CARLO BONONI

A cura di Mirco Guarnieri

Carlo Bononi: la vita

Carlo Bononi, secondo le fonti settecentesche, nacque a Ferrara nel 1569 ma studi recenti pongono la sua data di nascita un decennio più avanti. Il periodo storico in cui vive l’artista è quello della Devoluzione di Ferrara, passata poi sotto lo Stato Pontificio il quale però trascinerà la città ad un lento declino. Per quanto riguarda il periodo artistico siamo negli anni tra la Controriforma e la piena maturazione del nuovo linguaggio artistico naturalistico e barocco.

Grande disegnatore, inquieto sperimentatore e infaticabile viaggiatore sarà allievo - si dice - del Bastarolo per poi entrare in contatto con lo Scarsellino. I suoi riferimenti stilistici si trovano fuori Ferrara, in particolar modo per la tradizione cinquecentesca veneta di Tintoretto e Veronese e per ciò che di nuovo si stava presentando (Caravaggio, i Carracci e Simon Vouet).

Se dobbiamo trovare una data di inizio della carriera artistica di Bononi non la troveremo prima del 1600, infatti il suo primo dipinto è riconducibile al 1602 con la Madonna col Bambino in trono e i santi Maurelio e Giorgio(fig. 1) proveniente dalla residenza dei Consoli delle Vettovaglie, ora situato a Vienna. Il dipinto contiene riferimenti bastaroleschi che convivono con molteplici declinazioni (l’uso di tende e colonne tipiche della pittura veneta e l’espressione dolcemente sbalordita che riporta alla mente Correggio e Ludovico Carracci).

 

Attorno al 1605-1606 il pittore ferrarese porterà la sua carriera ad una svolta sostanziale. Oltre ad alcune incertezze in materia di conduzione pittorica presente anche nei dipinti precedenti, Carlo Bononi introdurrà un’anima nelle sue figure, facendo comunicare qualcosa di indefinito con un atteggiamento di leggera inquietudine, un indugiare mesto, eppure ammiccante in una compiaciuta tristezza. Le opere più rappresentative di questa svolta sono i due Angeli(figg. 2-3) del 1605-1606 della Pinacoteca di Bologna e Sibilla (fig. 4) del 1610 appartenente alla Fondazione Cavallini-Sgarbi.

 

 

I primi documenti che menzionano Carlo Bononi sono riconducibili al 1611 con le opere San Carlo Borromeo (fig. 5)per la Chiesa della Madonnina di Ferrara e l'Annunciazione (fig. 6), per la Chiesa di San Bartolomeo a Modena, poi dirottata l’anno successivo dallo stesso committente Ippolito Bentivoglio verso Santa Maria della Neve a Gualtieri. Queste due opere aprono la strada ad una formulazione del tutto moderna della pala d’altare nella quale diviene predominante l’aspetto emozionale. Importante anche è come ricorrerà a tutti gli espedienti narrativi della cultura barocca (sorpresa, luce e teatralità dispiegati in piena coscienza). Altre commissioni che Bononi riceverà saranno a Ravenna nel 1612, a Cento nel 1613 e Mantova nel 1614, ma quella che gli darà più fama sarà quella per il ciclo decorativo (figg. 7a-b-c-d-e-f-g-h-i-l) che orna la Basilica di Santa Maria in Vado  a Ferrara, concluso entro il 1617.

 

 

 

 

 

Dopo questi eventi il pittore capisce che Ferrara gli è troppo stretta e decide di andare in viaggio a Roma, ma non essendoci documentazioni a sufficienza non sappiamo se sia andato per trovare fortuna o per completare la sua formazione. Dopo Roma, Bononi si diresse a Fano dove presso la chiesa di San Paterniano, l’artista produsse una delle sue opere più intense e coinvolgenti, Il San Paterniano che risana la cieca Silvia (fig.8), facente parte delle storie del santo. In quest’opera notiamo come Bononi sia stato influenzato dal contatto con le opere caravaggesche (come le tele Cottarelli di San Luigi dei Francesi) dalle quali l’artista ha colto l’intimo vibrare della luce, il tono malinconico, la capacità di cogliere l’attimo e la pregnanza delle pose, senza però rinunciare alle sue radici emiliane.Un altro dipinto che riconduce alla pittura caravaggesca è Genio delle arti (fig. 9) del 1621-22 riconducibile ad Amor vincit omnia del Merisi. Inizialmente si pensava che l’opera di Bononi fosse unica, ma dopo recenti reperimenti, si è scoperto che un anno prima si trovava impegnato nel soddisfare le richieste di un’ancora ignota committenza,  richiedente un Genio delle arti, noto solo tramite fotografia.

 

Dal secondo decennio del 600 il talento del pittore ferrarese fu impiegato nel soddisfare committenze tra Ferrara e Reggio Emilia (definita in quel periodo la capitale della cultura figurativa del ducato estense) come la decorazione della Volta della Cappella Gabbi o dell’Arte della seta di Reggio Emilia. Sempre nello stesso anno Bononi concluse per il Refettorio di San Cristoforo della Certosa di Ferrara le Nozze di Cana (fig. 10), ispirato all'omonimo quadro di Veronese con chiari elementi di Barocco incipiente. Ma soprattutto ci fu la conclusione del ciclo di Santa Maria in Vado, intervenendo nel presbiterio. Un’altra opera di cui però non si sa con esattezza la data di conclusione è l'Angelo Custode (fig. 11) per la chiesa di Sant'Andrea a Ferrara (poi trasferito alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara nel 1863, prima che la chiesa venisse chiusa al culto). Carlo Bononi morirà il 3 Settembre del 1632 sepolto nella chiesa di Santa Maria in Vado a Ferrara.

 

 

 

Le figure 4; 7a,b,c,e,f,g,h; 9 provengono da https://www.palazzodiamanti.it/1607/opere-in-mostra.

La figura 5 proviene da https://www.museoinvita.it/sassu-bononi/

La figura 6 proviene da https://www.artribune.com/arti-visive/archeologia-arte-antica/2017/12/mostra-carlo-bononi-palazzo-diamanti-ferrara/attachment/carlo-bononi-annunciazione-1611-gualtieri-santa-maria-della-neve/

Le figure 7i,l provengono da https://www.museoinvita.it/sassu_bononi_vado/

La figura 8 proviene da https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/carlo-bononi-secondo-andrea-emiliani

La figura 10 proviene da https://gallerie-estensi.beniculturali.it/blog/osservando-lo-splendore-del-gran-desco-delle-nozze-di-cana-di-carlo-bononi/

 

 

 

Bibliografia

G. Sassu, F. Cappelletti, B. Ghelfi, "Bononi l'ultimo sognatore dell'Officina ferrarese", Ottobre 2017, Fondazione Ferrara Arte.


BASILICA DI SAN FRANCESCO DA PAOLA

A cura di Felicia Villella

Il comune di Paola in provincia di Cosenza vanta l’essere luogo di nascita del patrono della Calabria intera, San Francesco da Paola appunto. La cittadina oltre a custodire la casa storica di nascita del santo, risalente al 1300, è il luogo in cui sorge la basilica a lui dedicata. Precedentemente Santuario e poi elevata al rango di basilica minore nel 1921 da papa Benedetto XV, l'edificio rappresenta un esempio di monumento architettonico religioso dal gusto barocco e gotico, di fattura tardo rinascimentale. La costruzione risale al XVI secolo e vi si accede dopo l'attraversamento di un ampio piazzale lambito da un lato da un torrente su cui si affaccia parte di un edificio religioso adiacente alla chiesa e dall'altro da un palazzo che accompagna lo sguardo direttamente verso la facciata del monumento principale. La basilica ad oggi è definita antica, per differenziarla dalla nuova basilica postmoderna inaugurata in occasione del Giubileo del 2000.

Prima di accedere direttamente ai locali liturgici si attraversa una imponente facciata a doppio ordine sormontato da una nicchia in cui è collocata la statua del santo ritratto nella sua tradizionale posa mentre regge il bastone e porta la mano sinistra al petto.  Il primo livello della facciata è tripartito da tre ingressi, di cui il centrale più ampio, separati da colonne in stile dorico; il secondo livello ripropone la stessa tripartizione, ma cambia l'ordine delle colonne, in stile corinzio ed in più presenta una balconata in ferro battuto a mo' di loggetta. Superata l’imponente facciata, si sosta in un primo androne che prepara al silenzio dei devoti prima di accedere al secondo spazio che permette di scegliere tra l’ingresso a destra nella chiesa o verso il chiostro, oltre che ad una piccola cappella dedicata a San Nicola e ad un'altra stanza di preghiera. La chiesa è composta da un’unica aula principale non particolarmente adornata costituita da una navata centrale su cui capeggia l’organo e un crocifisso ligneo che scende in prossimità della zona dedicata all'altare, lateralmente invece si accede ad una seconda navata sulla destra scandita da quattro cappelle recentemente restaurate fino al raggiungimento della cappella barocca dedicata alle reliquie del santo in corrispondenza della zona absidale. Qui sono conservati gli abiti e i frammenti di alcune sue ossa, il resto del corpo riposa in Francia. 

Particolarmente interessante è anche il chiostro adiacente l'edificio che preserva un roseto protetto da una serie di vetrate che danno su una sequenza di affreschi fortemente danneggiati che raccontano la vita di San Francesco da Paola, dalla nascita alla sua morte, includendo numerosi miracoli attribuiti dalla tradizione. Fiancheggia il chiostro il romitorio, si tratta di una serie di angusti spazi sotterranei che hanno costituito il primo cenobio in cui si riunivano il santo e il suo ordine. Superato il percorso che guida lungo il romitorio si giunge al ponte detto del diavolo legato ad un episodio della vita del santo, oltre il quale si arriva alla fonte di acqua, il cui sgorgare è anch’esso attribuito ad un episodio miracoloso, incorniciata da una delicata struttura che ricorda molto quello dei tempietti di stile romano composto da un pavimento in travertino su cui poggiano quattro colonne doriche che sorreggono una copertura semisferica su cui culmina una croce metallica. Proseguendo sono visibili i resti dell'antico acquedotto del convento su cui poggia la moderna basilica francescana, qui è conservata una bomba inesplosa risalente alla Seconda Guerra Mondiale, fino al raggiungimento della fornace che conclude il percorso, un ambiente circolare al quale si accede attraverso una consumata scalinata.

Il luogo, oltre ad essere una importante meta di pellegrinaggio, rappresenta un piccolo scrigno di storia e arte del territorio calabrese, una meta che non deve mancare negli itinerari turistici della regione.

 


SANTA MARIA DEL PATIR

A cura di Antonio Marchianò

L'abbazia di Santa Maria del Patire, a Rossano, fu fondata intorno al 1095 dal monaco e sacerdote Bartolomeo di Simeri, grazie all'aiuto del conte Ruggero e dell'ammiraglio normanno Cristodulo. Venne dedicata a "Santa Maria Nuova Odigitria", anche se è conosciuta con il nome di "Santa Maria del Patìr", o semplicemente "Patire" (dal greco Patèr = padre), attribuzione data come segno di devozione al padre fondatore. Le vicende della formazione della chiesa sono narrate nel Bios di S. Bartolomeo di Simeri. Nel Bios racconta che il santo siciliano viveva in una laura nei pressi di Rossano, dove ben presto venne raggiunto da discepoli desiderosi di seguire il suo esempio. La Vergine, apparsagli in sogno, ispirò al santo il desiderio di fondare in quel luogo un monastero a Lei dedicato. Per avere i mezzi e i fondi necessari, Bartolomeo si rivolse ad un personaggio eminente della corte normanna: Cristodulo, ammiraglio della flotta normanna di Sicilia. Per suo tramite, il santo fu presentato alla contessa Adelaide, che lo accolse con favore ad approntò con molta generosità i mezzi necessari per la costruzione del monastero. Il monastero divenne per tutti Santa Maria τοũ πατρός, del Padre , per la presenza e la fama di Bartolomeo.

Fig.1 - Santa Maria del Patir.

Oltre al Bios ci sono altri due documenti che ci informano sulla fondazione del Monastero. Il primo, datato al 1103, è una donazione di Ruggero II a Bartolomeo, che vi figura come abate della nuova Odigitria. L’altro è una bolla del 1105 in cui il pontefice Pasquale II sottometteva il monastero alla Santa Sede. La ricchezza del monastero fu assicurata da numerose elargizioni e donazioni di pontefici e personaggi di rilievo. Le sorti del monastero rossanese seguirono infatti quelle del monachesimo greco del sud Italia, che dopo la splendida fioritura di età medievale fu interessato da un lento declino economico, spirituale e culturale. Il monastero venne definitivamente soppresso nel 1806, anche se i religiosi se ne allontanarono solo nel 1830.

Del complesso monastico rimangono ora i ruderi di un chiostro, frutto però di rifacimenti posteriori, e la chiesa, che nonostante le spoliazioni, i restauri, frequenti terremoti che la colpirono minandone parzialmente le strutture, mostra sostanzialmente le forme originali. E’ una costruzione in pietra, adornata da una cornice di conci e mattoncini su mensole che percorrono l’intero edificio, eccetto il lato settentrionale. Gli elementi decorativi più interessanti si trovano nella zona absidale. Decorazioni cromatiche si trovano anche presso i portali laterali: nel portale meridionale, fiancheggiato da due colonne con capitelli e mensole decorate, abbiamo un originale motivo di fiori stilizzati, mentre in quello settentrionale, anch'esso fiancheggiato da due colonne, vi è nella ghiera un motivo a saetta. Una serie di arcatelle cieche scandite al ritmo di cinque da lesene poggianti su uno zoccolo, percorre invece le tre absidi, ed ogni arcatella è decorata a sua volta da un tondo che racchiude un motivo stellare realizzato con tarsie di vario colore. La facciata è invece piuttosto semplice, ed evidenzia la tripartizione interna. Vi si apre un unico portale, fiancheggiato da colonne con capitelli decorati e sormontati da due oculi, il superiore probabilmente coevo alla ricostruzione, l’inferiore più tardo.

L’interno è una basilica a tre navate, di cui la centrale più alta delle laterali, con copertura ad incavallature lignee. Le navate sono divise da arcate a sesto acuto poggianti su colonne in muratura, impostate su basi , forse di rimpiego, prive di capitello. Un arco trionfale e due laterali più piccoli immettono nell'area del presbiterio, sopraelevato rispetto al resto della costruzione e suddiviso in tre ambienti absidati. La tripartizione dello spazio presbiteriale, tipico delle costruzioni legate alla cultura orientale, risponde a criteri di ordine liturgico: nel vano centrale, più ampio, detto Bema, avviene la liturgia eucaristica vera e propria; il vano a sinistra dell’altare, il Diakonikos, è utilizzato per i riti della vestizione e per la conservazione di libri, vasi sacri e altri oggetti di culto; infine nel vano di destra, detto Protesis, avvengono i riti preparatori alla liturgia vera e propria. Tutti e tre i vani presentano una copertura a cupola. Il monastero presenta una decorazione pavimentale in mosaico nella navata centrale ed in opus sectile presso le navate laterali. Tale decorazione doveva svolgersi per gran parte del pavimento attuale. In una visita apostolica del 1587 parla di un “pavimento tutto de marmi, ad usanza delle chiese di Roma et bona parte, circa il terzo de detto pavimento, è fatto et lavorato a dadi de marmo con animale at mostri depinti..” In seguito all'abbandono della chiesa, i baroni Compagna utilizzarono parte di questi marmi per la decorazione della loro cappella di famiglia nella vicina Schiavonea. Non rimane dunque che una vasta area decorata presso la navata centrale, il cui disegno presenta elementi vegetali (fiori e foglie) intrecciati fra loro a formare delle rotae, dischi di oltre due metri di diametro, con figure di animali mitologici: un liocorno, un centauro (fig2), un felino(fig.3) e un grifone (fig4). Troviamo anche un’iscrizione che recita che BLASIUS VENERABILIS ABBAS HOC TOTUM IUSSIT FIERI. Blasio è documentato come abate di Santa Maria del Patir nel 1152: intorno a questi anni è possibile datare l’opera musiva. Nelle navate laterali rimangono invece resti di decorazioni in opus sectile con motivi geometrici, del tutto simili a quelli ritrovati nel pavimento musivo della vicina San Adriano a San Demetrio Corone.

Il pavimento non è l’unico vanto della costruzione: la relazione del 1587 ci informa della suppellettile ed oggetti liturgici di grande valore, di cui oggi non rimane nulla, eccetto una tavola con la Vergine Odigitria donata da Atanasio Calceopilo nel periodo del suo archimandriato ed oggi presso il Museo Arcivescovile di Rossano.  Un altro oggetto è il fonte battesimale conservato nel Metropolitan Museum of Art di New York (fig.5), reca un iscrizione incisa lungo il bordo data al 1137 su commissione di Luca, successore di Bartolomeo come igumeno del Patirion. L’oggetto mostra nella forma e nella decorazione contatti e derivazioni d’ambiente nordico rare in Italia. L’autore forse fu Gandolfo artefice della conca battesimale oggi conservata presso il Museo Nazionale di Messina, proveniente dal monastero di S. Salvatore a Messina. Luca commissionò il prezioso recipiente patirense a Gandolfo, un artigiano d’oltralpe.

Fig. 2 - Santa Maria del Patir, mosaici, liocorno, centauro e iscrizione.
Fig. 4 - Fonte battesimale conservato nel Metropolitan Museum of Art di New York.

 

Bibliografia

Barralt X., Altet l., Il mosaico pavimentale, in La pittura in Italia. L’Altomedioevo, Milano 1994.

Barralt X., Altet l., Volte e tappeti musivi in Occidente e nell’Islam, in Il mosaico, a cura di C. Bertelli, Milano 1998.

Batifol P., l’abaye de Rossano contribution a l’historire de la vaticane (Paris 1891),London 1971,pp.6,55,60, Vat.2000,2050.

Burgarella F., “Rossano in epoca bizantina”. Daidalos, 2003, Vol. III, n. 3, pp. 10-15.

Colafemmina, C., San Nilo di Rossano e gli ebrei, in Atti del Congresso Internazionale su S. Nilo di Rossano (28 settembre – 1 ottobre 1986), Rossano-Grottaferrata 1989, pp. 119-130.

Gradilone, A., Storia di Rossano, Cosenza 1967.

Guiglia Guidobaldi, s.v. Pavimento, in Enciclopedia dell’Arte medievale, vol. IX, Roma 1998.

Guilou A., Le liber visitationis d’athanase Chalkeopolos (1457-1458). Contribution à l’historie du monachismo grec en Italie meridionale (studi e testi 206), Città del Vaticano 1960,pp.140-147, 271-273; F. Russo“ Storia ed arte del Patirion Rossanese”, in fede arte XII 1964,pp. 308-312; F. Russo, regesto vaticano per la Calabria, II, Roma 1974,nn. 1190, 11970-11976.

Mercati S. G., ” Sul tipico del monastero di S. Batolomeo di Trigoria tradotto in italo-calabrese  in trascrizione greca da Francesco Vucisano”, in ASCL VIII, 1938, p.205;S. G. Mercati, “Sulle reliquie del monastero di S. Maria del Patir presso Rossano “, in ASCL IX, 1939, pp. 1-14.

Nordhaggen P.J. , s.v. Mosaico, in Enciclopedia dell’Arte medievale, vol. VIII, Roma 1997.

Orsi P., Le chiese basiliane della Calabria, Firenze 1929,pp.113-151.

Rende M., Cronistoria del monastero e chiesa di S. Maria del Patir(Napoli 1717), Ris. Anast. Rossano scalo 1994.

 

Sitografia

http://www.artesacrarossano.it/codex.php


PALAZZO CARACCIOLO SAN TEODORO

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Gioiello nascosto e luogo di incredibile bellezza, palazzo Caracciolo San Teodoro sorge sulla Riviera di Chiaia, uno dei cosiddetti quartieri chic di Napoli. Nel '500 qui sorgevano soltanto poche case di pescatori, un mercato del pesce e qualche altra povera attività; successivamente nel '600 e nel '700, vista la splendida posizione, cominciarono ad essere edificate case di villeggiatura e la zona fu lastricata nel 1697 ad opera di Luis de la Cerda, duca di Medinacoeli, che aggiunse anche <<tredici fontane, sedili e un doppio filare di alberi>>. Tale sistemazione però fu alterata nel corso del tempo fino a quando, tra il 1778 e il 1780, Ferdinando IV di Borbone decise di realizzare un grande giardino pubblico, la Villa Reale, affidando il progetto a Carlo Vanvitelli, figlio di Luigi. Ciò determinò un vero e proprio incremento di ville e palazzine nobiliari, che permise quindi l'eliminazione delle zone paludosi qui presenti e l'edificabilità del luogo mediante le cosiddette "colmate a mare", ossia un "riempimento" della zona antistante la spiaggia, che modificò irreversibilmente la linea di costa. In questo "fervore edilizio" si colloca palazzo Caracciolo San Teodoro.

Fig. 1: una veduta di Chiaia del 1800 ad opera di Caspar Van Wittel

Palazzo Caracciolo San Teodoro

È il classico palazzo che non avendo una facciata particolarmente imponente può passare inosservato, ma se si ha la curiosità di andare oltre l’ingresso ciò che si scopre lascia senza fiato.

Fig. 2: facciata

Costruita agli inizi del 1800, la residenza è un chiaro esempio di Neoclassicismo: la facciata è lunga e bassa, a tre ordini, idealmente divisa in due parti da due ordini di vetrate centrali sovrapposte; il colore utilizzato per l’intera superficie, un rosso pompeiano, fa capire non solo le intenzioni dell’architetto che ne curò la realizzazione, Guglielmo Bechi, ma anche la sua specifica preparazione. Costui era non solo un architetto toscano molto rinomato alla corte dei Borbone, ma anche un archeologo. Tenne la cattedra di storia dell'arte all'Università e fu il curatore delle collezioni del Real Museo Borbonico; diresse inoltre gli scavi di Pompei dal 1851 al 1852, anno della sua morte. La progettazione del palazzo Caracciolo San Teodoro piacque talmente da fargli affidare la realizzazione di Villa Pignatelli.

Palazzo Caracciolo San Teodoro: l'interno

Dal portico una grande scala in marmo bianco, molto scenografica, conduce al primo piano, ove sono ubicate le sale.

Fig. 3: lo scalone

Si può dire che sostanzialmente l'edificio, che occupa una superficie di 600 metri quadri, sia diviso in due parti. Una prima parte è costituita dalle gallerie, trasformate in salottini, ove si aprono le grandi vetrate della facciata. Inondando di luce naturale l'interno e alleggerendo all'esterno la superficie della facciata, e lasciando intravedere i sontuosi ambienti interni, costituiscono sicuramente gli ambienti più particolari del palazzo. Qui la suggestione pompeiana è molto forte, ed è in generale l’ambiente ove meglio si respira il lusso e lo sfarzo di quello che un tempo era uno dei palazzi più eleganti della Riviera di Chiaia. Le colonne danno un ritmo compositivo alle gallerie che ne spezza la monotonia, ritmo ripreso dai tavoli e dai divani che suddividono lo spazio in ambienti più piccoli. Nonostante la funzione di raccordo fra le varie sale, le gallerie si configurano come ambienti autonomi, vero diaframma fra l’interno e l’esterno. Inoltre affacciano sul giardino del palazzo e sul mare, dando una sensazione di continuità con il paesaggio esterno.

Fig. 4: la galleria

Una seconda parte, invece, a cui si accede tramite la Galleria, è caratterizzata da una fuga prospettica di tre salotti che terminano nel salone da ballo. Tutta la decorazione riprende temi che si ritrovano nelle pitture pompeiane, principalmente fiori e figure mitologiche declinate al femminile. Tutti gli ambienti hanno conservato gli arredi originali come tavoli e specchiere. Dalla Galleria del primo piano, girando a sinistra, si apre una successione di sale: il Salone dei Fauni, caratterizzato da una decorazione con fauni intenti a godersi i piaceri della vita, e la Sala delle Centauresse, rarissima declinazione al femminile di questo tema tipico delle decorazioni mitologiche (a tal punto che il Metropolitan Museum di New York gli ha dedicato una pubblicazione apposita).

Fig. 5: particolare dell'affresco delle Centauresse

Ultimo è il cosiddetto Salone dei cigni, un ambiente molto strano ad una prima occhiata: ciò che infatti salta agli occhi è la presenza di alcuni grandi specchi che sembrano messi a casaccio sulle pareti, in quanto ne coprono parzialmente gli affreschi paesaggistici. In realtà fu una scelta precisa del Bechi, che intese così coprire dei precedenti affreschi che non si armonizzavano con la decorazione da lui immaginata. La sala è coperta da una decorazione a soffitto che imita un padiglione di tessuto ocra ben gonfio, con le tende che illusionisticamente ricadono drappeggiate agli angoli.

Fig. 6: sala dei cigni

Dal salone dei cigni si passa al salone da ballo, di forma rettangolare ma che alle estremità presenta due nicchie laterali introdotte da colonne e un arco trionfale. Alle pareti paraste ioniche scanalate scandiscono le varie aperture, mentre il soffitto, a volta, presenta un'originale decorazione a stucchi scanalati sormontato da una cupoletta riccamente affrescata. Il pavimento, ligneo, è connotato da una decorazione a stelle.

Dalla parte opposta invece si aprono altre tre sale, due più piccole e la grande Sala da pranzo, di forma rettangolare, arricchita da un decorazione parietale in perfetto stile pompeiano, ove ben si nota la vocazione da archeologo del Bechi; un tavolo rettangolare in legno e marmo con lamine d'oro è collocato nel bel mezzo della stanza, bianca e oro, in cui troneggia un imponente lampadario dorato, dono dei Borbone. Imponenti specchiere e un pavimento a lastroni connotano l'ambiente, sormontata da un soffitto bianco decorato con motivi geometrici e festoni di frutta e fiori. Le porte che affacciano sulla sala sono sormontate da pitture scultoree di personaggi classici e motivi a girali.

Fig. 8: la Sala da pranzo

Altri due piccoli ambienti qui presenti sono la Sala della musica, bianca con decorazioni a colonne impreziosite da rappresentazioni di rampicanti, e la Sala cinese, in azzurro e bianco.

https://www.residenzedepoca.it/matrimoni/s/location/palazzo_sa_teodoro/

https://www.napoli-turistica.com/palazzo-san-teodoro-napoli/

http://www.sirericevimenti.it/it/portfolio/palazzo-san-teodoro/

http://www.palazzosanteodoroexperience.com/

http://www.palazzidinapoli.it/quartieri/chiaia/riviera-di-chiaia/

https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2012/13-febbraio-2012/via-caracciolo-lungomare-costruito-una-colmata-1903257733298.shtml


IL PONTE DI ANNIBALE O SANT’ANGELO

A cura di Antonio Marchianò

Il ponte è situato a Scigliano lungo il tragitto del fiume Savuto in provincia di Cosenza. Si tratta di un ponte di epoca romana risalente al periodo che va dal 121 al 131 a C. cioè durante la costruzione della via Popilia. Questo ponte assieme al ponte Fabricio dell’Isola Tiberina (69 a C.) ed il ponte Emilio (179 a C.) è uno dei più antichi ed importanti d’Italia.

Fig. 1: il ponte di Annibale

E’ anche conosciuto come il ponte di Annibale o Ponte Sant'Angelo. Il primo nome si riferisce al passaggio di Annibale con le sue truppe sopra la struttura, anche se non esistono documenti attendibili su questa ipotesi.  Il secondo nome, invece, fa riferimento alla tradizione popolare che narra uno scontro tra S. Angelo e il diavolo, quest’ultimo sarebbe stato scagliato dal santo contro il ponte, dove anticamente vi era una fessura, poi ricucita durante la ristrutturazione del 1961. Il ponte fu costruito con archi in tufo calcareo rosso prelevati da una cava sulla parete di una collina vicinissima al ponte. Ancora oggi si vedono i tagli sulla parete, operati dagli schiavi al servizio dell’esercito romano. I blocchi venivano precipitati a valle e cadevano proprio dove sorge il ponte. Questi massi venivano lavorati o messi in opera o adoperati per fare la calce nella fornace adiacente, anch'essa ritrovata in passato. Le fondazioni del ponte si trovano a profondità di circa 1,50 m dal piano attuale del greto del fiume. Sono costruite da una platea di due ordini di blocchi squadrati e sovrapposti per una larghezza di 5 m e una lunghezza pari a quella del ponte compresa la rampa di salita dell’estremo più basso. L’altezza della platea e circa di 1,50 m. La volta è costituita da due archi concentrici a tutto sesto di blocchi squadrati di tufo secco sfalsati. Il secondo arco è in tufo per le parti prospettiche e in pietrame e pozzolana all'interno, a copertura del primo arco portante. L’arco portante è impostato sulla platea di fondazione, senza pile d’appoggio, e il secondo arco ha solo funzione di rinforzo e di contrappeso al primo.

Fig. 2: il ponte

La lunghezza dell’arco è di 21,50 m. mentre la larghezza è di 3,55 (fig.2). L’altezza massima è di 11 m. rispetto all'attuale piano del fiume. I romani in virtù dell’importanza del ponte, lo costruirono in modo da sfidare il tempo e le intemperie, comprese le piene del Savuto. Il piano di calpestio, la cui larghezza totale è di 48m., è stata costruito in muratura con pietre di fiume e pietra pozzolana. Da un lato troviamo una tipica rampa romana che poggia sulla roccia della collina. Sull'altro lato poggia invece su un arco trasversale chiuso da muri dallo spessore di 50 cm.

Accanto al ponte, nei suoi estremi esistono invece, i resti di due garrite, utilizzate per riparare le truppe a protezione del ponte. Vicino al ponte, invece, sulle fondamenta di caseggiati romani è stata costruita una vecchia casa colonica, rudere anch'esso e in parte sede della chiesetta di S. Angelo (fig.3).

Fig. 3: veduta del ponte

L’antica tradizione popolare diede a questo ponte il nome di Annibale, ma secondo gli studi condotti da Eduardo Galli nel 1906 negano questa convinzione. Lo studioso afferma che “ i ritrovamenti, nelle vicinanze, di embrici, di vasi, di monete imperiali, hanno generato nelle anime semplici dei paesani la falsa credenza che Annibale, prima di partire dall'Italia, ci abbia dimorato lungamente costruendo perfino il ponte e che perciò porta il suo nome”. A smentire questa tesi è, lo stile prettamente romano, l’analisi di cippi miliari sulla via Popilia, e la data di costruzione della via Popilia, tra il 131 e il 121 a C. cioè ottanta anni dopo il passaggio del generale. L'origine romana del Ponte è dimostrabile da diverse ipotesi e da alcuni reperti recuperati. Durante l'ultimo restauro de ponte sono state rinvenute monete antiche, a tal proposito Saturno Tucci, in uno dei suoi libri scrive: "Sul piedritto a monte venne ricucita la famosa lesione che, a suo tempo, permise di scoprire una camera vuota, all'interno della quale gli operai si sbizzarrirono a scavare alla ricerca di un antico tesoro che la diceria popolare voleva fosse lì nascosto. Furono trovate, invece, alcune monete che vanno dal periodo greco (350-194 a.C.) al periodo romano fino ai "Vespri Siciliani" (1200-1280 a.C.)”.

Attualmente il ponte è uno tra monumenti recensiti e sotto la protezione dell’Unesco ma, pur essendo uno dei ponti più antichi d’Italia, è fuori da ogni circuito turistico sia regionale che nazionale.

Bibliografia

De Sensi Sestino G., Tra l’amato e il Savuto. Tomo II: studi sul Lametino antico e tardo antico, Soveria Mannelli: Rubbettino, 1999.

Galli E., Intorno ad un ponte della Via Popilia sul fiume Savuto, Catania: Giannotta, 1906.

Tucci S., Storia del ponte romano sul fiume Savuto, Soveria Mannelli: Calabria letteraria editrice 1991.


IL BASTIONE DI MALTA A LAMEZIA TERME

A cura di Felicia Villella

Introduzione: il Bastione di Malta, stemma araldico della città di Lamezia Terme

L’imponente bastione medievale che si trova a guardia della città di Lamezia Terme accoglie con la sua maestosità i visitatori che si dirigono in città provenendo dal litorale costiero. Protagonista indiscusso della storia della città lametina, è stato scelto dal pittore Giorgio Pinna, molto attivo nella piana lametina nel secolo scorso, per essere rappresentato sullo stemma araldico della stessa. Si tratta di uno dei monumenti architettonici meglio conservati della zona e rientra nella schiera di torri riferite al sistema difensivo di epoca medievale delle coste calabresi.

L’edificio risale al XVI secolo: sotto le pressioni del viceré di Napoli Pedro da Toledo che lo volle fortemente, fu eretta una struttura possente che potesse far fronte alle sempre più frequenti incursioni saracene che sopraggiungevano dal mare.

Attualmente il bastione di Malta risiede nel territorio di Gizzeria lido, un tratto di costa che all'epoca della sua realizzazione rientrava nella giurisdizione dell’abbazia benedettina di Sant’Eufemia Vetere; nello specifico il monumento godeva della potestà degli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme, meglio noti con il famoso nome di Ordine dei Cavalieri di Malta, gestori del vicino feudo di Sant’Eufemia Vetere. È proprio al loro ordine che si deve la costruzione materiale della struttura e delle altre torri che si snodano ad intervalli più o meno regolari lungo la costa.

Descrizione architettonica del bastione di Malta

L’edificio è composto essenzialmente da un tronco di piramide a base quadrata costituito da spesse mura, svasato al primo livello. Presenta quattro caditoie ricavate nel coronamento liscio senza archeggiature e beccatelli in rilievo. Fatta eccezione per pochissimi interventi visibili anche ad occhio nudo, come nel caso di due strutture presenti sul terrazzo e qualche apertura nella scarpa, la torre è stata realizzata in un unico periodo edilizio.

Il primo livello è composto da un solo ambiente sormontato da volte a botte, mentre è nel secondo livello che si può apprezzare quello che doveva essere l’ingresso originario. Sul prospetto principale è, infatti, presente uno stemma a scudo che campeggia proprio sull'ingresso; si tratta dello scudo del Balì Fra Signorino Gattinara, recante un'iscrizione datata 1634 che gli attribuisce il merito di aver armato il bastione di macchine belliche a difesa delle incursioni da parte dei corsari, ammodernandolo.

Il livello superiore, composto da tre ambienti dalle dimensioni più ridotte rispetto al precedente piano, presenta una merlatura esterna che lo circonda interamente; su di esso si sviluppa un’ampia terrazza all'interno della quale è fissato un punto trigonometrico noto. Non a caso, vista l’imponenza e la sua posizione a ridosso della strada principale, già in passato le popolazioni lo consideravano un punto di riferimento fondamentale per l’orientamento; partendo dall'entroterra, infatti, chi si metteva in viaggio per raggiungere la zona marina lo chiamava “a vesta a campana”, paragonando la sua forma svasata alla “la gonna a campana”, che ricorda le ampie gonne degli abiti folkloristici indossate dalle donne locali.

Leggende e curiosità

Non di rado ci si trova di fronte a monumenti su cui i popoli hanno fantasticato, tramandando dicerie che col tempo sono diventate vere e proprie leggende; anche in questo caso, per così dire, la storia si ripete. Durante gli scavi archeologici che hanno interessato il vicino castello normanno-svevo di Nicastro, infatti, il rinvenimento di un'ampia cisterna ha fatto credere ai non esperti del settore che si trattasse di un enorme passaggio segreto scavato nel sottosuolo, direttamente collegato al bastione di Malta, così che, in caso di incursioni, un messo potesse raggiungere con una via preferenziale il palazzo e avvisare i castellani; si tratta ovviamente di una mera invenzione.

Il bastione di Malta fu usato anche durante la seconda guerra mondiale assolvendo il suo ultimo compito da fortezza militare in quanto fu usato come postazione antiaerea.

Attualmente il Bastione di Malta è proprietà del comune di Lamezia Terme, mentre precedentemente, con la vendita dei beni ecclesiastici imposta da Giuseppe Bonaparte del Regno di Napoli, era diventato di proprietà privata.

 

Bibliografia e sitografia

Casiello De Martino S., San Giovanni a Mare: storia e restauri, Arte Tipografica 2005;

Castanò F., Rossi P, Drawings and archive documents of Hierosolomytan Castles in Southern Italy. In: González Avilés, Ángel Benigno (Ed.). Defensive Architecture of the Mediterranean. XV to XVIII Centuries: Vol. VI: Proceedings of the International Conference on Modern Age Fortifications of the Mediterranean Coast, FORTMED 2017. Alacant: Publicacions Universitat d’Alacant, 2017, pp. 161-168;

De Sensi Sestito G., Tra l'Amato e il Savuto - Volume 1, Rubbettino editore 1999, pag. 305;

Mazza F., Lamezia Terme: storia, cultura, economia, Rubbettino editore 2001;

Occhiato G., Rapporti culturali e rispondenze architettoniche tra Calabria e Francia in età romantica: l'abbazia normanna di Sant'Eufemia, Mélanges de l'école française de Rome 1981, pp. 565-603;

www.comune.lamezia-terme.cz

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

www.comune.lamezia-terme.cz.;

Castanò F., Rossi P, Drawings and archive documents of Hierosolomytan Castles in Southern Italy. In: González Avilés, Ángel Benigno (Ed.). Defensive Architecture of the Mediterranean. XV to XVIII Centuries: Vol. VI: Proceedings of the International Conference on Modern Age Fortifications of the Mediterranean Coast, FORTMED 2017. Alacant: Publicacions Universitat d’Alacant, 2017. ISBN 978-84-16724-76-5, pp. 161-168;

Occhiato G., Rapporti culturali e rispondenze architettoniche tra Calabria e Francia in età romantica: l'abbazia normanna di Sant'Eufemia, Mélanges de l'école française de Rome 93.2 (1981): 565-603;

<h3><strong>GALLERIA FOTOGRAFICA</strong></h3>

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CHIESA DI SAN MARCO A ROSSANO CALABRO

A cura di Antonio Marchianò

La piccola chiesa di San Marco sorge all'estremità sud-orientale nel centro storico di Rossano su un banco di roccia tufacea. Edificata intorno al X secolo, probabilmente dopo il terremoto che colpì Rossano nel 950 d.C., la chiesa di San Marco è considerata uno dei massimi esempi di architettura religiosa bizantina in Calabria. Originariamente nasce come oratorio bizantino dedicato all'ascesi comunitaria dei monaci. I monaci eremiti vivevano nelle sottostanti grotte di tufo, utilizzando il piccolo oratorio per le preghiere comunitarie, per la meditazione, per i canti corali, e soprattutto per la lettura dei testi sacri. La struttura pare che sia stata fatta costruire a proprie spese da Euprassio, protaspatario delle Calabrie, che a quel tempo dimorava a Rossano. Egli edificò questa chiesa, che ai tempi di San Nilo era dedicata a Santa Anastasia, ed in seguito a San Marco. Molti credono che in questo luogo, prima che Euprassio avesse disposto di fabbricarvi questa chiesa, ne esistesse un’altra dedicata a San Marco, che forse andò in rovina.

Fig.1 - Chiesa di San Marco.

La struttura originaria presenta strette affinità con la Cattolica di Stilo. Di forma quadrata e pianta a croce greca, con cupola centrale e quattro volte intorno, tipicamente bizantine, la chiesa di San Marco presenta anche quattro pilastri che reggono la cupola centrale, terminanti con capitelli ornati. La facciata orientale è adornata da tre absidi semicircolari, con piccole finestre bifore in alto a transenna di stucco. L'interno dell'oratorio (fig.2) è diviso in nove riquadri da quattro pilastri ciascuno, sul riquadro centrale e su quelli angolari si levano le cupole. La struttura ha subito nel tempo una serie di aggiunte e manomissioni oltre a restauri resi necessari dai danni del terremoto del 1836, che tuttavia non ne hanno compromesso la fisionomia originale. Sul lato sinistro, quello dell'ingresso, sorgeva un pseudo campanile addossato alla cupola angolare, che nell'intenzione del costruttore locale doveva simulare una torretta quadrata sormontata da cupola.

Fig.2 - Chiesa di San Marco, interno.

Numerose aggiunte di abbellimento furono compiute in età barocca, quali il soffitto “di tavole rusticamente a rosoni” e un nuovo altare. Nel secolo scorso la chiesa è stata utilizzata come cimitero dei colerosi. Fra il 1926 e il 1931, a cura della soprintendenza alle antichità bruzio-lucane, fu condotta una campagna di restauro grazie alla quale è emerso sul muro di sinistra, in fondo al presbiterio, un frammento di affresco raffigurante una Madonna Odigitria (fig.3). L’affresco è stato datato al XIII secolo ed è l’unico resto di una decorazione pittorica originariamente molto estesa.  Il recente restauro dell'edificio avvenuto tra il 1977 e il 1980 ha portato alla luce due fosse, una delle quali destinata alla sepoltura comune dei cadaveri, l'altra invece doveva essere una sorta di passaggio segreto che conduceva direttamente alla Cattedrale di Rossano e quindi fungeva da possibile via di fuga. Alcuni pezzi scultorei come la mensa d'altare (fig.4), dal bordo decorato a motivi geometrici  e un frammento scultoreo decorato a foglie ed un'acquasantiera con un fiorone scolpito a risparmio.

Bibliografia

Burgarella F., “La Calabria bizantina (VI-XI secolo)”. In San Nilo di Rossano e l’Abbazia greca di Grottaferrata.

Burgarella F., “Rossano in epoca bizantina”. Daidalos, 2003, Vol. III, n. 3, pp. 10-15.

Fiorenza E., “La Cattolica di Stilo”. Laruffa Editore, Reggio Calabria 2016.

Musolino G., Santi eremiti italo greci. Grotte e chiese rupestri in Calabria. Rubbettino 2002, pag. 105.

Loiacono P., Restauri a monumenti della Calabria e della Basilicata / d’Italia, Anno 25, ser. 3, n. 1 (lug. 1931), p. 43-47.

Kruautheimer R., Architettura paleocristiana e bizantina, Torino 1986, p. 380.

Roma G., “Monasteri bizantini fortificati sul territorio della Calabria settentrionale. Problemi archeologici e Lettura.”. In Histoire et culture dans l’Italie byzantine: Ecole Française de Rome, 2006, Collection de L’Ecole Française de Rome Vol. 363, pp. 505-514.


LA MORTELLA: UN GIARDINO INCANTATO

A cura di Stefania Melito

Quando l’amore plasma la natura e una follia si trasforma in stupenda realtà. È la descrizione che più si avvicina alla storia del giardino “La Mortella”, conosciuto anche come Museo-giardino, che si trova ad Ischia, e che può davvero sembrare, in alcuni tratti, una favola moderna.

La storia de la Mortella

I protagonisti di questa storia che sembra davvero una favola sono due: Susana Valeria Rosa Maria Gil Passo, vivace argentina dagli occhi verdi, e William Walton, geniale compositore britannico.

Susana, nata nel 1926, è la tipica ragazza argentina di buona famiglia: colta, raffinata, apprende l'inglese prima dello spagnolo. Sin da piccola però si rivela uno spirito ribelle e anticonvenzionale, tant'è che a 22 anni, cosa del tutto inedita per una ragazza della sua estrazione sociale, va a lavorare al Consolato britannico a Buenos Aires, dove incontra William Walton. Compositore di grande fama e molto apprezzato dai suoi contemporanei, nato nel 1902, Walton ha 46 anni quando arriva in Argentina per delle conferenze. E' un tipo deciso, ribelle, anticonformista. Susana gli organizza la conferenza stampa di presentazione al Consolato, Walton la nota e improvvisamente decide di sposarla. Con un coraggio che rasenta la pazzia la sera stessa le chiede di sposarlo. 24 anni di differenza sembrano non essere un ostacolo per i due, che nel giro di due mesi si sposano e partono per l'Europa, destinazione Italia. Nel 1949 si stabiliscono sull'isola d’Ischia, in un primo momento in una casa in affitto. Entrambi appassionati di natura, piante rare e giardini, nelle loro peregrinazioni sull'isola individuano un terreno che li affascina: è una brulla distesa di roccia lavica che guarda il mare, costituito da una valle e la soprastante collina, in località Zaro a Forio. Non è la solita terrazza sul mare, anzi ha un qualcosa di abbandonato e solitario, ed è simile a una cava di pietre. Si chiama “le Mortelle”, nome dovuto alle numerose piante di mirto che vi crescono. Comprano questo terreno con l’intenzione di farvi una sorta di giardino esotico e vi costruiscono una villa, che chiamano “La Mortella”, convincendo nel frattempo l’architetto costruttore di giardini Russel Page ad andare a dare vita al loro sogno un po’ folle. L’architetto impiegherà dieci anni per finire il giardino, che verrà costantemente curato e arricchito dalla coppia, trasformandolo in un capolavoro.

Fig. 3: i Walton nella loro casa ad Ischia. https://napoli.repubblica.it/cronaca/2020/03/21/foto/lady_susana_walton_il_decennale_della_scomparsa-251874273/1/#2

Il progetto

Russel Page immagina di dividere la Mortella in due parti: la cosiddetta “Valle”, ossia la parte di terreno che sta ai piedi della collina, e la “Collina” stessa. La prima parte, la Valle, dov'è anche la casa dei coniugi, è stata sviluppata da Page, ha la forma di una “L” ed è caratterizzata da un clima sub-tropicale e ombroso: qui vivono molte specie acquatiche come le ninfee, di cui una, la cosiddetta Victoria, è particolarissima; il primo giorno di fioritura è bianca e di sesso femminile, mentre il secondo giorno diventa rosso scuro e di sesso maschile.  Viene descritta così: <<‘LEI’ sboccia all'imbrunire e resta aperta fino alla tarda mattinata del giorno seguente, poi si chiude. ‘LUI’ si riapre nel tardo pomeriggio con i petali e i sepali mutati in rosso porpora. In una sola notte il fiore cambia sesso e colore, per poi immergersi nelle acque.>> Fa parte della cosiddetta Victoria House, una specie di serra tropicale dove crescono anche altre piante. La serra ospita una sorta di mascherone ispirato ad un'opera di Sir Walton.

Fig. 4_ la Victoria house. Fonte lamortella.org 

Altro arbusto particolarissimo presente qui è il Gingko biloba, un albero-fossile che si credeva fosse estinto fino a quando non fu ritrovato in Cina nel XVIII secolo, e la sua riscoperta destò talmente tanto scalpore che Goethe gli dedicò alcuni versi (Queste foglie d'albero d'Oriente,/che sono state donate al mio giardino,/rivelano un certo segreto,/che compiace me e i saggi./E' forse una creatura vivente chi si è divisa?/son due che hanno deciso/di manifestarsi in uno?/Per rispondere a tale domanda,/ho trovato la giusta risposta:/non noti, nei miei versi,/che son io uno e doppio?)

Fig. 5: Gingko biloba. Fonte lamortella.org

Orchidee e altre specie caratterizzano questa parte insieme a numerose fontane, tra cui si ricorda la cosiddetta Fontana Bassa, dono di Russel Page a sir William in occasione dell'ottantesimo compleanno di quest'ultimo.

La seconda parte, la Collina, è opera di Susana Walton, che ha cominciato la sua creazione nel 1983, anno della morte del marito. È popolato da specie appartenenti per lo più alla macchia mediterranea in quanto, a differenza della Valle, è una sorta di terrazza a strapiombo sul mare con un microclima diverso. Si inizia con il Giardino Mediterraneo, che deve il suo nome alla presenza di piante tipiche dell'area mediterranea, e che ospita il Ninfeo, caratterizzato da una fontana d’acciaio e tre nicchie, e il luogo di sepoltura di lady Walton, una semplice lastra su cui è inciso il suo nome e la scritta "genius loci", lo spirito del luogo.

Fig. 6: la fontana d'acciaio, cosiddetta "Specchio dell'anima". Fonte lamortella.org

La particolarità della "Collina" consiste nella presenza di costruzioni architettoniche particolari: il Teatro greco, che ogni estate ospita concerti di musica sinfonica, ricavato da un lato della collina e fiancheggiato da rose e piante aromatiche.

Fig. 7: il teatro greco. Fonte lamortella.org

Continuando, dopo una foresta di piante tropicali, si giunge in un luogo sopraelevato, colmo di pace e del suono di campane bene auguranti, ove al centro spicca un tempietto Thai;

Fig. 8: il tempio Thai. Fonte lamortella.org

Altro luogo simbolico è il cosiddetto Tempio del Sole, un'antica cisterna a tre vani trasformata in tempio, ove rappresentazioni della Musica si intrecciano ad affreschi raffiguranti le Muse, Apollo e soggetti ispirati alle coppie di amanti di Pompei.

L’angolo più particolare della Collina è la cosiddetta Glorieta, un pergolato di rose rampicanti circondato da un laghetto artificiale di pezzetti di vetro blu, donato dal collezionista americano Andy Cao.

Fig. 10: il laghetto artificiale. Fonte lamortella.org

Nel 1983 sir Walton morì a causa di un cancro; è stato seppellito sotto una roccia in Collina che domina tutto il giardino, la stessa roccia che lui definì “la mia roccia” la prima volta che la vide.

Fig. 11: la roccia di sir William. Fonte la mortella.org

La moglie invece è morta nel 2010. Oggi “La Mortella” è di proprietà di una Fondazione italo-britannica, con a capo il principe Carlo d’Inghilterra, ed è stata trasformata, per volontà di Susana Walton, in un luogo dedicato ai giovani compositori, “un laboratorio critico per lo studio delle opere di William ed un centro di eccellenza mondiale per rappresentazioni di musica, teatro e danza”. Il giardino privato è visitabile nel periodo della fioritura (29 marzo – 4 novembre), e ogni anno sono circa cinquantamila le persone che vengono qui ad ammirare la sua straordinaria bellezza, testimonianza di un sogno d’amore divenuto realtà.

Fig. 11: una bellissima immagine di lady Susana Walton. Fonte lamortella.org

CATTEDRALE DI MARIA SANTISSIMA DI ROMANIA A TROPEA

A cura di Antonio Marchiano

La facciata della cattedrale di Maria Santissima di Romania

La Cattedrale di Maria Santissima di Romania venne edificata a Tropea tra la fine del XII e l’inizio XIII secolo ad opera dei Normanni. Si tratta di un impianto a tre navate divise da pilastri ottagonali sormontati da archi a sesto acuto con doppia ghiera; tre absidi semicircolari concludono le navate. All'esterno risalta in maniera evidente la parete nord caratterizzata da un basamento in cui trova posto una serie di archi sormontata da un ordine di finestre e pseudo finestre caratterizzate da conci calcarei alternati a mattoni e conci di pietra lavica. La parete stessa è interrotta dall'ingresso settentrionale evidenziato da un portale settecentesco in marmo in cui trova posto un rilievo marmoreo riproducente l’icona della Beata Vergine Maria di Romania. La facciata principale è caratterizzata da un grande rosone del XVI secolo, dal portone dell’ingresso principale e da una piccola porta che immette nella navata sinistra. In alto, nel portone più grande, è collocata una scultura marmorea raffigurante la Madonna con il Bambino. Le absidi, interamente ricostruite sulle fondazioni originarie, riprendono il partito decorativo del fianco settentrionale.

Fig. 1 - Cattedrale di Maria Santissima di Romania a Tropea.

Nella prima cappella di destra troviamo alcune sepolture della famiglia Galluppi, risalenti al 1598 e al 1651, e la tomba del filosofo Pasquale Galluppi. Nella seconda cappella è collocato un grande Crocifisso ligneo del XVI secolo. Andando avanti segue l’ingresso laterale meridionale e la tomba della famiglia Gazzetta (1530). Da qui si accede alla sagrestia e alla sala capitolare che ospita i ritratti dei Vescovi della Diocesi e arredi lignei settecenteschi. Ritornando alla navata destra si prosegue e si giunge alla cappella del SS Sacramento e di S. Domenico, che ospita pregevoli altari in marmo policromi e decorazioni del 1740; lateralmente è l’altare di S. Domenico e di S. Francesco di Paola. I pennacchi della volta e delle lunette ospitano tele di Giuseppe Grimaldi raffiguranti il martirio di Santa Domenica. Uscendo dalla cappella, in fondo all'abside della navata destra, vi sono l’organo e l’altare con la Madonna del Popolo, opera di Fra Agnolo Montorsoli (fig.2), seguace del Buonarroti, scolpita nel 1555.

Fig. 2 - Cattedrale di Maria Santissima di Romania, scultura di Fra Agnolo Montorsoli.

Sulla parete dell’abside maggiore è collocata l’icona della Beata Vergine Maria di Romania (fig.3), opera di scuola giottesca attribuita a Lippo Beninvieni (metà del XIV). Il quadro di scuola giottesca, eseguito su tavola di cedro, è stato ritoccato più volte nel tempo con l'aggiunta di quattro angioletti ai lati, e reso rettangolare nella parte superiore, originariamente circolare. La pietà popolare le attribuisce numerosi miracoli che protessero la città da terremoti, pestilenze e dalla distruzione bellica.

Fig. 3 - Cattedrale di Maria Santissima di Romania, Icona.

L'icona miracolosa della Madonna di Romania

La leggenda dice che al tempo delle lotte iconoclaste l’icona fu trafugata da marinai tropeani ad una imbarcazione proveniente dall’Oriente-bizantino sospinta da una tempesta nel porto di Tropea: per questo venne denominata Madonna della Romania. Riparate le avarie, il capitano cercò di ripartire ma la nave rimaneva ferma in rada. Nella stessa notte il Vescovo della città sognò la Madonna che gli chiedeva di rimanere a Tropea e diventarne la Protettrice. Il sogno si ripeté per varie notti. Alla fine il Vescovo, convocati gli alti funzionari e i cittadini, si recò al porto a prendere il quadro della Madonna. Non appena il quadro fu portato a terra la nave ripartì.  Successivamente la Madonna venne ancora in sogno ad un altro vescovo, avvertendolo di un terremoto che avrebbe devastato la Calabria. Questi il 27 Marzo 1638 istituì una processione di penitenza, che coinvolse tutto il popolo tropeano. Durante la processione si scatenò il terremoto che non procurò alcun danno ai tropeani.  Da un altro terremoto, molto più forte e più tragico, furono salvati successivamente i tropeani: quello del 1783 che investì la Calabria intera, ridisegnandone il volto geo-fisico visibile ancora oggi. Da questo avvenimento si rafforzò la devozione di Tropea per questa Madonna a cui i tropeani, riconoscendone l'intercessione benefica, diedero il titolo di Protettrice, e tutt'oggi i tropeani ricordano quel 27 di marzo 1638. Attribuite alla Madonna di Romania furono anche la salvezza dall'epidemia di peste che nel 1660 si espanse a Tropea e in tutto il regno di Napoli e che portò migliaia di vittime e poi, durante la seconda guerra mondiale, la non esplosione di due grandi ordigni bellici, anch'essi custoditi nella cattedrale di Tropea a ricordo di quella tragedia evitata.

Nella navata maggiore troviamo il pulpito settecentesco sotto il quale è collocato un bassorilievo della Natività, opera di Pietro Barbalonga (1598) facente parte, in origine, della cappella Galzerano. Passando dalla navata sinistra, nell'abside troviamo l’altare della Madonna della Libertà in marmo carrarese (statua del XVII) con un pregevole tabernacolo marmoreo di scuola toscana del XV secolo, commissionato dal Vescovo Pietro Balbo, di origine Toscane. Sull'uscita laterale verso il nord, un bassorilievo raffigurante la Resurrezione, attribuito al Gagini (metà del XVI secolo) e due tondi raffiguranti l’Annunciazione, dello stesso periodo. Purtroppo la chiesa ha subito numerosi rimaneggiamenti nei secoli a causa di terremoti ed incendi, fu riportato al suo stile architettonico originario con gli interventi di restauro del 1927-1931 che cancellarono quasi ogni traccia in stile Barocco e Neoclassico.

 

Bibliografia

De Sensi G., Sestito e Antonio Zumbo, Il Territorio in età antica, in Tropea - Storia, Cultura, Economia, a cura di Fulvio Mazza, Soveria Mannelli 2000.

Foti G., Attività della Soprintendenza archeologica della Calabria nel 1980, Atti XX CSMG, Istituto per la storia e l'archeologia della Magna Grecia, Taranto 1981.

Leone G., La Calabria dell’arte,: Città Calabria Edizioni, gruppo Rubbettino, 2008, pp. 31-32.

Pugliese F., Guida artistica, in Tropea, a cura di Pasquale Russo Vibo Valentia 2002.


IL DUOMO DI SALERNO E LA CRIPTA

A cura di Stefania Melito

INTRODUZIONE

La cattedrale primaziale metropolitana di Santa Maria degli Angeli, San Matteo e San Gregorio Magno, altresì detta Duomo di Salerno, o Cattedrale di San Matteo, o semplicemente San Matteo per i salernitani, è la chiesa principale della città. Il suo titolo di cattedrale è in realtà solo onorifico, in quanto essa è una basilica minore, ma si fregia del titolo di cattedrale in quanto riveste particolare importanza per il suo territorio e per la Chiesa.

Fig. 1: Di Berthold Werner, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=32936645

LA STORIA DEL DUOMO DI SALERNO: ROBERTO IL GUISCARDO

Costruito tra il 1076 e il 1084 quando era arcivescovo Alfano I, il duomo di Salerno fu voluto da Roberto il Guiscardo, personaggio fondamentale per la storia di Salerno. Sposo in seconde nozze della principessa longobarda Sichelgaita di Salerno, principessa guerriera che secondo la leggenda lo accompagnava in battaglia cavalcando al suo fianco, unì normanni e longobardi sotto un'unica bandiera formando di fatto un impero che si estendeva dalla Sicilia a Malta e comprendeva tutta l'Italia Meridionale. Strinse un patto d'alleanza con il papa Gregorio VII, dopo averlo salvato dall'assedio delle truppe imperiali di Carlo IV a Castel Sant'Angelo nel 1084 e aver saccheggiato Roma; il pontefice quindi si trasferì a Salerno sotto la protezione del duca.

A questo si aggiunse un altro episodio, a metà tra mito e leggenda, che concorse alla fondazione della chiesa, ossia la traslazione delle spoglie di San Matteo. Il santo infatti morì in Etiopia e fu sepolto a Velia, ove rimase per circa 500 anni. Da lì, nel 954, apparve in sogno ad una donna del posto, Pelagia, e a suo figlio, il monaco Atanasio, pregandoli di disseppellirlo: il monaco voleva condurre la salma a Costantinopoli, ma non riuscì a partire dal porto di Amalfi. Allora nascose la salma in una chiesa nei pressi di Casal Velino, dove il vescovo della diocesi di Paestum Giovanni la prelevò per condurlo a Capaccio. Dalla Cattedrale di Capaccio le spoglie furono poi portate a Salerno, ove giunsero il 6 Maggio del 954 d.C. e deposte nell'aula Sanctae Dei Genitricis, ossia il luogo che sarebbe poi diventato il duomo.

DESCRIZIONE DEL DUOMO: LA PORTA DEI LEONI

Il Duomo di Salerno presenta una prima facciata, ciò che resta della chiesa originale, con una porta fiancheggiata da due statue: una di un leone, simbolo della potenza della Chiesa, e una di una leonessa con il cucciolo, simbolo della Carità, a cui si accede tramite una doppia scala settecentesca di marmo che è andata a sostituire quella originale in pietra. Sul portone, un cartiglio che ricorda l’alleanza fra Salerno e Capua e decorazioni fitomorfe che alludono alla Passione di Cristo, nonché altre due rappresentazioni di animali: una scimmia, simbolo dell'eresia scacciata, e una colomba che mangia dei datteri, simbolo dell'anima che gode dei piaceri ultraterreni.

Fig. 2: la porta dei leoni

Dalla facciata si passa ad un quadri-portico, in cui è molto evidente il retaggio delle dominazioni arabe e normanne nonchè la predominanza dello stile romanico: tale portico è infatti uno degli unici esemplari di porticato romanico in Italia. Esso è composto da una fila inferiore di colonne di recupero, provenienti da Paestum e necropoli vicine, sormontate da dischi policromi, e da una fila superiore di colonnine raggruppate a gruppi di cinque (pentafore); in tutta la decorazione emergono stilemi arabeggianti. Il centro del cortile è occupato da una fontana, un vecchio fonte battesimale, mentre tutt’intorno al colonnato sono stati posizionati nel corso degli anni sarcofagi romani, quasi a voler comporre una specie di “album” delle famiglie illustri della città.

Fig. 3: Di Bellsalerno - Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=42852236. Particolare del colonnato interno.

Al lato del quadriportico si eleva il campanile arabo-normanno, risalente alla metà del XII secolo. Esso si eleva per un'altezza di 52 metri, ed è formato da quattro blocchi, tre cubici sormontati da un tiburio a cupola, tutti con bifore di alleggerimento ai quattro lati: la cupola finale è in stile amalfitano. Il campanile, che ospita ben otto campane, presenta sulla faccia meridionale una lapide che recita: "«TEMP(O)R(E) MAGNIFICI REG(IS) ROG(ERI) W(ULIELMUS) EP(ISCOPUS) A(POSTOLO) M(ATTHEO) ET PLEBI DEI», che tradotto significa «Al tempo del Magnifico Re Ruggiero il vescovo Guglielmo (dedicò) all'Apostolo Matteo e al Popolo di Dio».

Fig. 4: Di Bellsalerno - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=62662905

Alla cattedrale si accede mediante un portone di bronzo del 1099, proveniente da Costantinopoli, che presenta formelle in oro e in argento (ormai diventate verdastre) raffiguranti San Matteo e animali allegorici.

Fig. 5: https://www.salernodavedere.it/il-duomo-di-salerno-la-cattedrale-di-san-matteo/. Porta d'ingresso.

L'interno della chiesa presenta una struttura a tre navate con volta a botte, molto simile a quella dell'abbazia di Montecassino, che termina in un transetto triabsidato: la decorazione all'interno, risalente al Seicento, molto probabilmente fu eseguita al di sopra di affreschi precedenti di scuola giottesca, come dimostrano alcuni lacerti ritrovati in una delle cappelle laterali.

Fig. 6: pianta del duomo

 

Fig. 7: gli affreschi ritrovati

In generale l'impianto originario della cattedrale è stato stravolto dagli interventi seicenteschi di Carlo Buratti: di originale restano soltanto il pavimento musivo nei pressi della zona absidale e gli amboni, anch'essi rimaneggiati ma sufficientemente leggibili nella loro conformazione originale. Collocati subito prima dell'iconostasi, ossia della divisione che un tempo si ergeva fra la zona absidale e la zona ove si radunava il popolo, i due amboni sono l'ambone Guarna del 1180, chiamato così perchè donato dall'arcivescovo Romualdo Guarna alla cattedrale di Salerno, e l'ambone D'Ajello, del 1195, donato dalla famiglia dell'arcivescovo D'Ajello. L'ambone a sinistra, l'ambone Guarna, è più piccolo ed è di forma quadrangolare con un piccolo terrazzino sporgente: la sua tipologia di costruzione è detta "a cornu evangeli"; l'ambone di destra, l'ambone D'Ajello, molto più grande e detto "a cornu epistulae", è una cassa quadrata sorretta da dodici colonnine. Entrambi gli amboni presentano lastre intarsiate a motivi arabeggianti.

 

Di tutta la chiesa, quel che sorprende per la sua magnificenza è la cripta sottostante, alla quale si accede tramite una scalinata. È un ambiente riccamente affrescato, barocco, risalente al 1081 circa ma oggetto di rifacimento da parte degli architetti Domenico e Giulio Cesare Fontana nel ‘600. La decorazione policroma del pavimento, un alternarsi di piccole formelle nere su fondo bianco, esplode sul fusto delle colonne che reggono la volta e si inserisce perfettamente tra gli affreschi del soffitto racchiusi da cornici. Il soggetto raffigurato è il miracolo di San Matteo: leggenda vuole che in occasione dell’assedio di Salerno, avvenuto nel 1544 da parte di Ariadeno Barbarossa, si scatenasse una grande tempesta che allontanò e distrusse la flotta nemica. La tradizione attribuì questo evento ad un miracolo di San Matteo, eleggendo quindi il Santo a patrono della città; ancora oggi, durante la festa di San Matteo (21 settembre), viene innalzata un’immagine del Santo dipinta su un telo con la scritta “Salerno è mia, io la difendo”. Altri affreschi della volta rappresentano S. Grammazio, il Miracolo della liberazione di un indemoniato, la guarigione di un malato e la Sapienza, la Fortezza e la Giustizia. Al centro della cripta, circondato da una balaustra, vi è un altare a fossa che contiene le spoglie di san Matteo e la tradizionale statua bifronte del Santo. La tradizione vuole che il Santo sia raffigurato così affinché possa essere visto in volto da qualsiasi punto della cripta.

Fig. 10: Di MarcoGasparro - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=74974600

SITOGRAFIA

http://www.agirenotizie.it/2015/09/il-duomo-e-san-matteo-con-due-facce/

http://www.cattedraledisalerno.it/visita-virtuale/14-visita-vituale.html

http://www.cattedraledisalerno.it/visita-virtuale/la-cripta.html

http://www.lacittadisalerno.it/cronaca/il-santo-che-protegge-la-citt%C3%A0-salerno-%C3%A8-mia-io-la-difendo-1.1555848

https://www.costieraamalfitana.com/duomo-di-salerno/

www.salernonews24.com

www.medioevo.org