IL REAL TEATRO DI SAN CARLO

Storia di un simbolo: il Real Teatro di San Carlo a Napoli

Un tempio lirico nato 41 anni prima della Scala di Milano e 55 anni prima della Fenice di Venezia, ossia il Real Teatro di San Carlo.

Ogni città ha il suo simbolo che la rappresenta nel mondo… un monumento, una piazza, un pezzo di storia che la rende unica come, ad esempio, l’Arena di Verona nella città scaligera, il Colosseo a Roma, Ponte Vecchio a Firenze o il ponte di Rialto a Venezia. Napoli, generalmente, è immortalata come in una fotografia nella quale troneggiano il golfo, il lungomare di Mergellina e soprattutto il Vesuvio.

Sta di fatto che, da diversi anni a questa parte, e grazie ad una serie di interventi per la riqualificazione urbanistica da parte delle amministrazioni comunali che si sono susseguite, anche la città della sirena Partenope ha la sua “piazza simbolo”: Piazza del Plebiscito. Accanto a Piazza del Plebiscito sorge il Real Teatro, voluto da Carlo III di Borbone nel 1737 come un teatro che non solo desse lustro alla città, ma che rappresentasse il potere Regio.

Sono questi gli anni del Neoclassicismo, anni durante i quali in città ferve l’attività urbanistica ed architettonica e si operano imponenti lavori, intervenendo nella sistemazione di piazze e strade come Via Toledo (l’attuale e centralissima Via Roma) la Riviera di Chiaia, Posillipo etc. In questo contesto nasce il Real Teatro di San Carlo, il cui progetto è affidato all'architetto Giovanni Medrano, colonnello spagnolo di stanza a Napoli ed a Angelo Carasale, architetto e impresario teatrale italiano, che completa la Real Fabbrica del teatro in circa 8 mesi, con una spesa di circa 75.000 ducati.

Il Real Teatro

Il teatro prende il nome dallo stesso sovrano Carlo di Borbone. La prima opera in scena fu l’ “Achille in Sciro” di Pietro Metastasio che debuttò  il 4 novembre del 1737, nel giorno di San Carlo, onomastico del Re; la struttura architettonica, attaccata al Palazzo Reale, consentiva al Sovrano di raggiungere il palco reale direttamente attraverso una porta ed un corridoio senza dover scendere in strada.

Nel 1799, e durante i mesi della Repubblica napoletana, il San Carlo assunse il nome di Teatro Nazionale di San Carlo, denominazione che durò fino alla caduta della Repubblica stessa, tornando alla denominazione originale.

Nel 1808 ascese al trono di Napoli Gioacchino Murat per nomina di Napoleone Bonaparte, e nel 1812 nacque la Scuola di Danza più antica d’Italia: in quel momento il teatro divenne anche Teatro del Popolo, e si avviò un’importante ristrutturazione affidata, nel 1810, ad Antonio Niccolini. I lavori, avviati già nel dicembre 1809, si conclusero due anni dopo.

Il teatro: descrizione

Il portico carrozzabile è sostenuto da pilastri e si ispira al modello della Scala di Milano, ma modificato dall'inserimento, al secondo registro della facciata, della loggia ionica, che conferisce al teatro le connotazione di un Tempio. Sulla sua sommità, al centro del frontone della facciata principale, si erge tutt'oggi il gruppo scultoreo “La Triade di Partenope”, che secondo il mito era la sirena che incoronava musicisti e poeti; il 27 marzo 1969 l’opera si sgretolò a seguito delle infiltrazioni di acqua piovana e, inoltre, perché colpita da un fulmine. E' stata totalmente restaurata e ricollocata dove era in origine.

Passati gli anni della Repubblica partenopea e quelli del dominio francese, a seguito della Restaurazione operata dal Congresso di Vienna, torna sul trono di Napoli, la Casa Reale di Borbone con Ferdinando che, salito al trono, dopo soli 6 anni è costretto ad un ulteriore rifacimento del teatro, poiché nella notte tra il 12 e il 13 febbraio del 1816 un incendio lo distrusse completamente.

I lavori furono eseguiti nuovamente dall'architetto toscano Antonio Niccolini, che diede al teatro l’aspetto che attualmente detiene poiché rivide gli interni, creò ambienti di ristoro e rifece la facciata in pieno stile neoclassico, come il gusto del tempo imponeva.

…Appena parlate di Ferdinando vi dicono:  “ha ricostruito il San Carlo!”

 Stendhal,1817.

I lavori di ristrutturazione

Il rifacimento si concretizza in soli nove mesi. Il Niccolini mantiene l’impianto a ferro di cavallo e la configurazione del boccascena, che viene ornato dal bassorilievo “Il Tempo e le Ore” tutt'oggi esistente; l’acustica è perfetta, non si altera in base alla posizione degli spettatori siano essi in platea, sui pachi o nel loggioni; al centro del soffitto troneggia la tela di circa 500 metri quadrati raffiguranti “Apollo che presenta a Minerva i più grandi poeti del mondo” dipinto da Antonio, Giovanni e Giuseppe Cammarano.

Quest’ultimo si occupò anche della ridipintura del sipario, sostituito poi dall'attuale nel 1854.

La nuova inaugurazione avvenne il 12 gennaio 1817 con la rappresentazione de “Il sogno di Partenope” di Giovanni Simone Mayr, che fu un trionfo. Con l’avvento del Regno d’Italia,ed in seguito all'Unità d'Italia, lo stemma borbonico fu sostituito con quello sabaudo, ma nel 1980 fu ripristinato lo stemma del Regno delle Due Sicilie, sostituendo quello sabaudo che era stato semplicemente sovrapposto allo stemma originale, dal quale si era staccato a seguito di alcune operazioni di pulitura.

Il XX secolo è sicuramente un secolo molto importante per l’attività del teatro, sebbene segnato e danneggiato dagli eventi bellici che hanno segnato il ‘900. Nel 1937 fu creato un foyer, noto anche come “Sala degli Specchi”, sul lato che da sui giardini del Palazzo Reale; si trattava di un locale adiacente alle sale del teatro, dove gli spettatori potevano intrattenersi durante le pause dello spettacolo. Fu rifatto dopo la Seconda Guerra Mondiale, poiché fu distrutto dai bombardamenti. Il San Carlo fu il primo teatro a riaprire in Italia.

Dai primi anni del XXI sec. un nuovo foyer  ospita “l’Opera Café” , elegante salotto cittadino, divenuto uno dei simboli della città, ideale per una pausa o per un aperitivo, con accesso da Piazza Trieste e Trento, adiacente la più nota Piazza del Plebiscito.

Nel 2007 la “Triade di Partenope” è stata ulteriormente ristrutturata e restituita alla sommità dell’edificio dalla quale, fieramente, troneggia; anche la sala principale del teatro è stata ristrutturata, migliorando la visuale e l’acustica, sebbene quest’ultima sia sempre stata considerata perfetta; le poltrone della platea sono state sostituite ed è stato aggiunto un impianto di climatizzazione.

Il 1 Ottobre 2011, inoltre, è stato inaugurato il MEMUS, ovvero il Museo e Archivio Storico del San Carlo, ospitato nei locali di Palazzo Reale, che non è e non è stato pensato come un museo nell'accezione più tradizionale del termine, ma è un vero e proprio centro polifunzionale altamente tecnologico, contenente aree espositive, sale eventi, una galleria virtuale in 3D, un bookshop, ed un centro di documentazione sulla storia del San Carlo.

L’amore che lega il teatro alla città e la città al teatro è indissolubile, non c’è napoletano che non lo senta ‘suo’ e non lo ami con lo stesso amore con cui si ama un figlio o una parte della propria storia. Il San Carlo, nelle sue vicissitudini, è sempre stato accanto al suo popolo, d'altronde l’immagine stessa di Partenope sulla  sommità sembra un atto dovuto da parte della città alla Sirena che diede il nome alla città e della quale molti napoletani, ancora oggi, si sentono figli, tanto da definirsi “partenopei” piuttosto che “napoletani”.

 

“non c’è niente in Europa, non direi di simile, ma che possa anche lontanamente dare un’idea di ciò. Vedo nei palchi delle dame alle quali posso essere presentato; preferisco la mia sensazione…e resto in platea…”

Stendhal 13 Gennaio 1817.

 

SITOGRAFIA:      guidanapoli.com;

Wikipedia – enciclopedia libera;

Teatrosancarlo.it;

BIBLIOGRAFIA:   F. Negri Arnoldi – Storia dell’arte Vol. III – Fabbri Editori;

Monumenti e Miti della Campania Felix –

Volume 20 “Il San Carlo e i teatri della Campania”

in Allegato a “il Mattino” Pierro Editore.[/vc_column_text][/vc_column]

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LA CHIESA DI SOTTERRA A PAOLA

Una chiesa sotto un'altra chiesa

La chiesa ipogea di Sotterra si trova in località Gaudimare, a pochi passi dal centro storico di Paola, in prossimità della chiesa del Carmine che la sovrasta. La chiesetta è infatti una delle più antiche della Calabria è stata dimenticata per secoli non solo “sotto” la terra, ma anche “sotto” il luogo scelto per la chiesa del Carmine. La sua datazione è incerta, ma secondo alcuni studiosi potrebbe risalire all’ VIII secolo. Subì diversi rimaneggiamenti nel corso del tempo, fino a scomparire, forse in epoca cinquecentesca, a causa di eventi franosi o per una grande alluvione del torrente Palumbo. Dopo la riscoperta nel 1876, in modo fortuito, si sono moltiplicati gli studi e le teorie sulla chiesetta.

La chiesa si incrocia con la sovrastante chiesa del Carmine, dalla quale si accede per mezzo di una scala del portico. Per scendere più agevolmente nella cripta fu praticata un’apertura nel pavimento della chiesa superiore. Di questo accesso è rimasta l’apertura in fondo alla attuale scala, ora trasformata in un finestrone con inferriata. Secondo alcuni, l’edificio era una cripta, secondo altri era l’oratorio di eremiti. Due importanti monografie presentano differenze fondamentali: secondo le osservazioni di Francesco Ruffo la chiesa di Sotterra è bizantina, mentre per Rubino essa ha solo tracce bizantine. Nel catalogo degli edifici monumentali del Francipane, si trovano osservazioni che fanno capo dell’attività della Soprintendenza ai monumenti del successore di Paolo Orsi, Edoardo Galli, in base ai rilievi e grafici dell’assistente Ricca. Queste osservazioni sono di grande pregio. Nel primo elenco del 1929-1933, viene descritta: “chiesa del Comune di Sotterra in contrada Gaudimare, di origine basiliana (VII-VIII) ma ricostruita, con cripta medievale affrescata”.

Nel secondo elenco, molto più curato, è del 1938 viene riportato: “Santuario Ipogeo di origine bizantina, ricostruito nel XIV. Interno della cripta a tipo basilicale, con presbiterio e abside decorati da un ciclo di affreschi in parte di età bizantina e in parte iconografia benedettina del XIV secolo”. L’edificio si presenta come una semplice aula rettangolare monoabsidata, orientata lungo l’asse nord-sud e preceduta da un endonartece. È sormontata da volte a botte, suddivisa da tre archi in quattro campate, e un’abside semicircolare.

Fig. 1- Chiesa di Sotterra, la Vergine e gli Apostoli nel semicilindro, il Cristo in gloria, nel catino.

Nonostante secoli di oblio, sono arrivati fino a noi bellissimi affreschi. Le più antiche pitture secondo Pace risalgono all'età normanna ed in particolare alla fine del XI-XII secolo. La stessa datazione è stata proposta anche da Falla Castelfranchi.

La chiesa di Sotterra a Paola: descrizione

Gli affreschi sono distribuiti all'interno dell’abside dove, al di sopra di una zoccolatura dipinta a motivi geometrici romboidali, trovano un’ascensione suddivisa in due registri: la Vergine e gli Apostoli, nel semi-cilindro; il Cristo in gloria, nel catino. Quest’ultimo soggetto parrebbe contaminato dal tema occidentale della Majestas Domini. Una fascia orizzontale divide e nello stesso tempo fa convergere le due parti, superiore e inferiore, dell’icona. Gli Apostoli nonostante debbano essere undici, perché l’Ascensione avviene prima dell’elezione di Mattia al posto di Giuda, sono sempre dodici per esprimere la totalità della chiesa, con la Vergine al centro spesso affiancata da due candidi angeli. Alcuni Apostoli indicano con il dito alzato il trono di Cristo e le palme proiettate verso l’alto contribuiscono a rendere l’idea del congiungimento fra terra e cielo. I dodici Apostoli anziché raggruppati sono allineati in maniera semplice ma pieni di pensiero e carattere. Non si capisce perché qualcuno scriva che sono un uomo e una donna in maniera alternata quando è evidente come donna solo la Vergine. Forse perché nei moduli bizantini due Apostoli sono sempre raffigurati senza barba come si può notare anche nell'icona di Recklinghausen. Le due zone sono divise dalle fasce orizzontali e dalla mandorla entro la quale è il Cristo eppure hanno un punto di convergenza. Accanto alla zona delimitata della mandorla si osservano i resti dei panneggi dei due angeli. Ai lati dell’abside si svolge il tema dell’Annunciazione, con l’angelo (fig.2) a sinistra che annuncia il divino concepimento e la Madonna (fig.3) sul lato opposto.

 Fig. 2- Chiesa di Sotterra, affresco, angelo dell’Annunciazione.

Fig. 3- Chiesa di Sotterra, Madonna.

L’angelo, che, volando è già prossimo alla terra, ma non la tocca, ha le braccia incrociate sul petto e larghe ali a ventaglio che sconfinano dalla cornice. In posizione aerea, con una lunga stola tramezzata da numerose crocette di forma latina, con leggera torsione si protende verso la Madonna. Tutte e due le figure sono in una parete liscia con sfondo a tappeto di stile cosmatesco. Il movimento del panneggio, con un dinamico rigonfiamento che lo solleva dal fondo, ed una stola come agitata dal vento, contrastano con il pacato incrociare delle braccia sul petto. La Madonna è in piedi, con veste sobria e manto orlato. Una mano è sul petto e l’altra sorregge un libro, la testa leggermente piegata verso l’angelo. Queste due figure dipinte da un artista ignoto sono datate XIV-XIV secolo. Sulla parete di sinistra ci sono altri due affreschi più recenti, risalenti al Quattrocento: una Madonna con Bambino e la figura di un santo (fig4).

Fig. 4- Chiesa di Sotterra, Madonna con il Bambino e Santo.

Bibliografia

Cuteri, A., Percorsi della Calabria bizantina e normanna, itinerari d’arte e architettura nelle provincie calabresi, Roma, 2008.

Falla Castelfranchi, M., Disiecta membra. La pittura bizantina in Calabria (secoli X-XIV), in Calabria bizantina. Testimonianze d’arte e strutture di territorio. VIII Incontro di studi bizantini (Reggio Calabria- Vibo Valentia-Tropea, maggio 1985), Soveria Mannelli 1991, pp. 21-61.

Musolino, G., Calabria Bizantina, Venezia 1966, pp.341-342.

Russo, F., La chiesa bizantina di Sotterra (storia e arte), Roma 1949, p.14.

Venditti, A., Architettura bizantina nell’Italia meridionale, Campania, Calabria e Lucania, Napoli 1967, p.221

Verduci, R., La chiesa di Sotterra di Paola, Reggio Calabria, 2001, pp. 9-64.

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CASA-MUSEO BOSCHI-DI STEFANO A MILANO

Una molteplice realtà novecentesca: la casa-museo Boschi-Di Stefano

Di Milano, città associata agli aggettivi di caos e frenesia, ci lascia un'accurata testimonianza Umberto Saba nell'omonima poesia, che recita:

 

Fra le tue pietre e le tue nebbie faccio

villeggiatura. Mi riposo in Piazza

del Duomo. Invece di stelle

ogni sera si accendono parole.

 

Nulla riposa della vita come

la vita.

 

In questo sintetico ed essenziale ritratto della città, in cui le miriadi di stelle nel cielo vengono portate in secondo piano dalle luminose insegne dei negozi, il poeta invita a trovare la pace dell’anima nell'ordinaria vita cittadina. Per assaporare quanto egli predica è sufficiente recarsi presso uno dei fiori all'occhiello della moderna città, la casa dei coniugi Boschi e Di Stefano. Quest’ultima, trasformata in museo per loro volontà testamentaria, è collocata in via Giorgio Jan 15 ed ospita al suo interno una rosa di trecento opere, tra le oltre duemila attualmente di proprietà del Comune di Milano.

Ma chi erano i due coniugi collezionisti d’arte? Marieda Di Stefano, il cui padre fu collezionista di opere del Novecento italiano, rimase colpita dalle potenzialità dell’arte fin dalla tenera età e ciò la spinse a prendere lezioni dallo scultore Luigi Amigoni. Conclusa la sua formazione espose in svariate mostre sotto lo pseudonimo, così come molti suoi contemporanei, di Andrea Robbio.

Durante una vacanza in Val Sesia incontrò Antonio Boschi, ingegnere di Novara con una grande passione per il violino, con cui si sposerà poco tempo dopo nel 1927. Una volta incontratisi i due avviarono la loro attività di collezionisti ed investitori nel mondo dell’arte, che li portò a creare un’esaustiva collezione del Novecento comprendente opere cronologicamente collocate tra il 1910 e il 1960.

La Casa-Museo, risalente ai primi anni Trenta,fu progettata da Piero Portaluppi, già noto nel panorama milanese per la realizzazione di Villa Necchi Campiglio. Dal punto di vista architettonico il palazzo presenta all'esterno una struttura ad angolo, mentre l’interno è definito da ringhiere Art Déco e grandi vetrate. La casa è dotata di ben undici spazi espositivi, all’interno dei quali si segue un percorso cronologico, e l’ingresso accoglie il pubblico con i ritratti dei coniugi e le ceramiche di Marieda.

Casa-museo Boschi-Di Stefano. L'anticamera e il bagno

Dall'ingresso, svoltando a sinistra, si giunge all'anticamera contenente le opere che precedettero il Novecento italiano col prevalere di Marussig; 

Nei pressi dell’anticamera si trova quello che fu il bagno dell’abitazione, ora ospitante opere di Rumney.

La camera degli ospiti

Proseguendo nel percorso espositivo ci si addentra in una delle sale, un tempo camera degli ospiti, che testimonia l’esperienza dei pittori che aderirono alla poetica di Novecento italiano”.

L’anima del movimento fu Margherita Sarfatti che riunì i sette pittori del Novecento (Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi, Sironi) presentandoli alla galleria milanese di Lino Pesaro. Tali artisti furono legati da un senso di “ritorno all'ordine” nell'arte dopo le sperimentazioni delle Avanguardie, si tornò così a prendere come riferimento l’antichità classica, la purezza delle forme e l’armonia della composizione. Nella sala sono presenti gli artisti sopracitati, ma anche altri che con loro trovarono un dialogo pur mantenendosi autonomi dal movimento. Nello spazio espositivo le opere vengono raggruppate per temi, ossia figure e ritratti, paesaggi e nature morte.

Dei grandi nomi elencati si distingue Achille Funi, il quale aderì al ritorno alla tradizione italiana del Tre e Quattrocento, e di cui qui ammiriamo “Il pescatore”, “Nudo femminile” e “Bagnante” che attestano il gusto per volumi dilatati e monumentali della sua fase Novecentista. Oltre a lui nella sala regna l’atmosfera sospesa delle opere di Felice Casorati, ulteriori testimonianze di Marussig, ed infine due paesaggi ed una natura morta di Carrà, che affiancò de Chirico nell'esperienza metafisica.

Lo studiolo

Continuando si incontra la prima sala monografica della casa, ex studiolo dedicata a Mario Sironi e contente ben 40 quadri dell’artista che attestano i momenti salienti della sua esperienza, tra cui: il periodo del cubo-futurismo, l’adesione a Novecento e la pittura murale.

Due opere significative sono le seguenti: la “Venere dei porti”, testimoniante il passaggio dalle esperienze tardo-futuriste e l’avvicinamento alla pittura metafisica, e “Gasometro”, una delle prime periferie da lui realizzate dove la città è indagata negli aspetti della solitudine nelle fabbriche e dell’abbandono delle periferie. Importante aggiungere come, in generale, l’architettura costituisse per lui una presenza monumentale e incombente. Per quanto concerne le opere più tarde, permeate dal culto per l’antico e la mediterraneità dell’arte italiana, ne sono un chiaro esempio il “Figliol prodigo” e “Grande composizione”.

La sala da pranzo

Entrando nella vecchia sala da pranzo ci si imbatte nel gruppo Corrente, nome dell’esperienza e rivista nata a Milano nel 1938, diretta da Treccani e conclusasi con l’entrata in guerra dell’Italia. La rivista si dichiarò apertamente contro l’autarchia imposta dal regime fascista, facendosi portatrice di un’esigenza di rinnovamento e rifiuto delle sue imposizioni.

Un chiaro esempio è fornito dai due principali esponenti del movimento: Guttuso con “Figliol prodigo” e “Piccola nuda sdraiata” e  Migneco, a cui si aggiungono poi gli altri artisti in esposizione.

Nella sala, oltre a Corrente, il vero protagonista è Giorgio Morandi che coi suoi temi prediletti di paesaggio e natura morta continua ad essere influenzato dalla lezione di Cézanne nella divisione degli spazi e nel misterioso silenzio. Tra i suoi capolavori qui esposti: “Natura morta scura “ del 1924, tre paesaggi del 1940-41, “Fiori” del 1941 e del 1952 e “Rose secche” del 1940.

Altro artista protagonista è Filippo De Pisis, di cui si possono ammirare sei dipinti provenienti dalla Galleria del Milione e Milano, ma di cui mancano le fasi metafisiche e futuriste.

Il soggiorno

Nel soggiorno sono collocate una serie di opere della scuola di Parigi, con nomi noti come Campigli, Paresce, Savinio e de Chirico.

Quest’ultimo fu l’elaboratore della pittura metafisica nel 1917, diffusa poi attraverso la rivista “Valori Plastici”, insieme a Carrà, De Pisis e il fratello Savinio presso l’Ospedale militare di Ferrara.

In ordine cronologico, tra le sue più importanti qui esposte, si trovano: la “Peruginesca” (1921) che affronta il tema della rilettura dell’arte rinascimentale, “Les Brioches" (1925) dipinte negli anni parigini di contatto col surrealismo e memore del mondo metafisico, ed infine “La scuola dei gladiatori: il combattimento” (1928) che si riallaccia all’arte classica col recupero degli schemi compositivi dei bassorilievi romani. Altro capolavoro esposto è “L’Annunciazione” (1932) di Savinio, in essa alla finestra vi è una gigantesca testa di angelo che porta la notizia ad una Madonna dalla testa di pellicano, già dal Medioevo simbolo di bontà e amore materno.

Attraversando il corridoio si incontrano i chiaristi, legati alle voci dissonanti di contestazione dell’arte ufficiale, che contrapposero al cromatismo cupo il dipingere chiaro della tradizione lombarda e la luminosità della campagna contro le angosce della periferia industriale. Tra i massimi esempi Angelo Del Bon, Francesco De Rocchi, Umberto Lilloni, De Amicis e Adriano di Spilimbergo.

Nello studio di Antonio si giunge nella seconda sala monografica della casa dedicata al grande Lucio Fontana.

 

Nato in Argentina e poi giunto in Italia, si propose di indagare un nuovo concetto di spazio che si tradusse sia nel superamento della bidimensionalità della tela, attraverso tagli e buchi, sia nella creazione di ambienti spaziali che dovevano coinvolgere lo spettatore e usavano una luce nera in modo da creare “forme,colore,suono attraverso lo spazio”.

Tra le opere in collezione vi sono ventitré “Concetti spaziali”, ricoprenti l’arco dal 1954 al 1960, e la successiva fase di impiego di pietre colorate che ribaltano il vuoto spaziale dei buchi.

Un chiaro esempio è “Concetto spaziale” del 1956, una superficie bianca costernata di pietre di vari colori. Molto significativo e di impatto è il “Golgotha” (1954), animato da lampadine che, posizionate sul retro della tela, fanno filtrare luce attraverso i fori. Da non tralasciare è “La bara del marinaio”, costituente una summa di tutte le sue esperienze.

Entrando in quello che un tempo era lo studio di Marieda si colloca uno spazio dedicato agli spazialisti e pittori che, negli anni della guerra, volsero lo sguardo alla cultura europea e furono impressionati dagli esiti drammatici dell’arte di Picasso.

L’ultima sala, in origine camera da letto, presenta il movimento di crisi della forma che si verifica a partire dagli anni Cinquanta, quando i modi tradizionali di espressione vennero rifiutati poiché ritenuti privi di significato, ovvero l’Informale le cui parole chiave furono segno, gesto e materia. I coniugi furono affascinati da Piero Manzoni, di cui qui si conservano i bianchi “Achrome” realizzati tra 1958 e 60 con materiali diversi. In contrapposizione al bianco di Manzoni sulla parete opposta si trovano dipinti dove il colore diventa l’elemento espressivo dominante.

 

 

Bibliografia

- “Le opere” Maria Teresa Fiorio

- “Gli arredi” Ornella Selvafolta

- “I luoghi dell'arte. Storia opere percorsi”, voll. V-VI di G. Bora, G. Fiaccadori, A. Negri, A. Nova,,Electa-Bruno Mondadori, Milano, 2003

 

Sitografia:

- www.fondazioneboschidistefano.it[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]


SANTA CROCE SULL'ARNO E LE SUE CHIESE

L'ORIGINE DI UN NOME

Santa Croce sull’Arno è una cittadina del pisano che si trova nella zona del Valdarno inferiore, in età contemporanea particolarmente nota per far parte del distretto industriale conciario denominato “comprensorio del cuoio”, un centro economico-lavorativo di grande rilievo per la Toscana. Sebbene il fiorente sviluppo possa far pensare a Santa Croce come un paese nato in seguito all'industrializzazione, si rimarrà sorpresi nello scoprire che invece le sue origini sono antichissime e anche il suo toponimo, non a caso,nasconde delle ragioni storiche e religiose.

Il territorio dove nacquero i primi insediamenti sulle rive dell’Arno (già testimoniati a partire dal VIII secolo), apparteneva al tempo alla diocesi di Lucca, in cui era diffusa la venerazione del Volto Santo, il celeberrimo crocifisso ligneo raffigurante il corpo di Cristo vivo sulla croce, vestito con una lunga tunica. Sono molteplici le leggende riguardanti questa immagine divina, secondo alcuni scolpita da Nicodemo dopo la resurrezione per ricordare ai fedeli la fisionomia umana del figlio di Dio.

La leggenda racconta il ritrovamento della croce in Palestina da parte del vescovo Gualfredo, che spedì il simulacro su un’imbarcazione via mare con la speranza che potesse raggiungere una terra cristiana, scongiurando così la sua distruzione.Nel 782 la nave si avvicinò a Luni, approdando spontaneamente solo quando il vescovo Giovanni I giunse nella zona dopo essere stato avvisato in sogno da un angelo. Da qui la croce venne trasferita a Lucca (ancora oggi conservata nella Cattedrale di San Martino) e la devozione all'immagine sacra fu inarrestabile, crescendo a dismisura in Europa come meta di pellegrinaggio di potenti e semplici fedeli, e arrecando alla città legittimazione divina, prestigio, ricchezza.

È proprio grazie al modello votivo lucchese che nasce Santa Croce nel Valdarno, quando nella seconda metà del XIII secolo è attestato per la prima volta il toponimo di questo luogo, fiorito intorno ad un medesimo Volto Santo custodito nell'antico oratorio di Santa Croce sul Poggetto, e dove confluirono le piccole realtà territoriali che popolavano queste rive dell’Arno. Il culto della croce,esteso nell'intera circoscrizione vescovile, fu uno dei più venerati in età medievale e moderna, ed è quindi legittimo presupporre che fu proprio la progressiva importanza acquisita da tale fede popolare che portò anche nelle zone limitrofe l’emulazione di una croce analoga, servendo inoltre come legittimazione dell’autorità lucchese sul territorio.

L’oggetto di culto legato alle vicende di fondazione del paese oggi si trova nella collegiata di San Lorenzo, costruita nel XVI secolo sulla preesistente chiesa intitolata proprio alla santa croce.

L’imponente statua policroma, che secondo la critica è da datare al XIII secolo per mano di un anonimo artista lucchese, è costituita da più parti assemblate con gesso e colla, dipinte con pittura a tempera, e ritrae l’immagine viva di Cristo,caratterizzato da una fisionomia del volto severa e solenne,con la testa leggermente sporgente per la propensione del collo in avanti: i connotati somatici s’ispirano al Volto Santo di Lucca ma non sono completamente identici, in quanto appaiono più sintetici, così come anche la resa plastica della tunica orientale  è ridotta ai minimi termini, appena accennata in fondo alla veste e nelle maniche, mentre è del tutto assente nella parte alta del torace. Il fascino arcaico che sprigionano le croci ispirate al modello lucchese, in Toscana presenti in vari esemplari, deriva dalla tradizione del Christus Triumphans, che unisce nella rappresentazione la morte di Gesù e il momento della resurrezione, oltre alla particolarità della tunica sacerdotale che li copre.

Nella collegiata è esposta un’altra notevole opera statuaria, raffigurante un Angelo annunziante in terracotta parzialmente invetriata, datato ai primi decenni del XVI secolo. Secondo le ricostruzioni storiche recenti, l’opera non faceva parte dell’arredo originario della chiesa ma vi giunse in seguito da un luogo di culto imprecisato, dove forse era collocata a lato di un altare, accompagnata da un suo ignoto pendant raffigurante la Vergine annunciata. Per l’inclinazione sentimentale con cui è modellato questo giovane angelo, la critica ha assegnato la statua a Andrea della Robbia (1435-1525), nome sostenuto anche dall'utilizzo dalla lavorazione della terracotta solo in parte invetriata: la tecnica di cui l’artista si servì spesso nella sua produzione tarda, fu ideata per rifinire alcune zone con colore a secco, conferendo all'opera un’impronta più naturale, come avviene per la statua santacrocese, policroma nell'incarnato del viso e delle mani, oltre che nella stola in origine di colore rosso (colorazione non era realizzabile con tale metodo). Oggi la pittura stesa a secco si è quasi del tutto persa, mentre permangono intatti i colori della tunica fissati dall’invetriatura, a riprova della straordinaria resistenza della tecnica robbiana.

Guardando nella zona presbiteriale, la parete di fondo dietro l’altare maggiore è occupata da un’edicola pensile di gusto settecentesco (1709-1716) in marmi misti, attribuita a Bartolomeo di Moisé, la cui attività è ancora tutta da ripercorrere.

Il dossale si compone dell’unione di diversi elementi architettonici e decorativi, quali volute, ghirlande di frutta, cornucopie e angeli, che ne fanno un monumento complesso ma nell'insieme armonioso: al centro una nicchia contiene la statua del santo titolare della chiesa, San Lorenzo, affiancata ai lati da alcune raffinate lesene disposte gradualmente e che determinano il focus dell’altare.

Spostandoci nella navata destra della collegiata, incorniciato da una monumentale edicola, si trova un quadro raffigurante la Pietà, dipinto dal pittore fiorentino Anton Domenico Bamberini (1666-1741), molto attivo nella diocesi di San Miniato. Oltre la fama di buon frescante, Bamberini da qui prova di sé in un’opera su tela dove colloca al centro della scena il fulgido corpo di Cristo sostenuto da Maria, sotto un cono di luce etera e celestiale che rischiara entrambi, lasciando il resto dei partecipanti in penombra. Il dipinto proveniente dal monastero di Santa Cristiana e realizzato probabilmente tra il secondo e terzo decennio del XVIII secolo, ci offre il pretesto per raccontare un’altra storia religiosa e attuale al tempo stesso,appartenuta a Santa Croce sull'Arno e che si lega al nome di Oringa Menabuoi.

Oringa nacque a Santa Croce(1237/1240-1310) da un’umile famiglia, coltivando fin da piccola la fede e i valori cristiani: poiché fu obbligata dai fratelli a sposarsi contro la sua volontà, decise di allontanarsi da casa rifugiandosi a Lucca, dove ebbe inizio il suo percorso spirituale che la condusse in molti viaggi fra cui a Roma e Assisi. Nel 1277 tornata nuovamente a Santa Croce, insieme ad altre giovani donne fondò nel suo paese natale il monastero intitolato ai Santi Maria Novella e Michele,affermando così la sua volontà consacrata alla fede e alla generosità, e vestendo gli abiti dell’ordine agostiniano. Tanto fu il suo impegno sociale e il suo intenso credo, per cui si ricordano anche fatti miracolosi e divini, che gli abitanti del posto la denominarono “Cristiana”, oggi patrona di Santa Croce, festeggiata dalla comunità ogni 4 gennaio,nella ricorrenza della sua morte.

La chiesa di Santa Cristiana nelle forme in cui la vediamo oggi, adiacente al monastero ancora attivo, venne ricostruita su un originario impianto duecentesco andato distrutto in un incendio nel 1515, dove andò perduto anche il corpo incorrotto della Santa. L’assetto odierno è frutto di un ennesimo restauro settecentesco, insieme all'affresco dipinto dal già citato Bamberini fra il 1716 e il 1717,che nella volta presbiteriale vi raffigurò Santa Cristiana in gloria accolta in cielo da un tripudio di angeli e putti in festa, che ritroviamo anche nei pennacchi come allegorie delle virtù di Cristiana.

L’interno ad aula unica, voltato con una copertura a botte con decori ottocenteschi, è arricchito dalle vetrate realizzate dalla ditta Polloni di Firenze nel 1945, che illustrano con vivaci colori gli episodi più significativi della vita della Santa.

Sull'altare maggiore è esposta una pala cinquecentesca raffigurante la Resurrezione di Cristo e Santi (fra cui Cristiana),attribuita alla scuola pittorica di Fra’ Bartolomeo, tra i cui seguaci la critica ha riconosciuto nell'opera la mano di Ridolfo del Ghirlandaio (1483-1561), ipotesi avvalorata anche da una tarda memoria scritta. Dietro la zona presbiteriale si trova la cappella consacrata alla Santa, dove in una sfarzosa urna dorata è rappresentato il simulacro del corpo di Cristiana insieme ad alcune reliquie.

Fra i luoghi di culto storici di Santa Croce sull'Arno ricordiamo anche la chiesa di San Rocco, che spicca subito nell'abitato cittadino per il curioso color arancio che ricopre esternamente l’edificio. Già nota nel Cinquecento come piccolo oratorio nei pressi del quale si trovava un ricovero per gli appestati, l’importanza di San Rocco aumentò considerevolmente dopo che vi fu trasferita un’immagine miracolosa della Madonna, tanto che fra il 1792 e il 1796 furono necessari dei lavori di ampliamento che portarono all'aspetto odierno della struttura: il portico che copre l’entrata principale della chiesa è invece una ricostruzione fedele e recente dell’originale settecentesco che crollò negli anni ‘30 del Novecento.

L’interno si presenta ad aula unica ampliato sui lati da due cappelle laterali che conservano rispettivamente una Crocifissione e l’Adorazione del simulacro della Vergine di Loreto da parte dei Santi Bartolomeo, Caterina, Apollonia e Rocco, entrambi dipinti collocabili alla metà del XVII secolo e attribuiti al pittore ancora poco noto Giovanni Gargiolli, appartenente al clima artistico del seicento fiorentino.

L’altare maggiore è coronato da un’edicola a forma di grande nuvola che allude al Sacro Cuore, e che custodisce al centro la santa immagine della Madonna col Bambino.

In conclusione si ricorda un’opera ottocentesca che si trova nella parete destra appena precedente alla zona presbiteriale della chiesa, realizzata dal santacrocese Cristiano Banti(1824-1904), pittore celebre per aver aderito al movimento artistico dei macchiaioli, in stretta amicizia con i grandi esponenti del gruppo, come Telemaco Signorini e Vincenzo Cabianca. Il dipinto devozionale che raffigura San Rocco pellegrino, realizzato per l’omonima chiesa, si colloca a metà fra i lavori giovanili eseguiti da Banti, dopo la frequentazione dell’Accademia artistica di Siena, quando ancora lo stile del pittore era fortemente influenzato dall'insegnamento neoclassico dei suoi maestri, e appena prima del suo trasferimento a Firenze nel 1854 che lo convertì definitivamente alla macchia. L’opera rappresenta San Rocco al centro di una nicchia lunata, vestito in abiti da pellegrino, mentre con lo sguardo rivolto in alto indica la piaga sulla coscia (simbolo della peste che lo afflisse), accompagnato dal cane, che secondo la leggenda sfamò San Rocco durante la malattia,portandogli quotidianamente un pezzo di pane rubato alla mensa del padrone.

Dietro l’immagine del Santo si apre un vasto paesaggio agreste e uno scorcio molto ampio di cielo azzurro limpidissimo, che occupa più di metà dello sfondo. Stilisticamente l’opera è in linea con i principi neoclassici di simmetria e ricerca armonica della composizione, dove i contorni nitidi delle forme si accompagnano ad una stesura del colore in campiture uniformi e omogenee.

 

 

Bibliografia

  1. Matteucci,Cristiano Banti, Firenze 1982.
  2. Marchetti, Settecento anni di vita del Monastero di Santa Maria Novella e San Michele Arcangelo in Santa Croce sull'Arno comunemente detto Monastero di Santa Cristiana, Ospedaletto 1994.
  3. Bitossi, Scheda n.108 (Andrea della Robbia-Angelo annunziante), Scheda n.116 (Bartolomeo di Moisé (?)-Dossale di San Lorenzo), Scheda n.117 (Antonio Domenico Bamberini-Pietà), Scheden.122-123 (Giovanni Gargiolli (?)-Crocifissione-Santi in adorazione del simulacro della Vergine di Loreto), in Visibile pregare: arte sacra nella diocesi di San Miniato, a cura di R.P. Ciardi, Ospedaletto 2000, Vol I, pp. 228-229,233-234, 241-242, 243-244, 250-253.
  4. Parri, Scheda n. 105 (Ignoto scultore toscano, Volto Santo), in Visibile pregare: arte sacra nella diocesi di San Miniato, a cura di R.P. Ciardi, Ospedaletto 2000, Vol I, pp.228-229.

M.G. Burresi, Il simulacro ligneo del Volto Santo nella Collegiata di Santa Croce sull’Arno, in La Santa croce-il culto del Volto Santo, a cura di G. Parrini, San Miniato 2006, pp. 7-12.

  1. Gagliardi, La Santa Croce. La continuità del culto nella differenziazione delle forme, in La Santa croce-il culto del Volto Santo, a cura di G. Parrini, San Miniato 2006, pp.14-39.
  2. Giannoni, Una storia da riscoprire-Il monastero di Santa Cristiana, San Miniato 2007.
  3. Gagliardi, OringaMenabuoi - santa Cristiana da Santa Croce nella tradizione agiografica (sec. XIV-XVIII), in Santa Cristiana e il castello di Santa Croce tra Medioevo e prima Età moderna, a cura di A. Malvolti, Ospedaletto 2009, pp. 31-46.
  4. Marcori, Con la croce e il giglio, luoghi di preghiera e devozione di una comunità, in Santa Cristiana e il castello di Santa Croce tra Medioevo e prima Età moderna, a cura di A. Malvolti, Ospedaletto 2009, pp. 101-116.

 

Sitografia

Il monastero di Santa Cristiana: www.agostiniani.it

 

 

*Le foto n.6-7-8 sono tratte dal libro Santa Cristiana e il castello di Santa Croce tra Medioevo e prima Età moderna (Ospedaletto 2009).[/vc_column_text][/vc_column]

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TENUTA FILANGIERI DE CLARIO

Definita come una delle più belle dimore storiche della Campania, la tenuta Filangieri De Clario si trova a San Paolo Belsito, in provincia di Napoli.

Situata in un contesto ameno e circondata da quasi trenta ettari di boschi, la villa è stata immaginata come una sorta di fattoria che ruota intorno ad un grande cortile. Sono due infatti le aree esterne: una è un parco all'italiana di quasi sei ettari, mentre l’altra è un boschetto, che si somma ai campi coltivati ad aranceti e noccioleti.

Come in quasi tutte le costruzioni del genere, al piano terra sono situati i locali destinati alla produzione di prodotti come l’olio e le stalle degli animali. Tra questi locali degne di nota sono le cantine, ove spicca il monumentale torchio, ricavato da un unico tronco di cipresso.

Al primo piano, invece, trova posto la residenza vera e propria.

Dopo una sontuosa doppia rampa di scale si apre una serie di sale ad infilata, l’una dentro l’altra, caratterizzate da una pavimentazione simile che le unifica. Un salottino, splendidamente arredato con mobili d’epoca e una elegantissima carta da parati floreale, continua a sua volta in una sala da biliardo, ove spicca un monumentale lampadario. Tutti gli arredi sono ottocenteschi, e impreziosiscono ulteriormente la dimora.

Dalla sala del biliardo si passa ad un’altra sala, caratterizzata da una decorazione a boiserie sulle pareti e preziose porcellane sui mobili.

Alla villa appartiene anche la piccola chiesa dell’Epifania, di proprietà della famiglia marchesale dei Mastrilli, proprietari della villa.

Al suo interno è presente sull’altare maggiore un dipinto su tavola del XVI secolo attribuito a Francesco da Tolentino, mentre negli altari laterali sono dislocate altre tele raffiguranti la “Vergine del Rosario”(Giovanni De Vivo) e “L’Arcangelo Raffaele e Tobiolo”(Angelo Mozzillo).

La villa fu acquistata in un primo tempo dalla famiglia Mastrilli, che la abbellì intorno alla metà del XVII secolo.

All'inizio dell’Ottocento poi, grazie al matrimonio di Vincenza Mastrilli con il barone Francesco de Clario, la villa passò alla famiglia de Clario.

Da questa in seguito passò ai Filangieri dopo il matrimonio di Elenora de Clario e Riccardo Filangieri, avvenuto nel 1920.

www.dimorestorichecampane.it


IL SANTUARIO DEL SACRO SPECO DI SUBIACO

IL "NIDO DI RONDINI"

Incastonato nella roccia del Monte Taleo e a strapiombo sulla valle, nel comune di Subiaco, si trova il Santuario del Sacro Speco, luogo di culto della spiritualità benedettina. In questo luogo San Benedetto trascorse un periodo della sua vita, precisamente in una grotta. Il santuario è composto da due chiese sovrapposte, da cappelle, da volte, tutte incastonate nelle pareti irregolari della roccia.

LA CHIESA SUPERIORE

La Chiesa Superiore è stata costruita per ultima, ed è formata da campate irregolari: la prima che si incontra è più alta della seconda e sono separate l'una dall'altra da un arco, al di sopra del quale vi è l'affresco della "Crocifissione". Opera imponente, quest'ultima, il corpo del Cristo è delineato con grande accuratezza e accompagnato da dettagli, il volto di Gesù appare sereno e lo spettatore ne resta coinvolto.

Vi sono altri elementi che raccontano altri episodi: il gruppo delle Pie Donne, i ladroni, la Maddalena. La parete di destra è divisa in tre registri: nel primo sono rappresentati "Il tradimento di Giuda", la "Fuga degli Apostoli" e "La Flagellazione". Nel secondo registro sono rappresentati "Il giudizio di Pilato" e il "Viaggio al Calvario". Sono affreschi ricchi di dettagli, ad esempio ne "Il Giudizio" vediamo rappresentata una città trecentesca con mura merlate alla guelfa, terrazze e loggette. Nel terzo registro è raccontata "La Pentecoste". Allo stesso modo la parete di sinistra è divisa in tre zone, nella parte inferiore è raffigurata "L'entrata in Gerusalemme di Gesù" e le "Marie al Sepolcro", nel secondo registro si trovano "L'incontro di Cristo con la Maddalena" e "L'incredulità di Tommaso". Infine nell'ultimo spazio vi è rappresentata "L'Ascensione, tra Angeli in festa, Maria, i Discepoli e le Pie Donne".

La seconda campata è, probabilmente, il nucleo originario della costruzione, qui gli affreschi avvolgono completamente lo spettatore e sono attribuiti ai pittori della Scuola Umbro-Marchigiana. Nella parete di fondo troviamo un affresco, ormai deteriorato, che rappresenta "San Benedetto in cattedra". Nella parete a sinistra, tre affreschi: “San Benedetto tentato dal diavolo”, “San Benedetto che rotola fra le spine” e “San Benedetto che prega nella grotta”. Nella lunetta, vicino all'ingresso, si vede, a destra, “Il miracolo del veleno” e a sinistra “La guarigione del monaco indemoniato”. Attraverso dei gradini, dalla seconda campata, si accede al transetto, e quindi all'abside, che è interamente scavata nella roccia.

LA CHIESA INFERIORE

L’accesso alla Chiesa Inferiore avviene oggi dal transetto della Chiesa Superiore tramite una scala, a sinistra della quale si trova un affresco di origine bizantina, che raffigura il testo della bolla del 4 Luglio 1202, con cui il papa Innocenzo III concedeva speciali favori ai monaci residenti nello Speco. La prima campata della Chiesa Inferiore è situata vicino alla Scala Santa, posta sulla sinistra di chi si mette di fronte alla Chiesa. Nella parete di fondo sono rappresentati gli episodi de “L’offerta del pane”, “Il pane avvelenato sottratto dal corvo” e “Cristo benedicente tra angeli, con San Benedetto e Santa Scolastica”. Il primo è ambientato in una grotta, dove San Benedetto, seduto, riceve il pane avvelenato, dono del prete Fiorenzo, con grande sconcerto di Mauro e di Placido. Nella lunetta della parete dove si apre la porta del Coro è raccontato il “Miracolo del salvataggio di San Placido”. Viene descritto San Mauro, che inconsapevolmente corre sull'acqua del lago, appena San Benedetto gli fa cenno di salvare San Placido. Ne “Il Miracolo del falcetto” il lago è rappresentato come una bianca macchia rettangolare, dai bordi ondulati: a sinistra vi è il Goto che porge al santo il bastone senza falcetto, a destra San Benedetto immerge nell'acqua il bastone, al quale il falcetto miracolosamente si unisce. La seconda campata della Chiesa Inferiore si trova allo stesso livello della prima campata, all'interno di essa si trova l'accesso alla Grotta della Preghiera. Nella terza campata della Chiesa Inferiore, a sinistra, si trova una grotta nella quale è allestito permanentemente un presepio. Nella parete a destra sono dipinte le storie di San Benedetto: “Il miracolo del vaglio”, “Il viaggio verso la chiesa di Affile” “La vestizione”, “Il ritiro in orazione dentro la grotta”. Nell'ultimo episodio San Benedetto è descritto in preghiera, dentro la grotta immersa in un paesaggio realisticamente rappresentato, del quale sono con accuratezza descritti gli alberi e la campagna circostante.

LA GROTTA DELLA PREGHIERA

La Grotta di San Benedetto, chiamata anche “Grotta della Preghiera”, è il principale  punto di riferimento di tutto il sacro complesso. E’ un anfratto del monte Taleo, dove, come dice san Gregorio Magno nel II libro dei “Dialoghi”, San Benedetto si ritirò a vita eremitica per tre anni, ignoto a tutti, fuorché a Dio e al monaco Romano, che dall'orlo della roccia sovrastante, mediante una lunga corda, mandava al Santo il cibo essenziale per la sopravvivenza. In seguito al tentativo di avvelenamento da parte di Fiorenzo, parroco della chiesa di San Lorenzo, situata sulla riva sinistra dell’Aniene, San Benedetto abbandonò la grotta ed essa rimase per circa seicento anni solo luogo di preghiera. Dopo il 1193 al Sacro Speco si insediò una comunità di dodici monaci, con una propria amministrazione, guidati da un priore dipendente dall'abate di Santa Scolastica, e la roccia in cui la grotta è inserita subì adattamenti e modifiche strutturali, per agevolarne l’accesso e consentire il normale svolgimento della vita monastica. Il papa che, in quel periodo, maggiormente ebbe a cuore l’esperienza benedettina, fino a riformarla, fu Innocenzo III, che andò spesso a Subiaco e valorizzò lo Speco.

LA CAPPELLA DI SAN GREGORIO

La Cappella di San Gregorio è un piccolo ambiente absidato costolonato, e vi si accede dalla Chiesa Inferiore attraverso una scala a chiocciola. A destra della finestra si trova, in un pannello rettangolare, l’affresco che rappresenta San Francesco d’Assisi, che ha in mano una carta, nella quale si legge: PAX HUIC DOMUI. Ai suoi piedi è raffigurato un piccolo monaco, con tonaca rosso cupo, che è, forse, il committente dell’opera. L’opera è anteriore al 1224, anno in cui San Francesco ebbe le stimmate, che qua non appaiono, come non figura l’aureola, ad indicare che il santo, in quel tempo, era ancora vivo.  Un altro affresco,che è posto a sinistra della finestra, rappresenta il cardinale Ugolino, vescovo di Ostia, divenuto poi papa col nome di Gregorio IX, dipinto nell'atto di consacrare la cappella a San Gregorio Magno. Molti riconoscono nella figura che si trova accanto ad Ugolino lo stesso San Francesco, che avrebbe assistito a tale consacrazione. Ugolino è dipinto secondo una formula compositiva, cara al Maestro di frate Francesco, desunta da una matrice culturale bizantina: la curvatura della figura nel rispetto della cornice d’arco.

Il monastero merita di essere visitato,è un gioiello dell'architettura, uno scrigno di tesori artistici ed un luogo suggestivo.

Papa Pio II lo definì il "nido di rondini".

 

sitografia:

https://benedettini-subiaco.org/index.php/monastero-san-benedetto[/vc_column_text][/vc_column]

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IL CONVENTO DOMENICANO DI SORIANO CALABRO

La nascita di un paese: Soriano Calabro e il suo convento

Soriano Calabro è un piccolo paese montano del vibonese che deve la sua fondazione prevalentemente alla realizzazione del Convento domenicano nel 1510. Il Santuario raggiunse il suo massimo splendore tra la seconda metà del XVI secolo e la prima metà del secolo XVII, soprattutto grazie alla miracolosa apparizione del Quadro di San Domenico, ritenuta un’opera di origine divina consegnata dalla Madonna ad un frate il 14 settembre 1530. Uno dei maggiori centri di culto domenicano, non solo nel Meridione ma a livello europeo, rimase distrutto nel 1659 durante uno dei terremoti che nei secoli hanno segnato la Calabria. Sui resti dell’antico santuario ne fu edificato un nuovo per volere del Re di Spagna Filippo IV. Lo studio fu affidato al certosino e architetto Padre Bonaventura Presti che basò il progetto sul modello dell’Escorial di Madrid.

Il convento domenicano di Soriano Calabro: descrizione

L’imponente convento si estendeva per una superficie di oltre ventimila metri quadrati, distribuiti in quattro edifici claustrali. La basilica, immensa, culminava in una cupola ottagonale che si innalzava sul transetto raggiungendo un’altezza di oltre cento metri. La navata centrale era a croce latina e ai sui suoi lati si sviluppavano quattro cappelle a destra e quattro a sinistra, comunicanti, ed intervallate da pilastri cruciformi con basi in granito dalla chiusura ad archi e, infine, un'ampia abside. Al presbiterio si accedeva attraverso dei gradini, qui si trovava l’altare maggiore e subito dopo la cappella del santo Gusmano dove era stato collocato il Quadro di San Domenico.

L’interno e la facciata rispecchiavano la maestosità della complessa struttura; le pareti erano finemente decorate da stucchi e rivestite con marmi pregiati sormontate da capitelli, medaglioni con Santi e Beati dell’Ordine, bassorilievi, puttini, statue, pale d’altare,cherubini e da motivi ornamentali tipici del Seicento barocco. Nel 1783 un altro terremoto rase al suolo l’edificio riducendolo al rudere che è oggi.

Una parte è stata recuperata per riedificare la chiesa che custodisce il quadro del santo, inoltre ivi si trova il MuMar, un museo in cui sono custoditi i marmi provenienti dagli scavi effettuati nel rudere, tra cui è presente una testina femminile attribuita al Bernini.

    

 

Bibliografia

https://turismosorianocalabro.org/2014/06/16/i-ruderi-dellantico-convento-di-san-domenico-in-soriano-calabro-tra-storia-e-innovazione/

DOPPIA CORSIA n. 25 (lug-ago 2013) TESTO DI Giovanna Tenuta[/vc_column_text][/vc_column]

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IL CIMITERO MONUMENTALE DI STAGLIENO

I linguaggi stilistici del cimitero monumentale di Staglieno

Tra i cimiteri più importanti d’Europa figura il Cimitero Monumentale di Staglieno per estensione ed opere d’arte, che ne fanno un museo a cielo aperto. Il camposanto, luogo di addio e di incontri, nel caso di Genova, diviene anche manifestazione dello stato sociale e di esaltazione delle virtù delle famiglie borghesi; in un ambiente spesso boschivo, dove prendono corpo figure allegoriche e simboli che richiamano alla vita. L’esigenza di realizzare un cimitero pubblico nasce, come per altre città, tra Sette-Ottocento, con l’esigenza di ovviare alle gravi conseguenze igieniche che comportava la sepoltura nelle chiese e nei luoghi non adeguatamente regolamentati. Sotto la spinta illuminista si cerca di eguagliare tutti di fronte alla morte.

Nel Cimitero Monumentale di Genova, sono molti i monumenti che ricordano personaggi importanti o rappresentativi come Giuseppe Mazzini, Aldo Gastaldi, Fabrizio de Andrè, Mary C. Wilde e recentemente è diventato un laboratorio didattico permanente. In collaborazione con il Dipartimento di Architettura e Design dell’Università di Genova, si è dato avvio ad un progetto che prevede che gli studenti delle scuole di diagnosi, conservazione e restauro di opere lapidee-bronzee possano svolgere corsi teorici e pratici sulle opere presenti nel cimitero monumentale.

Aperto ufficialmente al pubblico il primo gennaio del 1851, il progetto di realizzazione segue in parte il progetto di Carlo Barabino, architetto che da il volto Neoclassico alla Genova ottocentesca e Giovanni Battista Resasco. Considerato un museo a cielo aperto, pur mantenendo un impianto Neoclassico, vede il susseguirsi di stili artistici che coprono due secoli, dal Neoclassicismo al Realismo, fino al Simbolismo, Liberty e Decò. Ciò che caratterizza il complesso monumentale è senza dubbio la scultura che fa da protagonista e diventa testimone delle trasformazioni artistiche.

Di seguito una breve selezione delle sculture-simbolo che caratterizzano alcuni dei linguaggi artistici presenti nel Cimitero Monumentale.

Realismo Borghese

Negli anni 70-80 dell’Ottocento si afferma nel cantiere di Staglieno uno stile realista poi rinominato Realismo Borghese che si esprime con una tecnica che riporta i più minimi dettagli in uno spazio concreto dove con cura e minuzia vengono rappresentati abiti, acconciature ed espressioni di dolore.

Tomba Caterina Campodonico, 1881, dello scultore Lorenzo Orengo

Ancora adesso, un monumento dove sono sempre presenti fiori, esemplifica il tema della morte che eguaglia tutti gli uomini di ogni ceto sociale. Caterina, venditrice ambulante di noccioline, come ricorda l’epigrafe di G.B.Vigo, posta sulla base della scultura, impiegò tutto il denaro guadagnato per farsi erigere ancora in vita il proprio  monumento funebre dallo scultore più richiesto dalla borghesia: Lorenzo Orengo. Descritti minuziosamente, senza alcuna idealizzazione, i merletti e frange della veste, le rughe e lo sguardo duro e fiero di una donna che mostra con orgoglio la propria merce: noccioline e ciambelle.

Simbolismo

Negli anni 80-90 dell’Ottocento lentamente il Realismo e la sicurezza positivista lasciano il posto ad una scultura che raccoglie in se tutte le insicurezze e le incertezze di fine secolo in clima simbolista.

Tomba Oneto, 1882, dello scultore Giulio Monteverde

Giulio Monteverde, in anticipo sui tempi, nel 1882, realizza la tomba Oneto. La fortuna iconografica del suo angelo si diffonde non solo in Europa ma giunge addirittura in America. Quello che rappresenta lo scultore è un angelo androgino, dove traspare nello sguardo e nella compostezza scultorea tutto il dramma del crollo della visione positivista della morte. Non c’è nell’angelo nessun aspetto consolatorio nella visione dell’aldilà, ma solo dubbi e incertezze verso il mistero di quello che ci attende. Un’immagine che perde la connotazione cristiana di guida verso il paradiso per una visione decadente della morte.

Liberty

Tomba Bauer, 1904, scultore Leonardo Bistolfi

Tra gli artisti presenti nel panorama Liberty, sicuramente merita di essere menzionato lo scultore Leonardo Bistolfi, famoso per un linguaggio morbido ed elegante, si dedicò prevalentemente alla scultura funeraria creando opere di netto gusto floreale. La scultura, di cui gli fa sfondo il verde naturale, rappresenta figure femminili pervase di malinconia e sensualità. Prevale il ritmo pacato dei gesti e le linee ondulate dei corpi e delle vesti tipiche del linguaggio liberty. Una scultura che è stata definita come l’immagine della Bella Morte, in cui si intrecciano sensualismo e mistero. L’opera che fu presentata da Bistolfi alla Biennale di Venezia nel 1905, fu accolta con molto favore tanto da dare allo scultore il soprannome di poeta della morte.

 

Nel 2013 molte opere del Cimitero Monumentale sono state restaurate  grazie al contributo dello scultore americano Walter Arnold e alla sua associazione American Friends of Italian Monumental Sculpture (AFIMS) organizzazione no profit. Tale organizzazione, in collaborazione con il Comune di Genova e la Soprintendenza Ligure, ha permesso di portare all’antico splendore 15 monumenti. Tra le opere restaurate ci sono anche quella di Lorenzo Orengo e Leonardo Bistolfi sopra citate.

 

 

 

 

Franco Cambi, Formarsi nel luoghi dell’anima. Itinerari e riflessioni in studi sulla formazione, Firenze, 2016, pag. 155-169

Il Cimitero Monumentale di Staglieno, a cura del Comune di Genova, Servizi Civici Assessorato Valorizzazione e Promozione del Patrimonio Storico Artistico Culturale del Cimitero Monumentale di Staglieno, Barcelona, Electa, 2003

Percorsi d’arte a Staglieno, a cura del Comune di Genova, Servizi Civici Assessorato Valorizzazione e Promozione del Patrimonio Storico Artistico Culturale del Cimitero Monumentale di Staglieno, Genova, Sagep, 2004

 

www.staglieno.comune.genova.it

www.staglieno.com[/vc_column_text][/vc_column]

Tomba Caterina Campodonico, 1881, dello scultore Lorenzo Orengo

 

Tomba Oneto, 1882, dello scultore Giulio Monteverde

Tomba Bauer, 1904, scultore Leonardo Bistolfi

Prima e dopo il restauro sulla Tomba Bauer

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L'EX CHIESA DI SANTA MARGHERITA A SCIACCA

Una delle chiese più ricche di Sciacca

L’originaria chiesa di Santa Margherita fu fondata nel 1342 per volere dei Cavalieri Teutonici, che ne mantennero il possesso fino al 1492, anno in cui l’ordine abbandonò la Sicilia; da questo momento in poi la chiesa fu aggregata alla chiesa della Magione di Palermo, al cui Regio Abate era soggetta. Erroneamente si faceva risalire la sua costruzione ad Eleonora d’Aragona, nipote del re di Sicilia Federico III d’Aragona e moglie di Guglielmo Peralta, conte di Caltabellotta. Nel 1594, grazie a un ingente lascito da parte di un ricco mercante catalano, Antonio Pardo, iniziarono le opere d'ampliamento e di ristrutturazione, ed infatti, la struttura pervenutaci risale a quest'intervento espresso dalla volontà del Pardo in punto di morte. Alcune tracce della struttura originaria ,che si presenta come unico blocco, sono ancora visibili sulle mura perimetrali sul lato meridionale del complesso monumentale.

L'ex chiesa di Santa Margherita a Sciacca: descrizione

Il prospetto principale ricade su Piazza Carmine, dove si trova uno dei due portali in chiaro stile gotico-catalano, costituito da due pilastri ottagonali supportati da una triplice ghiera. In alto due finestre, un rosone e un poderoso cornicione lapideo dal quale sporgono grondaie in pietra simili a bocche di cannoni. Sul lato sinistro della Chiesa, che prospetta su via Incisa, vi è un secondo portale in marmo bianco, impreziosito dalla presenza di alcune sculture a basso rilievo, realizzato nel 1468 da Pietro de Bonitade su disegno del famosissimo scultore, di origine dalmata, Francesco Laurana. Questo portale, quasi certamente, apparteneva alla prima chiesa e fu poi adattato alla seconda. Salta agli occhi la discordanza stilistica tra l'arco inflesso del fastigio, che è gotico, e l'arco della lunetta che è rinascimentale. L'arco rinascimentale è un'aggiunta posteriore (in origine circoscriveva la lunetta l'arco inflesso) e il suo inserimento tra l'arco inflesso e l'architrave ha determinato lo spostamento dei due pilastrini e l'aggiunta di lastre di marmo tra pilastrini e stipiti del portale. Entrando all'interno della chiesa si è subito colpiti dalla sua magnificenza. Essa è a navata unica e mostra una ricca decorazione in stucco in stile barocco (angeli, putti, arabeschi, figure esoteriche, volute e medaglioni), policromata ed affrescata da Orazio Ferraro nel XVII secolo. Appartengono allo stesso autore gli affreschi con la Crocifissione e la Madonna dell’Itria in prossimità dell’altare. Sull'altare principale è posta una statua lignea di Santa Margherita datata 1544 opera del maestro Alberto Frixa (o Frigia). Una serie di medaglioni, raffiguranti episodi della Via Crucis opera di Giovanni Portaluni, ornano l'intradosso dell'Arco Trionfale. Nel transetto vi sono inoltre due quadroni con l’Adorazione dei Magi e la Nascita di Gesù dell’artista Gaspare Testone e un sarcofago con un’iscrizione latina, recante la data 1602, nel quale sono conservate le ceneri di Antonio Pardo che prima erano nella vicina chiesa di S. Gerlando.

Passando dal transetto alla navata, la decorazione in stucco si attenua, la plastica si appiattisce, le statue a tutto tondo cedono il posto a figure di minore rilievo. Qui, sulle pareti spaziose della navata, vi sono sei grandi quadri dipinti a olio del celebre pittore licatese Giovanni Portaluni con varie scene: il martirio di S. Oliva, l'Adorazione della Croce con tutto il popolo, S. Elena e Costantino, la liberazione della peste con l'intercessione della Maddalena, S. Calogero e S. Rosalia, scene della vita di S. Gerlando e il martirio di S. Barbara. Nel quadro raffigurante S. Gerlando, alla destra del Santo che distribuisce il pane ai poveri, è ritratto Antonio Pardo, il munifico benefattore della chiesa. I restanti medaglioni sono stati realizzati dal pittore saccense Michele Blasco. Alla titolare della chiesa, invece, è dedicato un altare sul lato destro in marmo scolpito a bassorilievo databile tra il 1504 e il 1512, che descrive la vita e il martirio di Santa Margherita, opera attribuita al carrarese Bartolomeo Birrittaio e al suo collaboratore Giuliano Mancino. La parte posteriore della chiesa è dominata da un maestoso organo di legno a canne decorato con sculture di santi e angeli, opera di La Grassa del 1641, posto dentro un tabernacolo ligneo. Il soffitto è ligneo a cassettoni ed è stato realizzato nel 1630 dal maestro saccense Antonio Mordino. Al centro del soffitto a cassettoni trova posto una tela di buona mano e in buono stato di conservazione, raffigurante l'Immacolata, di cui si ignora l'autore. La pavimentazione attuale è composta da maioliche smaltate bianche e nere che riprendono il modello originario trovato durante gli scavi condotti dalla Soprintendenza.Dopo anni di incuria e di totale abbandono (dal 1907 fino alla fine degli anni '80) è stata restaurata e riaperta al pubblico, anche se non più adibita alle funzioni religiose, e per un breve periodo ha ospitato mostre ed eventi vari. Dal 2017 a causa di infiltrazioni d’acqua l'ex chiesa di Santa Margherita a Sciacca è nuovamente e tristemente chiusa al pubblico.

Cappella dedicata a S. Margherita

Organo e tabernacolo ligneo con sculture di santi e angeli.

Navata e altare principale

Dettaglio altare con statua lignea di Santa Margherita dello scultore A. Frixa

Soffitto a cassettoni con tela dell’Immacolata di autore ignoto

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SANTA MARIA NOVELLA A MARTI

Marti: il paese, la chiesa

La chiesa di Santa Maria Novella si trova a Marti, una frazione del comune di Montopoli, in provincia di Pisa. La storia di questo paese ricalca quella di molti centri abitati toscani, contesi dalle mire espansionistiche di Firenze, a cui anche Marti si arrese nel 1406: il perdurare della condotta filo-pisana da parte dei martigiani comportò lo smantellamento e la distruzione di questo castello, insieme al saccheggio della chiesa che era stata costruita nel 1332.

Dopo questo periodo bellicoso le fonti parlano di un primo restauro di Santa Maria Novella avvenuto nel 1470, per poi essere definitivamente rinnovata nel XVIII secolo, grazie a un programma decorativo che comportò la totale copertura pittorica dell’aula interna, e che rese la chiesa di Marti “uno dei luoghi più affascinanti e riccamente decorati della diocesi di San Miniato”. Esternamente Santa Maria Novella presenta un corpo di fabbrica in stile tardo romanico toscano, coperto da un paramento murario in mattoni: la facciata a capanna mostra una decorazione ad archetti pensili ed è ripartita da due lesene che spartiscono la zona superiore da quella inferiore, in cui si apre il portone centrale affiancato da due portali ciechi (fig.1).

Fig. 1: chiesa di Santa Maria Novella, Marti

Superata la soglia della chiesa ci troviamo immersi in uno spazio scenografico magnifico ed avvolgente (fig.2), catturati dalla sfarzosa decorazione ad affresco della tribuna: questo assetto settecentesco fu promosso dal pievano Giuseppe Panzani, che nel 1719 si rivolse a Antonio Domenico Bamberini (1666-1741) per l’esecuzione del ciclo pittorico nella zona presbiteriale. Allo stesso artista fu commissionata anche la Pala del Rosario (1722), pensata per un altare laterale, raffigurante due santi adoranti in abito religioso (San Domenico e Santa Maria Maddalena dei Pazzi?) e i quindici medaglioni, contenenti i misteri del culto mariano del Rosario (fig.3).

Il Bamberini fu un pittore-frescante molto attivo nel circondario della diocesi sanminiatese, specializzato nella decorazione quadraturista di gusto tardo barocco, un genere pittorico improntato sulla resa illusionistica e prospettica di fondali architettonici, che a Firenze fu ampliamente sviluppato dalla scuola di Jacopo Chiavistelli (1621-1698).  Anche il Bamberini di formazione fiorentina fu indirizzato verso il quadraturismo, facendo suo un repertorio decorativo molto vasto di elementi architettonici che ne accentuassero la resa trompe-l'œil: a Marti il fronte della tribuna imita un tempio nella rappresentazione delle due grandi colonne corinzie che sorreggono il timpano, arricchito da capitelli, cornici e mensole in monocromo, mentre i tre fornici, che ne caratterizzano l’impianto, ricordano la forma di un arco trionfale romano. Due figure muliebri (probabilmente le donne alludono alle virtù teologali della Fede e della Speranza), siedono sull'archivolto centrale a presenziare un cartiglio in cui si legge parte di un’iscrizione che allude alla chiesa come casa di Dio: “Domine, dilexi decorem domus tuae et locum habitationis gloriae tuae”, ovvero “Signore, amo la bellezza della tua casa, il luogo che hai scelto per abitazione della tua gloria”. La parte culminante del frontone termina con una cornice mistilinea in cui è rappresentato in monocromo il Miracolo di San Martino, a imitazione di un rilievo.

Nei tre ambienti voltati della tribuna continua la decorazione ad affresco: nella zona centrale dietro l’altare è rappresentata l’Assunzione della Vergine, mentre nei fornici laterali la pittura riproduce illusionisticamente degli ambienti classicheggianti voltati a lacunari, in cui sono rappresentati trionfanti San Giovanni Battista e Cristo Risorto, accompagnati nelle pareti laterali rispettivamente dagli episodi del Banchetto di Erode e la Cena di Emmaus. Nelle volte e nell'intradosso degli archi la decorazione pittorica riempie ogni spazio con l’imitazione di specchiature marmoree e stucchi, nelle forme di cornici, volute, cartigli e medaglioni (fig.4-5-6).

Fig. 4: Anton Domenico Bamberini, Decorazioni della tribuna, particolari, 1719, Marti, Chiesa di Santa Maria Novella.

Nel 1805 il pittore Filippo Lenzi venne incaricato di affrescare i rimanenti spazi della chiesa con partiture architettoniche quali finestre e balaustre, determinando così un vero e proprio horror vacui.

Tra le tele seicentesche che si trovano sugli altari laterali di Santa Maria Novella ricordiamo la commissione della famiglia fiorentina dei Baldovinetti (tenutaria nel Valdarno di diversi possedimenti), raffigurante il Miracolo di San Pietro che risana l’infermo (fig.7), del pittore Matteo Rosselli (1578-1650): la lastra ovale sotto la mensa dell’altare riporta le iniziali dell’artista insieme all'anno di esecuzione (1622). Rispetto allo stile più comunemente adottato dal Rosselli, vicino ai modi del Cigoli, qui la critica ha ravvisato piuttosto l’influenza di Domenico Crespi, detto il Passignano (1559-1638), in linea per la sobrietà cromatica e l’impianto scenico (l’ipotesi è avvalorata dalla conoscenza dei due artisti, come attesta la notizia di un viaggio che Rosselli intraprese al seguito di Passignano). È invece assegnata a Taddeo Baldini (attivo 1642-1677) la Sacra conversazione di Santi adoranti (Santa Caterina d’Alessandria, Giuseppe, Lucia, un santo carmelitano e Sant’Antonio da Padova con le anime del purgatorio in adorazione dello Spirito Santo), vicino nelle forme all'appassionato sentimentalismo di Lorenzo Lippi (1606-1665).

Fig. 7: Matteo Rosselli, San Pietro risana l’infermo, 1622, Marti, Chiesa di Santa Maria Novella.

Riveste un importante valore artistico oltre che devozionale il Crocifisso in cartapesta policroma attribuito a Ferdinando Tacca (1619-1686) e arrivato a Marti nel 1673 (fig.8).

Fig. 8: Ferdinando Tacca (?), Crocifisso, seconda metà XVII secolo, Marti, Chiesa di Santa Maria Novella.

I committenti della croce sono da rintracciarsi nei componenti della sopracitata famiglia Baldovinetti, di cui Vincenzo di Giovanni in particolare, cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano, fu protagonista di una leggenda marinaresca: il racconto tramandato nel borgo riguardava la cattura da parte di Vincenzo del pirata Ciriffo Moro, e il conseguente rinvenimento sulla sua imbarcazione del crocifisso, in seguito donato alla chiesa di Santa Maria Novella. La leggenda si era probabilmente affermata nell'ambito della stessa famiglia Baldovinetti, per incrementare il prestigio sociale della casata tramite il riconoscimento di gesta militari e atti di benevolenza, rimanendo per lungo tempo nella memoria collettiva della comunità.

L’attribuzione dell’opera a Ferdinando Tacca nasce dall'identificazione del modello originario realizzato dal padre, Pietro Tacca (1577-1640), per il crocifisso bronzeo donato al re di Spagna Filippo III nel 1616, oggi conservato nella Sacrestia della Santa Forma all'Escorial (fig.9), e da cui derivano numerose copie in materiali diversi (bronzo, cartapesta e stucco).

Fig. 9: Pietro Tacca, Crocifisso 1615 c., Madrid, Monastero di San Lorenzo de El Escorial, Sagrestia della Sagrada Forma.

Dopo la morte di Pietro Tacca, fedele collaboratore del Giambologna, la bottega fiorentina fu portata avanti dal figlio Ferdinando, a cui probabilmente spetta anche l’esecuzione del Crocifisso di Marti: a livello formale l’opera presenta, rispetto all'esemplare dell’Escorial, alcune caratteristiche più esasperate che la critica ha rintracciato come segni distintivi dello stile di Ferdinando. La scelta di realizzare la figura morente di Cristo in cartapesta rivela la committenza per un contesto devozionale, affinché fosse facilmente trasportabile durante le processioni, insieme ad una compartecipazione emotiva maggiormente intensa da parte dei fedeli, resa grazie a una malleabilità del materiale più consona a esprimere il dolore fisico: la carne lacerata dai chiodi nelle mani ed in particolare nei piedi contrasta  con la flessuosità con cui è plasmato il corpo esile e affusolato di Cristo, di una bellezza struggente. Il restauro avvenuto nel 2001 ha permesso il ripristino di alcuni raffinati quanto delicati particolari, come il fiocco del perizoma (realizzato ad applique-parti eseguite separatamente e aggiunte in seguito alla struttura) e il recupero della policromia originale: in particolare è stata rivalorizzata la presenza di alcune gocce di sangue lumeggiate sulle braccia e le gambe, oltre alla ferita sul costato, che versa rivoli di sangue e acqua. Questo dettaglio è una citazione puntuale di un passo del Vangelo in cui Giovanni rammenta che dopo la morte di Cristo “Uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua” (Giovanni 19,34). In una valenza simbolica tale avvenimento attesta tramite il sangue, il sacrificio e il sacramento dell’eucarestia, mentre l’acqua allude allo Spirito e alla rinascita nel battesimo. Anche la croce lignea, che si credeva non originale, ha restituito durante il restauro diverse tracce pittoriche raffiguranti sanguinamenti in concomitanza delle braccia e dei piedi.

Il dipinto che incornicia l’opera venne invece appositamente realizzato nel 1821 dal pittore originario della vicina Cascina, Giuseppe Bacchini (attivo 1806-1845), collocando il crocifisso al centro di quattro Dolenti, Maria, San Giovanni, Maria Maddalena e Maria di Cleofa, quest’ultima menzionata proprio nello stesso Vangelo di Giovanni durante la passione di Gesù (fig.10). La bidimensionalità della pittura d’impostazione neoclassica è qui evidenziata da una resa quasi sagomata delle figure, trattenute in un composto e imperturbabile dolore.

Fig. 10: Giuseppe Bacchini, I dolenti, 1821, Marti, Chiesa di Santa Maria Novella.

 

Bibliografia

  1. Bitossi, Scheda n.74 (Matteo Rosselli, San Pietro risana l’infermo), Scheda n.75 (Taddeo Baldini, Pala d’altare con Santi), in Visibile pregare: arte sacra nella diocesi di San Miniato, a cura di Roberto Paolo Ciardi, Ospedaletto 2000, Vol. I, pp. 170-173.
  2. Campigli, Scheda n.76 (Ferdinando Tacca, Crocifisso), in Visibile pregare: arte sacra nella diocesi di San Miniato, a cura di Roberto Paolo Ciardi, Ospedaletto 2000, Vol. I, p. 175.
  3. Parri, Scheda n.83 (Giuseppe Bacchini, I dolenti), in Visibile pregare: arte sacra nella diocesi di San Miniato, a cura di Roberto Paolo Ciardi, Ospedaletto 2000, Vol. I, p. 181.
  4. Boldrini, Il cavaliere, il pirata e il Crocifisso di Marti tra leggenda e devozione, in Restauri nella Pieve di Marti- Il Crocifisso di Ferdinando Tacca e tre ovali dipinti del Seicento fiorentino, a cura di B. Bitossi e M. Campigli, Firenze 2003, pp. 10-26.
  5. Campigli, Sul crocifisso di Marti, in Restauri nella Pieve di Marti- Il Crocifisso di Ferdinando Tacca e tre ovali dipinti del Seicento fiorentino, a cura di B. Bitossi e M. Campigli, Firenze 2003, pp. 27-43.
  6. Granchi, Il restauro del Crocifisso in cartapesta policroma di Marti attribuito a Ferdinando Tacca, in Restauri nella Pieve di Marti- Il Crocifisso di Ferdinando Tacca e tre ovali dipinti del Seicento fiorentino, a cura di B. Bitossi e M. Campigli, Firenze 2003, pp. 46-74.

 

*Le figure n.2-7-10 sono tratte dal volume Visibile pregare: arte sacra nella diocesi di San Miniato, a cura di Roberto Paolo Ciardi, Ospedaletto 2000, Vol. I, pp. 167,171,182.