reperti conservati al museo che nei dipinti delle tombe, di un esplicito riferimento al sesso: simboli fallici, rapporti sessuali consumati durante cacce o banchetti sono rappresentati in funzione apotropaica. Tanto espliciti e tanto numerosi che il museo ha dedicato loro un’intera sala espositiva!

Tuttavia, per sapere cosa rendesse gli Etruschi un popolo tanto facilmente identificabile tra le popolazioni del mediterraneo, così raffinato, non è sufficiente osservarli attraverso i sarcofagi di pietra o di terracotta: bisogna addentrarsi nelle loro abitudini, nella forte impronta che esse hanno lasciato fino a noi. Nelle tombe, che gli Etruschi vollero somiglianti alle loro case e riempirono di oggetti amati e significativi. E per fare una scorpacciata di usi e costumi la necropoli di Monterozzi è il posto perfetto; situata a sud dell’odierno abitato, si estende per circa 6 km in lunghezza e conta circa duecento tombe dipinte, le quali vengono aperte al pubblico con un criterio di rotazione per motivi conservativi.

Nelle tombe arcaiche è tutto piccolo, ilare e spontaneo; donne, uomini, servi, danzatori e musici, atleti ci appaiono bruni e spavaldi, con i volti vividi e i lineamenti accomunati da una calda consapevolezza sessuale e da una condivisa dedizione ai piaceri della vita, mentre nei sepolcri di epoca tarda i ritratti sono più realistici.

Volendo esemplificare il tipo di pittura che vi si può ritrovare, è curioso notare che gioiose raffigurazioni di banchetti, musica e danza decorano le pareti delle tombe tarquiniesi regalando all’osservatore moderno alcune tra le più vivaci rappresentazioni di questo tipo: la tomba dei Leopardi (470 a.C. ca.) presenta sulla parete di fondo la tradizionale scena di simposio con tre coppie semisdraiate su letti riccamente addobbati e due servi nudi; in alto due leopardi si affrontano con le fauci spalancate. Particolarmente interessanti sono le pareti laterali, sulle quali si dispiega un vasto campionario di musici, danzatori e offerenti.  Sulla parete destra, un giovane con indosso una corta clamide bruna e recante un piatto, è seguito da un suonatore di diaulos e da uno di lira, mentre a sinistra un gruppo di quattro giovani avanza verso il banchetto, preceduto da due suonatori.

 

Bibliografia:

Alfieri A., Valdi A. (a cura di), Tarchna, Edizione Comune di Tarquinia 2002

Menichino G., Escursionismo d’autore nella Terra degli Etruschi, Laurum Editrice, Pitigliano (GR) 2007

Sitografia:

Sito del Mibact al link: https://www.beniculturali.it/mibac/opencms/MiBAC/sito-MiBAC/Luogo/MibacUnif/Luoghi-della-Cultura/visualizza_asset.html?id=151564&pagename=57 (ultima consultazione 28/03/2020)

Sito Avvenire.it al link: https://www.avvenire.it/agora/pagine/cardarelli- (ultima consultazione 29/03/2020)

Sito dedicato a Tarquinia e Cerveteri patrimonio Unesco al link: https://www.tarquinia-cerveteri.it/tarquinia/necropoli-di-tarquinia/ (ultima consultazione 28/03/2020)


IL COMPLESSO RURALE DI BALSIGNANO

Nel territorio comunale di Modugno (BA), lungo la strada provinciale che collega quest'ultima a Bitritto,  sorge l'immenso complesso rurale di Balsignano, che comprende il Castello, la chiesa di S. Maria e la chiesa di S. Felice.

E' possibile ricavare le prime notizie riguardanti questo insediamento da alcuni documenti risalenti al X secolo che riferiscono la presenza di un castrum fortificato con alcune abitazioni, finché non fu  devastato dai Saraceni nel 988.

Verso la fine dell'XI secolo finì tra le mani dei monaci dell'ordine benedettino del monastero di San Lorenzo di Aversa, raggiungendo grande prestigio politico grazie alle numerose concessioni fatte da duchi normanni e dallo stesso Federico II.

Nel 1282, anno dei celebri Vespri Siciliani, i monaci benedettini affittarono il casale a Ruggero della Marra e, verso la metà del XIV secolo, a Francesco de Carofilio.

Durante il conflitto tra filoangioni, sostenitori di Giovanna d'Angiò, e filoungheresi, truppe del re d'Ungheria Luigi I il Grande, per la successione al trono del Regno di Napoli dopo la morte di Roberto d'Angiò, l'insediamento fortificato fu testimone di alcuni episodi bellici. Durante il XVI secolo, fu vittima di ulteriori attacchi nel periodo della guerra franco-spagnola.

Nel  '600 la gestione passò alla nobile famiglia modugnese dei Faenza, che durò fino alla fine del '700, ed infine nel 2000 fu venduto al comune di Modugno.

IL COMPLESSO RURALE DI BALSIGNANO: LE MURA

 

 

Il casale è circondato da un duplice sistema murario, attribuile al XIV e XV secolo : la prima cinta muraria, lunga 500 m, attornia l'intero insediamento, incorporando la seconda cinta muraria che difende il Catello, la chiesa di S. Maria e il cenobio benedettino.

Nella zona orientale era collocata una porta monumentale, di cui oggi ci sono giunti pochi resti che ci testimoniano la sua imponenza: infatti doveva essere fiancheggiata da due possenti torri. Però nel tratto meridionale erano collocate due torrette dotate di saettiere fortemente strombate. Il lato meridionale si unisce alla cinta muraria interna. Inoltre su quella esterna era possibile effettuare il camminamento di ronda, presumibile dalla presenza di alcune scale in pietra ricavate all'interno della muraglia.

Nei pressi di una torretta, è stata rinvenuta una tomba che custodiva lo scheletro di una donna, risalente al XV secolo, di 35-45 anni che aveva avuto molte gravidanze ed era morta di sifilide.

IL CASTELLO

 

Attraversando il portale della cinta muraria interna, è possibile ammirare la preziosa decorazione in bassorilievo che orna l'andamento del portale.

Il primo edificio che colpisce il visitatore è il grande castello, posto sulla destra. Questi è il risultato di una serie di interventi avvenuti nel corso dei secoli. Già durante il Medioevo, esso doveva essere costituito da due torri quadrangolari, innalzate successivamente, collegate tra loro da un possente corpo a due piani, svolgendo una funzione difensiva. Nel corso del XVII secolo, il castello divenne una sorta di dimora signorile, dotata di alloggi, cucine, una cisterna e colombiera.

Gran parte della struttura a noi oggi visibile, è frutto di una serie di restauri che hanno tentato di ridare al castello la sua immagine originaria, dal momento che era in situazioni critiche.

 

IL COMPLESSO RURALE DI BALSIGNANO: LA CHIESA DI SANTA MARIA

 

 

 

La chiesa di S. Maria è composta da due ambienti. Il primo vano fu costruito intorno al XIII secolo, con un impianto ad aula e una copertura lignea, ma nel XV secolo l'edificio subì degli interventi, come l'aggiunta di pilastri per sostenere l'attuale volta a crociera . In facciata, sopra il portale, è collocata una lunetta, all'interno della quale affiorano i resti di un affresco rappresentante una Madonna con il Bambino. All'interno troviamo una serie di affreschi sopravvissuti in maniera lacunosa. Sul muro settentrionale è possibile ammirare le figure di Santa Lucia, riconoscibile dal piatto su cui poggiano due occhi, un Santo Vescovo, ancora oggi si discute se attribuire questa immagine a San Ludovico da Tolosa o a San Donato, seguono due Vergini in trono ( probabilmente una Vergine della Tenerezza e una Vergine di Odeghitria) e due immagini fortemente danneggiate che raffiguravano una santa e un santo. Nella zona presbiteriale sono collocate le immagini di un San Michele Sauroctonos e di un Sant'Antonio Abate, riconoscibile dai suoi attributi iconografici, ovvero la campanella e il maialino, di cui sopravvive solo la coda riccioluta.

Anche il secondo ambiente presenta una serie di affreschi in grave stato, databili intorno al 1300. Nel catino dell'abside compare un Cristo in trono in un'ellisse ornamentale sorretta da serafini, nei due registri sottostanti invece abbiamo in uno la Madonna in trono, nell'altro i ritratti degli Apostoli. Di particolare risalto è il clipeo, posto sull'arcone, che inquadra la figura a mezzobusto di un profeta ebreo, riconoscibile dal tipico cappello a punta. Dagli ultimi restauri inoltre sono emerse una Crocifissione profondamente danneggiata e una seria di figure di santi difficilmente identificabili. Le campagne di scavo hanno riportato alla luce un'area cimiteriale caratterizzata da tombe a fossa e del tipo a cassa litica, prive di corredo, da collocare tra il XII e il XV secolo.

Del cenobio benedettino, invece, antistante la chiesa di S. Maria, ci è giunta solo una struttura, la cui precisa funzione non ci è nota, a pianta longitudinale con impianto ad aula, dotata di una sequenza di quattro arcate cieche, dentro le quali emergono tracce di affreschi.

 

LA CHIESA DI SAN FELICE

 

L'edificio è il risultato dell'unione di due chiese: la più antica, risalente al X-XI secolo, è costituita da un'unica navata dotata di due cupole ellittiche e una pavimentazione bizantina, mentre la seconda databile al XIII secolo, presenta una pianta a croce greca contratta, due campate sormontate da una volta a botte e una da una cupola con tamburo ottagonale. La chiave di volta della cupola centrale è scolpita con una Stella di David sulla quale poggia una manina ornata da un bracciale in perle, simboli dell'Ebraismo. Inoltre con molta probabilità l'interno della chiesa doveva essere interamente affrescato. La facciata è scandita e movimentata da una serie di archetti pensili e lesene. Durante il restauro del 1989, furono rinvenuti i resti di una necropoli e una preesistente chiesa d'epoca altomedievale.

 

Bibliografia

R. Caggianelli, “Balsignano. Un insediamento fortificato”, Mario Adda Editore, Bari, 2015.


IL CROCIFISSO DI MASTRO GUGLIELMO

IL CROCIFISSO NELLA CATTEDRALE DI SARZANA

L’opera è uno dei capisaldi della pittura romanica italiana e, come riporta l’iscrizione sopra la testa del Crocifisso, fu realizzata da Mastro Guglielmo nel 1138. Non si conosce nulla di questo artista se non che ci ha tramandato un’opera che è diventata il prototipo delle prime croci dipinte in Toscana. Gli ordini mendicanti ebbero un ruolo importantissimo nella diffusione di quest’ultime che si diffusero nel corso del XIII- XIV secolo, utilizzando  il crocifisso come principale fuoco prospettico e liturgico delle proprie Chiese.

L’opera di Sarzana, considerata la più antica, appartiene al tipo iconografico del Christus triumphans e proviene dalla Lunigiana, regione dell’entroterra toscano-ligure e si trova attualmente nella cattedrale di Sarzana a La Spezia.

In epoca romanica la pittura in Italia presenta ancora elementi di continuità con l’arte greco-bizantina, ma poi inizia a cambiare i contenuti e le finalità rappresentative. Una nuova forma di rappresentazione che si viene a creare  è proprio il crocifisso.

Le croci potevano essere dipinte direttamente sul supporto ligneo oppure su pergamena o cuoio che in seguito venivano applicati sul legno sagomato a forma di croce.

La croce dipinta, generalmente formata da più tavole di legno unite, è caratterizzata da una struttura di notevole complessità:

 

 

Nel XIII secolo, nei crocifissi, convissero due modelli iconografici, il Christus triumphans e il Christus patiens. Il primo modello sottolineava la natura divina di Cristo, il secondo la natura umana, la sua parte vulnerabile e più debole. A partire dalla metà del Duecento, con l’affermarsi degli ordini mendicanti, in tutta Europa prevalse ben presto il modello del Christus patiens. La contemplazione delle sofferenze di Cristo si tradusse nella sua esibizione all’interno delle chiese, in modo che la croce, posta sopra l’altare, potesse sollecitare i fedeli nella meditazione sulla morte e resurrezione di Gesù Cristo. Le prime trasformazioni iconografiche si videro con Giunta Pisano fino ad arrivare alle proposte di Cimabue e Giotto.

Il modello più antico rimane dunque il Christus triunphans, un Cristo vivo, con gli occhi aperti senza espressioni, trionfante sulla morte che allude alla resurrezione; un Cristo divino.

Il linguaggio pittorico del primo Medioevo in Liguria è legato a quello toscano, come dimostra l’opera di Mastro Guglielmo conservata dal 1678 nella cattedrale di  santa Maria Assunta a Sarzana e proveniente dall’antica cattedrale di Luni.

La figura del Cristo, in posizione frontale con la testa eretta al centro di un nimbo gemmato si staglia sullo sfondo della croce, come se fosse un trono. Il volto è sereno, gli occhi grandi sono aperti a significare Gesù vittorioso sulla morte. Il volto pur mantenendo i tratti bizantini, non è inespressivo, ma è probabilmente frutto di ridipinture avvenute nel corso del XIII secolo, come hanno testimoniato le indagini diagnostiche effettuate tra il 1942-1946.

Il perizoma gli avvolge i fianchi in modo elegante ed è fermato da una cintura dorata, riferimento allo status regale. Alla destra del tabellone è presente san Giovanni e una delle Marie, a sinistra la Vergine con un’altra Maria. Entrambi i soggetti intercedono presso il fedele indicandoci il Cristo mentre commossi e addolorati si asciugano le lacrime con un panno bianco. L’opera riprende i modelli iconografici orientali e i colori delle vesti hanno tutti una valenza simbolica profonda. Il rosso della veste della Madonna indica la divinità, mentre il manto blu, nella tradizione bizantina -il maphorion- indica la natura umana costellato di tre stelle ad alludere alla verginità di Maria prima, durante, e dopo il parto. Nel tabellone, completano la scena immagini della Passione.

Nei capicroci o terminali laterali, insieme ai simboli degli Evangelisti, sono rappresentati i profeti Geremia a destra e Isaia a sinistra. Sopra il capo del Cristo è presente la data e la firma dell’autore, mentre nella cimasa è raffigurata l’ascensione. Gesù è all’interno della mandorla di luce che ne sottolinea la potenza e la divinità e la sconfitta sulla morte davanti alla Madonna che protrae le braccia in segno di orazione.

La croce di Sarzana si contraddistingue per la presenza costante della Vergine, in quanto si ripete in scene nelle quali non ne è attestata la presenza nei Vangeli. Si deve probabilmente alla grande devozione mariana di Bernardo da Chiaravalle (1090-1153) la presenza assidua di Maria al cospetto di suo figlio, a cui il santo attribuiva enorme importanza nell’opera della redenzione.

Anche la presenza delle Marie non solo nelle scene, ma anche tra i dolenti, può avvalorare l’ipotesi della provenienza di croci dipinte da chiese monastiche di ordini religiosi femminili. Dall’altra parte è anche possibile  seguire la diffusione nell’area tosco-ligure delle leggende provenzali riferite alle pie donne. Al seguito della morte di Cristo, Marta, Maria Maddalena e Lazzaro furono gettati in mare insieme a Maria Salomone e Maria di Cleofa e miracolosamente trasportati sulle coste francesi, presso Marsiglia; la leggenda si è poi intrecciata con quella del sacro Graal.

Per quanto riguarda le iscrizioni presenti nella croce dipinta, attraverso lo studio delle varianti morfologiche e i rapporti dimensionali delle lettere, recenti approfondimenti,  hanno evidenziato come la croce di Sarzana si colloca in uno dei periodi decisivi nella storia della scrittura latina, nel momento di passaggio da uno stato grafico antico ad uno moderno. Tutta l’opera è corredata da iscrizioni che evidenziano la connessione tra opera dipinta e testimonianza scritta nel periodo medievale. Anche nei terminali dei bracci sono inseriti dei cartigli sorretti dai profeti Isaia e Geremia e le scritte servono ad individuare scene e personaggi. L’iscrizione maggiormente evidente rimane comunque quella sopra l’aureola di Cristo: il Titulis Crucis, realizzato in oro su sfondo rosso e la firma del maestro che  denota consapevolezza della propria autorialità e unicità nella produzione artistica.

 

Fig. 1 - Maestro Guglielmo, Crocifisso, 1138, tempera su tavola, Sarzana-La Spezia.

 

Fig. 2 - Particolare dell’iscrizione posta tra il capo di Gesù e la cimasa.

 

Fig. 3 - Particolare del volto di Gesù.

 

Fig. 4 - Particolare della Madonna.
Fig. 5 - Particolare di San Giovanni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia:

www.cattedraledisarzana.it

Guida d’Italia, Liguria, 7° ed., Milano, Touring Club Italiano, 2009

James Hall, Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte, Milano, Longanesi, 1983

La Pittura a Genova e in Liguria: Dagli inizi al Cinquecento, Genova, Sagep, 1987

Pinxit Guillielmus Il restauro della Croce di Sarzana, a cura di M. Ciatti, C. Frosinini, R. Bellucci,  Firenze, Edifir Edizioni Firenze, 2001

Scrittura epigrafica e scrittura libraria: fra Oriente e Occidente, a cura di Marilena Maniaci e Pasquale Orsini, Dip. di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale, 2015


IL CASTELLO DI MURAT A PIZZO CALABRO

ORIGINE DEL CASTELLO DI MURAT A PIZZO CALABRO

La costruzione del castello di Murat a Pizzo Calabro è legata agli eventi storici del periodo aragonese in Calabria. Il castello venne edificato nel XV secolo per volere del re di Spagna Ferdinando I di d’Aragona, giunto in Calabria per sedare la sanguinosa Congiura dei Baroni, ordita contro di lui da alcuni feudatari locali. Dopo aver sopraffatto in modo sanguinoso i cospiratori, il re aragonese costruì buona parte del sistema difensivo del suo regno ordinando la costruzione del castello nell'ottica di aumentare la forza del versante tirrenico. Il castello, completato nel 1492, è una struttura imponente dalle mura particolarmente spesse in quasi perfetto stato di conservazione. Le casermette addossate alle torri sono state abbattute per ordine della Sovrintendenza delle Belle Arti di Reggio Calabria nel 1945. Nel 1878 i locali adibiti a carcere ritenuti insufficienti e malsani furono trasformati in aule per scuole elementari maschili. Nel 1882 nella torre maggiore fu istituita una stazione meteorologica, mentre nel 1892 il Ministero della Pubblica Istruzione proclamò il castello “Monumento Nazionale”. Nel dopoguerra le stanze superiori sono state adibite a circolo ricreativo e culturale mentre i sotterranei, incorporati alle torri, in un modesto ostello per la gioventù capace di 40 posti letto.

IL CASTELLO DI PIZZO: GIOACCHINO MURAT

Il Castello di Pizzo deve la sua notorietà al fatto di essere stato carcere famoso e prigione politica d’importanza nazionale. Tra i prigionieri più celebri si ricorda Tommaso Campanella, filosofo e poeta di Stilo, e Ricciotti Garibaldi, figlio dell’eroe dei due mondi. Nel 1815 il Castello acquista notorietà mondiale per via della cattura di Gioacchino Murat, re di Napoli, e tutto il suo stato maggiore di guerra. Gioacchino era il cognato di Napoleone Bonaparte e sposo di Carolina Bonaparte, era riuscito a conquistare il Regno di Napoli, e il suo governo aveva portato a buoni esiti sia in campo amministrativo sia nel miglioramento dell’istruzione. Fu Napoleone a proclamare il cognato re di Napoli. Murat creò una buona intesa col popolo napoletano che ne apprezzava la bella presenza, il carattere sanguigno, il coraggio fisico, il gusto dello spettacolo e alcuni tentativi di porre riparo alla sua miseria. Nel clima illuministico del tempo avviò profonde riforme. Diede al regno un sistema fiscale solido regolare e semplice. Confiscò i beni della manomorta ecclesiastica, soppresse tutti i monasteri e li incamerò nel Demanio, inimicandosi il clero. Introdusse l’imposta fondiaria sottoponendo a tributo grandi estensioni di terre. Fondò il Banco delle Due Sicilie e introdusse i codici napoleonici. Istituì il corpo degli Ingegneri di ponti e strade e avviò opere pubbliche di rilievo a Napoli e nelle altre regioni meridionali.  Dopo la disfatta di Waterloo, il declino di Napoleone travolse anche Murat, che nel 1815 tentò di riconquistare il regno di Napoli; partì infatti alla volta della Campania con sei barche a vela e duecentocinquanta uomini, con l’obbiettivo di riprendersi il trono, ma una tempesta disperse la flotta, e la sua barca, insieme ad un’altra superstite, approdò a Pizzo. Venne catturato, processato e condannato a morte. Prima di morire scrisse una lettera alla moglie Carolina ed ai suoi quattro figli (fig.5). Dopo giorni di prigionia, venne giustiziato con sei colpi di fucile, il 13 ottobre 1815, nel castello di Pizzo.

Molte sono le congetture a proposito del seppellimento della salma e del rinvenimento dei gioielli personali posseduti al momento della cattura.  Forse il corpo si trova sepolto in una fossa comune nella navata centrale della chiesa di S. Giorgio che qualche anno prima della sua morte lo stesso Murat fece edificare a Pizzo Calabro. Però c’è chi afferma che esso si trovi sepolto in una fossa comune nel locale cimitero. Altri giurano invece che il corpo sia stato gettato in mare e la testa recisa sia stata fatta recapitare a Ferdinando di Borbone che volle ricompensare, oltre alla Città “fidelissima” di Pizzo, gli abili artefici della soppressione di un personaggio che si rendeva sempre più importante e seriamente incomodo.

Il castello di Pizzo: l'interno

Il castello si sviluppa su una pianta quadrangolare, presenta un piano a livello stradale e un piano superiore. È dotato da due torri cilindriche angolari; la torre grande, detta torre mastra, è di origine angioina. Un tempo si accedeva attraverso un ponte lavatoio, oggi trasformato in un imponente portone, dove una lapide ricorda Gioacchino Murat. Sotto il piano a livello stradale vi sono i sotterranei ai quali è vietato l’accesso, ma si narra che conducevano fuori città, nei pressi di Vibo Valentia e verso il lago Angitola. La parte della fortezza oggi visitabile riguarda i semi sotterranei e il piano superiore. Dalle terrazze del castello è visibile il golfo di Sant’Eufemia e lo Stromboli fumante (fig.3).

All'interno del castello di Murat a Pizzo Calabro troviamo un Museo, allestito nella maniera più fedele possibile all'ambiente in cui si svolsero gli avvenimenti che portarono alla morte di Murat, e che propone una ricostruzione storica con dei manichini in costume che riproducono gli ultimi giorni di vita del cognato di Napoleone.

Nelle sue sale si possono ammirare: una biblioteca telematica murattiana e Napoleonica, stampe e piante sulle origini aragonesi del castello, copie e riproduzioni dei cimeli murattiani, una collezioni di monete, armi d’epoca consistenti in fucili, pistole, sciabole e cannoni. Tra i pezzi più importanti troviamo un busto ottocentesco di Murat realizzato dallo scultore francese Jean J. Catex  e un elmo in marmo di una statua equestre di Ferdinando IV del Canova.

 

Bibliografia

Chimirri, R. Atlante storico dell’architettura in Calabria. Tipologie colte e tradizionali, Rubbettino, 2008 pp. 54-55.

De Lorenzo, R. Murat, Roma, Salerno Editrice, 2011.

De Majo, S., GIOACCHINO NAPOLEONE Murat, re di Napoli, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 55, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2001. URL consultato il 12 luglio 2014.

Frangipane A., Il castello di Pizzo, in <<Brutium>>, N.6, 1937.


LONGIANO, IL VILLAGGIO IDEALE

Longiano è una piccola città situata su di un colle che sovrasta le pianure verso Cesena e Rimini. L’appellativo villaggio ideale si collega al 1992, quando la città di Longiano vinse il concorso organizzato dalla Comunità Europea e dalla rivista “Airone”. Nonostante si trovi ai margini della Via Emilia, Longiano non possiede testimonianze di civiltà romana, come per altre città romagnole; ciò è dovuto al frequente passaggio di eserciti barbarici e delle loro conseguenti spoliazioni. A partire dal Medioevo, Longiano ebbe uno sviluppo molto fiorente: sebbene si trovasse geograficamente più vicina a Cesena rispetto a Rimini, la città fu sempre fedele alla città rivierasca. Lo sviluppo di Longiano ebbe un forte incremento durante la signoria dei Malatesta, i quali governarono la città dal 1295 al 1463. Il castello di Longiano, divenuto Castello Malatestiano durante la signoria dei Malatesta era adibita, non solo a baluardo di difesa del territorio, ma anche a residenza estiva.

Longiano non fu mai teatro di cronache storiche di particolare rilievo, e le poche cronache registrano episodi delle battaglie, prima tra Rimini e Cesena, poi tra i Malatesta e gli eserciti della Chiesa e infine tra i Malatesta e i potenti vicini. Nel Marzo del 1198 i cesenati distrussero Longiano, la quale fu ricostruita l’anno successivo dai riminesi. La città, alleatasi con l’esercito di Rimini, si vendicò di questo atto il 14 giugno 1216 quando sconfisse l’esercito di Cesena al Monte delle Forche. Dopo questa data non si registrarono più fatti particolari fino al 13 dicembre 1295, quando ci fu la piena affermazione del potere dei Malatesta su Rimini. Nel 1297 Longiano fu data alle fiamme dai cesenati, alleati con i forlivesi, i faentini e gli imolesi, e in seguito gli fu dato il nome di borgo bruciato. Nel 1429 il condottiero Carlo Malatesta, fratello di Pandolfo e tra i più illuminati della signoria dei Malatesta, morì nel castello di Longiano. La città ripassò sotto il dominio dello Stato Pontificio nel 1463 per rimanervi fino al 1859.

 

IL CASTELLO MALATESTIANO

Il Castello Malatestiano di Longiano si trova sulla sommità del colle su cui si adagia il borgo, ed è circondata da una doppia cinta muraria perfettamente conservata. Non si hanno notizie certe sulla data di edificazione del castello, però una pergamena del 1059 indica che nella zona di Longiano fu edificato un castello a scopo difensivo contro l’esercito di Cesena. Dal 1290 al 1463 il castello vide il suo massimo splendore quando divenne la residenza della famiglia Malatesta, i quali lo ampliarono e lo resero più fortificato. Il castello fu sede del Municipio fino al 1989 e oggi è sede della Fondazione Tito Balestra, che gestisce una delle raccolte d’arte moderna e contemporanea più ricche dell’Emilia-Romagna.

Oggi si accede al Castello Malatestiano attraverso un cortile esterno dove a destra si trova la Torre Civica, la torre più alta di tutto il complesso e al centro una vasca veneziana dove si trova una targhetta che recita: “Corte Carlo Malatesta - N. Rimini 5-6-1368 - M. Longiano 14-9-1429”.

 

SANTUARIO DEL SANTISSIMO CROCIFISSO

Il Santuario del Santissimo Crocifisso è una chiesa che divenne in seguito un santuario francescano ed è il più importante luogo di culto del villaggio ideale di Longiano. Non esistono fonti certe sulla data di costruzione e dunque si ipotizza che la data più probabile possa essere il 1357, che è la data incisa sulla campana minore. La chiesa e il convento furono costruiti fuori dalle mura del castrum Longiani attraverso i canoni tipici dell’Ordine francescano, semplicità e povertà. Particolarmente importante nella storia del Santuario fu il 6 maggio 1493: i paesani di Gambettola donarono una vitella che s’inginocchiò “in forma di profonda venerazione” di fronte ad una immagine del crocifisso. Il giorno seguente questa immagine fu portata in processione per le vie del paese “con molta solennità, devozione e pompa”. In seguito l’immagine del crocifisso fu spostato dal chiostro all'interno della chiesa e collocato su un altare costruito appositamente. Nel 1697 fu istituita la Confraternita laicale intitolata al SS. Crocifisso, su iniziativa del dottor Baldassarre Manzi.

Il Crocifisso del Santuario, oggetto di culto da almeno cinque secoli, è un dipinto a tempera su tela sottile applicata su una tavola di rovere risalente al XIII secolo. La figura del Crocifisso si trova al centro, su un tabellone decorato a rombi, la cui matrice stilistica si rifà alla pittura di Giunta Pisano (1200-1260), mentre ai margini del braccio trasversale del Crocifisso si trovano le figure di Maria e Giovanni. La cornice che ospita il Crocifisso è datata 1781, quando si decise di dotarsi di una “macchina” adatta a portare il Crocifisso in processione.

 

MUSEO D’ARTE SACRA

Il Museo d’arte sacra del villaggio ideale di Longiano è stato inaugurato il 18 marzo 1989 dal Comune di Longiano e dalla Diocesi di Cesena e Sarsina. Il museo si trova all'interno dell’Oratorio di S. Giuseppe, un edificio tardobarocco che si trova sotto i bastioni del Castello Malatestiano.

All’interno del museo sono custodite importanti opere d'arte, insieme a preziosi e innumerevoli oggetti sacri come arredi, paramenti, reliquie ed ex-voto. Tra i dipinti più importanti si possono citare “l’Assunta e i Santi Antonio Abate e Girolamo”, attribuito a Giovanni Battista Barbiani (1593-1650) e il “San Valerio Martire” di Giuseppe Rosi (1750). Dentro delle bacheche in vetro sono conservati preziosi oggetti, tra cui un tabernacolo, calici e altri oggetti rituali, un piviale in seta rossa e oro, e una pisside in argento sbalzato utilizzato da papa Giovanni Paolo II in occasione della visita in Romagna nel 1986.

Parte dei dipinti esposti sono stati restaurati col contributo di privati cittadini, tra cui alcuni ex-voto, madonne e santi votivi.

 

MUSEO DEL TERRITORIO

Il Museo del Territorio di Longiano è un museo nato nel 1986 dove sono raccolti gli strumenti che raccontano gli usi e costumi del territorio longianese e, più in generale, dell’intera Romagna. Attualmente sono presenti circa tremila oggetti, donati e depositati da collezionisti e ricercatori locali. La raccolta è ordinata in undici ambienti espositivi, seguendo lo schema dei mestieri e dei lavori delle donne. Al piano terreno sono proposti strumenti e materiali legati a figure artigianali tradizionali: il falegname, il fabbro, il meccanico, il calzolaio, il muratore, il barbiere. Al piano superiore sono ricostruite la cucina tipica romagnola e la camera da letto in stile anni Trenta, in aggiunta si trovano due sale dove sono custoditi gli strumenti per la lavorazione della tela e per i lavori della campagna. Lungo le scale sono appese fotografie originali riferite anche agli antichi castelli malatestiani. Infine nel giardino accanto al museo si possono ammirare degli attrezzi per la semina, l'aratura ed altri lavori agricoli.

 

TEATRO PETRELLA

A fianco di quello che rimane del convento di San Girolamo sorge il maestoso Teatro Petrella, edificato nel 1865 dall’ ing. Giulio Turchi e dedicato al compositore palermitano Errico Petrella, personaggio allora famoso che partecipò all’inaugurazione. Nel dopoguerra il teatro andò in disuso ma nel 1980 il Comune di Longiano decise di restaurarlo e nel 1986 fu reinaugurato. Da allora ha ospitato primari artisti che qui spesso hanno presentato le loro opere in anteprima nazionale, quali: Gino Paoli, Ivano Fossati, Fabrizio De Andrè Anna Oxa, Ornella Vanoni, Francesco De Gregori e tanti artisti di Teatro.

Longiano, il villaggio ideale ricco di storia, arte e cultura.

Bibliografia essenziale:

P. GINO ZANOTTI, Longiano, il paese – il santuario, appunti di storia e di arte, Arnaldo Forni Editore, Bologna, 1965

ADAMO BRIGIDI, Memorie cronologiche di Longiano, Bruno Ghigi Editore, Rimini, 1988

CLAUDIO RIVA (a cura di), Il Crocifisso di Longiano, fulcro di Fede e di Arte, Stilgraf, Cesena, 1992

GIORGIO MAGNANI con la collaborazione di Ezio Lorenzini, Longiano, storia personaggi, pro-loco e cultura, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena, 2004

Sitografia:

https://www.beniculturali.it/mibac


PALAZZO BUONACCORSI A MACERATA

Il Palazzo Buonaccorsi è un’architettura storica situata in via Don Minzoni 24 a Macerata, sede dei Musei Civici, del Museo della Carrozza, delle collezioni di arte antica e moderna con nucleo principale nella Galleria dell’Eneide e nella biblioteca Amedeo Ricci.

Durante l’alto Medioevo l’area in cui sorge il palazzo era parte del “Podium Sancti Juliani”, possedimento feudale della famiglia dei Compagnoni. Nel 1652 l’edificio fu acquistato da Simone Buonaccorsi (1708-1776), il quale voleva riappropriarsi delle origini della famiglia nelle Marche ritornando da Roma a Macerata per dare alla casata un edificio corrispondente alla sua potenza economica ed al titolo comitale.  Nel 1746 alla morte di Raimondo Buonaccorsi, figlio di Simone, la famiglia ottenne l'ammissione al patriziato di Roma da Papa Benedetto XIV spostando nella Capitale i propri interessi.

Nel 1853 un membro della famiglia, Flavio, dopo aver sposato la principessa Angela Chigi, decise di tornare a Macerata e provvide al restauro del palazzo che fu acquistato dal Comune nel 1967 dopo un lungo periodo di decadenza dovuto all’utilizzo del palazzo da parte di affittuari.

Nel 1697 Giovan Battista Contini, allievo del Bernini, ebbe l’incarico di realizzare l’edificio voluto da Simone. Lo realizzò accorpando case antiche ed aggiungendo nel 1718 il cortile ed il giardino all’italiana da parte di Ludovico Gregorini di cui rimangono la balaustra con i vasi ornamentali di Antonio Perucci e le statue raffiguranti Ercole vincitore in pietra d’Istria, opera dello scultore padovano Giovanni Bonazza.

Oggi il museo si struttura in tre piani visitabili, la biblioteca, il loggiato e l’atrio pavimentato in legno di quercia. Gli interni in stile barocco e rococò con i soffitti cassettonati convergono nella sala della Galleria dell’Eneide con le Nozze di Bacco e Arianna affrescate sulla volta a padiglione da Michelangelo Ricciolini.

La donazione di Tommaso Maria Borgetti del 1835 costituisce il primo nucleo di opere del museo al quale si aggiungono quelle lasciate dal pittore Antonio Bonfigli nel 1860 tra le quali artisti come Crivelli (1430-1495), Zuccari (1539-1609), Maratta (1625-1713),Turchi (1578-1649) e Prampolini (1894-1956). Sono presenti inoltre dipinti d’area fiamminga, napoletana e veneta, sistemati tra il primo ed il secondo piano. Al terzo piano, invece, è disposta la collezione d’arte moderna e contemporanea con dipinti d’influenza futurista come il gruppo Boccioni del 1932 e alcune opere del Pannaggi.

Il museo contiene una collezione archeologica dell’area di Helvia Recina nei pressi di Villa Potenza con una serie di rinvenimenti che documentano le origini preistoriche e poi romane del sito.

Un ulteriore restauro nel 1997 al seguito del terremoto ed il progetto di rifunzionalizzazione del 2002 insieme alla definitiva riorganizzazione delle opere nel 2014, hanno permesso l’odierna visualizzazione delle sale.

La Galleria dell’Eneide

La decorazione della Galleria è documentata come ultima fase di costruzione del palazzo e realizzata su sollecitazione del cardinale Buonaccorso Buonaccorsi (1620-1678), intrapresa da Simone Buonaccorsi ma completata solo dopo la sua morte nel 1708, dal figlio Raimondo.

Nel 1710 Michelangelo Ricciolini, artista romano, fu incaricato di dipingere la volta della Galleria con le Nozze di Bacco e Arianna, opera che venne terminata insieme al figlio Nicolò ed al nipote Michelangelo Maria. Ai lati della stessa vennero commissionate ad altri artisti tele coeve narranti scene dell’Eneide.

Le fasi di lavoro sono documentate dalle registrazioni dei pagamenti e si dividono nel periodo tra il 1710 e il 1712 e quello tra il 1713 e il 1715 intervallati dal ritorno a Roma degli artisti, inoltre nel 1721 furono realizzati gli ornati affidati al pittore di origini francesi Scipione Cordieri.

L’analisi condotta dalla Guerrieri Borsoi identifica nella decorazione le Nozze di Bacco e Arianna avvenute nell’Olimpo al cospetto degli dei e non l’Apoteosi di Enea come risultava dalle letture precedenti.

La struttura degli affreschi nella  volta ripetono quelli  del Palazzo Barberini di Monterotondo (Roma) realizzati dallo stesso Ricciolini sia per il finto parapetto al di sopra della cornice reale della sala, sia per l’adozione di uno spazio continuo entro il quale i personaggi si dispongono liberamente come in un cielo aperto. Ai quattro angoli del parapetto, nicchie ospitano medaglioni con bassorilievi dipinti (fig. 1) sormontati da bucroni e coppie di putti mentre le sezioni rettiline sono decorate da grandi vasi bronzei ricolmi di fiori e frutti. Attorno alle nozze, fulcro della composizione, gruppi e singole figure che assistono al festoso evento.

La scelta figurativa dell’episodio è un’allegoria che mira ad esaltare le virtù e le qualità dei committenti come ricorda Bernardo de Dominici (1742) nella sua opera le “Vite” analizzata da Oreste Ferrari, sottolineando la frequenza di questo tema nelle collezioni di famiglie aristocratiche come nel Casino di Pietro Pescatore a Frascati, affrescato ancora da Ricciolini, Palazzo De Carolis in ambito romano o Palazzo Pamphilj di Pietro da Cortona.

La scelta di Bacco  come protagonista è da ricollegare alla tigre presente nello stemma dei Buonaccorsi e ai felini al seguito della divinità e trainanti il suo carro (fig. 2). Il mito narra che Zeus mandò una tigre per aiutare il dio ad attraversare il fiume Tigri e raggiungere l’India.

Un’altra motivazione della scelta iconografica delle nozze allude al proficuo matrimonio fra Raimondo Buonaccorsi e Francesca Bussi, i quali ebbero ben diciotto figli, simbolo quindi della fecondità e della prosperità sottolineata anche dalla ricchezza dei fiori e dei frutti nella composizione.

Il legame con l’Arcadia romana del ciclo figurativo fa riferimento al tema dell’immortalità conseguita attraverso le arti e al recupero della poesia virgiliana. Giovan Maria Crescimbeni, maceratese custode dell’Accademia romana, compose nel 1708 una prosa ed alcuni dipinti in linea con il sentimento arcadico diffuso nel Settecento romano. I temi profani, secondo Crescimbeni, altro non sono che un’espressione della vittoria della Chiesa sul paganesimo ed un tentativo di ricollegamento con le origini di Roma , quindi, anche in questo caso l’intento della famiglia è quello di ribadire il legame con queste tradizioni e sentirsi in linea con le tendenze attive nella Capitale in quegli anni.

L’inventario del 1699 delle opere appartenenti alla galleria fu esaminato da Miller e Haskell, studiosi statunitensi  che contribuirono  fortemente alla valorizzazione di questa testimonianza figurativa attraverso un ciclo di conferenze a Macerata permettendo la migliore tutela e recupero di alcune tele che erano state vendute.

Fig. 1
Fig. 2

 Ai lati della galleria troviamo una serie di immagini tratte dell’Eneide tra cui “Enea fugge da Troia con Anchise, Ascanio e Creusa” di Giovanni Giorgi (Verona 1687- Bologna 1717) (fig.3).

La scena fa riferimento al secondo libro dell’Eneide in cui l’eroe, trasportando in braccio l’anziano padre, lascia la città incendiata e sotto assedio. Gli sono accanto Ascanio, che, rivolto verso il padre sembra volergli suggerire la via della fuga e la moglie Creusa a mani giunte e gli occhi mesti al cielo, presaga della sorte imminente.

La tela, prima nella galleria, fu venduta al mercato antiquario romano prima che il comune di Macerata acquistasse il palazzo nel 1967, nel 1973 è stata riacquistata dallo Stato e conservata presso la Galleria Nazionale delle Marche a Urbino.

Fig. 3

Segue l’opera di Nicolò Bambini (Venezia 1642-1736) “Enea racconta a Didone la caduta di Troia” in cui l’autore, allievo della scuola veneziana, riproduce l’episodio attraverso la commistione di uno stile disegnativo accademico e un fare lieve e fluido tipico veneziano (fig 4). Prima della sua realizzazione, la tela era sostituita da un’opera di Solimena (1657-1747): “Enea e Didone si rifugiano nella grotta”, venduta nel 1712 ed ora in Texas (fig 5).

Tra i lavori più importanti di Bambini inoltre, si ricordano i restauri del Palazzo Ducale di Venezia e degli affreschi del Tintoretto.

Fig. 4

 

Fig. 5

Marcantonio Franceschini (Bologna 1648-1729) è invece autore di “Mercurio che sveglia Enea”. Molte informazioni riguardo a questa opera provengono dal libro di spese dello stesso Franceschini che nel 1713 scrisse: “Ho ricevuto lire duecento per caparra d’un quadro da fari per la galleria de’ Signori Buonaccorsi di Macerata con Mercurio che sveglia Enea e li comanda da parte di Giove il partirsi da Didone con un amorino, concordati in lire mille..”.

L’episodio è tratto da quarto libro dell’Eneide e ci mostra il protagonista in posizione adagiata sulla nave, avvolto in un manto rosso ed in procinto di riprendere il viaggio dopo aver abbandonato Didone su sollecitazione di Mercurio (fig. 6).

L’artista sceglie il momento dell’aurora, adottando una gamma di colori freddi che fanno risaltare gli incarnati e la lucentezza dei metalli come nei particolari dell’elmo e della spada. L’artista, uno dei più affermati nell’ambito della scuola bolognese e personaggio di rilievo nell’Accademia Clementina, attinge dal repertorio figurativo classico e la tela, ora conservata alla Galleria Nazionale delle Marche fu acquistata dallo Stato solo nel 1974.

Fig. 6

 

Vincenzo da Canal, invece, biografo dell’artista Giorgio Lazzarini (Venezia 1655- Villabona di Rovigo 1730), riferisce ed indica la data della composizione dell’opera “Morte di Didone” (fig.7) nel 1714, a due anni di distanza dalla ‘Battaglia di  Enea e Massenzio’(fig.8), sempre a Palazzo Buonaccorsi.

Rappresentante della scuola veneziana insieme a Bambini, Lazzarini è citato da Luigi Lanzi nella sua “Storia pittorica”: “Chi vede le pitture del Lazzarini crederà a prima vista ch’egli sia stato educato a Bologna o a Roma..”.

Colori squillanti, di matrice veronesiana, vengono accostati nella tela marchigiana “Morte di Didone” ad un accurato disegno e ad un tono melodrammatico nella resa degli affetti. Questa scena viene rappresentata entro uno schema geometrico precostituito come precostituite sono le figure riutilizzate della sorella e della nutrice, gruppo desunto da “Ester e Assuero” di Ca’Rezzonico e influenze della “Natività della Vergine” della parrocchiale di Vedano al Lambro.

Il gusto teatrale della scena è sottolineato da un’ambientazione dove il gran numero di oggetti legati al mondo classico riecheggia più come citazione che come ricostruzione dettagliata dell’antico.

Fig. 7

 

Fig. 8

 

Continuiamo con “Enea stacca il ramo d’oro” di Giuseppe Gambarini (Bologna 1680-1725). Evidente ancora una volta il legame Marche-Roma. Il quadro fu realizzato nel biennio tra il 1712-14 e per molto tempo fu sottovalutato dalla critica fino alla rivalutazione di Miller (1963).

Nella tela è presente il gusto per un gesto dominato e controllato dalla composizione disegnativa: Enea è atto a staccare il prezioso virgulto aiutato dalle colombe di Venere in un’atmosfera di mistica intimità, quel “distacco psicologico particolare della poetica gambariniana” come definito dallo stesso Miller (fig.9).

 “Sopra un albero ombroso opaco, pieno di foglie, c’è un ramo d’oro consacrato a Giunone infernale, lo copre e lo nasconde il bosco, un ‘alta ombra lo schiude in una valle oscura. Non si può penetrare nei segreti del suolo prima d’aver strappato quel ramo dalle chiome dorate.”

-Virgilio, Eneide, VI

Fig. 9

I sei dipinti inseriti come sovra finestre nella Galleria da  Nicolò Ricciolini (Roma 1687-1722), invece, furono aggiunti dall’artista nel 1715 che terminò il lavoro del padre Michelangelo dopo la sua morte .

Nelle prime cinque tele sono raffigurate coppie di putti alati che presentano insegne ed emblemi i quali alludono alla storia della Roma dei mitici sette re e  poi alla fase dell’Impero. Alcuni recano fasci littori, scudi, spade(fig.10), insegne e vessilli con la sigla SPQR mentre altri sono raffigurati nell’atto di incoronare la statua di Minerva (fig.11) o di cingere d’alloro un’aquila che ghermisce un leone (fig.12).

La sesta tela invece mostra due angeli in atteggiamento devoto, è ancora il tema della vittoria della Chiesa sul paganesimo come nell’opera “La Chiesa che annienta gli dei pagani” di Francesco Mancini sempre all’interno della Galleria.

Fig. 10
Fig. 11
Fig. 12

Importanti allo stesso modo sono i dodici portelloni delle finestre della Galleria con i segni zodiacali di  Enrico Scipione Cordieri, i quali sono uniti alle due ante con scene di paesaggio collocate nella porta inferiore che apre verso il terrazzo, dipinte in colori pastello con predominanza dell’azzurro aggiunto a dettagli di ispirazione rococò.

Ogni portellone è suddiviso in tre scomparti intervallati da cornici dorate mistilinee dove al centro sono descritti temi dedicati al ciclo delle stagioni e dello zodiaco con soggetti che rimandano alle caratteristiche del mese a cui fanno riferimento.

Una descrizione a parte meritano i due scuri della porta-finestra che conduce al terrazzo dedicati ai solstizi d’estate e d’inverno. Il primo è allegoricamente un giovane con un manto purpureo e con in capo una ghirlanda di spighe di grano, il secondo è un uomo anziano vestito di pelli con una corona color turchino che reca il segno del Capricorno.

In conclusione, del percorso nella Galleria, esaminiamo la porta.

Collegata nella parete di fondo della galleria in posizione simmetrica rispetto all’ingresso, la porta della Galleria sin dall’origine aveva esclusivamente funzione ornamentale per garantire continuità decorativa  e sottolineare la preziosità dell’ambiente.

La struttura della stessa è composta da due pannelli incorniciati da un motivo a volute, di cui quello inferiore dipinto a monocromo raffigura il “Trionfo di Bacco” (fig.13) della bottega di Michelangelo Ricciolini.

Il dio, come vuole la tradizione, è un giovane nudo avvolto in un mantello con il capo cinto da una corona di tralci di vite e seduto sopra un carro trainato da una coppia di leopardi. Con la mano sinistra regge entrambe le briglie poiché la sinistra impugna una freccia in collegamento con l’arco che tiene un putto di fianco a lui. Lo sfondo è animato dalla folla danzante , tra cui un Sileno e un gruppo di menadi  abbandonate al ritmo sfrenato dei cembali.

La raffigurazione sembra partecipare delle nozze sulla volta creando così grande unità di spazio iconografico.

Fig. 13

 

BIBLIOGRAFIA

-Barucca e Sfrappini, Tutta per ordine dipinta, La Galleria dell’Eneide di Palazzo Buonaccorsi di Macerata, 2001.

-Niccolò Ricciolini in ricerche di storia dell’arte, Archivio di Stato Macerata, La galleria di Palazzo Buonaccorsi a Macerata, note documentarie sulla committenza, 1997.

-Melatini, I Buonaccorsi tra Medioevo e Novecento, Civitanova Marche, 1993.

-Barberi e Prete, La decorazione della galleria, 1710-1721.


IL TEMPIO E DI SELINUNTE: IL CULTO DI HERA

L'antica colonia greca di Selinunte in Sicilia è una delle zone archeologiche tra le più importanti d’Europa per estensione ed imponenza. Selinunte venne fondata dai megaresi di Iblea tra il 627 e il 628 a.C., e il suo nome è legato a quello del fiume che scorre ad Ovest della città antica, il Selinon (oggi Modione), il quale, a sua volta, deriva dal prezzemolo selvatico (in greco, Σελινοῦς) che cresce abbondante in queste terre. Ancora visibile è la sua acropoli, la parte più alta della città costituita dalla zona residenziale, dalla zona sacra, dalla zona pubblica e da quella commerciale. La città si affaccia sul porto, aveva una propria necropoli e la chora, luogo in cui venivano amministrati i beni. Selinunte era una bellissima città marittima e di frontiera, aperta agli influssi punici, elimi, sicani. Perfettamente conservato rimane l'assetto urbanistico, realizzato tra il 409 e il 250 a.C., con la cinta muraria e numerosi templi, tra i più significativi del mondo greco per dimensioni e purezza di forme per la continuità di testimonianze scultoree. Situato all’interno dell’acropoli Selinuntina, precisamente sulla collina orientale, è il tempio E, dedicato alla dea Hera (Fig.1). Il tempio è di ordine dorico, realizzato all'incirca nella metà del VI secolo a.C. e fu rimesso in piedi nel 1959 dall’archeologa Aldina Cutroni Tusa che assemblò il tempio con pezzi di colonne di altri templi distrutti, oltre che quelli originali. Inoltre, alcune colonne furono restaurate con parti in cemento per evitare il crollo del tempio. Ben distinguibili sono le colonne originali che presentano sfumature di colore più chiare, invece le colonne in cui è stato utilizzato il cemento presentano sfumature più scure. Il tempio è un periptero esastilo (70,18 x 27,65 m) composto da sei colonne sui fronti e quindici sui lati lunghi (Fig.2-3). Il tempio fu costruito con il materiale proveniente dalle vicine Cave di Cusa, tutt’ora visitabili. Il lavoro di estrazione del materiale grezzo per le colonne era assai faticoso, infatti gli operai scavavano nella roccia circolarmente fino ad ottenere un cilindro di pietra calcarea. Veniva inserita una trave di legno bagnata che, aumentando di volume grazie all’acqua, serviva a far staccare il blocco, poi trasportato a Selinunte, dove veniva lavorato per la costruzione delle colonne dei templi. Le colonne del tempio poggiano direttamente sullo stilobate e l'interno, che un tempo che poteva essere visto soltanto dai sacerdoti, era costituito dal pronao (spazio tra la cella e le colonne antistanti), dalla cella e dalla statua della divinità, ormai andata perduta (Fig.4). Sulla parte alta della colonna si trovavano i triglifi (elemento di pietra decorato con tre scanalature verticali) che scandivano le metope (formella di pietra scolpita a rilievi raffiguranti le imprese di Eracle). Le metope erano decorate da figure divine o mitologiche in atteggiamento ieratico, esse furono realizzate in stile Severo, nel momento della sua massima maturità. Furono totalmente realizzate in calcarenite locale, ma per le parti nude femminili fu utilizzato il marmo. Un tempo le metope erano colorate vivacemente, purtroppo il colore è andato perso, anche se a volte è possibile riscontrare delle tracce. Tra le metope ricordiamo: Eracle in lotta con l’Amazzone, il matrimonio sacro di Zeus ed Hera, Atteone sbranato dai cani di Artemide, Atena che atterra il gigante Encelado, esse sono tutte conservate ed esposte presso il museo Archeologico Regionale Antonio Salinas di Palermo (Fig. 5). Davanti al tempio era presente un altare su cui venivano sacrificate gli animali in onore della dea. Il tempio E di Selinunte costituisce uno degli esempi più interessanti tra quelli prodotti dalla colonia megarese poiché fonde nella sua struttura elementi provenienti dalla madrepatria greca con persistenze locali, producendo un risultato notevole; del resto, la colonia fu uno dei centri più importanti dell’Isola e come tale fu molto aperta alle diverse tendenze artistiche che si diffusero tra le varie colonie.

Fig. 1 - Tempio E, detto anche di Era.
Fig. 2 - Piantina tempio E.
Fig. 3 - Vista laterale tempio E.
Fig. 5 - Interno e parte del Naos.
Fig. 5 - Metope tempio E, conservate oggi al Museo Archeologico Regionale “A. Salinas” di Palermo.

LA VALLE DI LEDRO E VENEZIA.

“è racchiusa la valle trà il lago d’Idro, che tien’ à Ponente, havendo da Levante quel di Garda verso Riva, dove calasi per una strada scalpellata nel Sasso, & aperta da Scaligeri, al’hor che n’erano Signori. Via, che se ben’ ardua, & erta: è però viaggiabile buona parte co’l Carro, e tutta con Muli, che v’han fatto il Calle.” - Michelangelo Mariani,1673[i]

Fig. 1 – La Valle di Ledro.

Queste parole di Michelangelo Mariani descrivono bene la Valle di Ledro, ossia una valle del Trentino sud-occidentale, luogo di congiuntura tra la valle del Chiese e il lago di Garda. Questa valle non è famosa solamente per il suo bellissimo lago, ma anche per dei meravigliosi dipinti ubicati nelle varie chiese dei paesi che in essa sono situati.

La Valle di Ledro, come tante altre realtà di questa zona del Trentino, è stata legata per secoli da rapporti, principalmente economici, con la Repubblica di Venezia. Fin dal Duecento ci sono testimonianze negli archivi veneti di uomini ledrensi attivi come lavoratori nella città lagunare, e nel Cinquecento si potrebbe dire che il rapporto tra le due località, comincia ad essere “bilaterale”. Venezia trae dei benefici da parte della Valle di Ledro, principalmente grazie al rifornimento di pelli, lana ma soprattutto della preziosa pece, necessaria per il calafataggio delle navi prodotte nell’Arsenale. Nel XVI sec. infatti la Valle di Ledro, principalmente il paese Tiarno di Sopra, era un luogo cardine per i forni di creta che provvedevano a ricavare la pece, derivata dalla resina di pino silvestre o di larice.

A Venezia, i valligiani facevano parte di una delle più importanti comunità straniere in città tra Quattrocento e Cinquecento: la comunità dei tedeschi con sede presso il Fondaco dei tedeschi[ii]. I ledrensi lavoravano come calafati (addetti alla calafatura delle navi mediante la pece), come segadori (coloro che ricavavano assi dai tronchi segati a mano) ma principalmente come ligadori; diedero infatti vita ad una corporazione di facchini aventi l’esclusiva per il carico e lo scarico delle navi della Serenissima all’Arsenale[iii].

Grazie alle nobili famiglie di origine veneziana che soggiornava o si erano stabilite a Tiarno di Sopra e Tiarno di Sotto, gli ultimi due paesi della valle, e ai preziosi regali di tiarnesi attivi e residenti a Venezia per le loro parrocchie d’origine, le chiese di questi due paesi e della valle in generale conservano tuttora testimonianze pittoriche di alto valore artistico di ambito veneto[iv].

La chiesa di San Bartolomeo a Tiarno di Sotto

La piazza del centro di Tiarno di Sotto è contraddistinta dalla presenza della chiesa di San Bartolomeo (fig. 2), un edificio liturgico imponente sorto probabilmente come cappella già nel XII secolo. Un aspetto importante da ricordare è che fino al 1656 la comunità di Tiarno di Sotto dipendeva dalla chiesa di Tiarno di Sopra, il paese limitrofo di cui vi parlerò successivamente[v]; dopo questa definitiva separazione la chiesa di San Bartolomeo fu eretta a curazia. L’assetto attuale è il frutto della costruzione seicentesca e di alcune modifiche e ampliamenti ottocenteschi, tra cui la decorazione pittorica dell’interno a tempera per mano del mantovano Agostino Aldi che operò qui dal 1895 al 1924 (fig. 3)[vi].

La chiesa ha al suo interno preziose opere: gli antependia di altari, realizzati da lapicidi di ambito bresciano tra fine XVII e inizio XVIII secolo, e i dipinti di ambito veneto di cui voglio parlarvi.

Fig. 2 – La chiesa di San Bartolomeo a Tiarno di Sotto.
Fig. 3 – L’interno della chiesa di San Bartolomeo.

Appena entrati non si può non rimanere meravigliati dalla zona presbiteriale, dai marmi policromi che caratterizzano l’altare maggiore realizzato da maestranze di ambito bresciano nell’Ottocento e dal polittico (fig. 4) che sta dietro di esso, opera che si inserisce pienamente nella cultura manierista veneziana di metà Cinquecento. Questa è proprio una di quelle opere donate alla chiesa dai ledrensi residenti a Venezia; il polittico è datato 1587, attualmente attribuito a maestranze veneziane ma per secoli ha portato il nome di Jacopo Tintoretto. Nell’anno di realizzazione e di arrivo in chiesa di quest’opera, Tiarno di Sotto era ancora dipendente dal paese limitrofo, questo spiega la raffigurazione dei santi titolari di entrambe le chiese. I due santi a lato della Madonna con il Bambino sono S. Bartolomeo e S. Giorgio, quelli adiacenti alla Crocifissione sono S. Pietro e S. Paolo. Dopo il restauro del 1992-93 è stato possibile affermare che l’opera è frutto di più mani: un pittore ha sicuramente eseguito i due scomparti centrali mentre un secondo i santi prima citati e la cimasa con il Padre Eterno. La cornice intagliata e dorata non è coeva ai dipinti, ma successiva, si tratta infatti di un’opera di Bombana, uno scultore di Roncone attivo nel XVII secolo[vii].

Fig. 4 – Polittico di pittori veneziani, 1587, chiesa di San Bartolomeo, Tiarno di Sotto.

Questa non è però l’unica opera di ambito veneto, sono infatti presenti anche due tele di grandi dimensioni collocate sopra le porte laterali. Sulla parete destra è presente quella con soggetto l’Ultima cena (fig. 5), commissionata da un membro della famiglia Ferrari, ritratto in basso a sinistra con gli occhi rivolti allo spettatore. È un dipinto firmato e datato 1666 da Ferdinando Valdambrini un pittore proveniente dalla Valtellina, che probabilmente, data l’influenza veneta, ha trascorso un periodo della sua vita a Venezia. Sulla parete sinistra è presente un dipinto successivo, datato 1702 raffigurante la Pentecoste che, secondo un’iscrizione, fu commissionato dai fratelli Zendri[viii].

Fig. 5 – Ferdinando Valdambrini, Ultima Cena, 1666, chiesa di San Bartolomeo, Tiarno di Sotto.

La predilezione degli abitanti di Tiarno per l’arte veneta è confermata dagli acquisti che vennero fatti tra Ottocento e Novecento, due tavole provenienti dal duomo di Trento di forte ispirazione dall’ambiente veneziano[ix].

La prima cappella laterale destra dell’aula è caratterizzata dalla presenza di un altare in marmi policromi realizzato nel 1897, anno di arrivo della pala raffigurante la Madonna col Bambino e i SS. Giovannino, Rocco Vigilio e Antonio da Padova (fig. 6) proveniente dal duomo di Trento. In alto al centro è presente la Madonna con il Bambino e dietro di lei S. Giovannino, riconoscibile dalla croce e dalla veste di pelliccia. La Vergine ha lo sguardo rivolto verso il basso dove sono presenti tre santi: a sinistra S. Vigilio, in contatto visivo con Gesù Bambino, riconoscibile dalla mitria vescovile ai suoi piedi e dallo zoccolo in legno, simbolo del suo martirio; sulla destra, con gli occhi verso lo spettatore è presente S. Antonio da Padova, che indossa il saio francescano e tiene un giglio bianco nella mano destra; in basso invece, sdraiato, è raffigurato S. Rocco, con gli occhi rivolti verso la piaga sulla sua gamba destra, in abiti da pellegrino e con il cane dietro il braccio destro. Il dipinto, databile al XVII secolo, sembra ispirato a due stampe carraccesche: una del 1582 di Agostino della Pala Giustiniani di Paolo Veronese e l’altra di Ludovico nella versione anonima, Sacra Famiglia sotto un arco. L’autore di questa pala è tutt’ora sconosciuto; oltre alle componenti carraccesche, sono stati rilevate delle componenti di pittura veneta che hanno portato a formulare l’ipotesi dell’appartenenza dell’artista all’ambiente veronese[x].

Fig. 6 – Pittore veronese della prima metà del secolo XVII, Madonna col Bambino e i SS. Giovannino, Rocco, Vigilio e Antonio da Padova, chiesa di San Bartolomeo, Tiarno di Sotto.

Il secondo altare laterale destro, denominato all’Assunta, ha come protagonista la pala raffigurante l’Assunta con i Santi Vigilio ed Ermagora (?) (fig. 7) attribuito da Elvio Mich nel 1990 a Martino Teofilo Polacco.

Martino Teofilo Polacco è un personaggio chiave per il Trentino, è un pittore probabilmente nato in Polonia, la cui formazione si compie a Venezia nell’orbita di Palma il Giovane e di Hans Rottenhammer. Si sa molto poco dei suoi esordi, ma la sua carriera artistica inizia “ufficialmente” a Trento verso il 1600 alla corte del principe vescovo Carlo Gaudenzio Madruzzo. Suoi dipinti si trovano in molte chiese del Trentino: a Calavino, Cembra, Malé, Spormaggiore, Riva del Garda e tanti altri.

Fig. 7 – Martino Teofilo Polacco, Assunta con i SS. Vigilio ed Ermagora (?), 1620 circa, chiesa di San Bartolomeo, Tiarno di Sotto.

Tra le sue opere più prestigiose ci sono gli affreschi dell’abside della chiesa di Santa Maria Maggiore a Trento e i dipinti realizzati per il Duomo, di cui uno quello in oggetto; la presenza della pala a Tiarno di Sotto è segnalata per la prima volta nel 1912, in occasione della visita canonica. Molto probabilmente quest’opera è stata concepita anche con una predella: il Museo Diocesano Tridentino ad oggi conserva infatti un dipinto raffigurante la Strage degli innocenti e la fuga in Egitto che ha elementi riconducibili alla pala tiarnese. L’ipotesi di una relazione è essenzialmente basata sulla qualità cromatica, luminosa e di elementi iconografici, una supposizione accattivante che però nessun documento attualmente può confermare[xi].

Nella parte alta del dipinto è raffigurata una Madonna sorretta da angeli e putti, mentre nella parte bassa due santi vescovi: a sinistra S. Vigilio e a destra probabilmente S. Ermagora. L’opera fu oggetto di un restauro particolarmente importante che, grazie alla pulitura, ha rimesso in luce la scena sullo sfondo tra i due santi raffigurante il martirio di S. Viglio che conferma l’identità di uno dei due santi vescovi (fig. 8). In base allo stile e al confronto con la pala autografa di Martino Teofilo realizzata per la chiesa parrocchiale di Tassullo, l’opera è databile agli anni Venti del Seicento, momento in cui l’artista era più legato all’opera tarda di Palma il Giovane e soprattutto allo scadere del suo soggiorno trentino, in quanto nel 1621 parte per Salisburgo[xii].

Fig. 8 – Martino Teofilo Polacco, Assunta con i SS. Vigilio ed Ermagora (?), 1620 circa, chiesa di San Bartolomeo, Tiarno di Sotto (dettaglio con il martirio di San Vigilio).

La chiesa dei SS. Pietro e Paolo di Tiarno di Sopra

Dopo aver visto la chiesa di San Bartolomeo a Tiarno di Sotto, ci spostiamo di 2 km, nel paese di Tiarno di Sopra per vedere la chiesa dei SS. Pietro e Paolo (fig. 9). L’edificio liturgico sorge su una cappella costruita tra il X e l’XI secolo, anche essa nata probabilmente sui resti di un antico oratorio di età barbarica. Dopo la visita pastorale del cardinale e principe vescovo Bernardo Clesio nel 1537, si decide di dare inizio a dei lavori di restauro per ovviare alla senescenza, all’umidità e all’assenza di luce che caratterizzavano l’edificio antico. I lavori di riadattamento cominciano nel 1562 ma non coinvolgono le strutture dell’intero edificio in quanto, durante la visita pastorale successiva del 1580 indetta dal cardinale Ludovico Madruzzo, si segnala che il tetto è pericolante[xiii].

Negli anni Trenta del Seicento si registra un forte incremento della popolazione ledrense, molto probabilmente a causa della peste del 1629-1632 che colpisce varie località e porta così all’esodo di molte famiglie verso la Valle di Ledro. Conseguentemente all’incremento della popolazione, si sente la necessità di ampliare anche l’edificio liturgico di Tiarno di Sopra, al tempo dedicato a S. Paolo. Nel 1640 cominciano i lavori di ampliamento e rinnovamento della chiesa, per mano di maestranze venete e lombarde che consegnano al paese il nuovo edificio una decina di anni dopo. Nel 1652 il vescovo Carlo Emanuele Madruzzo consacra l’edifico con la dedicazione ai SS. Apostoli Pietro e Paolo[xiv].

Come nel caso di Tiarno di Sotto, anche qui vorrei parlarvi delle opere di ambito veneto conservate all’interno dell’edificio. Dalle fonti si evince che la chiesa originaria dedicata a S. Pietro ospitasse dei preziosi dipinti di Jacopo Bassano caratterizzati da influssi dei maggiori pittori veneti del Cinquecento, quali Tiziano e Tintoretto. Sfortunatamente questi dipinti raffiguranti uno S. Rocco, uno S. Antonio Abate e uno l’Angelo Custode, sono considerati perduti, in quanto non si ha più alcuna notizia[xv].

Al tempo della consacrazione della nuova chiesa dedicata ai SS. Apostoli Pietro e Paolo nel 1652, l’interno era privo di decorazioni; i fregi, gli stucchi, i cornicioni, gli altorilievi, gli altari e le singole cappelle vengono infatti realizzati nel periodo tra la consacrazione e il 1702, data di fine lavori incisa su un fregio di pietra rossa sull’architrave della porta d’entrata occidentale[xvi]. Ma in questi cinquant’anni, come anche a Tiarno di Sotto, la chiesa fu impreziosita da meravigliosi dipinti donati dai lavoratori tiarnesi emigrati a Venezia.

Fig. 9 – La chiesa dei SS. Pietro e Paolo di Tiarno di Sopra.
Fig. 10 – Interno della chiesa dei SS. Pietro e Paolo di Tiarno di Sopra.

Entrando dall’edificio si rimane un po’ sorpresi dall’apparente aspetto spoglio dell’aula (fig. 10), sentimento che subisce un mutamento nell’attimo in cui si notano i meravigliosi cinque dipinti che decorano le cappelle laterali. A sinistra colpisce immediatamente un elegante altare in marmo nero (fig. 12), intitolato a S. Simone e S. Giuda, fatto erigere da dei mercanti residenti a Venezia. Leggendo l’iscrizione in color oro sulla cimasa, si evince che l’altare fu commissionato da Simone Sala e dai suoi fratelli nel 1640, commissione che venne assolta utilizzando un marmo ledrense, proveniente dalla cava locale di Ovri, località Ampola. Tra le colonne doriche spicca una meravigliosa pala attribuita nel 1978 da Passamani a Bernardo Strozzi [xvii].

Bernardo Strozzi, come è ben noto, è uno dei più importanti esponenti della pittura barocca in Italia; nasce a Genova dove ha una formazione tardo manierista che lo porta poi sulla strada per Venezia dove apprende il colorismo veneto e la forte intensità espressiva riscontrabile in questo dipinto (fig. 11). Al centro dell’olio su tela si vede la Madonna con in braccio il Bambino la quale si rivolge verso S. Bartolomeo, riconoscibile dal coltello e dal libro nella mano destra; dietro di lui, con gli occhi rivolti verso lo spettatore, è presente S. Simone con la sega in mano e al fianco della Vergine, in contatto visivo con Gesù Bambino S. Antonio Abate rappresentato con il bastone a tau, con la campanella nel braccio sinistro e il libro in mano. S. Simone non è l’unico personaggio a coinvolgere emotivamente lo spettatore, in primo piano infatti si vede inginocchiato S. Pietro con le chiavi e il libro in mano, nell’atto di indicare allo spettatore la Vergine con la mano destra. Un’altra presenza che rende partecipe il visitatore sono le due figure dei committenti in basso a destra, i fratelli Sala, abbigliati con abiti austeri e colletti bianchi. La composizione è ravvivata dal meraviglioso blu del mantello della Vergine e dell’abito di S. Pietro, colore che ha inoltre dato l’idea di un confronto inedito tra il pittore seicentesco e l’artista contemporaneo Yves Klein presso il Mart – Museo d’arte moderna e contemporanea di Rovereto, in occasione del restauro in accordo con la Diocesi di Trento effettuato l’autunno scorso (fig. 13).

Fig. 11 - Bernardo Strozzi, Madonna con Bambino e i Santi Pietro, Bartolomeo, Simone, Antonio Abate e i committenti, 1640, chiesa dei SS. Pietro e Paolo, Tiarno di Sopra.
Fig. 13 – Bernardo Strozzi e Yves Klein al Mart.

In chiesa questa non è l’unica opera legata a Bernardo Strozzi, infatti, appena entrati, la prima opera a catturare la nostra attenzione è il Crocifisso e la Maddalena (fig. 14) che decora l’altare maggiore nell’abside[xviii]. Perché dico “legata” a Bernardo Strozzi? Il dipinto venne attribuito da Bruno Passamani nel 1978 a Bernardo Strozzi e tale idea permane fino al 2012 quando, Camillo Manzitti redige una monografia sul pittore genovese, in cui tratta anche la pala di Tiarno di Sopra proponendo la paternità, sulla base di alcuni confronti con altri dipinti ad un allievo di Bernardo Strozzi, Ermanno Stroiffi.

Molto probabilmente quando lo Strozzi prese i contatti con i fratelli Sala nel 1640, decise di occuparsi personalmente di quella trattata precedentemente e di lasciare il Crocifisso a un suo allievo, dipinto voluto dalla popolazione del paese per una cifra meno elevata[xix].

Fig. 14 – Ermanno Stroiffi, Crocifisso e la Maddalena, prima metà del XVII sec., chiesa dei SS. Pietro e Paolo, Tiarno di Sopra.

La composizione, rispetto all’opera dello Strozzi, è tutta incentrata sui toni molto scuri, da un fondo di un blu notte dal quale emerge il corpo candido di Gesù in croce. Ai lati di Cristo sono raffigurati due angeli che affiorano dalle nubi che sottolineano la drammaticità del momento; ad accentuare questo sentimento è la Maddalena ai piedi della croce, in un atteggiamento drammatico e patetico. Il soggetto è strettamente legato all’iconografia postconciliare che spoglia di tutti gli elementi “superflui” l’episodio della Crocifissione concentrandosi solo sul sacrificio di Gesù e sullo strazio dei dolenti. Come anche nell’opera precedente, è interessante vedere come sia lo Strozzi che Stroiffi, hanno queste tendenza di organizzare le composizioni in una sorta di vortice che in questo caso parte dalla testa di Gesù, e nell’opera precedente da quella della Vergine, scendendo gradualmente e dando enfasi ai personaggi ai piedi dell’opera[xx].

Rimanendo nella zona presbiteriale, sopra la porta laterale destra, è presente un’opera di Joseph Heintz il Giovane, raffigurante il Battesimo di Cristo con i santi Agostino e Bartolomeo[xxi] (fig. 15). Questo pittore tedesco, figlio di Joseph Heintz il Vecchio, nasce ad Augusta nel 1600 circa ma già dal 1625 è attivo in Italia, in particolare dal 1632 in poi si trovava a Venezia dove morirà nel 1678. Nella parte alta del dipinto è raffigurato Dio Padre sorretto dalle nuvole e da una schiera di angeli in volo, con gli occhi rivolti verso la scena che si sta svolgendo sotto di lui; su uno sperone roccioso è presente S. Giovanni Battista, riconoscibile dalla croce nella mano destra e dall’agnello in penombra dietro di lui, nell’atto di benedire Gesù inginocchiato e con la testa china ai suoi piedi. Sul lato sinistro della composizione è presente S. Agostino mentre sul lato destro S. Bartolomeo con l’iconico coltello in mano. Alla base del dipinto sono raffigurati i due committenti in preghiera che, come si evince dall’iscrizione in caratteri dorati tra i due volti, sono i coniugi Bartolomeo e Margherita Ravizza, la cui commissione fu completata il 24 giugno 1672.

Fig. 15 – Anton Heintz, Il Battesimo di Cristo con i SS. Agostino e Bartolomeo e i due committenti, 1672, chiesa dei SS. Pietro e Paolo, Tiarno di Sopra.

Di fronte all’opera appena citata, sopra la porta laterale sinistra, è presente un dipinto di Andrea Michieli, detto il Vicentino (fig. 16)[xxii]. Andrea Michieli, di cui vedremo un’altra opera successivamente, è un pittore vicentino trasferitosi a Venezia a metà Cinquecento dove ebbe l’opportunità di collaborare anche con Tintoretto al Palazzo Ducale.

La composizione è dominata da un’affettuosissima Madonna con Bambino, affiancata da due angeli musicanti: uno con in mano un liuto e l’altro con un violino. Alla base del trono marmoreo caratterizzato da un cherubino, sono presenti quattro santi: partendo da sinistra vediamo S. Rocco, in vesti di pellegrino mostrante la gamba destra, e seduto dietro di lui S. Pietro con la chiave in mano; sulla destra invece è presente S. Sebastiano e dietro di lui, con lo sguardo verso lo spettatore, S. Bartolomeo con il coltello nella mano destra.

Fig. 16 – Andrea Michieli, Madonna in trono fra gli angeli e i SS. Rocco, Pietro, Bartolomeo e Sebastiano, ultimo decennio del XVI sec., chiesa dei SS. Pietro e Paolo, Tiarno di Sopra

L’altra opera di Michieli nella chiesa dei SS. Pietro e Paolo è quella nell’aula sopra la porta laterale destra raffigurante la Madonna del Rosario e santi (fig. 17)[xxiii]. La Madonna tiene in braccio il Bambino con al suo fianco due santi: sulla sinistra S. Domenico, sulla destra invece S. Pietro Martire. Ai suoi piedi sono presenti quattro sante, all’estrema sinistra S. Caterina, inginocchiata sulla ruota dentata, simbolo del suo martirio, al suo fianco S. Agata con il mano un piatto con i seni. Sul lato destro invece, rivolta verso la Vergine, S. Lucia con in mano il piattino contenente gli occhi e al suo fianco, con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, S. Apollonia con la tenaglia nella mano sinistra. La Vergine è raffigurata sotto ad un arco vegetale, con incastonati quindici medaglioni raffigurati i misteri del Rosario.

Fig. 17 – Andrea Michieli, Madonna del Rosario e Santi, ultimo decennio del XVI sec., chiesa dei SS. Pietro e Paolo, Tiarno di Sopra.

[i] Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”), p. 33.

[ii] Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”), p. 136-137.

[iii] Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991, pp. 38-40.

[iv] Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”), pp. 139-140.

[v] Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991, p. 20.

[vi] Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”), pp. 132-134.

[vii] Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”), p. 142.

[viii] Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”), p. 144-145.

[ix] Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”), pp. 139-140.

[x] Dipinti veneti restaurati dalla chiesa di Tiarno di Sotto, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 13 ottobre – 9 dicembre 1990), a cura di E. Mich, Trento 1990, pp. 24-33.

[xi] Dipinti veneti restaurati dalla chiesa di Tiarno di Sotto, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 13 ottobre – 9 dicembre 1990), a cura di E. Mich, Trento 1990, pp. 16-23.

[xii] Dipinti veneti restaurati dalla chiesa di Tiarno di Sotto, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 13 ottobre – 9 dicembre 1990), a cura di E. Mich, Trento 1990, pp. 16-23.

[xiii] Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991, pp. 20-27.

[xiv]Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991, pp. 30-34.

[xv] Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991, p. 36.

[xvi] Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”), p. 162.

[xvii] Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”), pp. 162-163.

[xviii] Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991, pp. 40-42.

[xix] Arte e persuasione. La strategia delle immagini dopo il concilio di Trento, catalogo della mostra (Trento, Museo Diocesano Tridentino, 7 marzo – 29 settembre 2014), a cura di D. Cattoi e D. Primerano, Trento 2014, p. 164.

[xx] Arte e persuasione. La strategia delle immagini dopo il concilio di Trento, catalogo della mostra (Trento, Museo Diocesano Tridentino, 7 marzo – 29 settembre 2014), a cura di D. Cattoi e D. Primerano, Trento 2014, p. 164.

[xxi] Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991, pp. 40-42.

[xxii] Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991, pp. 40-42.

[xxiii] Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991, pp. 40-42.

Bibliografia

Arte e persuasione. La strategia delle immagini dopo il concilio di Trento, catalogo della mostra (Trento, Museo Diocesano Tridentino, 7 marzo – 29 settembre 2014), a cura di D. Cattoi e D. Primerano, Trento 2014

Bortolo Degara, Notizie storiche, ecclesiali e civiche di Tiarno di Sopra, Tiarno di Sopra 1991

Dipinti veneti restaurati dalla chiesa di Tiarno di Sotto, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 13 ottobre – 9 dicembre 1990), a cura di E. Mich, Trento 1990

Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”)

Referenze delle immagini

  1. https://www.dolomiti.it/it/valle-di-ledro/
  2. https://www.gardatourism.it/chiesa-di-san-bartolomeo-3/
  3. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:4_chiesa_Tiarno_di_Sotto.JPG
  4. Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”)
  5. Dipinti veneti restaurati dalla chiesa di Tiarno di Sotto, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 13 ottobre – 9 dicembre 1990), a cura di E. Mich, Trento 1990
  6. Dipinti veneti restaurati dalla chiesa di Tiarno di Sotto, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 13 ottobre – 9 dicembre 1990), a cura di E. Mich, Trento 1990
  7. Dipinti veneti restaurati dalla chiesa di Tiarno di Sotto, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 13 ottobre – 9 dicembre 1990), a cura di E. Mich, Trento 1990
  8. Dipinti veneti restaurati dalla chiesa di Tiarno di Sotto, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, 13 ottobre – 9 dicembre 1990), a cura di E. Mich, Trento 1990
  9. https://it.wikipedia.org/wiki/Chiesa_dei_Santi_Pietro_e_Paolo_(Ledro)
  10. https://necrologie.corrierealpi.gelocal.it/chiese/provincia-98-trento/3050-chiesa-dei-santi-pietro-e-paolo
  11. Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”)
  12. Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”)
  13. http://www.yvesklein.com/en/actualites/view/5653/omaggio-a-bernardo-strozzi-yves-klein/?of=4
  14. Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”)
  15. Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”)
  16. Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”)
  17. Valle di Ledro: storia, arte, paesaggio, a cura di S. Ferrari, Trento 2004 (“Guide del Trentino”)

IL SANTUARIO DI SANTA MARIA DEL REGNO

Cenni storici del santuario di Santa Maria del Regno

In Sardegna, nella piana del Logudoro, ai piedi del Monte Santo, si erge il borgo di Ardara. In epoca medievale tale centro assunse un'importanza di primo ordine, in quanto ospitò tra l'XI e il XII secolo i giudici di Torres, che la scelsero come loro sede privilegiata fino alla morte della giudicessa Adelasia agli inizi del XIII secolo. Qui Giorgia, sorella del giudice Comita I, fece costruire agli inizi dell'XI secolo un castello, l'attuale Porto Torres, che divenne tuttavia insicuro a causa delle continue incursioni arabe. Nello stesso periodo venne avviata l'edificazione di Santa Maria del Regno, la cappella palatina oggetto di questa trattazione. Quest'ultimo dato pone Santa Maria del regno in una posizione di singolare rilevanza nel panorama romanico sardo, oltre all'importanza storica da essa rivestita: all'interno del Libellus Judicum Turritanorum (redatto in volgare logudorese), viene menzionato il dovere da parte dei giudici di prestare giuramento sull'altare di S. Maria, in seguito alla carica ricevuta. Nel 1323, il villaggio passò con la curatoria in mano ai Doria, che entrarono a far parte del ''regnum sardiniae''. Costoro si ritenevano vassalli degli aragonesi, e dopo esser stati sconfitti da quest'ultimi, riuscirono a tornare in possesso del borgo, che in seguito venne venduto al giudice d'arborea. Dopo estenuanti guerre tra aragonesi e arborensi, Ardara divenne proprietà dei Sassaresi, per poi tornare nelle mani del fisco e divenire causa di repentine lotte e contese tra feudatari. Nel XVII secolo, il borgo conobbe la peste e una pessima amministrazione dei nobili Manca. Un secolo dopo, insurrezioni anti feudali portarono alla demolizione del castello, di cui rimane un rudere alto 12 m e poco distante dalla cappella palatina, oggi parrocchiale. Inclusa nel 1821 nella provincia di Ozieri, dal 1859 Ardara fa parte della provincia di Sassari.

Edificata tra il 1065-1107 da maestranze probabilmente pisane, il santuario di Santa Maria del Regno è annoverato tra le architetture romaniche isolane di maggior rilievo. Venne consacrata come cappella palatina il 7 Maggio 1107 sotto l'episcopato di Pancreazio, pontefice romano, secondo un'epigrafe probabilmente trascritta da un originale perduto. Tuttavia, tale informazione si rilevò essere errata a causa del lapicida: PANCRASII anziché PASCASII (Pasquale). L'epigrafe, originariamente murata nell'altare maggiore ed integrata con una reliquia di pietra proveniente dal sepolcro di Cristo, venne collocata in seguito a restauri del XIX a destra del presbiterio. Nonostante la qualifica di cappella palatina, S. Maria era extra muros, in quanto la costruzione non fu ex novo, ma si impostava su un precedente edificio di culto probabilmente ad uso cristiano. Infatti, al di sotto delle lastre pavimentali in pietra calcarea venne rinvenuta un'epigrafe funeraria risalente al V-VI secolo. Inoltre, ai piedi dell'altare venne ritrovato il corpo della giudicessa Adelasia, oltre a vari monumenti funerari in contro-facciata postumi (XIII secolo). Risulta perciò evidente che la chiesa venisse utilizzata anche come luogo di sepoltura. Nonostante non fosse una chiesa episcopale, nel 1135 ospitò il sinodo di Umberto, arcivescovo di Pisa e legato della santa sede. Dopo l'incendio della cattedrale vescovile di Bisarcio, i vescovi si trasferirono ad Ardara per circa un secolo. In tale situazione il giudice Comita, dietro richiesta della sorella Giorgia, decise di ampliare la cappella per edificare la straordinaria ''Madonna del Regno''.

La chiesa di Santa Maria del Regno

Il santuario di Santa Maria del Regno presenta una pianta longitudinale rettangolare, scandita in tre navate da pilastri cilindrici in cantoni di nera trachite, terminante nell'abside semicircolare in asse con la navata centrale e difficilmente contemplabile ai fedeli a causa della presenza del retablo maggiore nel presbiterio. La copertura della navata centrale è a capriate lignee, mentre sulle navatelle laterali sono impostate volte a crociera su archi a tutto sesto. La chiesa, caratterizzata dall'assenza di decorazioni e dall'essenzialità, venne costruita con scura trachite e presenta gamme di sfumature dal bruno metallico al rosso bruciato. La facciata, a salienti, pur avendo complessivamente una cromatura omogenea, presenta in basso a destra un' accostamento di conci dal color terra, con inserzioni di viola e vinaccia. Le lesene, alle quali si addossano i piedritti monolitici, ripartiscono la facciata in cinque sezioni. Il portale d'ingresso, lungo e stretto, è ligneo. Nel fianco meridionale, il paramento murario con monofore è ripartito da lesene in nove specchi. Qui, in corrispondenza della settima campata, si apre una stretta porta che immette all'interno della struttura. Tali elementi si verificano nuovamente sul fianco nord. Addossato a quest'ultimo troviamo il campanile a canna quadrata rettangolare, attualmente mozzo. L'abside semicircolare si imposta tramite delle lesene in aggetto sulle sezioni laterali. Nel frontone absidale, oltre a delle monofore rettangolari, troviamo una finestrella a croce. All'interno del santuario, i pilastri cilindrici poggianti su base a toro e profonda gola sono affrescati, e mostrano una leggera entasis. I capitelli corinzi, fortemente plastici, sembrano riprodurre il motivo di foglie d'acqua. Un elemento interessante è dato dal fatto che i capitelli dei primi cinque pilastri a destra e dei primi due a sinistra non poggino immediatamente sui sostegni, ma vi facciano da intermediari elementi cilindrici.

Il retablo maggiore

Situato dietro all'altare troviamo il celebre retablo maggiore, commissionato da Joan Cataholo, canonico di San Pietro di Torres nel 1489 e arciprete della cattedrale di Sant'Antioco di Bisarcio nel 1503. Il polittico, stando ad un'iscrizione sulla predella realizzata da Giovanni Muru e recante oltre alla datazione il suo nome, venne eseguita nel 1515. Oltre a Muru, contribuì alla realizzazione dell'opera anche Martin Torner, che ne eseguì la parte superiore. La pala d'altare, alta dieci metri e larga sei, viene considerata la più grande e raffinata mai eseguita nella Sardegna cinquecentesca. ll retablo è composto da ventuno tavole dipinte di varie proporzioni, separate le une dalle altre mediante intagli di legno dorato. Tali tavole presentano un ciclo iconografico relativo alle storie di santi, profeti del popolo d'Israele, episodi del nuovo e dell'antico testamento, oltre a ricorrenze sacre di notevole importanza per la fede cristiana, quali il Natale, l'Epifania, la Resurrezione, l'Ascensione e la Pentecoste. Tuttavia, particolare enfasi viene posta su Maria e il figlio salvatore, Gesù. Infatti, le scene iconografiche riportanti la santa nel momento della nascita e nell'atto della dormitio occupano un posto rilevante nel retablo, collocandosi nella fascia più alta in posizione centrale ed in quella immediatamente sottostante, caricandosi di maggiore significato in relazione al mistero di Cristo. Al centro della pala d'altare, entro una nicchia, è custodita la statua d'oro con anima lignea della Madonna, col capo cinto da una corona, il braccio destro nell'atto di sostenere il bambin Gesù e la mano sinistra recante uno scettro, che, unitamente al diadema, potrebbe assumere un significato imperiale. Ai lati dell'edicola, in alto, gli stemmi del giudicato assumono significato di richiesta di protezione. Tale disposizione è certamente dovuta al desiderio di glorificazione nei confronti della vergine, che è anche titolare della chiesa. Nel polittico, l'iconografia del Criso non pone alcun accento sugli aspetti relativi alle scene di passione, ma si connota di matrice positiva volta a rappresentarne gli aspetti più gioiosi come la resurrezione e la vittoria sulla morte. Le due tavole poste nella predella, a sinistra e destra, raffigurano rispettivamente San Pietro e San Paolo secondo canoni pienamente medievalisti. L'intero retablo emana grande sfarzo, complici gli innumerevoli elementi aggettanti e l'utilizzo della tonalità dorata, che conferisce regalità all'intera opera e non senso di smaterializzazione: i personaggi sono ben configurati nello spazio, dotato di una buona tecnica prospettica suggerita dall'utilizzo del chiaroscuro, dagli evidenti panneggi e da una spiccata notazione paesaggistica.

Il retablo minore

Il retablo minore, dal moderato pregio artistico rispetto a quello maggiore, venne realizzato da Muru o da qualche suo discepolo. E' interessante rilevare come esso vada ad integrare il ciclo pittorico del retablo maggiore non solo con immagini di santi e profeti, ma sopratutto includendo scene della passione di Cristo, tra le quali la salita al Calvario, la crocifissione e la deposizione. Tuttavia, presenta alcuni elementi in comune con il maggiore: nella predella del minore, è possibile osservare la resurrezione di Cristo, presente anche nella predella maggiore del Muru, assumendo in entrambe posizione centrale in asse con la vergine sovrastante. Nel retablo minore S. Maria è raffigurata come virgo lactans in trono. Elemento alquanto raro e singolare all'interno del santuario è la presenza di 16 colonne affrescate con iconografie di santi e padri della chiesa nella navata centrale. Realizzate con esemplare maestria artistica, conferiscono alla chiesa grande regalità. Esse sono tuttavia risalenti al secolo XVI, a differenza degli affreschi delle navate laterali datati al restauro del XIV-XV secolo. All'interno della chiesa, seppure di età postuma, è custodito lo stendardo processionale risalente agli inizi del XVI secolo. In quest'opera dal grande valore storico-artistico, è raffigurata su un lato la Madonna in trono con bambino, mentre sull'altro è dipinto il velo della Veronica recante il volto di Cristo.

Bibliografia e sitografia essenziale:

Sardegna Preromanica e Romanica, Coroneo - Serra

La grande enciclopedia della Sardegna vol. 1 - Floris

La grande enciclopedia della Sardegna vol. 11 - Brigaglia, Mastino, Ortu

Enciclopedia dell'arte medievale, Treccani

Sardegna Turismo


IL CASTELLO DI SANTA SEVERA

IL CASTELLO DI SANTA SEVERA: STORIA ED EDIFICAZIONE

Il Castello sorge sul sito di Pyrgi, la città portuale collegata all'antica Caere, l'attuale Cerveteri, fondata tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C.. La città etrusca di Pyrgi si sviluppava  intorno al porto, comprendeva oltre all'area oggi occupata dal borgo castellano anche l’area del santuario situato all'estremità meridionale, oggetto di scavo da parte dell’Istituto di Etruscologia dell’Università la Sapienza di Roma ormai da più di cinquant'anni.

Durante il corso del III secolo a.C. con la romanizzazione del territorio costiero, su parte dell’abitato etrusco venne fondato il castrum romano di Pyrgi, circondato da possenti mura.  Il sito fu probabilmente abitato senza interruzioni fino alla tarda antichità (IV-V sec. d.C.),successivamente in epoca medievale si formò il borgo conosciuto come Castellum Sanctae Severae. Il Castello vero e proprio venne costruito nel XIV secolo ed il borgo si formò man mano con varie fasi di edificazione nel corso del XV-XVI secolo.Nel corso dei secoli la proprietà del Castello passò attraverso vari proprietari finché nel 1482 passo sotto la proprietà dell'Ordine del Santo Spirito e vi rimase per ben cinquecento anni fino al 1980. Tra il Cinquecento e il Seicento è stato anche luogo di sosta e soggiorno di molti papi: tra questi Gregorio XIII, Sisto V e Urbano VIII. Dopo un periodo di massimo splendore raggiunto proprio nel Seicento, il Castello ha vissuto una lunga e lenta decadenza. Nel 1943 è stato utilizzato dai Tedeschi come postazione militare strategica.

All'interno del Borgo del Castello di Santa Severa sono oggi ospitati e visitabili vari musei.

IL MUSEO DEL MARE E DELLA NAVIGAZIONE ANTICA

Il museo, fondato nel 1993, è uno dei luoghi di maggior interesse nell'ambito dell'area archeologica e monumentale di Pyrgi; si compone di sei sale espositive che ospitano, fra reperti originali e ricostruzioni al vero, oltre 450 pezzi che inducono il visitatore a scoprire e vivere ciò che è stata la vita antica sul mare. E' unico nel suo genere per i temi trattati e i pezzi allestiti, mentre la sala esperienziale permette un viaggio a ritroso nel tempo di oltre 5.000 anni in un ambiente litoraneo di particolare suggestione.

L'ANTIQUARIUM DI PYRGI E L’AREA ARCHEOLOGICA

Scavi effettuati presso il Castello di Santa Severa hanno portato alla luce due templi : il tempio A, conservato come il vicino tempio B solo nelle sue poderose fondazioni, era decorato con altorilievi in terracotta, di cui quello centrale raffigurante uno dei momenti culminanti del mito greco dei Sette a Tebe, è stato oggetto di un complesso restauro ed è ora esposto presso il Museo di Villa Giulia. Di straordinaria importanza il rinvenimento delle celebri lamine d'oro, due in etrusco e una in punico, che ricordano la dedica del tempio da parte del "re di Caere" Thefarie Velianas alla dea Uni/Astarte. Presso l'area archeologica sorge un piccolo Antiquarium, che conserva gli importanti materiali rinvenuti in oltre quarant'anni di scavo, tra cui si segnalano pregevoli terrecotte architettoniche.

CORTILE DELLA GUARDIA O PIAZZA DELLA TORRETTA

Entrando nel borgo, sulla sinistra del vano del portale, è situata una lastra marmorea recante l’iscrizione posta a ricordo dei restauri effettuati dal Pio Istituto del Santo Spirito tra il 1961 e il 1965. Nel cortile si trova sulla sinistra una casetta, risalente forse al XVI secolo, denominata Casa della Bambola, con lo stemma del Commendatore Guidiccioni e frammenti di materiali architettonici di epoca romana, rinvenuti nelle tenute del Santo Spirito e murati nella facciata in occasione dei restauri degli anni Sessanta del Novecento. Sulla sinistra della casa si apre il Cortile dei Trottatori con materiali architettonici antichi nell'aiuola, tra i quali un’epigrafe riferibile ad una donna di nome Hilara, provenienti da Roma e forse dalla tenuta del castello. All'interno del cortile si trovano il Museo del Territorio e il centro Visite della Riserva Naturale di Macchiatonda.

CORTILE DELLE BARROZZE

A destra dell’arco di Innocenzo XII si apre il Cortile delle Barrozze, così denominato dal nome dei carri agricoli che li stazionavano fino agli anni cinquanta del Novecento. Si accede al cortile tramite un ampio ingresso in muratura segnato da stemmi del XVII secolo sui lati, Tarugi sulla destra e Dondini sulla sinistra. Varcato l’ingresso si incontra un breve tratto di basolato romano ricollocato in epoca moderna con basoli provenienti da Roma. Sul lato sinistro del Cortile il fabbricato detto della Manica Corta, dinanzi La Manica Lunga che nel XVII e XVIII secolo aveva la funzione di granaio del borgo. Sulla facciata era collocato lo stemma del precettore Ruini del 1685, oggi conservato all'interno della Rocca. L’attuale facciata, alterata dagli interventi moderni, presenta uno stemma del precettore Aldrovandi e tre eleganti balaustre marmoree inserite nelle finestre, forse provenienti dalla chiesa dell’Assunta.  A destra della piazza un cancello permette l’uscita verso il mare, seguono due grandi tavoli in travertino con canaletta al bordo per lo scolo. Provengono dalla tenuta del Cavaliere presso Roma dove erano utilizzati per la salatura dei formaggi.

PIAZZALE DELLE DUE CHIESE

Un’ampia corte rettangolare con al centro un’aiuola ai lati della quale sono stati ricostruiti in epoca moderna due tratti di basolato romano. Sulla destra la piazza è delimitata da due chiese, la Chiesa di Santa Severa e Santa Lucia, oggi con funzione di battistero, e la chiesa dell’Assunta, parrocchiale del borgo. Sul fondo, da dietro una grata metallica, ci si affaccia sulla spiaggia di Santa Severa, a ridosso di una delle antiche porte del castello, definitivamente chiusa negli anni Sessanta del Novecento. Di fronte alla chiesa si apre la porta più antica che immette nella Piazza della Rocca preceduta da un arco sormontato dallo stemma del Commendatore Ruini. La porta conserva ben visibili i resti delle caditoie e delle feritoie collegabili al sistema di sollevamento dell’originario ponte levatoio. A sinistra della porta si nota bene il bastione difensivo cinquecentesco, sovrapposto all'antica cinta muraria medievale, dove durante i restauri moderni sono state collocate le finestre circolari bordate in travertino per arieggiare i locali interni. Sulla destra prima di accedere alla porta, è murata una grossa base di frantoio romano insieme ad una colonna in pietra e ad altri frammenti di materiali architettonici, tra i quali un’ara funeraria con iscrizione greca.

CHIESA DELL’ASSUNTA

La semplice facciata  è inquadrata da due lesene e da un timpano con un piccolo rosone. Sul portale è collocato lo stemma del precettore Agostino Fivizzani.  L’interno della chiesa si compone di un’unica navata con pavimento moderno. L’altare è decorato da due  colonne di marmo di probabile origine romana. Le due porte ai lati dell’altare erano sovrastate da due stemmi commendatoriali ricoperti nel 1970 con gli attuali disegni. L’affresco dell’altare fu fatto seguire dal Monsignor Tarugi nel 1595 e rappresenta la Madonna Assunta in cielo con Bambino, ai lati della quale si trovano a sinistra Santa Severa, riconoscibile dai segni del suo martirio con i flagelli piombati e a destra Santa Marinella. Vicino alle figure delle due sante sono rappresentati i rispettivi castelli. Nel 1710 l’affresco fu coperto da una tela con l’immagine della Madonna Assunta in cielo ai lati della quale si trovano Santa Severa e Sant'Antonio Abate. Sulla fronte interna della bussola in legno posta all'ingresso della chiesa, è ben visibile l’iscrizione in ricordo della visita di papa Pio IX avvenuta nel 1858.

CHIESA DI SANTA SEVERA E SANTA LUCIA DETTA “BATTISTERO”

La piccola chiesa è situata a ridosso di uno degli antichi accessi del borgo rivolto alla spiaggia, dagli anni sessanta del Novecento utilizzata come battistero. Presente nel borgo almeno dal XV secolo, conserva pregevoli affreschi in parte attribuiti alla scuola del pittore Antoniazzo Romano. Nell'abside Santa Severa presenta il committente precettore Gabriele De Salis alla Madonna in trono, sul lato destro Santa Lucia e San Rocco, sulla sinistra di Santa Severa San Sebastiano. Nel sottarco l’Agnus Dei e ritratti dei profeti. In alto sulla parete la scena dell’Annunciazione.

LA PIAZZA DELLA ROCCA

Dal cortile delle Due Chiese attraverso la porta antica si accede alla Piazza della Rocca, dove nel marzo del 2007 è stata scoperta la chiesa paleocristiana di Santa Severa, oggi protetta da una tettoia. L’eccezionale rinvenimento è avvenuto in seguito ai lavori di ristrutturazione del Castello di Santa Severa e costituisce una delle principali novità storico-archeologiche del complesso monumentale. La chiesa, suddivisa in tre navate, risale al V-VI secolo e, semi sotterranea, si appoggiava alle mura poligonali che si trovano al di sotto del fabbricato denominato Casa della Legnaia. Nella parte scavata è visibile l’abside con tracce di affreschi, le colonne ancora in piedi e la vasca battesimale nella navata destra. La chiesa vissuta fino alla metà circa del XIV secolo, fu abbandonata forse in seguito ad un incendio e quindi, dopo lo spoglio dei materiali nobili, completamente interrata e dimenticata. Intorno, gli scavi hanno portato alla scoperta di un vasto cimitero medievale con centinaia di sepolture che hanno permesso di ricostruire uno spaccato molto interessante delle caratteristiche della popolazione del castello tra il XIII e il XIV secolo.

MUSEO DEL CASTELLO NELLA ROCCA

All'interno si trova un cortile con un pozzo al di sotto del quale è situata una grande cisterna per la raccolta dell’acqua. Le sale del pianterreno e una parte del primo piano ospitano il nuovo “Museo del Castello di Santa Severa” dove si possono trovare le informazioni sulla storia e l’archeologia del complesso. Il museo raccoglie alcuni reperti e documenti che raccontano le vicende dell’insediamento e del suo borgo dal martirio di Santa Severa fino al Novecento: la vita quotidiana, gli eventi e le storie che hanno attraversato i secoli per giungere a noi. Al piano terreno, tre sale illustrano la vicenda del martirio di Santa Severa, la fase in cui il castello fu proprietà delle abbazie di Farfa e del monastero di San Paolo, l’epoca delle famiglie nobili romane dei Tiniosi, Bonaventura -Venturini e dei Di Vico, nel XIII e XIV secolo. Al primo piano si prosegue con il racconto dell’epoca  rinascimentale e del Seicento con le visite dei papi al castello e l’arrivo del primo ambasciatore giapponese nel 1615, si termina con la storia della tenuta di Santa Severa nell'Ottocento e nel Novecento.

Tramite una grande scala si sale per due piani raggiungendo la parte più alta del fabbricato, da dove è possibile raggiungere la Torre Saracena attraverso il ponte di legno che collega le due costruzioni.

LA TORRE SARACENA

Alto maschio cilindrico costruito nell'Alto Medioevo, forse già nel IX secolo, con funzione di avvistamento e di controllo del sottostante porto canale. La torre, chiamata Saracena in epoca moderna, ci appare oggi nella sua forma definitiva, assunta nel XVI secolo in seguito ad interventi di restauro e abbellimento voluti dal precettore Bernardino Cirillo, quando l’accesso era assicurato dal solo ponte di legno che la collegava alla Rocca e da una porticina corrispondente a quella attuale, che poteva essere raggiunta dal basso solo con una scala di legno. Al suo interno si trovano tre sale circolari sovrapposte collegate da una scala a chiocciola moderna. Dalla sommità si gode di uno stupendo panorama che spazia lungo la costa da  Fiumicino a Santa Marinella e nell'entroterra su tutto il castello fino ai Monti della Tolfa e Cerveteri. Molte notizie sulla sua storia e sul suo armamento sono conservate nel “Museo del Castello di Santa Severa” all'interno della Rocca.

Bibliografia:

A.C. Cenciarini, Rocche e castelli del Lazio, Newton Compton

Sitografia:

passaggilenti.com

santamarinella.com