IL RINASCIMENTO NEL DUCATO PARMENSE

Come si evince dal titolo, parlerò degli artisti che hanno giocato un ruolo chiave nel Rinascimento del ducato parmense prima del 1545 . Perché proprio questa data? Fino al 1513 i territori di Parma erano sotto il controllo del ducato di Milano, poi successivamente fu soggetta ad un’alternanza di governi Pontifici e Francesi. Questi ultimi vennero cacciati nel 1521 in seguito all'assedio di Parma da parte dell’esercito papale unito a quello spagnolo, portando la città e i territori limitrofi sotto il controllo della chiesa. Dal 1545 Alessandro Farnese, meglio noto come Papa Paolo III, creò il Ducato di Parma e Piacenza cedendolo al figlio Pier Luigi Farnese. Nel 1556 Ottavio Farnese restituì Piacenza al Ducato di Milano.

Il Rinascimento nel ducato parmense: Alessandro Araldi

Nasce nel 1460 a Parma. Non si sa nulla sulla sua formazione ma si può notare nelle prime opere giovanili l’influenza della scuola forlivese di Melozzo da Forlì, di quella veneta di Mantegna e di quella emiliana di Lorenzo Costa, come si nota nell'affresco del 1496 della Madonna con Bambino1. Dal 1500 l’Araldi lavorò maggiormente presso il monastero di San Paolo, portando a termine nel 1514 la Camera delle grottesche2 dove non mancano i riferimenti alla maniera di Pinturicchio e di Francesco Francia, mentre quella di Leonardo è individuabile nella Pala Centoni3 del 1516 e nello Sposalizio della Vergine4 del 1519 collocati nella Cattedrale di Santa Maria Assunta di Parma.Ricordiamo il Ritratto per Barbara Pallavicino5 del 1510 inizialmente attributo a Piero della Francesca.

Il pittore morì nel 1528 a Parma.

 

Opere Araldi

 

Fig. 1 - Madonna con Bambino, 1496, Duomo di Parma, Parma.
Fig. 2 - Camera delle grottesche, 1514, Monastero San Paolo, Parma.
Fig. 3 - Pala Centoni, 1516, Duomo di Parma, Parma.
Fig. 4 - Sposalizio della Vergine, 1519, Duomo di Parma, Parma.
Fig. 5 - Ritratto di Barbara Pallavicino, 1510, Palazzo degli Uffizi, Firenze.

 

Correggio

Nome d’arte di Antonio Allegri, nacque nell'omonimo paese di Correggio in provincia di Reggio Emilia nel 1489. Sappiamo poco della sua formazione artistica, ma ci è giunto che tra il 1503 e 1505 si trovasse a Modena presso Francesco Bianchi Ferrari da cui apprenderà il linguaggio figurativo di Lorenzo Costa e Francesco Francia, mentre nel 1506 sarà a Mantova dove ebbe modo di studiare gli spazi pittorici di Mantegna e dipingere nella cappella funeraria di Sant'Andrea dedicata al pittore da poco defunto (prima opera giovanile di Correggio). Tornato nella sua città natale nel 1514 realizzò per la chiesa di San Francesco la pala con Madonna e Santi6.

Il pittore emiliano, dopo un viaggio a Roma, ebbe modo di ammirare la maniera di Michelangelo e Raffaello, formulando in seguito un linguaggio che avrebbe influito sulla pittura del Seicento, barocca e classica. Un esempio di questo nuovo stile lo troviamo nel Ritratto di dama7 del 1518-19.

Iniziò così una nuova fase della vita di Correggio. Nel 1519 si trasferì a Parma dove nello stesso anno gli venne commissionata la decorazione della Camera della Badessa8 nel monastero di San Paolo. Questa decorazione portò al pittore un enorme successo, nonché numerose commissioni come la decorazione della Cupola di San Giovanni Evangelista tra il 1520-24 di cui oggi rimane solo la cupola con la Visione di San Giovanni9 e un frammento dell’Incoronazione della Vergine10 dell’abside, ora alla Galleria Nazionale di Parma. Sempre all'interno della chiesa ma nella cappella Del Bono, Correggio dipinse due pale: Martirio di quattro Santi11 e Compianto sul Cristo Morto12.

Dal 1526 al 1530 circa il Correggio passò alla realizzazione della cupola del Duomo di Parma dove venne rappresentata l’Assunzione della Vergine13. Verso la fine degli anni 30 del 500 il pittore portò a compimento due pale d’altare; la Madonna di San Girolamo14per la chiesa di Sant'Antonio e la Madonna della Scodella15 per la chiesa del Santo Sepolcro.

Prima della sua morte il pittore ebbe modo di lavorare nuovamente per Isabella d’Este a Mantova realizzando quattro opere dei cosiddetti Amori di Giove, morendo poi nel 1534 nella sua città natale e venendo sepolto nella chiesa di San Francesco.

 

Opere Correggio

 

Fig. 6 - Madonna di San Francesco, 1514, Gemäldegalerie, Dresda.
Fig. 7 - Ritratto di Donna, 1518-19, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo.
Fig. 8a - Camera della Badessa, 1519, monastero di San Paolo, Parma.
Fig. 8b - Camera della Badessa [dettagli], 1519, monastero di San Paolo, Parma.
Fig. 9 - Visione di San Giovanni, 1520-24, chiesa di San Giovanni Evangelista, Parma.
Fig. 10 - Incoronazione della Vergine (frammento), 1520-24, Galleria Nazionale, Parma.
Fig. 11 - Martirio di quattro Santi, 1524, Galleria Nazionale, Parma.
Fig. 12 - Compianto sul Cristo morto, 1524, Galleria Nazionale, Parma.
Fig. 13 - Assunzione della Vergine, 1526-30, Duomo di Parma, Parma.
Fig. 14 - Madonna di San Girolamo, 1528, Galleria Nazionale, Parma.
Fig. 15 - Madonna della Scodella, 1528-30, Galleria Nazionale, Parma.

 

Parmigianino

Nome d’arte di Girolamo Francesco Maria Mazzola, nacque a Parma nel 1503. Soprannominato in tale modo per le origini e l’aspetto fisico minuto. Si formò nella bottega del padre e verrà influenzato da Correggio, Dosso Dossi e dai pittori attivi nel Duomo di Cremona. Ciò che diede il via alla carriera del pittore furono le opere per la chiesa di San Giovanni Evangelista.Nel 1519 dipinse il Battesimo di Cristo16 e affrescò la prima e la seconda cappella della navata sinistra nel 1523 con le raffigurazioni di Sant’Agata e il  Carnefice17, Santa Lucia e Apollonia18 (prima cappella), Santi Stefano e Lorenzo19, San Vitale a Cavallo20(seconda cappella). Altre commissioni avvennero a Fontanellato presso la corte dei Sanvitale nel 1524 e successivamente con la fine della peste partì con lo zio per Roma, dove lavorò per il cardinale Lorenzo Cybo. Nella città eterna avrà modo di legare con Rosso Fiorentino e studiare le opere di Michelangelo, Raffaello e Giulio Romano. Prima di tornare a Parma, il pittore passò quattro anni a Bologna. Col rientro nella città natale datato 1530, l’anno successivo gli venne commissionato l’affresco del presbiterio della Basilica di Santa Maria della Steccata, scegliendo il tema delle vergini sagge e vergini stolte21. Dal rientro a Parma, Parmigianino tronca i rapporti con i famigliari, non sappiamo se dovuto ad uno “scandalo” legato alla pratica dell’alchimia come riportato dal Vasari, oppure alla scoperta della sua omosessualità.

In questo ultimo decennio della sua vita ebbe problemi con la Confraternita della Steccata, subendo poi l’arresto e la carcerazione per due mesi a causa di una mancata restituzione di denaro. Venne poi scarcerato ritirandosi a Casalmaggiore nel 1539. Prima del ritiro portò a termine l’opera più importante del Manierismo italiano ovvero la Madonna dal collo lungo22.

Il pittore morì l’anno successivo, nel 1540 a Casalmaggiore, probabilmente colpito dalla malaria.

 

Opere Parmigianino

 

Fig. 16 - Battesimo di Cristo, 1519, Gemäldegalerie, Berlino.
Fig. 17 - Sant’Agata e il Carnefice, 1523, chiesa di San Giovanni Evangelista, Parma.
Fig. 18 - Santa Lucia e Apollonia, 1523, chiesa di San Giovanni Evangelista, Parma.
Fig. 19 - Santi Stefano e Lorenzo, 1523, chiesa di San Giovanni Evangelista, Parma.
Fig. 20 - San Vitale a Cavallo, 1523, chiesa di San Giovanni Evangelista, Parma.
Fig. 21 - Vergini sagge e vergini stolte, 1531-1539, Basilica di Santa Maria della Steccata, Parma.
Fig. 21a - Vergini sagge e vergini stolte [dettaglio], 1531-1539, Basilica di Santa Maria della Steccata, Parma.
Fig. 22 - Madonna dal collo lungo, 1534, Galleria degli Uffizi, Firenze.

Bibliografia

Correggio, Elemond Arte, 1992.

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/alessandro-araldi_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/mazzola-francesco-detto-il-parmigianino_%28Dizionario-Biografico%29/


IL RINASCIMENTO BOLOGNESE DEL XVI SECOLO

A cura di Mirco Guarnieri

L’epoca dei Bentivoglio ormai è passata. Dopo la loro cacciata nel 1506, la famiglia provò a riappropriarsi della città altre volte: nel 1507, nel 1511 dove Annibale II Bentivoglio riuscì - solo per un anno - a riprenderla diventando signore sotto il protettorato dei francesi. Gli altri tentativi furono fatti nel 1513 dopo la morte di Papa Giulio II e l’ultimo nel 1522, entrambi senza successo, lasciando Bologna sotto il potere pontificio per quasi 3 secoli (fine 700). Nel XVI secolo a Bologna vi furono alcuni avvenimenti importanti come l’incoronazione di Carlo V Asburgo nella Basilica di San Petronio nel 1530 e la scelta di Bologna come sede del Concilio di Trento tra il 1547 e 1549 e la Controriforma. Questi ed altri avvenimenti avvenuti in questo secolo furono alla base della pittura dei Carracci, che fu la più importante del Rinascimento bolognese.

Il Rinascimento bolognese: la famiglia dei Carracci

Agostino Carracci

Artista di spicco del panorama del Rinascimento bolognese, nasce nel 1557 a Bologna formandosi nell'ambiente tardo-manieristico frequentando la bottega di Prospero Fontana, successivamente quella di Bartolomeo Passarotti e infine quella dell’architetto incisore Domenico Tebaldi. Negli anni 70 del 500 frequentò lo studio di Cornelis Cort dove avviò l’attività di incisore. Negli anni a seguire assieme al fratello Annibale e il cugino Ludovico diede vita all'Accademia degli Incamminati (1582) e verrà visto come l’intellettuale del gruppo. Compì viaggi di studio a Venezia due volte (1582 e tra il 1587-89) e Parma tra il 1586-87. Nella città lagunare entrò in rapporti con Paolo Veronese e Tintoretto, che apprezzò la grandissima abilità grafica del pittore bolognese (ammirazione nata dopo la visione dell’incisione della Crocifissione1 della Scuola Grande di San Rocco del 1589). Anche se furono poche le incisioni del Carracci (lavorerà per produzioni di traduzione, cioè su lavori altrui) egli diventerà uno dei migliori incisori italiani del suo tempo mettendo a punto una tecnica grafica che divenne un punto di riferimento di quest'arte.

Nel 1584 assieme al fratello Annibale e il cugino Ludovico realizzò gli affreschi delle Storie di Giasone e Medea2 per Palazzo Fava a Bologna, divenendo la prima commissione fatta da tutti e tre i Carracci. Sempre con il fratello e cugino tra il 1590-92 parteciperà ad un’altra commissione per la realizzazione degli affreschi della Storia della fondazione di Roma3 presso Palazzo Magnani, sempre a Bologna.Sempre nell'ultimo decennio del 500 il pittore porterà a termine altre due opere: l’Assunzione della Vergine4 del 1592-93, per la chiesa di San Salvatore e la Comunione di San Girolamo5 datata tra il 1592-97.

Nel 1598 Agostino raggiunse il fratello a Roma, dove lo aiutò alla decorazione della Galleria Farnese, ma vi rimase per soli due anni, sembrerebbe a causa di un litigio avuto con Annibale anche se le ragioni non sono del tutto note. Da Roma si trasferì a Parma dove lavorò per Ranuccio I Farnese alla decorazione della volta della Sala d’Amore di Palazzo del Giardino, dove però dovette abbandonare presto i lavori a causa del peggiorarsi delle sue condizioni di salute.

Agostino Carracci morì di lì a poco nel 1602, e fu sepolto nel duomo di Parma.

 

Opere Agostino Carracci

 

Annibale Carracci

Fratello minore di Agostino, nasce nel 1560 a Bologna. Della sua formazione non ci sono giunte notizie, ma pare che questa sia avvenuta lontana dalla cerchia familiare. Sarà un importantissimo pittore che darà vita ad un nuovo modo di dipingere, riunendo sia gli stilemi del Rinascimento bolognese sia i vari stili dei più illustri pittori del Rinascimento maturo, ponendo assieme a Caravaggio e Rubens le basi per la pittura barocca.

La prima opera del Carracci sarà la pala d’altare raffigurante la Crocifissione e santi6 datata 1583 per la chiesa di San Nicolò a Bologna, dove possiamo notare il rifiuto delle convenzioni tardo manieristiche e un primo tentativo di ritorno al vero. Altre sue opere molto importanti furono i dipinti di genere come la Grande Macelleria7 e il Mangiafagioli8 del 1585.

Annibale ebbe due soggiorni che lo segnarono nella sua evoluzione stilistica. Il primo a Parma dove conoscerà la pittura di Correggio, visibile nell'opera Battesimo di Cristo9 del 1585 per la chiesa di San Gregorio, il secondo a Venezia tra il 1587-88 dove avrà modo di studiare la pittura del Veronese. Come già citato, assieme al fratello e al cugino affrescherà Palazzo Fava e Palazzo Magnani a Bologna tra la fine degli anni 80 e gli inizi degli anni 90 del 500, trasferendo nell'ultimo decennio lo stile di Annibale verso la pittura del Veronese. Ne sono testimoni la Pala di San Giorgio10 e la Resurrezione di Cristo11 del 1593, quest’ultima vista come l’opera di arrivo alla fase matura. Prima di lasciare Bologna Annibale produsse assieme al fratello e al cugino un’ultima decorazione collettiva per il Palazzo Sampieri di Bologna, dando vita all'opera Cristo e la Samaritana12 del 1593-94. L’insieme di questi capolavori conferì al Carracci grande notorietà e ciò lo condusse a Roma a lavorare per il cardinale Odoardo Farnese dandogli il compito di decorare assieme al fratello il piano nobile dell’omonimo palazzo; per il monsignor Tiberio Cerasi presso la cappella di famiglia, realizzò la tela dell’Assunzione della Vergine (1600-01) posta tra la Crocifissione di Pietro e la Conversione di San Paolo di Caravaggio ed infine, per la famiglia Aldobrandini per cui dipinse diverse opere e decorò la cappella privata di palazzo.

Annibale Carracci morirà a Roma nel 1609, venendo sepolto presso il Pantheon vicino alla tomba di Raffaello come da lui richiesto.

 

Opere Annibale Carracci

Ludovico Carracci

Fu il più anziano dei tre Carracci e il meno importante, dando comunque un contributo di ortodossia al Rinascimento bolognese. Nacque a Bologna nel 1555, formandosi come il cugino Agostino presso Prospero Fontana, proponendo una pittura religiosa. Anch'egli ebbe modo di viaggiare, in particolare a Firenze, Parma, Mantova e Venezia. Alcuni esempi di sue opere religiose sono l’Annunciazione13 del 1584, la Pala dei Bargellini14 del 1588, la Conversione di Saulo15 1587-88 e la Madonna degli Scalzi16 datata 1590 presso la cappella Bentivoglio nella chiesa di Santa Maria degli Scalzi a Bologna. Tra le sue realizzazioni da decoratore vi furono le già note Storie di Giasone e Medea a Palazzo Fava (1584) e la Storia della fondazione di Roma a Palazzo Magnani (1590-92) fatte assieme ai cugini Annibale e Agostino. Sempre nello stesso periodo della decorazione di Palazzo Magnani compì le opere della Predicazione del Battista17e il Martirio di Sant’Orsola18 (influenzato dallo stile di Tintoretto e Veronese). Con il nuovo secolo Ludovico fu all'opera presso il Duomo di Piacenza tra il 1607-08, Roma nel 1612 nella chiesa di Sant'Andrea della Valle e Ferrara presso la chiesa di Santa Francesca Romana, presentando una lodevole qualità espressiva e morale.

Morirà a Bologna nel 1619.

 

Opere Ludovico Carracci

 

Bibliografia

G.C.Argan, Storia dell'arte italiana, Sansoni, ristampa 1982.

 

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/annibale-carracci_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/agostino-carracci_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/agostino-carracci_(Dizionario-Biografico)/


LA VILLA DEI MARCHESI AYALA A VALVA

A cura di Stefania Melito

Introduzione

C’è un luogo in provincia di Salerno che sembra essere rimasto fermo in un’epoca imprecisata, dove l’eleganza e il manierismo dominano incontrastati, un luogo ove il verde è il vero protagonista. È Villa Ayala a Valva, e in particolar modo il suo splendido ed incantato Parco.

Fig. 1: villa Ayala

Il paese di Valva

Valva è un piccolo centro di circa duemila abitanti in provincia di Salerno che si estende sulle pendici del monte Marzano, nel pieno della riserva naturalistica dei monti Eremita e Marzano, fondata nel 1993. La riserva si estende fino alla vicina Basilicata ed annovera un territorio di più di 3500 metri quadrati che abbraccia, oltre a Valva, i comuni di Laviano e Colliano. Il comune si divide in Valva vecchia, ossia il primitivo nucleo abitativo di epoca romana di cui restano solo rovine, e l’attuale insediamento.

Villa Ayala a Valva e il suo costruttore

Situata sulle pendici del monte Marzano, la villa risale alla seconda metà del 1700 e il suo nucleo originario è una torre d’angolo voluta dal signore normanno Gozzolino nel 1108, che prenderà appunto il nome di Torre Normanna. Successivamente si deve a un suo discendente, il marchese Giuseppe Maria Valva, sovrintendente di tutti i ponti e le strade del Regno di Napoli e consigliere di Ferdinando IV di Borbone, l’idea della costruzione di una villa che potesse attrarre e stupire i visitatori. Il marchese, appartenente all’Ordine dei Cavalieri di Malta e all’Ordine dei Cavalieri di Costantinopoli, era una figura di spicco dell’epoca: fu l’ideatore della cosiddetta “Via del grano”, ossia la strada che attraversava Campania, Basilicata e Puglia mettendo in comunicazione Napoli con il Tavoliere delle Puglie, cosa molto importante in un periodo in cui, a seguito di una grave carestia, il grano scarseggiava all'interno del regno borbonico. Ancora oggi un epitaffio sulla via del grano, eretto nel 1797, ne ricorda la costruzione.

Fig. 2: l'epitaffio a Eboli sulla "Via del grano".

La costruzione della villa

Come spesso accadeva in quegli anni il marchese immaginò un edificio a pianta rettangolare, inserito in un ampio parco esterno a cui si accedeva da un arco merlato. Stranamente si ispirò ad un’opera ben precisa, ossia il Castello del Buonconsiglio a Trento, per immaginare la villa. La struttura, chiamata anche Castello, è cinta ed introdotta da un muro perimetrale merlato, molto suggestivo, con un arco centrale che dà sull'ingresso principale.

Una volta oltrepassato, ci si ritrova nel cortile esterno antistante la villa, un piccolo giardino all'italiana che ricorda vagamente un’arpa, caratterizzato da viali irregolari costituiti da aiuole e siepi con statue delle Quattro Stagioni disseminate qua e là; un tempo nel giardino vi era un piccolo lago, ora invece c’è la fontana con Diana e il cervo. Sulla destra del viale d’ingresso vi è la chiesetta della Madonna del Fileremo, in cui ancora oggi i Cavalieri di Malta tutti gli anni celebrano una messa commemorativa.

La struttura del castello, che si estende su una superficie di circa 600 metri quadrati, è suddivisa in altezza su due livelli: il primo è quello che ospita le varie sale e si divide a sua volta in due corpi di fabbrica merlati, mentre il secondo è quello della Torre quadrata angolare. Quello che colpisce è l’estremo dinamismo costruttivo: la struttura infatti è movimentata non solo dalla merlatura che corre immediatamente al di sotto del sottotetto, ma anche da un ulteriore portico che cinge tutto l’edificio, spezzato da torrette angolari. Sull'edificio più a sinistra, che è anche quello più sporgente in avanti, si notano due coppie di quadrifore inquadrate in una trabeazione rettangolare, intervallate da un finestrino romboidale centrale. Al di sotto un porticato con tre archi a tutto sesto che dà luce al piano terra, in cui si trovano la cucina, cosiddetta “voltata”, e la sala delle armi.

Il secondo edificio, invece, più arretrato, presenta una facciata più semplice, scandita da una fascia marcapiano centrale, in cui il primo piano presenta tre finestre ad unico arco e il piano terra tre piccole e semplici bifore. Un piano cosiddetto “ammezzato” ospita la Cappella, mentre al primo piano, il cosiddetto piano nobile, trova posto l’appartamento marchesale. Caratterizzato da un grande salone con affreschi, l’appartamento era in origine un luogo ricco di arredi lignei e suppellettili, senza dimenticare quadri, affreschi e statue. All'ultimo piano è collocato il sottotetto, realizzato in calcestruzzo armato (uno dei primi esempi dell’utilizzo di questo nuovo materiale) e che ospitava varie stanze e relativi bagni. Sicuramente la parte di maggiore interesse dell’edificio è la cosiddetta Torre normanna, che si eleva ad un lato della struttura. Tutto l’edificio è stato parzialmente danneggiato dal terremoto del 1980.

Il Parco di villa Ayala

Uscendo fuori da villa Ayala a Valva si è circondati da in un bellissimo parco su più livelli, strutturato in un impianto manieristico e quasi barocco. I viali che lo solcano lo dividono un po’ irregolarmente in una scacchiera, e l’intera superficie è divisa in zone, tra cui due giardini all'italiana. Abbraccia una superficie di circa diciotto ettari, ed è inserito nei giardini più belli d’Italia. È caratterizzato da un susseguirsi di frutteti, boschi di magnolie, di cedri, di spazi ricavati tra la vegetazione ove trovano posto gruppi scultorei. È il caso, ad esempio, del cosiddetto emiciclo della Bellezza, che ospita tra gli altri il gruppo scultoreo delle Tre Grazie opera dello scultore Donatello Gabrieli.

Fig. 12: l'Emiciclo della bellezza

Ma non è un caso isolato: l’intera superficie arborea è decorata da statue, busti di marmo, complessi architettonici etc, che sbucano dalla vegetazione quasi come se l’abitassero. È il luogo del castello ove maggiormente si avverte un senso di estraniamento della realtà, come nel caso del giardino di Diana e la cerva, dominato dal gruppo scultoreo corrispondente.

Fig. 13: Diana e la cerva

Uno dei fiori all'occhiello del parco, che ha reso Villa Ayala famosa nel mondo, è il cosiddetto “Teatrino di verzura”: un anfiteatro naturale di quasi mille posti ottenuto da siepi di bosso accuratamente sovrapposte, da cui emergono dei busti in marmo che sembrano spettatori di un’immaginaria rappresentazione. La cosa più straniante è che solo alcuni dei busti guardano in direzione del proscenio, mentre il resto guarda altrove. Sembra quasi una cristallizzazione di uno spettacolo vero, con gli spettatori che assistono attenti e altri che si distraggono. Quando il Teatrino è utilizzato per gli spettacoli si possono vedere gli spettatori in carne ed ossa seduti accanto a questi busti, e l’insieme è altamente suggestivo.

Fig. 14: il teatrino di verzura

Tutto il resto del parco è ornato da statue a carattere mitologico e porticati eleganti, mentre al di sotto si può osservare un imponente sistema di grotte e canali, probabilmente scavato per incanalare le acque.

Fig. 15: le grotte

Anche le grotte sono ornate di statue, come la cosiddetta “Caverna dei mostri” che ospita statue di aspetto orribile.

Attualmente la Villa, che appartiene al priorato di Malta, è parzialmente visitabile.

 

Sitografia

http://www.villadayala.altervista.org/index.php

https://www.livesalerno.com/it/giardini-villa-dayala

https://www.comune.valva.sa.it/villa-dayala-valva/

https://salerno.occhionotizie.it/villa-ayala-piccola-versailles-valle-sele/

http://ambientesa.beniculturali.it/BAP/?q=luoghi&luogo=&provincia=&comune=&src=&ID=46

http://www.didatour.it/gita-scolastica/villa-dayala-valva/


IL MONUMENTO FUNEBRE DI ISABELLA D'ARAGONA

A cura di Antonio Marchianò

Introduzione

Il monumento funebre di Isabella D’Aragona

Il monumento funebre di Isabella D’Aragona si trova nel transetto della Cattedrale di Cosenza. Il monumento era scomparso in seguito ai rimaneggiamenti subiti della Cattedrale e fu scoperto solo nel 1891 durante i lavori di restauro. Si ritiene che venne realizzato poco dopo la morte della Regina da uno scultore francese, forse facente parte del seguito dei reali, attivo nell'ottavo decennio del Duecento. L’opera è giunta frammentaria, priva di iscrizioni che doveva accompagnarla, delle probabili dorature, delle cromie e della cassa in cui furono conservate le spoglie della regina. Il monumento è uno degli esempi più significativi di scultura monumentale dell’Ile-de-France conservato nell'Italia meridionale.

Fig. 1 - Monumento funebre di Isabella d’Aragona.

Isabella D’Aragona nacque nel 1248, figlia di Giacomo I il conquistatore re di D’Aragona, la più piccola di otto fratelli. Della sua infanzia e adolescenza si conosce poco, però si sa che fu "utilizzata" per i giochi di potere di suo padre che voleva rafforzare sia la sua posizione in Europa e presso i francesi, sia combattere gli infedeli, cioè i musulmani. E infatti con il trattato di Corbeil Giacomo concesse sua figlia al figlio del re di Francia, Felipe, e questo segnò la pace tra i due grandi regni. Nel 1262 i due si sposarono a Clermont-en-Auvergne e l’anno seguente ebbero quattro figli. Durante questo periodo il re di Francia, che era molto cristiano, sarà il futuro San Luigi dei francesi, decise di fare una crociata per liberare Gerusalemme. Nel luglio 1270 Isabella accompagnò il marito Filippo III l’Ardito a Tunisi per l’Ottava Crociata, successivamente ad agosto, Isabella divenne regina di Francia per la morte del suocero Luigi IX di Francia. Al ritorno in Francia l’11 gennaio 1271, mentre attraversava il fiume Savuto nei pressi di Martirano, in Calabria, incinta di sei mesi del quinto figlio, cadde da cavallo. Dopo numerosi giorni di agonia morì il 28 gennaio. Filippo III fece seppellire nella Cattedrale di Cosenza il corpo della regina insieme al figlio nato morto, mentre le ossa furono trasportate nella Basilica di Saint-Denis in Francia. Nell’archivio della Cattedrale di Cosenza c’è una piccola pergamena che spesso viene confusa con il testamento di Isabella. Essa è in realtà, un atto di compra-vendita della vendita di un terreno. Inoltre in questo testo è citato come il re di Francia abbia donato del denaro affinché venisse celebrata una messa in suffragio della defunta moglie. Il vero testamento fu scritto durante la sua agonia tra il 19 e 28 gennaio. In esso Isabella appare come la regina dei Francesi, dice di offrire del denaro per costruire la cappella dove doveva riposare, lascia del denaro alla badante dei suoi figli, lascia i suoi soldi e i suoi vestiti ai poveri, agli studenti e agli infermi.

Il monumento si presenta come una trifora cieca a trafori di trilobi e quadrilobi in un disegno e un dettaglio di esecuzione di tardo rayonnant, simile a quello dei finestroni delle cappelle che venivano costruite lungo i fianchi di Notre-Dame a Parigi. I tre altorilievi a grandezza poco meno naturale assumono aspetto di statue entro nicchie e mostrano lo stile grazioso e sofisticato proprio di tanta scultura, anche funeraria, prodotta in ambito della corte parigina. Al centro del monumento troviamo la Madonna con il bambino, dal panneggio sinuoso e che accenna a un delicato incurvarsi del corpo, tipico della statuaria francese del duecento e degli avori (fig.2). Ai lati della Madonna, in atto di adorazione, compaiono la regina (fig.3) a sinistra e sulla destra Filippo L’Ardito (fig.4).

Lo studioso Stefano Bottari ha notato che il volto della regina è raffigurato con occhi chiusi, sembra calcato su una maschera mortuaria, Mentre i lineamenti del re sono simili a quelli che si vedono nella figura giacente del suo monumento di Saint-Denis, avviato per iniziativa da Filippo il Bello nel 1298 e sistemato nel 1307. Nel caso della figura del re il confronto con la tomba di Saint-Denis è interessante perché, oltre ai tratti fisionomici e alle peculiarità del costume, che appaiono molto simili, si riscontrano analogie anche sul piano stilistico. Questo suggerisce l’origine e l’educazione francese dell’ignoto scultore autore della tomba cosentina, avvenuta appunto tra i cantieri di Saint-Denis e quelli di Notre-Dame. La presenza a Cosenza della tomba di questa regina deve considerarsi del tutto causale per l’imprevedibilità della morte avvenuta durante la caduta da cavallo.

Fig. 2 - Monumento funebre, Madonna con il bambino al centro, ai lati Isabella d’Aragona e Filippo L’Ardito.

 

Bibliografia e Sitografia

Arnone N., "Le tombe regie del Duomo si Cosenza", Archivio storico per le provincie napoletane, 18, 1893, pp. 380-408.

Bottari S., "Il monumento alla Regina Isabella nella Cattedrale di Cosenza", Arte antica e moderna, 4, 1958, pp. 399-344.

De Castris 1986, Arte di corte nella Napoli angioina, Napoli 1986,p. 161.

Foderaro G., "Il sepolcro della regina Isabella d’Aragona nel Duomo di Cosenza", Bollettino calabrese di cultura e bibliografia, 7, 1990, pp. 292-306.

Martelli G., "Il monumento funerario della regina Isabella nella Cattedrale di Cosenza", Calabria nobilissima, 4, 1950, pp. 9-21.

Romanini, Angiola Maria. Peroni Adriano, Arte Medievale, interpretazioni storiografiche, Spoleto 2005, pp. 403.

 

Sitografia

http://www.cattedraledicosenza.it/


L'ARTE A BOLOGNA NEL XV SECOLO

A cura di Mirco Guarnieri

Il contesto storico nella Bologna del XV secolo

Bologna nel 1401 divenne la città dei Bentivoglio, famiglia toscana che, alleata con i Visconti di Milano, cacciò il Legato Pontificio dalla città emiliana. Giovanni I Bentivoglio fu il primo della casata a governare sulla città, ma il prestigio e la rinomanza politica arrivarono sotto Giovanni II, cugino del precedente signore di Bologna, Sante Bentivoglio. L’arte pittorica a Bologna durante il XV secolo fu rappresentata per lo più dai pittori ferraresi come Ercole de Roberti e Francesco del Cossa, trovando poi sviluppi verso la fine del secolo con Francesco Francia e Lorenzo Costa. Dal 1506 i Bentivoglio vennero esiliati dal papa Giulio II, portando la città solo il potere papale. Fu in questo contesto che si sviluppò il Rinascimento bolognese del XV secolo.

Francesco del Cossa

Come già sappiamo Francesco del Cossa fu un pittore appartenente all'Officina ferrarese del XV secolo. Dopo le scene affrescate nel Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia si trasferì stabilmente a Bologna attorno al 1470 dove fin da subito ebbe un’intensa attività, caratterizzata da commissioni di grande prestigio. La prima opera bolognese del pittore avvenne lo stesso anno del suo arrivo e fu la Pala dell’Osservanza (fig. 1) in San Paolo in Monte; due anni dopo per Giovanni II Bentivoglio ridipinse la Madonna del Baraccano (fig. 2) un affresco votivo di grande significato simbolico. Tra il 1472 e 73 assieme ad Ercole de Roberti portò a compimento il Polittico Griffoni (fig. 3) commissionato da Floriano Griffoni mentre nel 1474 portò a termine la Pala dei Mercanti (fig. 4) commissionata da Alberto de Cattanei e Domenico degli Amorini, dove possiamo notare l’attenuamento dello stile bizzarro e tagliente tipico della pittura ferrarese a vantaggio di una maggiore monumentalità delle figure, portando nel panorama bolognese le novità pittoriche rinascimentali. Prima della morte avvenuta nel 1478 per la peste, del Cossa decorò le volte della Cappella Garganelli dentro la Cattedrale di San Pietro, portata poi a termine da Ercole de Roberti.

 

Opere Francesco del Cossa

 

Ercole de Roberti

Anch'egli pittore dell’Officina ferrarese seguì Francesco del Cossa a Bologna ma a differenza di quest’ultimo lui tornò a Ferrara nel 1479. A Bologna il pittore lavorerà per lo più al fianco di Francesco del Cossa come nel caso dei Santi sui pilastrini e la Pradella con le storie di San Vincenzo Ferrer (fig. 5) del Polittico Griffoni del 1472-73. In quest’ultima opera notiamo come il suo stile si sia evoluto, soprattutto nelle architetture organizzate razionalmente. Nel 1475 de Roberti compì un ritratto di profilo per Giovanni II Bentivoglio e Ginevra Sforza, chiamato Dittico Bentivoglio (fig. 6) Questa tipologia di ritratto dominò nelle corti italiane per quasi tutto il XV secolo (si rifaceva all’ideale umanistico dei ritratti dei Vir Illustris, derivate dalle effigi degli imperatori nella monetizzazione romana). Prima del ritorno a Ferrara egli concluse gli affreschi della Cappella Garganelli  (fig. 7) iniziata sempre con del Cossa, che ebbe un forte impatto sulla scuola locale e sui visitatori che la videro tra cui Niccolò dell’Arca e Michelangelo. Purtroppo degli affreschi della Cappella rimane un solo frammento raffigurante la Maddalena Piangente.

 

Opere Ercole de Roberti

 

Lorenzo Costa

Altro esponente del Rinascimento bolognese del XV secolo fu Lorenzo Costa detto il Vecchio; nacque a Ferrara nel 1460 da Giovanni Battista Costa e Bartolomea. I primi passi in pittura furono condizionati quasi sicuramente dal padre, anche se successivamente come modello stilistico prenderà quello di Cosmé Tura. Una delle sue prime opere giovanili fu il San Sebastiano8 del 1482, inizialmente attributo al Tura ma successivamente, dopo la trascrizione in latino dei caratteri ebraici sullo scudo in basso a sinistra, si è riusciti a dedurre che l’opera era del Costa (firma del pittore a caratteri ebraici).

Nel 1483 Lorenzo Costa e tutta la sua famiglia si trasferirono a Bologna per sfuggire alla peste che stava affliggendo Ferrara e per la guerra contro Venezia. Già in quell’anno lavorava per i Bentivoglio, signori di Bologna e nella primavera del 1475 , venne nominato “pictor” in un atto notarile, questo ad indicare che all'età di 25 anni probabilmente lavorava già in proprio. Col tempo a Bologna strinse amicizia con Francesco Francia, altro illustre pittore bolognese del XV secolo. L’anno seguente Giovanni II Bentivoglio gli commissionò di dipingere la cappella di famiglia nella Chiesa di San Giacomo Maggiore, portando a termine la Vergine alla presenza della famiglia Bentivoglio9 nel 1488, completandola due anni più tardi con i due Trionfi10a,b (Trionfo della Fama e Trionfo della Morte). Nel biennio 90-92 del 400 il pittore oltre ai trionfi già citati fece il ritratto di Giovanni II Bentivoglio11 e la Pala Rossi12, ultima sua tavola eseguita in San Petronio. In quest’ultima opera vi è una svolta fondamentale nel suo percorso artistico che lo portò a distaccarsi dalle influenze di Tura e del Cossa, rimandando al canone classico dell’arte del Bellini, del Perugino e del Francia, senza però rinunciare al tocco leggero di geniale bizzarria padana tipicamente costesca. Verso la fine del secolo operò in San Giovanni in Monte per la realizzazione della Pala Ghedini13. All'inizio del secolo ebbe un’attività molto intensa: per citarne alcune il pittore realizzò opere come l’Incoronazione della Vergine14 (1501), San Petronio fra i Santi Domenico e Francesco15 (1502) e lo Sposalizio della Vergine16 (1505).

Nel 1506 i Bentivoglio vennero esiliati a Ferrara da Papa Giulio II, ma il Costa non li seguì, dirigendosi a Mantova dove lavorerà per Isabella d’Este e vivrà fino alla sua morte avvenuta nel 1535.

 

Opere Lorenzo Costa

 

Francesco Francia

Francesco Raibolini, detto il Francia, nasce a Zola Predosa tra il 1447-49. Prima di dedicarsi alla pittura si dedicò all’arte orafa, facendosi riconoscere per le “paci” in argento niellato. Nell'età giovanile ebbe modo di viaggiare molto (Ferrara, Romagna, Marche, Firenze, Perugia, Mantova, Padova, Venezia) entrando in contatto con Piero della Francesca, Andrea Mantegna, Giovanni Bellini, il Perugino, Antonello da Messina e le opere fiamminghe. Queste ultime costruiranno un tratto stilistico assai rilevante nella sua intera produzione. L’enorme patrimonio di conoscenze e di eredità stilistiche le troviamo nelle opere degli anni 80 e 90 del 400 come la Sacra Famiglia Bianchini17, la Crocifissione Bianchini18 del 1485, le Pale per la famiglia Felicini19, Malanzuoli20, il ritratto di Violante Bentivoglio del 1490 e quello di Bartolomeo Bianchini detto Codro21 del 1495. Altra opera realizzata lo stesso anno fu la Pala per la famiglia Scappi22 presso la Chiesa dell’Annunziata, a testimoniare come il pittore ricevette molte richieste dalle famiglie dell’aristocrazia bolognese. Alle fine del 1400 Anton Galeazzo Bentivoglio figlio di Giovanni II, chiese al Francia di realizzare per la Chiesa della Misericordia una Pala23 da inserire nella loro cappella presso la Chiesa della Misericordia. Con il nuovo secolo il pittore portò a termine alcuni affreschi24a,b delle storie dei Santi Cecilia e Valeriano presso l’Oratorio di Santa Cecilia, oltre alla Madonna del Terremoto25 del 1505 (omaggio alla vergine per aver preservato la città dalle peggiori conseguenze del recente terremo).

Con la cacciata dei Bentivoglio e l’avvento di Giulio II, il pittore dal 1508 fu responsabile dei conii, ricevendo importanti commissioni da parte di famiglie prima emarginate come i Gozzadini, per i quali realizzò la Pradella della natività e passione di Cristo, chiamata Visione di Sant’Agostino26.

Nell'ultimo decennio di vita il pittore fu in grado di rispondere più liberamente alle commissioni provenienti da signorie, città forestiere e committenti ecclesiastici come Guidobaldo di Montefeltro, Francesco Maria della Rovere e Isabella d’Este, dando maggiormente lustro al Rinascimento bolognese del XV secolo.

Il pittore morirà a Bologna nel 1517.

 

Opere Francesco Francia

 

 

 

Bibliografia

Emilio Negro, Nicosetta Roio - Lorenzo Costa 1460-1535, Artioli, 2001.

 

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/raibolini-francesco-detto-il-francia_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-del-cossa_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/ercole-roberti_%28Dizionario-Biografico%29/


LA TORRE DI PORTO PALO DI MENFI

A cura di Antonina Quartararo

La torre di Porto Palo: la storia

Simbolo indiscusso dell’antico borgo marinaro di Porto Palo di Menfi (AG), oggi rinomata località balneare,è la torre anti-corsara costruita nel 1583 per volere del Viceré di Sicilia Juan de Vega durante la dominazione di Carlo V d’Asburgo. Il progetto venne affidato all'architetto e ingegnere militare Camillo Camilliani (Firenze, XVI secolo – Palermo, 1603). Egli collaborò alla realizzazione della famosa Fontana di Piazza Pretoria a Palermo e progettò la maggior parte delle torri di guardia che punteggiavano le coste siciliane sotto la dominazione spagnola. Queste torri costituivano un vero e proprio sistema militare difensivo; oltre alla funzione di avvistamento, servivano a coordinare la fanteria o la cavalleria in caso di incursioni barbaresche. I temibili pirati saraceni cacciati dall'Italia dai Normanni nell'anno Mille incutevano ancora terrore nel Cinquecento, attraccando sulle coste meridionali dell’Isola e invadendo le campagne dove facevano razzia dei raccolti, saccheggiando le case e catturando i prigionieri cristiani di cui richiedevano il riscatto. Identica funzione difensiva aveva la Torre di Porto Palo, costruita su un’altura rocciosa chiamata “Punta di Palo” da cui prese il nome.

Fig. 1

La sua posizione sopraelevata consentiva di dominare visivamente ampie porzioni del litorale mediterraneo. La torre con base tronco piramidale di mt 10,90 e fusto a base quadrata di mt 11,50 x 11,75, si sviluppa su due livelli; costruita con mattoni di pietra, era ornata da una merlatura (si conserva una mensola che doveva sostenere i merli), ed era dotata di un’ampia terrazza dove i soldati sorvegliavano la costa, muniti di artiglieria e di un cannone di bronzo da 8 libbre. La torre era provvista, inoltre, di un focolare e di bandiere che servivano per comunicare a distanza con le altre torri limitrofe (come la Torre del Tradimento di Sciacca, la Torre di Tre Fontane, la Torre Mazara e Torre Saurello a Campobello di Mazara).

Fig. 2

La struttura possedeva un solo accesso al piano superiore, di forma arcuata (ancora esistente), sul lato opposto al mare,da cui i soldati salivano attraverso una scala a pioli removibile. Mentre il piano superiore era adibito a magazzino d’artiglieria e di armi, al pianoterra era stata creata una cisterna dove venivano stipate le merci che arrivavano al porto. In caso di attacco diurno o notturno, la torre richiamava l’intervento di una guarnigione che pattugliava il luogo. Solitamente di giorno veniva sparato un colpo di cannone, con due fumate e l’innalzamento di bandiere; di notte venivano sparati due colpi di cannone, due botti e una terza cannonata. La torre fu protagonista di alcuni episodi di guerriglia e rimase in uso fino ai primi anni dell’Ottocento. Attualmente si conserva in buone condizioni, anche se si auspica la messa in sicurezza del terreno sottostante e una buona manutenzione all'interno e all'esterno del monumento. Ancora oggi la Torre di Porto Palo possiede una forte valenza storica e paesaggistica, e da secoli resiste all'incuria del tempo, divenendo spettatrice e icona di un turbolento passato.

Bibliografia:

  • Bilello F., Terra di Memphis (Menfi e le sue origini), Palermo 1996.
  • Bilello F., Storia di Porto Palo (Menfi), Palermo 1996.

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IL CASTELLO DI ARCO

A cura di Alessia Zeni

Il castello dalle 120 stanze

Nella zona dell’Alto Garda esiste una delle rocche più belle e complesse della regione, il Castello di Arco. Per chi arriva da nord, dalla piana del fiume Sarca o, da sud, dal Lago di Garda, si porge agli occhi un’imponente e suggestiva rupe rocciosa dominata dal Castello di Arco. Uno dei castelli più articolati del Trentino per la sua estensione di circa 23000 mq e le numerose strutture fortificate. I restauri condotti nel 1986 e nel 2003 hanno permesso di ridare antica dignità all'intero maniero con il consolidamento degli edifici superstiti, la sistemazione di un percorso di visita e, cosa più importante, la scoperta di un ciclo di affreschi trecenteschi raffiguranti scene di gioco con dame e cavalieri.

Fig. 1

Prima di parlare delle strutture e del ciclo di affreschi è bene ricordare la storia che da sempre avvolge il castello di Arco. Una storia legata al paese omonimo, adagiato alle pendici della rupe, e alla famiglia nobile degli Arco che per molti secoli ha abitato il castello. Intorno all'anno Mille il castello già esisteva, ma la rupe che sovrasta il borgo di Arco è stata luogo di insediamento già in epoca romana. Ad ogni modo, l’origine del Castello di Arco sembra avvalorata dall'ipotesi che esso sia stato costruito dagli “uomini liberi” della comunità di Arco con finalità soprattutto difensive. In seguito il castrum Archi diede il nome alla comunità che attorno alla rupe si sviluppò e alla famiglia nobile che lo abitò. I conti d’Arco vissero nel castello fino alla fine del Quattrocento quando si trasferirono in più comodi e lussuosi palazzi e al castello tornarono solo per assumerne la giurisdizione o per difenderlo. Nel corso dei secoli diversi nemici tentarono di espugnare il maniero, dalla famiglia trentina dei Lodron, gli Sforza di Milano, agli Scaligeri di Verona. I tentativi furono però vani, segno di un sistema difensivo impeccabile che venne espugnato solo dai tirolesi, nel 1579, e dal generale Vendome nel 1703. Dopo l’attacco francese il castello cadde nell'oblio e divenne meta di povera gente alla ricerca di materiale di recupero. Nel frattempo i conti d’Arco si erano frazionati in tre casate, quella di Arco, Mantova e della Baviera, dividendosi in parti uguali anche il Castello di Arco. Nel 1982 il Comune di Arco acquistò il castello e nel 1986, condusse i primi restauri che hanno portato alla luce i magnifici affreschi, oltre a nuovi locali e percorsi interni. Infine la campagna di restauri, ultimata nel 2003, ha reso accessibile la torre sommitale, la più antica, con un percorso di vista all'interno di un caratteristico paesaggio gardesano.

Tornando alla struttura del castello, molte sono le immagini e i dipinti che testimoniano l’antica grandezza del castello. Mattias Burgklechner ci ha consegnato una stupenda raffigurazione di Arco con il castello e la testimonianza scritta di “castello dalle centoventi stanze”. Ma l’immagine più significativa è quella dell’artista Albrecht Dürer, realizzata durante un viaggio in Italia intorno al 1494. Un acquerello di inestimabile valore per la qualità e la cura dell’esecuzione che riproduce il Castello di Arco su un grande costone roccioso davanti ad un paesaggio maestoso, contraddistinto da uliveti e campi coltivati a vite, mentre il borgo, ai piedi della rocca, sembra mimetizzarsi con la natura circostante.

Il castello, come già anticipato è uno dei manieri più articolati della regione per la sua estensione e le numerose strutture che lo compongono. Il primo spazio visitabile, salendo lungo la rupe del castello, è il prato della Lizza, un tempo fertile campagna, oggi magnifico punto d’osservazione verso la vallata e il castello. Proseguendo, troviamo la Prigione del Sasso, ricavata in un anfratto roccioso che porta sulle pareti i segni attribuiti alla conta dei giorni di qualche recluso del castello. Si arriva poi alla Slosseraria, il laboratorio del fabbro, testimonianza di una delle tante attività artigianali che erano praticate dentro il castello. Lungo l’acciottolato che conduce alla Torre Grande vi sono i resti di due cisterne e la canaletta ricavata nella roccia per raccogliere l’acqua piovana e convogliarla nelle cisterne, unica fonte idrica non essendoci sorgenti sulla rupe.

Fig. 4

La struttura più importante è la Torre Grande, risalente al XIII secolo, una torre imponente con merlatura a coda di rondine e pareti in pietra squadrata. Attorno vi sono i ruderi di altre costruzioni, case di abitazione, laboratori e magazzini a formare una sorta di piccolo borgo fortificato.

Nei pressi della torre vi è il locale della “stuetta” con la magnifica Sala degli Affreschi che venne scoperta nel 1986, quando era ingombra di macerie. Il ciclo di affreschi è di anonimo pittore, riconosciuto oggi come il Maestro di Arco, e racconta numerosi episodi di vita curtense che testimoniano la grande abilità professionale dell’artista. Sono immagini uniche nel loro genere in quanto raffigurano la vita di dame e cavalieri del Trecento e scene di gioco della stessa epoca. Nelle scene di gioco troviamo uomini e donne che si sfidano al gioco degli scacchi e dei dadi, incrociando i loro sguardi e le loro mani in diversi atteggiamenti curati con grande attenzione dal pittore. Curiosa è poi una scena di svago, dove due giovani fanciulle sono accompagnate da un cavaliere che tiene delle rose appena colte in un roseto, nel grembo del suo mantello. Le immagini a seguire presentano momenti di vita cavalleresca con un cavaliere che porta in groppa al suo cavallo una dama e un giovane cavaliere in congedo dalla sua dama che con le mani sulla sua testa gli trasmette coraggio e protezione. Non mancano immagini che lasciano intravedere lo scontro di cavalieri in una giostra e altri riquadri, ma purtroppo lacunosi.

Se la parte affrescata del maniero è la parte più visitata e importante del castello di Arco, i monumenti da visitare del maniero non finiscono qui. Infatti, proseguendo lungo il percorso panoramico che porta alla sommità della rupe, si arriva alla torre più antica del castello di Arco, la Torre Renghera. La torre è il mastio del castello che fu costruita sulle fondamenta di un edificio preesistente, a diversi metri dal suolo, per rendere la torre inaccessibile. Essa era chiamata Renghera perché vi era collocata una campana, detta “la Renga”, che aveva il ruolo di chiamare a raccolta i cittadini della comunità sottostante. Infine, scendendo dalla rupe, si giunge all'ultima struttura, la Torre di Guardia, sorta in posizione strategica per controllare le tre direttrici viarie. Dalla torre si spalanca un paesaggio unico, aperto verso la piana del fiume Sarca, che veniva controllato dalle sentinelle attraverso tre piccole finestrelle della torre.

Fig. 10

Questa in breve è la storia del Castello di Arco, una storia che non vuole essere esauriente, ma vuole dare una panoramica di quello che compone uno dei castelli più articolati e imponenti del Trentino. Un castello meta di vista dei molti turisti che frequentano la zona dell’Alto Garda, ma anche oggetto di studio dei ricercatori che si occupano di pittura e architettura castellana del Basso Medioevo. Insomma un castello che almeno una volta nella vita meriterebbe di essere visitato, anche solo per l’immenso panorama che lo caratterizza.

Fig. 11

 

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:
Pontalti Flavio, Il castello di Arco: note preliminari sull'esito dei lavori di restauro e sulla scoperta di un ciclo di affreschi cavallereschi nel castello, in “Il sommolago”, 4, 2, 1987, pp. 5-36
Turrini Romano, Arco, il castello e la città, Rovereto, ViaDellaTerra, 2006
Il castello di Arco, a cura di Umberto Raffaelli e Romano Turrini, Provincia autonoma di Trento, Trento, Temi, 2006
Il castello dalle centoventi stanze, a cura di Giancarla Tognoni e Romano Turrini, Arco, Il Sommolago, 2006
APSAT 4: castra, castelli e domus murate, schede 1, a cura di Elisa Possenti, Mantova, Società archeologica padana, 2013, pp. 390-398
AD 2019: Albrecht Dürer e il castello di Arco, Arco, Comune di Arco, 2019


LA VILLA DI TIBERIO A SPERLONGA

A cura di Vanessa Viti

SPERLONGA: UN TUFFO NELL'ANTICHITÀ

LA VILLA DI TIBERIO

Tacito e Svetonio definirono "Spelunca" la residenza imperiale, da qui prese il nome la cittadina di Sperlonga.

Sul litorale laziale, nel già citato comune di Sperlonga, si trovano i resti di un'antica villa romana. Era il 1957 quando si scavava per costruire la strada litoranea che collega Terracina e Gaeta, grazie a quei lavori vennero riportati alla luce i resti dell'antica residenza dell'imperatore. La villa di Tiberio si estendeva per 300 metri, ed era costituita da vari ambienti disposti su terrazze: la residenza imperiale, le caserme con le stalle, le terme, la piscina e la meravigliosa grotta decorata.

LA GROTTA

La grotta era, per Tiberio e la sua corte, un luogo dedicato allo svago e ai banchetti. All'interno di essa si trovavano dei gruppi scultorei che avevano come tema principale le gesta dell'eroe omerico Ulisse.

L'ingresso della grotta era preceduto da una grande vasca con acqua marina, nel cui centro era stata costruita un'isola che fungeva da sala da pranzo estiva. All'interno, collegata con la vasca esterna, vi era una piscina circolare con il gruppo scultoreo di Scilla. Dal primo ambiente principale si aprivano due vani: a destra si trovava un ninfeo con cascate e giochi d'acqua, mentre a sinistra si apriva uno spazio a ferro di cavallo che ospitava il gruppo marmoreo dell'accecamento di Polifemo.

Le opere che raccontano il Rapimento di Palladio e Ulisse che trascina il corpo di Achille erano poste all'ingresso della grotta. La scultura di Ganimede rapito dall'aquila si trovava al di sopra dell'ingresso.

Purtroppo tutte le opere vennero ritrovate frammentate, molto probabilmente vittime di vandalismo. Addirittura si pensa alcuni monaci,  durante l'Alto Medioevo, potrebbero aver ridotto le opere in macerie per ordine della Chiesa. Nonostante i resti mal ridotti, gli storici e gli archeologi riuscirono ad evincere che tutte le opere sono originali greci di epoca ellenistica. Se si osserva il gruppo di Polifemo, ci appare subito evidente che la figura di Ulisse, il volto in particolar modo, ha molte affinità con il volto del Laocoonte (conservato nei Musei Vaticani); infatti, su alcuni frammenti ritrovati a Sperlonga, vi sono riportate le iscrizioni dei nomi degli scultori Agesandro, Atanodoro e Polidoro, autori appunto del Laocoonte.

Le opere, attualmente, sono ospitate nel Museo Archeologico Nazionale di Sperlonga, appositamente realizzato nel 1963.

I GRUPPI SCULTOREI NELLA VILLA DI TIBERIO

GRUPPO DI POLIFEMO

L'opera racconta il momento appena precedente all'accecamento. Il gigante Polifemo è rappresentato sdraiato e addormentato perché ebbro, l'eroe Ulisse è il più vicino al ciclope, due compagni sorreggono il palo che colpirà Polifemo nell'occhio, sarà proprio Ulisse a compiere questo gesto eroico,  un terzo compagno sorregge la ghirba che conteneva il vino. Ulisse, tra tutti, è l'unico vestito, indossa una tunica ed un mantello.

GRUPPO DI SCILLA

Il gruppo scultoreo rappresenta una delle più grandi opere scultoree antiche giunte fino a noi. L'opera racconta il momento in cui il mostro avvolge la nave di Ulisse e divora gli uomini attraverso le molteplici teste canine. Sei compagni di Ulisse sono caduti, addentati dal mostro, uno di loro viene addentato sulla testa e cerca disperatamente di liberarsi, un altro viene morso al ginocchio e prova ad aprire le fauci della belva con le mani. La figura più drammatica è sicuramente il timoniere, è aggrappato alla poppa della nave, il braccio sinistro teso in aria, le gambe spinte dal movimento della nave si sollevano, sulla testa l'enorme mano di Scilla. Il volto del malcapitato è rappresentato nel momento di massimo terrore, i suoi occhi sono sbarrati per la paura, occhi consapevoli: sarà trascinato negli abissi. Ulisse viene raffigurato nel momento in cui sta per colpire il mostro.

IL RATTO DI GANIMEDE

Opera in marmo policromo che evidenzia bene il piumaggio dell'uccello e rende eterno il momento in cui l'aquila di Zeus afferra Ganimede. Il mito narra che Zeus si fosse invaghito del giovane, il dio prendendo le sembianze di una gigante aquila lo prese e lo portò sull'Olimpo.

ULISSE CHE TRASCINA IL CORPO DI ACHILLE

I resti dell'originale pervenuti fino a noi sono ben pochi, vennero ritrovati soltanto i frammenti della testa e del braccio sinistro di Ulisse, le gambe ed il tallone ferito di Achille.

IL RATTO DEL PALLADIO

Il gruppo scultoreo purtroppo è stato quasi interamente perso, viene rappresentato il momento esatto in cui Ulisse sta per sfoderare la spada, nudo, coperto soltanto da un mantello.

 

SITOGRAFIA:

romanoimpero.com

treccani.it


L'ARTE A FERRARA NEL XVI SECOLO

A cura di Mirco Guarnieri

Introduzione

Con l’inizio del 1500 Ferrara raggiunse il massimo splendore, diventando la prima capitale moderna d’Europa e inaugurando il Rinascimento ferrarese, grazie al compimento da parte di Biagio Rossetti dell’Addizione Erculea. Nell'ambito artistico il principale attivista della corte ferrarese di quel tempo fu Dosso Dossi. Assieme a lui presso la scuola ferrarese ci furono altri artisti di spicco come Girolamo da Carpi, Garofalo, l’Ortolano, Bastianino, Scarsellino e Bononi, considerato l’ultimo pittore della scuola ferrarese.

 

L'arte a Ferrara nel XVI secolo: gli artisti

Dosso Dossi

Pseudonimo di Niccolò Luteri. I dati anagrafici del pittore sono scarsi, ma secondo gli studi di Carlo Giovannini la nascita del pittore viene fatta risalire tra il 1468 e 1469 in una località vicino Mirandola, chiamata Tramuschio. La formazione di Dosso Dossi avvenne inizialmente attraverso la pittura di Giorgione, i rimandi alla classicità di Raffaello ed infine influenzato dalla scuola ferrarese, accentuando i contrasti del chiaroscuro e i rimandi simbolici negli ultimi anni di vita. Nel 1510 lo troviamo al servizio dei Gonzaga a Mantova e successivamente dal 1514 divenne pittore presso la corte degli estensi di Ferrara, peraltro inizialmente chiamato Dosso della Mirandola e non Dosso Dossi. In quel periodo presso la corte Estense si trovava anche Ludovico Ariosto, con il quale collaborò alla realizzazione di opere. Sotto Alfonso d’Este diresse e procedette alla realizzazione dei Camerini d’Alabastro realizzando opere come il Trionfo di Bacco (fig. 1), Enea e Acate sulla costa libica (fig. 2) e la Discesa di Enea nei Campi Elisi (fig. 3). Assieme a lui lavorarono alcuni maestri della pittura veneta del tempo come Giovanni Bellini e Tiziano: il primo realizzò un Festino degli Dei (fig. 4), quest'ultimo portò a compimento Bacco e Arianna (fig. 5), il Baccanale degli Andrii (fig. 6), Festa degli Amorini  (fig. 7) e il Cristo della Moneta (fig. 8). Successivamente il Camerino venne smantellato con la devoluzione della città allo Stato Pontificio nel 1598. Dosso compì molti viaggi tra Firenze, Roma e in particolare Venezia, tenendosi aggiornato sulle ultime novità stilistiche avviando dialoghi con Tiziano da cui apprese la ricchezza cromatica e le ampie aperture paesaggistiche.Nel 1531 venne chiamato a Trento dal Principe Vescovo Bernardo Cles per affrescare una ventina di stanze del Castello del Buonconsiglio lavorando al fianco del Romanino, morendo successivamente a Ferrara nel 1542.

 

Opere Dosso Dossi

 

 

Opera Giovanni Bellini

 

 

 

Opere Tiziano

Bastianino

Sebastiano Filippi, in arte Bastianino nacque a Ferrara attorno al 1532, iniziando a dipingere sotto l’influsso del padre Camillo. Dopo aver conseguito un viaggio a Roma il pittore ferrarese assimilò molto della pittura michelangiolesca tanto che la elaborò in uno stile tutto suo anche attraverso il cromatismo dell’ultimo Tiziano. Rientrato da Roma nel 1550, il Bastianino diede alla luce l’affresco dei Seguaci della Croce per l’Oratorio dell’Annunziata, poi, assieme al padre e il fratello Cesare lavorò per la corte estense dando vita alle Tavole lignee che decorano il Camerino delle Duchesse  (fig. 9 a,b,c,d) tra il 1555 e 1560 nel palazzo ducale della città estense.

Successivamente vennero realizzate opere come la Madonna Assunta (fig. 10), del 1565, per la chiesa di Sant'Antonio in Polesine e le pale d’altare per la Certosa di San Cristoforo. Le due pale non hanno una datazione precisa, infatti ci è giunto solo un documento del 1565 dove vengono menzionate queste opere raffiguranti l’Ascensione di Cristo e il Giudizio universale (fig. 11), inizialmente “Assunzione della Vergine”, presupponendo quindi che siano state concluse tra il 1566 e il 1572 (anno di consacrazione della Certosa).

Uno dei capolavori più importanti per la corte estense fu la realizzazione degli affreschi nell’Appartamento dello specchio all’interno del Castello Estense, voluti da Alfonso II. Assieme a Ludovico Settevecchi e Leonardo da Brescia, il Filippi diede alla luce gli affreschi per la Sala dei Giochi (fig. 12 a,b,c,d,e) dopo il terremoto del 1570 e la Sala dell’Aurora (fig. 13 a,b,c) tra il 1574-75 (Bastianino “Il Tempo”,“La Notte” e “L’Aurora”, Ludovico Settevecchi “Il Giorno”e “Il Tramonto” figg. 15 a,b).

Dal 1577 al 1580 il Bastianino lavorò alla realizzazione del Giudizio Universale (fig. 14) nel catino absidale del coro della cattedrale di Ferrara, ispiratosi a quello di Michelangelo nella Cappella Sistina, mentre tra il 1580 e la fine del Cinquecento il pittore, ormai giunto verso la fine della sua carriera pittorica realizzò altre pale d’altare per la chiesa di San Paolo, raffiguranti la Resurrezione di Cristo del 1580, l’Annunciazione del 1590-91 e la Circoncisione datata tra il 1593 e prima del 1600. Morì nel 1602 a Ferrara.

 

Opere Bastianino

 

 

Opere Ludovico Settevecchi

 

Scarsellino

Ippolito Scarsella, detto lo Scarsellino nacque a Ferrara nel 1551 e grazie al padre Sigismondo, anch'egli pittore, si avvicinò alla pittura. All'età di 17 anni Ippolito lasciò Ferrara per andare prima a Bologna e poi a Venezia. Nella prima città ebbe modo di ammirare le opere dei Carracci, mentre nella città veneta divenne apprendista di Paolo Veronese che chiamerà “suo nuovo maestro”, entrando in contatto con i pittori della scuola veneta come Jacopo Bassano e assimilando lo stile manieristico, la rivoluzione del movimento e del colore imposti da Tiziano. Nel 1576, tornò a Ferrara aprendo una bottega. Questi sono gli ultimi anni del governo della dinastia Estense.Il pittore operò assieme ad altri colleghi alla realizzazione di opere da soffitto per il Palazzo dei Diamanti come Apollo (fig. 16) e Fama (fig. 17)datate 1591-93. Scarsellino avrà modo di entrare in contatto con i Carracci e successivamente con Carlo Bononi (quest’ultimo molto più giovane di lui) influenzandoli con la sua pittura.

Una delle sue realizzazioni più importanti è quella del 1592 nel catino absidale della chiesa di San Paolo a Ferrara di Elia che viene rapito al cielo sul carro di fuoco, oltre alla Discesa dello Spirito Santo. Realizzò inoltre molte opere per diverse chiese di Ferrara e non, alcune però senza una precisa datazione. Sappiamo che nell'ultimo decennio del 500 trascorse un paio d’anni dentro San Benedetto per la realizzazione delle Nozze di Cana. Oltre che ad essere riconosciuto come un importante pittore, fu anche copista creando - per citarne alcune - la copia del Baccanale degli Andrii (fig. 18 a,b) di Tiziano, ante 1598, e Madonna col Bambino e angeli che appare a Giulia Muzzarelli (fig. 19 a,b) di Girolamo da Carpi nel 1608.

Con l’inizio del nuovo secolo gli Estensi non sono più i padroni di Ferrara. Ora la città è nelle mani dello Stato Pontificio e la devoluzione della città è già avviata. Altri dipinti realizzati per le chiese della città sono Noli me tangere (fig.20) a San Nicolò e l’Annunciazione a Sant’Andrea, entrambe senza una datazione precisa, ma comunque realizzate comunque nel primo decennio del 1600, la Decollazione di San Giovanni Battista (fig. 21), tra il 1603 e 1605, lUltima cena (fig. 22) del1605, Madonna col Bambino in gloria fra i santi Chiara, Francesco e le Cappuccine adoranti l’Eucarestia30(1609) per Santa Chiara, il Martirio di Santa Margherita31per l’Istituto della provvidenza del 1611 e San Carlo Borromeo del 1616 per San Domenico, indicato come l’ultimo dipinto del pittore. Morirà successivamente nel 1620.

 

Opere Scarsellino

Carlo Bononi

Secondo studi recenti il pittore nasce a Ferrara nel 1579 (inizialmente si diceva fosse nato un decennio prima). Il periodo storico in cui egli vivrà è quello della Devoluzione di Ferrara passata sotto lo Stato Pontificio, il quale porterà la città ad un lento declino. Si dice che Bononi sia stato allievo di Bastarolo, entrato poi in contatto con lo Scarsellino. I punti di riferimento artistici del pittore sono Tintoretto e Veronese per quanto riguarda la tradizione, mentre Caravaggio e i Carracci  per quanto riguarda l’innovazione pittorica. L’inizio della sua carriera pittorica viene attribuita con la realizzazione dell’opera Madonna col bambino in trono e i santi Maurelio e Giorgio (fig. 24) del 1602 per la residenza dei Consoli delle vettovaglie. Nel 1605-06 avvenne la svolta pittorica facendo apportare alle figure una sorta di anima, comunicando uno stato di leggera inquietudine. Questa svolta è visibile nelle opere degli Angeli (fig. 25 a,b) del 1605-1606 e della Sibilla (fig. 26) del 1610. Dall'anno successivo troviamo anche documenti che menzionano Carlo Bononi per la commissione di opere come San Carlo Borromeo (fig. 27)  per la Chiesa della Madonnina di Ferrara. Oltre a queste opere nel primo decennio del 600 inizierà a dipingere il ciclo decorativo (fig. 28 a,b,c,d,e,f,g,h,i,l) che orna la chiesa di Santa Maria in Vado a Ferrara, la più importante commissione ricevuta che gli darà un’immensa fama. Successivamente il pittore andrà via da Ferrara, ritenuta da egli stesso “troppo stretta”. Si dirigerà a Roma per trovare fortuna o completare la sua formazione (scarsa documentazione) e Fano per poi tornare a dipingere tra Ferrara e Reggio Emilia nel secondo decennio del 600. In quel periodo a Ferrara realizzò opere come le Nozze di Cana (fig. 29) per il Refettorio della Certosa di San Cristoforo, ispirandosi all'omonimo dipinto del Veronese, l’Angelo Custode (fig. 30) per la chiesa di Sant'Andrea (successivamente spostata alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara prima che la chiesa venisse chiusa al culto) di cui non abbiamo una datazione certa e portò a termine il ciclo di Santa Maria in Vado. Il pittore morirà nel 1632 e venne sepolto dentro la chiesa che gli diede fama. Successivamente venne rinominato l’ultimo pittore dell’Officina ferrarese.

Nel 1570, Ferrara venne colpita da un terremoto di forte intensità portando oltre che alla distruzione della città anche, indirettamente, alla fine del potere Estense a Ferrara, facendola concludere nel 1598 con la cacciata della famiglia dalla città e la successiva devoluzione da parte della chiesa.

 

Opere Carlo Bononi

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

G. Sassu, F. Cappelletti, B. Ghelfi, "Bononi l'ultimo sognatore dell'Officina ferrarese", Ottobre 2017, Fondazione Ferrara Arte.

G.C.Argan, Storia dell’arte italiana, Sansoni, ristampa 1982.

A.Stanzani, A. Bliznuckov, C. Guerzi, Catalogo "Lampi Sublimi a Ferrara", Aprile 2017, Edizioni Edisai.

J.Bentini, Bastianino e la pittura a Ferrara nel secondo Cinquecento, Nuova Alfa Editoriale, 1985.

M.A.Novelli, Studi e Ricerche - Lo Scarsellino, Zanichelli Editore, 1955.

 

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/luteri-giovanni-detto-dosso-dossi_(Dizionario-Biografico)/

http://www.treccani.it/enciclopedia/filippi-sebastiano-detto-bastianino_(Dizionario-Biografico)/

http://www.treccani.it/enciclopedia/scarsella-ippolito-detto-lo-scarsellino_(Dizionario-Biografico)/


LE GROTTE DI PERTOSA -AULETTA

A cura di Stefania Melito

Situate nel massiccio dei Monti Alburni, le Grotte di Pertosa-Auletta sono un complesso carsico sito in Campania, provincia di Salerno; rappresentano uno dei grandi attrattori turistici del comprensorio, e coniugano bellezza e rispetto per l'ambiente naturale. Intrise di storia e di archeologia, rappresentano sicuramente una pagina molto importante per la storia locale e internazionale, avendo attirato l'attenzione di studiosi provenienti da diverse parti del mondo. La loro particolarità consiste nella presenza di un fiume, il Negro, che scorre all'interno e che per alcuni tratti è navigabile.

Fig. 1: la cascata sotterranea

Le prime notizie relative alle Grotte risalgono alla Preistoria, addirittura all'età del Bronzo medio, quando alcuni uomini, attirati dal grande ingresso naturale, stabilirono nelle Grotte la loro dimora, utilizzando la luce proveniente dell'esterno per costruire utensili. Era un luogo ideale, vista sia l'abbondanza d'acqua sia la conformazione geografica del territorio che costituiva un rifugio naturale. Proprio l'abbondanza d'acqua, però, poteva costituire un problema, visto che le popolazioni primitive avevano la necessità di ricoverare le greggi in un luogo asciutto e al riparo dai predatori. Per fare ciò, inventarono e costruirono un nuovo tipo di abitazione: i dintorni erano ricchi di querce e rovere, legni inattaccabili all'acqua, con cui costruirono dei pali, i cosiddetti ritti, che infissero nell'alveo del fiume. Su di essi posero le traverse, costituendo una sorta di piattaforma a moduli quadrati su cui poggiarono un "pavimento" di argilla cotta, ideale per accendere il fuoco. Proprio queste abitazioni rappresentano un unicum, in quanto non si ha notizie di altre palafitte del genere costruite in una grotta. Insomma, quella che adesso si chiama bioarchitettura.

Fig. 2: stratigrafia dei ritrovamenti archeologici in grotta nel Muso Speleo-archeologico

Nel corso dei secoli, bisogna aspettare il Cinquecento per avere altre notizie su di esse, e precisamente la spedizione nel 1526 di Leandro Alberti, famoso umanista, monaco e teologo bolognese, che attraversò tutto il Vallo di Diano definendolo "somigliante a una barca". Ad una estremità di questa "barca", la prua, situò Pertosa e le Grotte, definendole come un cunicolo sotterraneo da cui usciva fuori molta acqua che "esce da detta Spelonca; da gli habitatori del paese, [...] mi fu accertato quella derivare da un picciolo Lago, che si ritrova nel principio della valle di Diano, di quindi poco più di due miglia discosto, o poco meno, che per un sotterraneo cuniculo quivi passa."  Esattamente trecento anni dopo tre botanici, Petagna, Terrone e Tenore, compirono un viaggio simile a quello di Leandro Alberti, descrivendo con quasi le stesse parole la cascata d'acqua che si precipitava dall'alto di una rupe e che poi scompariva sottoterra. E altri studiosi, che effettueranno spedizioni nel corso del tempo a causa di terremoti o curiosità personale, saranno affascinati dalla natura rigogliosa di questi luoghi.

Le Grotte si estendono in maniera orizzontale per circa tre km all'interno della montagna, e sono state originate dalla forza dell'acqua, che ne ha scavato i cunicoli. Al loro interno come detto scorre un fiume, il fiume Negro, e ciò le rende le uniche grotte non marine navigabili d'Italia. Perfettamente attrezzate per la visita turistica, si compongono di vari ambienti dai nomi suggestivi inscatolati l'uno dentro l'altro: il Ramo delle Meraviglie, la Grande Sala, la Sala del Trono, il ramo del Paradiso etc. E' uno spettacolo suggestivo scivolare sulle acque di questo fiume sotterraneo a bordo di un'imbarcazione trainata a mano da un sistema di cavi d'acciaio, ammirando la volte di questa "basilica" sotterranea. Ovunque stalattiti e stalagmiti, riflessi e bagliori dovuti alla calcite, carbonato di calcio purissimo che scintilla come i diamanti. Le concrezioni rocciose assumono forme bizzarre, che possono riportare alla memoria animali o figure mitologiche. Tutto il percorso, perfettamente orizzontale e adatto a chiunque, è illuminato da luci a led dal bassissimo impatto ambientale.

Nella Grande Sala, nel cuore del massiccio calcareo, 250 metri di spessore calcareo separano la cavità sotterranea dalla A2 del Mediterraneo: è straordinario pensare che mentre in superficie vi sono camion, autobus e automobili che sfrecciano, nel sottosuolo non c'è altro che un maestoso silenzio. L'unico rumore che si sente è il ritmico tambureggiare di goccioline d'acqua che cadono giù dalla volta di questo tempio geologico, alcune più veloci altre più lente, originando una sorta di ritmo sotterraneo. In questo mondo alieno l'uomo è un semplice spettatore, non può fare altro che osservare il paziente lavoro della Natura che da millenni crea e decora concrezioni, stalattiti e stalagmiti.

Tra le frastagliate pareti di roccia e le sovrapposizioni di strati di calcare, tra "vele" di alabastro e colonne, ecco spuntare però un segno umano: incredibilmente tracciato a penna, perfettamente leggibile, scritto con forza su una pagina di pietra; è una stella di David, e accanto ce n'è un'altra. Sotto un numero, e accanto ad esse un nome. La storia che c'è dietro risale alla Seconda Guerra Mondiale. Nel 1945 infatti un gruppo di ebrei si rifugiò all'interno delle Grotte di Pertosa-Auletta: non si sa se siano stati semplici cittadini, che per sfuggire a rastrellamenti o per ripararsi dai bombardamenti abbiano pensato di rifugiarsi nelle Grotte, o soldati ebrei. Pochi sanno infatti che in quel periodo si costituirono delle unità scelte di soldati ebrei, che si paracadutavano dietro gli Alleati per portare aiuti e sostentamento alle popolazioni ebree autoctone. Sulla roccia si legge ancora adesso, scritta in ebraico, una frase: "Questa valle è bella, ma quella che ci aspetta è ancora più bella".

Nel 2019 un stalattite e una stalagmite, dopo millenni, si sono "toccate", dando origine al "Bacio di roccia" più romantico e cliccato.

Fig. 7: il "bacio",

La visita alle Grotte di Pertosa-Auletta è arricchita ulteriormente dalla presenza di musei tematici: il Museo del Suolo, ove si racconta della vita al di sotto dei nostri piedi, nei primi tre metri del sottosuolo, la cosiddetta "pelle del pianeta"; il Museo Speleo-archeologico, interamente dedicato al racconto degli uomini primitivi che abitarono le Grotte, degli utensili che sono stati ritrovati durante le campagne di scavo e del ruolo mistico e religioso che questo antro ricopriva nell'antichità.

 

http://fondazionemida.com/grotte-pertosa-auletta

https://www.liberliber.it/online/autori/autori-a/leandro-alberti/

http://www.anticabibliotecarossanese.it/wp-content/uploads/2017/05/Petagna-Terrone-Terone-Viaggio-in-alcuni-luoghi-della-Basilicata-e-della-Calabria-Citeriore-effettuato-nel-1806.pdf

https://www.giornaledelcilento.it/dopo-20mila-anni-il-bacio-tra-stalattite-e-stalagmite-nelle-grotte-di-pertosa/