IL CASTELLO DI SANLURI
A cura di Denise Lilliu
Il castello di Sanluri sorge nell’omonimo borgo medievale, una cittadina nel Medio Campidano che conta, ad oggi, circa ottomila abitanti. A metà tra Cagliari e Oristano, e a poca distanza dal castello di Monreale, nel territorio di Sardara e dal castello di Las Plassas, nella vicina Marmilla, risalente più o meno alla stessa epoca. Allontanandosi un po', a una cinquantina di chilometri, si trovano anche il Castello di Acquafredda a Siliqua e il Castello Aymerich a Laconi.
Il castello di Sanluri, detto anche di Eleonora d’Arborea, è oggi un edificio militare fortificato di età Giudicale, e unico tra i castelli medievali sardi ad essere ancora quasi del tutto intatto e abitabile. Il castello serviva a garantire, nei tempi antichi, la sicurezza dei suoi abitanti residenti, nel centro storico attorno al castello, fungendo altresì da dimora per le diverse famiglie regnanti che si susseguirono al comando.
La Battaglia di Sanluri
Tra gli eventi, più importanti che colpirono Sanluri e il suo castello, vi è senza dubbio la Battaglia, conosciuta in sardo come “Sa Battalla de Seddori”. Oggetto di rievocazione a cadenza biennale, la battaglia ebbe luogo precisamente nella domenica del 30 giugno 1409 nelle campagne circostanti, e specificamente sulla collina oggi chiamata “Su bruncu de sa Battalla” (“il muso della battaglia”, in sardo) e fu solo l’episodio ultimo di una tensione, quella tra il Giudicato di Arborea e corona d’Aragona, che affonda le sue origini nel 1353. In quell’anno, infatti, Mariano IV decise di non rinnovare il voto di fedeltà alla corona, stipulato ancor prima, nel 1323, dal padre Ugone II, che aveva inviato l’esercito del giudicato d’Arborea a sostenere la corona Aragonese nella Battaglia di Villa di Chiesa (oggi Iglesias, nel Sud Sardegna). Lo scontro vide opporsi la Corona d’Aragona (esercito siculo-catalano-aragonese) e il Giudicato di Arborea al comando di Guglielmo III. La sconfitta di questi, ultimo giudice di Arborea, decretò il passaggio definitivo della Sardegna nelle mani della Corona d’Aragona in quello che viene ricordato come uno degli eventi più tragici nella storia dell’isola. L’esercito del giudicato venne decimato, come anche la popolazione: molte furono, infatti, le donne, e molti i bambini che vennero massacrati o deportati in Catalogna. A guidare l’esercito della corona Aragonese, invece, era Martino il giovane, che morì circa un mese dopo la battaglia, ormai consumato dalla malattia, forse malaria. La leggenda lo vuole deceduto in seguito a varie avventure passionali in compagnia della “Bella di Sanluri”, una giovane di cui si posseggono poche informazioni, che lo avrebbe consumato per vendicarsi di essere stata fatta schiava e per aver sconfitto l’esercito del Giudicato. Ad oggi, Martino il Giovane è sepolto nella Cattedrale di Santa Maria e Santa Cecilia a Cagliari, dove, nel transetto sinistro, si trova il mausoleo a lui dedicato.
Uno dei maggiori pittori sardi dell’800, Giovanni Marghinotti, dedicò addirittura un dipinto alla battaglia, mostrando lo scontro tra i combattenti ai piedi del castello.
Il castello
Oggi, il castello, intitolato, pur con qualche dubbio alla Giudicessa Eleonora d’Arborea – non ci sono prove documentarie che attestino la sua residenza – ospita dei musei, ma in passato è stato impiegato come carcere, curia e caserma.
La struttura pare essere ancora quella originale, un edificio a pianta quadrangolare dcon i lati lunghi 27 metri, sviluppato in altezza fino a 10 metri e dotato di quattro torri angolari merlate.
La sua costruzione, per opera di Berengario Roich, risale al 1355, anno in cui regnava Pietro IV d’Aragona. Per la costruzione della struttura esterna si dice siano bastati 27 giorni e 27 notti, in base a quanto scritto sulla copia di un documento oggi consultabile all’interno del castello (l’originale è custodito presso l’Archivio della Corona d’Aragona a Barcellona). Durante la sua costruzione proseguiva intorno anche l’operazione di ronda e di difesa del territorio. Inoltre, parte del materiale e delle pietre usati per costruire il castello, arrivavano dal vicino villaggio di Serrenti.
Nella parte posteriore del castello, e ovviamente di più recente costruzione, si trova un rifugio antiaereo innalzato dai membri della Folgore nel corso della Seconda guerra mondiale dai membri della Folgore: al suo interno, infatti, sono presenti foto, documenti e cimeli che narrano le vicende della guerra.
Il castello oggi appartiene ai conti Villa Santa, ed è stato abitato fino a pochi decenni fa dalla casata stessa, che succedette ai De Sena, agli Henriquez, ai Castelvì e Aymerich di Guspini.
Il castello conta, al suo interno, quattro musei, che comprendono anche il Museo delle Ceroplastiche e il Museo del Risorgimento. Tra i numerosi cimeli di grande prestigio, il castello custodisce anche l’originale del bollettino di vittoria firmato, nella Prima Guerra Mondiale, dal generale Armando Diaz.
Il castello ospita, poi, anche altri ambienti, tra i quali si ricordano, brevemente: la stanza delle regine, la stanza della caccia, la Sala Gondi, le stanze da letto, tra cui la Camera dei Doria, Camera Luigi Filippo, Camera regia e Camera di preziosa di Sanluri, lo studio di Nino Villa Santa (che conserva le lettere con cui spesso comunicavano Gabriele d’annunzio e Nino Villa Santa), il museo delle ceroplastiche e il museo del Duca d’Aosta. Al piano terra c’è poi il salone delle milizie, che ospita il Museo del Risorgimento, a cui seguono il Salotto del caminetto, la Sala da pranzo, la Sala della libertà sarda, il Salone di giustizia e il Salotto Napoleonico.
Il Museo del Risorgimento
Questo museo nasce in seguito alla donazione del Duca d’Aosta Emanuele Filiberto a Nino Villa Santa. Il lascito, che comprendeva un cospicuo numero di cimeli, documenti e testimonianze, doveva essere donato nuovamente alla regione italiana con il più alto numero di soldati caduti.
Il Museo delle Ceroplastiche
Il Museo delle Ceroplastiche merita particolare attenzione, dal momento che espone una collezione grande non solo in numero ma anche in prestigio. Tra le oltre trecento opere esposte, infatti, che comprendono modellini di monumenti, cammei e medaglioni in cera d’ape, si contano alcune presenze illustri, come il Giambologna o l’Ammannati.
Bibliografia
Lucia Mocci, Testimonianze artistiche nella Sanluri medioevale e moderna, Oristano, 2002
Sitografia
Home (castellodisanluri.it) visitato il 30/06
Città di Sanluri Castello di Sanluri | (su.it) visitato il 30/06
MARIA LAI
A cura di Denise Lilliu
La vita di Maria Lai
Tra le protagoniste donne della nostra storia dell’arte contemporanea non si può fare a meno di pensare a Maria Lai, nata nel 1919 A Ulassai, un piccolo paese ubicato nell’entroterra sardo.
Tra Ulassai e le campagne di Gairo Lai passò la sua infanzia. Un’infanzia in cui l’aria di campagna giocò un ruolo fondamentale per la salute cagionevole della giovane Maria. Già da questi primi momenti, poi, emerge la sua forte passione per il disegno e l’arte, a tal punto che i suoi genitori decisero di iscriverla ad un istituto nella città di Cagliari, una realtà indubbiamente più prestigiosa rispetto alle scuole del suo piccolo paese. A Cagliari suo professore fu Salvatore Cambosu, scrittore molto rinomato a cui va il merito di essere riuscito a trasmettere alla giovane Maria la passione per le parole e per la letteratura.
Nel 1939, spinta da un forte desiderio di indipendenza, Lai si trasferisce a Roma, dove inizia a frequentare il liceo artistico. Nella capitale muove i primi passi nel mondo dell’arte, e anche se lentamente, inizia ad essere notata, ad acquisire visibilità nell’ambiente romano, indubbiamente più ricco di stimoli e di possibilità rispetto a ciò che l’isola poteva darle in quel momento.
Dopo il diploma, il percorso di Maria continua nella città di Venezia, dove inizia a frequentare l’Accademia delle Belle Arti che le spiana definitivamente la strada per una brillante carriera nel mondo dell’arte. È a Venezia che Lai conosce, al tempo delle prime battute della seconda guerra mondiale, lo scultore Arturo Martini.
Sul finire della guerra Maria decide di tornare nella sua isola, dove riprende il sodalizio con il suo ex professore delle scuole medie Salvatore Cambosu. Da quel momento in poi Lai partecipò a diverse mostre, alcune con artisti molto prestigiosi del calibro di Lucio Fontana, per poi abbandonare nuovamente la Sardegna e ritornare a Roma. L’isola, del resto, era diventato un luogo insicuro per Maria, in seguito al rapimento di suo fratello, in una vicenda molto probabilmente legata alle scorrerie dei banditi della Barbagia.
In questo periodo Lai iniziò un’attività in proprio, aprendo il suo primo studio artistico e dimostrando una forte volontà di sperimentazione tecnica, prima di isolarsi e di non esporre più nessun lavoro per oltre dieci anni.
All’apertura di uno studio ha seguito anche l’apertura di un museo nel suo paese, il museo “Stazione dell’Arte”. Il museo, che custodisce al suo interno la più grande collezione pubblica delle sue opere, ha purtroppo rischiato, a discapito degli abitanti di Ulassai e dei visitatori, di chiudere i battenti. La sua arte ebbe un grande riscontro, in Sardegna, nel suo paese – a cui destinò molte delle sue opere pubbliche – ma anche in Italia e nel mondo. Proprio in Sardegna, a Cardedu, Maria Lai si spense nel 2013, all’età di novantatre anni.
La foto rappresenta Maria Lai fotografata nel 2012, ormai anziana.
Le opere di Maria Lai, che venne peraltro insignita di una laurea honoris causa in lettere, sono oggi esposte in alcuni dei musei più importanti del mondo, dal Centre Georges Pompidou di Parigi al MoMA di New York, passando per Firenze e addirittura per Roma, a palazzo Montecitorio.
La foto rappresenta il Museo Stazione dell’arte, chiamato così perché nato dentro una ex stazione ferroviaria.
L’artista tessile
Quella per l’arte, per Maria Lai, non era certamente l’unica passione. L’artista, infatti, era solita cimentarsi nella poesia, scrivendo componimenti che poi riportava nelle sue opere – soprattutto su tela – motivo per cui le è stato dato l’appellativo di “artista tessile”. Le frasi, le poesie, venivano cucite nei telai, sopra i libri e addirittura nel pane, legandosi indissolubilmente alla terra e avvicinando, in un certo senso, la pratica della Lai all’Arte Povera.
Proprio i telai rappresentano e simboleggiano la donna sarda e il lavoro femminile, divenendo lo strumento più congeniale all’artista per raccontare storie. A questo filone appartengono le cosiddette favole cucite, una serie di tre opere legate alla letteratura. Le “fiabe”, ma anche i “miti, leggende, feste, canti, arte” ebbero del resto sempre un ruolo di primo piano nella pratica artistica di Lai, che le considerava il mezzo con cui l’uomo riusciva a “mettere insieme il visibile e l’invisibile.
Alla prima di queste favole, Tenendo per mano il sole, opera che diede anche il titolo a una delle sue mostre, fanno seguito tenendo per mano l’ombra e Curiosape. Quest’ultima, poi, altro non è che la reinterpretazione di una favola scritta originariamente da una bambina in occasione di un concorso letterario. Curiosape era un’ape molto creativa, curiosa per l’appunto, e molto allegra, motivo per cui venne condannata dalla regina, per la quale la troppa allegria rappresentava una pericolosa fonte di distrazione e di perdita di tempo dal lavoro, dagli affari quotidiani. Successivamente, però, il ruolo di Curiosape venne rivalutato, e a lei venne affidato il compito di organizzare eventi e spettacoli per intrattenere e ravvivare l’ambiente tra le api.
Legarsi alla montagna
La sua opera più conosciuta e meravigliosa, anch’essa legata al suo paese, è peròLegarsi alla montagna, ovvero una performance con la quale l’artista è riuscita a coinvolgere la maggior parte degli abitanti del paese. L’origine della performance è da ritrovarsi in una leggenda del “Sa Rutta de is'antigus” (La grotta degli antichi), assai nota nel paese e ispirata ad un fatto realmente accaduto. Secondo la leggenda, una bimba, diretta verso la montagna con una cesta di cibo da portare ai pastori, fu costretta per il sopraggiungere di un temporale a cercare riparo all’interno di una grotta. che con un cesto di cibo era diretta verso la montagna per portare da mangiare ai pastori, durante la salita si sviluppa un forte temporale che la costringe a cercare riparo dentro una grotta. Nella caverna la bambina nota un filo azzurro, un piccolo nastro grazie al quale riuscì a salvarsi dalla successiva frana.
È proprio il filo azzurro ad essere il punto centrale dell’opera di Lai, messa in scena per le vie del paese l’8 settembre del 198. Un evento unico, spettacolare e dalla forte carica di modernità – specialmente in territorio sardo – prontamente documentato sia da troupe fotografiche che da giornalisti accorsi sul posto. La performance dell’artista e degli abitanti di Ulassai durò tre giorni, e in questo periodo di tempo il filo, un nastro lungo circa ventisette kilometri, venne tagliato, distribuito tra gli abitanti del paese e infine portato per tutte le strade. Il nastro stava a simboleggiare il legame fisico e mentale che univa indissolubilmente tra loro tra le case, le persone e i luoghi, creando un legame di amicizia e di fratellanza fino ad arrivare alla montagna, il Monte Gedili, simbolo del paese.
Per Maria Legarsi alla montagna è la sua prima opera d’arte “relazionale”, una grande innovazione con cui riesce a coinvolgere anche il pubblico – che diventa conseguentemente esecutore e quindi “artista” a sua volta – anche se a primo impatto la proposta di Lai fece registrare un certo scetticismo da parte dei compaesani.
Informazioni utili per visitare il museo
Il Museo è visitabile anche senza visita guidata dalle 9:30 alle 19:30.
Aperto dal Martedì alla Domenica. Chiuso il Lunedì.
Sitografia
Il Museo - Stazione Dell'Arte - Museo d'arte contemporanea (stazionedellarte.com)
Maria Lai, Opere e parole • Oltre l'Arte (lezionidarte.it)
EDINA ALTARA, UNA DONNA DAI MILLE TALENTI
A cura di Denise Lilliu
La vita e gli esordi
Edina Altara, illustratrice, pittrice, ceramista e decoratrice, nacque nel Nord della Sardegna, precisamente a Sassari, nel 1898. Proveniente da una famiglia benestante, agiata, la sua condizione le diede la possibilità di poter lasciare l’Isola e trovare maggiori possibilità di sbocco nel mondo dell’arte e delle collaborazioni, tra cui quella, prestigiosa, con Gio Ponti. Edina Altara è da tutti ricordata per il suo fascino, tenacia, determinazione, i suoi mille talenti, e la sua modernità; una serie di caratteri, questa, a dir poco inconsueta per una donna nata in Sardegna e in quell’epoca. Basti ricordare che nella mentalità dell’epoca – i primi del ‘900 in Sardegna – raramente una donna aveva la possibilità di formarsi intellettualmente e in ambito lavorativo. Nella sua famiglia, lei fu la terza di quattro sorelle, e la prima di loro che decise di dedicarsi all’arte, mostrando grande interesse e una spiccata creatività fin da bambina; infatti, la sua carriera iniziò ben presto, quando da poco più che adolescente cominciò ad approcciarsi all’arte da autodidatta, mostrando fin da subito le sue grandi capacità, esordendo a soli diciassette anni. I suoi primi lavori, prodotti in giovane età e oggi perduti, erano per la maggior parte giochi assemblati e costruiti da lei stessa, tanto che la stessa Altara ricordò sempre di non aver mai comprato delle bambole, ma di essersele sempre costruita da sola. Alla Mostra Campionaria del giocattolo a Milano nel 1916, Edina si aggiudicò addirittura il secondo posto. Nel 1917, fu l’artista Giuseppe Biasi a introdurre la giovane Edina alla mostra della Società degli Amici dell’Arte di Torino, e fu proprio in questa occasione che il Re Vittorio Emanuele III acquistò un suo collage, Nella Terra degli Intrepidi Sardi o Jesus Salvadelu, del 1916. Sul collage, esposto al Quirinale, già all’epoca non erano mancati gli apprezzamenti, e neanche le critiche, da parte di famosi artisti e critici come per esempio Ugo Ojetti, Margherita Sarfatti e Luigi Bartolini. Sempre nel 1917, Edina partecipò alla Mostra sarda al Caffè Cova: anche in questo caso non potè fare a meno di essere notata da parte di alcuni critici, e Vittorio Pica gli dedicò addirittura un articolo sulla rivista “Emporium”. Nel 1918 si trasferì ufficialmente dalla Sardegna, spostandosi in Toscana, a Casale Monferrato (paese del suo futuro consorte) dove si formò e lavorò, collaborando con diverse riviste.
Il matrimonio
Nel 1922 Edina riuscì a scampare ad un matrimonio combinato con il marchese Carmelo Manca di Villahermosa Sanjust, sposandosi con Vittorio Accornero de Testa, conosciuto come Victor Max Ninon, anche lui illustratore, pittore, scenografo e scrittore ricordato per aver disegnato le fantasie per i foulard di Gucci, in particolare la fantasia “Flora” creato esclusivamente per Grace Kelly. Edina e Vittorio/Victor formavano una coppia molto affiatata, e la loro visibilità andò ad aumentare molto velocemente. I due infatti erano in grado di dare vita a opere molto originali e ricercate, creando soprattutto grafiche pubblicitarie e opere per l’infanzia. Edina aveva uno spiccato talento nel disegnare i personaggi, Vittorio, invece, si dedicava a agli ambienti. La loro prima illustrazione venne pubblicata addirittura sulla rivista “Lidel”. I due si sarebbero occupati anche di illustrare l’opuscolo e il menù per un grande transatlantico, prima di giungere, nel 1934 a causa di un’affinità sempre più compromessa, a una separazione amichevole.
Un nuovo capitolo
Subito dopo la separazione nel 1934, si aprì una nuova strada per Edina. Dopo essersi spostata a Milano, la Altara cominciò a dedicarsi alla moda, con un richiamo all’abbigliamento tipico sardo. Proprio a Milano aprì una sorta di atelier a casa sua, mettendo da una parte l’operato precedente e collaborando anche insieme alle due sorelle (Lavinia e Iride) che seguirono la sua stessa strada. Nonostante l’avvicinarsi della guerra, che penalizzò molto la gestione dell’atelier, la clientela rimase comunque numerosa. Anche per Edina, però, arrivò il momento della chiusura dell’atelier.
Dopo la parentesi nel suo atelier, si avvicinò anche alla ceramica – sempre con un occhio di attenzione alla tradizione dei ceramisti sardi, come per esempio Francesco Ciusa – disegnando dei bozzetti da riprodurre direttamente su stoviglie e mattonelle ma non allontanandosi mai troppo dalla moda: dal 1941 al 1943, infatti, Edina si occupò di disegnare i figurini per la rivista “Grazia”. È a partire dal 1942, però, che si aprì, per lei, una prospettiva ancor più prestigiosa, ovvero la collaborazione, che durò fino agli anni Sessanta, con il grande architetto e designer italiano Giovanni Ponti, meglio conosciuto come Gio Ponti. Edina esordì lavorando per la rivista “Bellezza”, diretta dallo stesso Ponti, ma fu dal 1946 che la collaborazione tra i due divenne più stretta. Per questa rivista Edina illustrava – nelle sue illustrazioni si notano sempre una certa eleganza e lo studio attento dei particolari – e scriveva, occupandosi, molte volte, anche di produrre i disegni da applicare sugli arredi e oggetti venduti da Ponti.
Grazie alla visibilità ricevuta dalla collaborazione con Gio Ponti, nel 1949 Edina ottenne l’incarico di disegnare e decorare gli interni e gli arredi per cinque transatlantici, tra cui anche l’Andrea Doria ormai inabissata. Nel 1951 si impegnò a collaborare per disegnare gli arredi di Casa Lucano – chiamata “Casa di fantasia” da Ponti - ovvero due comò e due porte illustrate con soggetti tratti dalla mitologia greca. Lo stesso Ponti, sulla rivista “Domus”, dedicò un articolo su questo progetto.
Tra gli anni Cinquanta e sessanta, Edina si avvicinò ancor di più all’arte, creando diversi collage, come il famoso S’Isposa collocato oggi al MAN di Nuoro. In questa opera si nota chiaramente un colore vivace e una stilizzazione che denuncia la sua appartenenza a una cultura secessionista. Nei suoi collages, ma anche nelle ceramiche, Edina Altara dà ampio spazio alle figure femminili, spesso donne rappresentate con indosso il costume tradizionale sardo. Negli anni Settanta, invece, Edina diede vita ai suoi ultimi lavori decorativi, oggi esposti nella sua casa museo e, dopo aver vissuto per anni a Milano, tornò finalmente in Sardegna, dove dopo aver assistito alla morte delle sue due sorelle, fu lei stessa a spirare, nel 1983, in seguito a una sua permanenza presso una casa di riposo a Lanusei, nella provincia di Nuoro.
Bibliografia
Giuliana Altea, I maestri dell’arte sarda, Edina Altara, Nuoro, Ilisso, 2005.
Sitografia
Edina Altara (absart.it) sito visitato il 29/05/2022.
L'AREA ARCHEOLOGICA DI THARROS
a cura di Denise Lilliu
Storia dell'area archeologica di Tharros
L’area archeologica di Tharros, vero e proprio “museo a cielo aperto” e indiscutibilmente una delle più suggestive e interessanti eredità archeologiche del Mediterraneo, si trova nella Costa del Sinis, e più precisamente fa parte del comune di Cabras in provincia di Oristano, e, come Nora, anche l’antica area di Tharros sorge letteralmente a due passi dal mare.
Si tratta di un insediamento fondato dai Fenici, e che per un periodo di tempo è stata una città fiorente e ricca. Riscoperta solo nell’Ottocento, la sua storia copre più di duemila anni. Di fondazione fenicia, l’insediamento primitivo risale al VIII secolo a.C.. Con il passare dei secoli, la città ha assunto diversi titoli: è stata insediamento nuragico, fortezza cartaginese, urbs romana – venne conquistata dai Romani nel 238 a.C., capoluogo bizantino e anche capitale arborense. Il suo tramonto (XI secolo) fu dovuto al suo abbandono e alla conseguente fondazione di un’altra città, Aristiane (l’odierna Oristano), ubicata in una zona più interna e meno rischiosa, visti i frequenti attacchi via mare da parte dei Saraceni.
L’area archeologica
Dell’epoca Fenicia restano, oggi, solo due necropoli e un Tofet. La maggior parte dei resti risale invece al periodo romano. La città sorge esattamente su una di tre colline della penisola del Sinis, chiamata la collina di “Murru mannu”, cioè “Il grande muso” in sardo. È qui che si trovano anche le fortificazioni, delle imponenti cinte murarie e una grande torre costruita interamente in arenaria. A ridosso delle fortificazioni è presente il Tofet fenicio, cioè una sorta di santuario, di area sacra. La città ancora oggi è ben visibile e non si esclude la presenza Nuragica ancor prima dei Fenici; infatti, sono stati ritrovati alcuni reperti di origine nuragica, oltre al fatto che sono presenti nell’area anche due nuraghi.
Da non dimenticare, ai piedi della penisola del Sinis, la chiesa di San Giovanni: pur non facente parte dell’area archeologica, è molto vicina al sito e per questo motivo valevole di una visita. Di particolare rilievo è anche l’omonima torre, databile tra il XVI e il XVII secolo, che sovrasta direttamente l’aerea archeologica e la spiaggia.
Nei pressi di Capo San Marco e sul lato della spiaggia di San Giovanni di Sinis, sono presenti due necropoli. Invece a valle sono ubicati alcuni importanti monumenti di età punica e romana, tra cui il “Tempio delle semicolonne doriche”, l’acquedotto, il castellum aquae, le strade lastricate in basalto, i templi e tre edifici termali. È altrettanto importante sottolineare che, in epoca paleocristiana, una delle terme venne trasformata in edificio di culto e venne impiantato anche un battistero.
Tutta l’area, comprendente gli scavi e la penisola, è visitabile in mezza giornata, e soprattutto in primavera è possibile ammirare la macchia mediterranea seguendo un percorso panoramico che si affaccia direttamente sul mare.
Tharros cominciò a essere protagonista di importanti scavi a partire dal XVIII secolo, anche se, ancor prima, attirava pirati o cercatori di tesori interessati soprattutto alle ricchezze nei corredi funerari mettendo in atto veri e propri saccheggi; non molto diverso da quando, una grandissima collezione di reperti trovati dopo uno scavo in quest’area finì al British museum.
Si può dire quindi, che i reperti riservati a questa zona oggi si trovano in parte al Museo Archeologico di Cabras, e qualcosa anche al British Museum.
Il Museo di Cabras propone ai visitatori un’esposizione dedicata ai reperti trovati nel Tofet, per esempio urne cinerarie di bambini e animali, o stele e cippi in arenaria.
Al British Museum di Londra invece, possiamo trovare, nella sala 57, i reperti riguardanti questa città. Fanno parte della collezione permanente: gioielli, statuette e reperti vari, visibili anche in un catalogo pubblicato direttamente dal Museo.
Tra i monumenti più iconici di Tharros c’è il Tempio Tetrastilo, riconoscibile a distanza. Questo è stato messo in luce e studiato dal prestigioso archeologo Gennaro Pesce, protagonista di importanti scavi anche nell’importante area archeologica di Nora.
Oggi il tempio conserva buona parte del suo basamento rettangolare. L’edificio si strutturava in un pronao tetrastilo (4 colonne), e in una cella di cui oggi non è rimasto nulla.
Altra struttura molto importante è il Tempio delle Semicolonne Doriche. Si tratta del principale edificio di culto, ubicato rigorosamente al centro della città. La sua imponenza è data da una rampa di grandi scale scavate direttamente sulla roccia di arenaria. La scoperta di questa struttura è stata molto curiosa perché inizialmente era cosparsa di detriti e coperta da un pavimento in calce di età romana.
Assai rilevante è anche l’acquedotto risalente all’età romana, in arenaria e laterizi, che estendendosi per circa cinquecento metri e grazie a un meccanismo di adduzione garantiva il funzionamento dei diversi edifici termali, portando anche la città nell’acqua e alimentando il Castellum Aquae.
Come già evidenziato, erano presenti due necropoli in altrettante aree: molto simili tra loro, ma differenziatesi in seguito all’affermarsi nel tempo di diverse popolazioni, le due necropoli si trovano, rispettivamente, nei pressi di Capo San Marco e in corrispondenza del paese attuale. Anche in esse i saccheggi non tardarono ad arrivare.
Il battistero invece, di origine paleocristiana, è conservato solo per metà, ed è costruito in arenaria e basalto. Tre gradini portano direttamente a una vasca, con accanto una sedia in pietra. Accanto al battistero si trovano delle terme, di cui oggi è rimasto poco a causa del cattivo stato di conservazione. Queste erano dotate di uno spogliatoio, tre vasche riscaldate, due fornaci per riscaldare le vasche e di diversi altri ambienti. Le terme negli anni subirono diversi cambiamenti e riutilizzi. Queste però non sono le uniche terme presenti, perché si trovano anche le “Terme di convento vecchio” e una terza struttura di terme parzialmente scavate.
Le terme di Convento vecchio, che comprendono anche un mosaico a motivi geometrici probabilmente databile al II secolo, sono strutturate su tre diversi livelli, e seguono un percorso a forma di anello. Le terme sono state riutilizzate in maniera diversa dai bizantini, forse come luogo di sepoltura, o, ancora, come monastero.
Bibliografia
R.Bertoni- Tharros tra Fenici e Romani nella penisola del Sinis, 2018.
Sitografia
Home | Città di Tharros consultato il 28/04/2022.
LA PINACOTECA NAZIONALE DI CAGLIARI E LE OPERE DI ANTIOCO MAINAS
A cura di Denise Lilliu
La Pinacoteca di Cagliari: storia
La pinacoteca di Cagliari fa parte, dal 1992, del complesso museale della Cittadella dei musei, ed è situata nel Quartiere di Castello, uno dei quartieri storici della città. Nonostante la pinacoteca sia ubicata in un quartiere storico, l’architettura del complesso museale e della pinacoteca, progettati dagli architetti Piero Gazzola e Libero Cecchini, segue uno stile più moderno e razionalista. All’ interno della struttura, percorrendo il percorso museale, si cammina fiancheggiando le originali mura cinquecentesche. Inoltre, essendo Castello uno dei quartieri più sopraelevati dell’intera città di Cagliari, da questo punto è possibile godere di una meravigliosa vista sul resto della città e sul porto. Nei pressi della cittadella dei musei, intorno alla pinacoteca si trovano anche: Il Museo d’Arte Siamese e il Museo delle Cere Anatomiche e non molto lontano da qui è facile arrivare anche al Museo Archeologico, Torre di San Pancrazio e all’Anfiteatro Romano. Questo quartiere della città offre numerosi siti e luoghi d’arte a cui dedicare una visita ben approfondita.
La Pinacoteca: struttura e opere
La Pinacoteca di Cagliari custodisce una collezione d’arte sarda formatasi a seguito di donazioni private, ma anche di acquisizioni statali. Parte della raccolta, per esempio, apparteneva alla chiesa di San Francesco di Stampace, prima che questa venisse distrutta nel 1875, mentre un altro nucleo di opere è entrato a far parte della collezione in seguito alla soppressione degli enti ecclesiastici (1866). In tutto, la pinacoteca conta al suo interno più di 1200 opere, tra dipinti, gioielli, tessuti, ceramiche, sculture e arredo liturgico. E’ presente anche una collezione etnografica che per motivi di spazio viene esposta periodicamente e comprende tessuti e ricami della tradizione sarda come: mobilio, gioielli, ceramiche, armi e amuleti, tutti databili al periodo tra la fine del 1800 e inizi del 1900. La collezione pittorica della Pinacoteca, invece, può vantare lavori di artisti come Antioco Mainas, Joan Figuera, Michele Cavaro, o ancora del Maestro di Castelsardo e opere di autori contemporanei come Joan Barcelo.
La Pinacoteca è articolata, da un punto di vista strutturale, su tre piani, tutti visitabili e la suddivisione delle opere al suo interno segue un criterio cronologico. Al primo piano, infatti, sono collocate opere la cui datazione va dal XVI al XIX secolo. Al secondo piano, invece, sono ospitati quadri provenienti da raccolte ecclesiastiche, risalenti al Seicento e al Settecento. Il terzo e ultimo piano della Pinacoteca, infine, raccoglie opere pittoriche Fiamminghe, capolavori del tardogotico catalano e un’interessantissima serie di lavori del XVI secolo, usciti dalla bottega dei Cavaro, situata all’interno del quartiere di Stampace. In ogni caso, tra i pezzi più pregiati dell’intera collezione vanno sicuramente menzionati il retablo del Giudizio Universale, opera quattrocentesca del Maestro di Olzai, o ancora l’Annunciazione di Joan Mates.
Antioco Mainas nella Pinacoteca di Cagliari
La predella di Nostra Signora di Valverde
Ad oggi le notizie che si hanno sulla vita privata e vita lavorativa di Antioco Mainas sono veramente poche. Si presume sia stato un pittore residente a Cagliari e attivo nel mondo dell’arte presumibilmente durante il Cinquecento. Tra i centri dove opera non c’è solo Cagliari ma anche Oristano o Villasalto, nella zona del Sarrabus. Tra i suoi lavori presenti in Pinacoteca, una menzione speciale va fatta per la Predella di Nostra Signora di Valverde.
La predella è una parte residua di un retablo ormai andato perso, una tempera ad olio su tavola (54x243 cm) datata a metà del XVI secolo. L’opera rappresenta il Cristo risorto fra San Pietro, San Gerolamo, San’t Antonio abate(?) e San Paolo.
Come è facilmente intuibile dal nome, l’opera apparteneva alla chiesa Francescana di Nostra signora di Valverde ad Iglesias, chiesa che, rimasta trascurata per lungo tempo, ha di fatto esposto l’opera a pericoli e in primis al degrado. In seguito, fu spostata in un liceo scientifico di Iglesias, prima di andare definitivamente ad arricchire la collezione della Pinacoteca di Cagliari.
L’opera è composta da cinque riquadri e, come già accennato, caratterizzata dalla presenza, al centro della composizione, del Cristo risorto e sospeso su un sepolcro serrato. La sua veste sembra espandersi, aprirsi allo spazio, mentre il corpo è circondato da una forte luce. Nella parte inferiore del dipinto, invece, ci sono 2 figure, delle guardie che osservano il Cristo con agitazione. Nei riquadri laterali, invece, troviamo a sinistra (in ordine) San Pietro e San Gerolamo, mentre a destra, al fianco di San Paolo, la cui spada brandita con la mano destra è elemento certo di identificazione, c’è un quarto santo, sui quali resistono le incertezze attributive: le ipotesi proposte, infatti, sull’anziana figura che prega, sono due, e i nomi fatti sono quelli di Sant’Onofrio e di Sant’Antonio Abate.
La Crocifissione del Retablo di San Francesco a Oristano
Un'altra opera di Antioco Mainas presente in pinacoteca è la sua Crocifissione, o meglio una delle tante versioni da lui realizzate nel corso della sua vita. Anche in questo caso, l’opera, una tavola a tempera e olio risalente alla metà del XVI secolo, in origine era parte di un unico grande retablo a lungo conservato nella chiesa di San Francesco a Oristano, dove era unita ad altri riquadri, probabilmente quelli dell’Annunciazione e del Transito della vergine, anch’essi custoditi in pinacoteca. Si ipotizza che alla Crocifissione spettasse la posizione centrale nell’architettura del retablo, con il Transito sul livello più alto e l’Annunciazione sul lato sinistro. Inoltre, questa versione della Crocifissione sembra avvicinarsi all’episodio analogo narrato, nel Retablo di Villamar, dai fratelli Michele e Pietro Cavaro, pittori quasi sicuramente vicini di bottega di Antioco. L’Annunciazione è molto vicina all’iconografia quattrocentesca, rappresenta una madonna seduta colta nell’atto di voltarsi e con uno sguardo come spaventato. Si trova in un ambiente interno, caratterizzato dalla presenza dietro alla madonna di un drappo verde scuro con dei motivi. Il Transito Della Vergine sembra rimandare alla tradizione della pittura Ispano Fiamminga con un grande realismo e profusione di dettagli, colori accesi e accenni dorati. Anche questa scena sembra essere ambientata all’interno.
Il Retablo di Santa Maria di Montserrat
Altra opera di Antioco è il Retablo di Santa Maria di Monserrat, ancora una volta a tempera e olio su tavola e stavolta proveniente dal Chiostro della Chiesa di San Francesco in Stampace a Cagliari. Anche in questo caso si nota l’influenza dei fratelli Cavaro sulle opere e sullo stile di Antioco in quel periodo della sua carriera. Nel riquadro al centro, il Cristo risorto è affiancato dalle sante Agata e Apollonia, e come nelle opere precedenti egli fluttua sopra il sepolcro, circondato da un bagliore di luce. Gli altri riquadri contengono invece altre figure di santi (Cosma e Damiano, Barbara, Lucia, Gregorio e Girolamo in due riquadri più piccoli) e due Dottori della Chiesa, riconoscibili per la presenza, al loro fianco, di piccoli edifici ecclesiastici con valore metaforico.
Sitografia
Pinacoteca - Orari e biglietti (beniculturali.it)
Pinacoteca - Museo Archeologico Nazionale di Cagliari (beniculturali.it)
FRANCESCO CIUSA
A cura di Denise Lilliu
Francesco Ciusa nacque a Nuoro nel 1883, e divenne uno dei più abili e conosciuti scultori della storia moderna della Sardegna. Quarto di sette figli, suo padre era un abile artigiano/falegname, motivo per cui il giovane Francesco acquisì familiarità, sin da piccolo, prima con le lavorazioni in legno per passare successivamente al gesso e al bronzo.
A causa della precoce morte del padre, Ciusa si ritrovò in condizioni economiche estremamente svantaggiose, e solo grazie ad un sussidio da parte del municipio di Nuoro egli ebbe la possibilità di formarsi come artista. A differenza di molti colleghi sardi, Ciusa non era autodidatta, e grazie a questi aiuti ebbe modo di partire per frequentare l’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove trovò nuovi stimoli e sollecitazioni culturali. A Firenze venne seguito da alcuni importanti maestri e stabilisce delle amicizie con personalità molto note nel mondo dell’arte come Giovanni Fattori, Domenico Trentacoste, Plinio Nomellini, Libero Andreotti e Lorenzo Viani.
Nel 1904 l’artista tornò in Sardegna, questa volta però a Sassari da un suo caro amico, Salvatore Ruju. A Sassari anche Giuseppe Biasi, altro grande artista, lo accolse subito nel suo studio. Nello stesso anno, sostenuto dai colleghi, Ciusa presentò a Nuoro la sua prima esposizione nella vetrina di un negozio, prima di stabilirvisi nuovamente l’anno successivo.
Mentre Grazie Deledda incoraggiò sin da subito Ciusa a partire, il brillante scrittore Salvatore Satta lo provocò dicendogli: “Se sei debole parti, se sei forte ritorna”. È proprio a fronte di questa frase che Ciusa raccolse il coraggio e ritornò in Sardegna, nonostante l’ambiente fiorentino gli offrisse maggiori opportunità di carriera in ambito artistico rispetto all’ambiente svantaggiato e penalizzante dell’isola. L’opera più importante di questo periodo è La Madre dell’Ucciso (1906).
La Madre dell’Ucciso è una scultura in gesso, attualmente esposta alla galleria civica di Cagliari. Dell’opera pare esistano, complessivamente, altre cinque versioni in bronzo, dislocate in luoghi diversi. Una venne immediatamente fusa dopo il successo riscontrato alla Biennale di Venezia del 1907, l’altra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, una terza per la Galleria d’Arte Moderna di Palermo e le ultime due concepite per un museo londinese e per la tomba dell’artista nella chiesa di San Carlo a Nuoro. L’opera costituì un punto di svolta nella carriera dell’artista, in quanto è con La Madre dell’ucciso che Ciusa diede inizio a una ricerca più propriamente simbolica. Ciusa scelse di partecipare con questo lavoro alla Biennale di Venezia del 1907, dopo aver avuto qualche esitazione e ripensamento. L’opera venne collocata in una sala che custodiva opere di altri artisti molto importanti come Rodin ma, nonostante ciò, non tardò ad essere notata da un grande critico del Corriere della sera, Ugo Ojetti.
L’opera raffigura una vecchia contadina accovacciata su sé stessa, seduta per terra mentre compie il rito nuorese della Sa ria, una veglia funebre in memoria del figlio, morto assassinato da tre banditi dopo un conflitto nelle campagne circostanti. L’episodio era molto probabilmente legato al fenomeno del banditismo e delle faide. Nello specifico, pare che la vittima fosse stata punita per aver rubato dei maiali. Quella raffigurata da Ciusa, in realtà, non era la vera madre dell’ucciso, ormai deceduto, ma una ragazza a cui l’artista chiese di posare.
Il tema dell’opera non è affatto Casuale: Ciusa conosceva bene la famiglia coinvolta e la vittima, e l’idea di realizzare la scultura venne all’artista il giorno immediatamente successivo alla tragedia. All’epoca l’artista era poco più che adolescente, aveva 14 anni. La voce dell’omicidio si era sparsa velocemente nel paese, e le persone, tra cui lo stesso artista, si erano recati sin da subito sul luogo dell’accaduto.
La donna è ritratta in una posa rigida, statica, e lei è resa dall’artista con grande naturalismo. Tra i dettagli si notano le rughe del viso, ben accentuate, e le vene delle mani che richiamano alla mente la Giuditta di Donatello. L’artista è anche molto abile a conciliare la solidità volumetrica della figura con il ritmo delle linee dell’abito e del copricapo.
Nel 1908 Ciusa si trasferì a Cagliari, dove cominciò un periodo di fruttuoso lavoro che culminò con la realizzazione di alcune delle sue opere più belle. La Filatrice (1908-1909) è la statua con cui Ciusa partecipò, per la seconda volta, alla Biennale, sintomo della sua educazione e della sua forte passione per la statuaria italiana del Rinascimento.
Della Filatrice esistono due versioni. Una, in bronzo, è custodita all’interno del Palazzo Civico di Cagliari; l’altra, in gesso, è invece collocata, sempre a Cagliari, nella Galleria Comunale d’arte ed è la replica, dallo stampo originale, realizzata dall’artista in seguito al danneggiamento della prima versione.
La statua rappresenta la figura di una filatrice, uno dei mestieri più importanti della tradizione dell’isola, ritratta in piedi, con le braccia che vanno a chiudersi verso l’alto mentre la mano mantiene il fuso. La stessa donna, poi, pare assumere la forma del fuso. Le maniche molto ampie creano due cerchi, mentre la gonna dell’abito sardo è stretto tra le gambe, e i piedi sono nudi. La fisionomia del volto della donna ricorda vagamente i ritratti femminili della Firenze del Quattrocento, e, come per La Madre dell’Ucciso, anche nella Filatrice Ciusa riesce ad arrivare ad un risultato di grande solennità.
Gli anni a seguire non furono affatto semplici. Se da un lato l’artista espanse la sua produzione di opere, dall’altro si ritrovò a fare i conti con le due guerre e con le consuete difficoltà economiche. Nel 1919 si avvicinò alla ceramica, tecnica che già aveva sperimentato in passato, fondando inoltre la Manifattura SPICA a Cagliari. In questo periodo partecipò anche a diverse esposizioni: nel 1922 alla Mostra sardo-piemontese di Alessandria, e nello stesso anno partecipò nuovamente alla Biennale di Venezia. L’anno successivo prese parte alla Quadriennale Torinese.
Negli anni a seguire Ciusa continuò a produrre opere, molte tra cui commissionate dai diversi comuni della Sardegna, come il Monumento ai caduti di Iglesias o il Monumento a Sebastiano Satta a Nuoro. Durante la Seconda Guerra mondiale, l’artista soggiornava a Cagliari, dove ricoprì la cattedra di Disegno presso la facoltà di Ingegneria dell’università. Nel capoluogo sardo, tra le città più colpite dai bombardamenti che non risparmiarono il suo studio e le sue opere, Ciusa trascorse gli ultimi anni della sua vita, spegnendosi nel 1949 dopo una lunga malattia.
Bibliografia
Altea, Francesco Ciusa, Nuoro, Ilisso, 2004.
LA CATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA E SANTA CECILIA A CAGLIARI
A cura di Denise Lilliu
La chiesa di Santa Maria Assunta e Santa Cecilia è uno dei principali edifici di culto della città di Cagliari, insieme alla Basilica di Bonaria. Divenuta chiesa cattedrale nel 1258, la chiesa, posizionata nel vecchio quartiere di “castello”, è riparata dal traffico e dalla frenesia della città.
Storia e descrizione
La facciata
Il primo impianto della cattedrale, che dal 1254 è documentata come Santa Maria di Castello (“Sancte Marie de Castello”), risale agli inizi del tredicesimo secolo ed è realizzato dai Pisani. Nel 1258, in seguito alla distruzione della vecchia cattedrale di Santa Cecilia, Santa Maria di Castello divenne la nuova chiesa cattedrale di Cagliari.
La facciata attuale ricorda, nelle forme, tanto il Duomo di Pisa quanto quello di Lucca. È a salienti, in stile neoromanico ed è stata completata, con l’impiego della pietra calcarea del Colle di Bonaria, nel 1931 dall’architetto Francesco Giarrizzo. Presenta, inoltre, una bifora gotica completata nel primo Trecento.
Interno
All’interno, la cattedrale presenta una struttura a croce latina (originariamente l’impianto era rettangolare), a tre navate, con transetti – questo realizzato agli inizi del Trecento – e sette cappelle laterali. La chiesa, inoltre, presenta anche una una cupola ottagonale, le cui vele sono impegnate dai Quattro Evangelisti del pittore sardo Filippo Figari (1885-1975). Il pavimento in marmo policromo, risalente al Seicento, è stato rifatto nella seconda metà degli anni Cinquanta del Novecento. Sulla volta della navata centrale, poi, sono presenti L’Esaltazione della croce, La Pietà e le Storie della diffusione della fede in Sardegna, anche queste realizzate da Figari.
La navata sinistra
La navata sinistra della cattedrale contiene la cappella del Battistero, la cappella della Vergine della Mercede e la cappella di Santa Barbara e delle Famiglie Sante.
Cappella della Vergine della Mercede
La Cappella della Vergine della Mercede appare molto imponente in quanto a dimensioni, dal momento in cui essa contiene due tombe: la prima appartenente a uno stimato arcivescovo, Paolo Maria Serci di Nuraminis, l’altra a Luigi Amat di Sorso. La cappella è realizzata esclusivamente in marmo, e al suo interno contiene, in una nicchia la statua della Madonna del Pilar e un quadro di Giacomo Altomonte raffigurante la Madonna della Mercede.
Cappella di Santa Barbara e delle famiglie sante
La Cappella di Santa Barbara e delle Famiglie Sante contiene, sopra il tabernacolo centrale, un’urna contenente i resti dei beati Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi e quelli di Luigi e Zelia Martin, genitori di Santa Teresa di Lisieux. Al centro, in alto, la tela – attribuita a Corrado Giaquinto – con Santa Barbara che rifiuta di adorare gli idoli pagani. Solo recentemente, dal 2008, la cappella è stata dedicata anche alle sante famiglie. Al centro in alto c’è anche un dipinto, un olio su tela che racconta il martirio di Santa Barbara perché solo recentemente (nel 2008), la cappella è stata dedicata anche alle sante famiglie.
La navata destra
La navata destra, invece, ospita la cappella di Santa Cecilia, la Cappella di Nostra Signora di Sant’Eusebio e la cappella di San Michele.
Cappella di Santa Cecilia
Si tratta di una delle cappelle più importanti, anche se poche notizie si hanno a riguardo, dal momento che Cecilia è la santa patrona della cattedrale insieme alla Vergine Maria. Anch’essa è costruita con marmi policromi, tra cui anche il marmo giallo delle colonne, che ha origine sarda e proviene dalle cave di Seulo.
Transetto
Il transetto sinistro custodisce la Cappella Pisana (o feriale), la Cappella del Crocifisso e il Mausoleo di Martino d’Aragona. Nel transetto destro invece si trovano la cappella di Sant’Isidoro, la cappella del Santissimo Sacramento e la cappella della Madonna delle Grazie, che ospita la tomba dell’arcivescovo Ernesto Maria Piovella.
Presbiterio
Nel presbiterio rialzato si trova una credenza in marmo, risalente agli inizi del Settecento, l’altare maggiore – anch’esso in marmo, e contraddistinto dalla presenza di cinque colonne – il coro e i due organi, uno grande e uno più piccolo. Sull’altare, un paliotto di fattura spagnola mentre alle spalle della mensa trova posto un tabernacolo in argento. Ai lati del presbiterio, due leoni stilofori, databili al dodicesimo secolo, che in origine sostenevano il pergamo di Maestro Guglielmo. Da una piccola rampa di piccoli scalini, posta vicino al presbiterio, si accede nella zona sotterranea della cattedrale, il Santuario dei Martiri, voluto nel 1614 dall’arcivescovo Francisco de Esquivel.
Il Mausoleo di Martino d’Aragona
Tra le opere più imponenti e vistose della cattedrale, c’è il Mausoleo dedicato a Martino d’Aragona (1374-1409), detto anche Il Giovane, re di Sicilia. Divenuto celebre dopo aver combattuto e vinto la Battaglia di Sanluri contro Guglielmo III di Narbona il 30 giugno 1409, Martino muore di malaria a soli 35 anni, anche se una leggenda vuole che la sua morte sia stata in realtà dovuta alla passione verso una giovane sconosciuta, la “Bella di Sanluri”, che si dice abbia rivendicato la sconfitta dell’esercito sardo portando il re alla morte.
Il Mausoleo, concepito da Giulio Aprile e completato tra il 1676 e il 1680, si divide in tre registri architettonici: dal basso verso l’alto, il linguaggio barocco della struttura si connota per una certa apertura alle varianti ligure-piemontesi. Nel primo registro. Quattro guerrieri e due angeli tengono uno scudo, mentre il secondo è occupato dal blasone della casata d’Aragona, con la data di morte di Martino. Nel terzo e ultimo registro, infine, è custodita l’urna che contiene i resti del re, un suo ritratto scultoreo e la personificazione della Morte, circondata dalle allegorie della Giustizia, a sinistra, e della Fede a destra. Recentemente, nel 2005, poi, sono stati anche riscoperti, in maniera del tutto fortuita, i resti del corpo di Martino.
I pulpiti
Nella navata destra, poco notati ma di grande importanza ci sono due pulpiti che prima appartenevano al Duomo di Pisa e in seguito sono stati portati a Cagliari. Realizzati in marmo, essi presentano dei riquadri scolpiti, probabilmente costruiti dall’artista che si occupò di costruire anche la Torre di Pisa.
Il Santuario dei Martiri
La parte forse più interessante della cattedrale è il Santuario dei martiri, che si trova in un ambiente sotterraneo rispetto alla cattedrale, e al di sotto del presbiterio. Il santuario, inaugurato nel 1618, è diviso in tre ambienti diversi: La cappella centrale, la Cappella di San Lucifero e La Cappella di San saturnino. I tre ambienti contengono un totale di centosettantanove nicchie contenenti le reliquie dei martiri cagliaritani, scoperte per puro caso in occasione di uno scavo. Nel 1615, data di ritrovamento delle reliquie, venne deciso, sempre per volontà dell’arcivescovo Esquivel, di ristrutturare il complesso della cattedrale. Ad Esquivel si deve anche l’impegno di aver impedito il traffico delle reliquie, un fenomeno estremamente diffuso all’epoca.
Cappella centrale (o cappella della Madonna dei Martiri)
La Cappella centrale, o Cappella della Madonna dei Martiri, è la più grande. È accessibile direttamente dalle scale e ospita sessantasei nicchie. Sopra le due porte ai lati, che conducono alle altre due cappelle, sono presenti delle lapidi con iscrizioni che riportano le risposte tra papa Paolo V e il re di Spagna, Filippo III, al momento del rinvenimento delle nicchie. Al centro della cappella è presente un altare marmoreo. Il soffitto, infine, è decorato da circa seicento rosoni, decorati ognuno in modo diverso e comprendenti un quadrifoglio di buon auspicio per coloro che riescono a individuarlo.
Cappella di San Lucifero
La cappella di San Lucifero invece, è dedicata all’omonimo vescovo di Cagliari di cui si trovano le ossa all’interno di un’urna sotto l’altare. Essa contiene circa 80 nicchie, e ospita anche una statua dell’arcivescovo Ambrogio Machin, che prese il posto di Esquivel, nonché il monumento funebre dedicato a Maria Luigia di Savoia.
Cappella di San Saturnino
Nel lato a sinistra della cappella centrale, c’è la cappella dedicata al primo martire e patrono della città di Cagliari, le cui reliquie sono contenute all’interno di un sarcofago. La cappella, eretta nel 1620 e di dimensioni ridotte rispetto alle due precedenti, contiene anche una statua in marmo del santo, oltre a trentatre nicchie.
Bibliografia
Roberto Coroneo. Architettura Romanica dalla metà del Mille al primo '300. Nuoro, Ilisso, 1993
Sitografia
Cattedrale di Cagliari (duomodicagliari.it)
Informazioni Utili
Il Duomo si trova nel quartiere di Castello a Cagliari, nei pressi di Piazza Palazzo.
Orari
GIORNI FERIALI: 9:00-13:00 16:00-20:00
GIORNI FESTIVI: 8:00-13:00 16:30-20:00
PINUCCIO SCIOLA E IL GIARDINO SONORO DI SAN SPERATE
A cura di Denise Lilliu
Giuseppe Sciola (San Sperate, 1942- Cagliari, 2016), meglio conosciuto come “Pinuccio”, è stato e continua ad essere un grande esempio per l’arte contemporanea in Sardegna.
Sciola nacque e crebbe in una famiglia di contadini nel piccolo paese di San Sperate, a pochi chilometri da Cagliari. Paese che lui stesso, seguendo un progetto ben specifico e con l’appoggio di tutta la comunità, decise di trasformare, nel 1968, in museo a cielo aperto. Il progetto, svolto nel suo paese, attirò in poco tempo l’attenzione dell’UNESCO, che nel 1972 invitò l’artista a recarsi direttamente a Città del Messico, presso un importante maestro muralista, per collaborare con quest’ultimo a dei progetti che avrebbero dovuto coinvolgere il quartiere Tepito.
L’iniziativa portata avanti da Sciola, ovvero far diventare San Sperate un paese-museo, non venne appoggiata solo dalla comunità locale bensì anche da colleghi artisti, italiani e stranieri, a partire da Foiso Fois o Primo Pantoli.
La sua attività artistica cominciò molto presto, quando, già da piccolo, egli iniziò a scolpire; da adolescente Sciola ebbe finalmente l’occasione di partecipare da autodidatta a una mostra di arti figurative nel circolo de La Rinascente a Cagliari, presso la quale vinse la borsa di studio che gli diede la possibilità di frequentare il Liceo artistico di Cagliari.
Dopo aver terminato gli studi liceali, Sciola frequentò il Magistero d’arte di Porta Romana di Firenze e l’Accademia internazionale di Salisburgo, sempre seguito da grandi maestri. Nel frattempo, continuò a partecipare a diverse mostre, compiendo viaggi studio in Europa in occasione dei quali ebbe modo di conoscere artisti di un certo spessore.
Viaggiando tra l’Italia e in diverse città d’ Europa, egli ebbe modo di assistere alle contestazioni giovanili del 68’, interessandosi e facendo sua questa protesta, tanto da trasmettere la stessa carica e voglia di rivalsa nel suo paese natale.
Dopo aver visto il mondo fuori dalla Sardegna, l’artista presenziò a due edizioni della Biennale di Venezia (1976, 2003), mentre nel 1985 alcune sue opere vennero esposte alla quadriennale di Roma per arrivare, in seguito, nei più importanti centri europei, come Vienna o Versailles. Tra i suoi più grandi traguardi va annoverata anche la collaborazione con l’architetto Renzo Piano.
Nonostante Pinuccio sia stato un artista “itinerante”, lui e la sua arte sono “figli della pietra”: i suoi lavori nascono infatti dalle pietre (calcari, trachite o basalti) della Sardegna, scrupolosamente ricercate e lavorate.
L’obiettivo dell’artista era di far “suonare”, “parlare” la pietra, ma soprattutto di svuotarla di quelle idee di rigidità e durezza ad essa associate per regalarle invece un senso di malleabilità e movimento.
Oggi molte delle sue opere possono essere osservate per tutta la Sardegna, tra Cagliari, Buggerru e soprattutto San Sperate dove si trova il suo Giardino sonoro.
Il Giardino sonoro di Sciola è un museo all’aperto che ospita un centinaio delle opere dell’artista, un vero atelier en plein air in cui il visitatore può farsi un’idea della sua evoluzione come artista, ospitando tanto le sue prime opere quanto quelle più recenti.
Sciola ha prodotto in questo luogo molte delle sue opere, a partire dagli anni Sessanta, usando lo spazio esterno come laboratorio e rimanendo quindi a stretto contatto con la natura a cui si sentiva strettamente legato. Oggi, nel suo giardino, non ci sono frecce o direzioni, e il visitatore è circondato da tutte le opere vivendo quasi un senso di smarrimento e di energia.
Tra le prime opere presenti nel giardino c’è Pietrino, lavoro con cui Sciola si dimostrò essere la rivelazione della mostra d’arti figurative (alla quale i suoi amici lo iscrissero di nascosto) e che lo portò a vincere la borsa di studio. L’opera venne restaurata nel 2018, ed è la prima e unica scultura figurativa all’interno della sua produzione. Pietrino non è altro che un bambino scolpito in arenaria: indossa infatti un berretto, dei pantaloni, e un gilet sopra il maglione. Sciola trovò l’ispirazione quasi per caso, quando, davanti alla porta di casa, vide la sagoma di uno scolaretto camminare verso scuola, e da allora decise di creare una statua simile a lui e di farla vivere.
Tra le altre pietre presenti nel giardino c’è un omaggio a Piet Mondrian: si tratta di un monolite in pietra di basalto caratterizzata da sottili e profondi tagli che riprendono le più famose opere dell’artista olandese. In quest’opera Sciola riesce a rendere perfettamente le diverse scale di grigi che caratterizzano la superficie della pietra.
Un’altra delle più importanti opere è Jazz Stone, prima opera sonora presentata al pubblico, il cui nome è legato a Time in Jazz, manifestazione svoltasi nel 1996 a Berchidda, un paese nel nord della Sardegna, in provincia di Sassari in cui l’opera venne esposta per la prima volta. Con questa opera l’artista si presentò al grande pubblico, mostrando a quest’ultimo le peculiarità e il funzionamento della sua arte. Durante la manifestazione e il concerto, Pinuccio suonò questa pietra, accompagnando l’esibizione di un percussionista svizzero. In questo caso la pietra è un basalto lasciato volutamente allo stato grezzo. Sciola anche qui mantiene una grande precisione nei tagli, di diverse lunghezze, che creano una sorta di contrasto con la parte in superficie della pietra. Durante la manifestazione, ma anche in generale, l’intenzione di Pinuccio era di rendere note le diverse qualità della pietra e le potenzialità che fino ad allora erano state sottovalutate o ignorate
Così lui, con una leggera carezza di mano, faceva “cantare la pietra”, e nonostante questo possa sembrare a prima vista un atto semplice, in realtà per far suonare le sue pietre ci vuole una grande maestria tecnica, che ad oggi solo poche persone hanno. Tra le poche persone che riescono ancora oggi a far risuonare le sue opere c’è Maria, la figlia di Pinuccio, e le guide del Giardino sonoro.
Grazie a Sciola le pietre non solo “cantano”, ma diventano elastiche, trasparenti, malleabili, dinamiche. Oltre al basalto, l’artista cominciò a lavorare anche il calcare di Orosei, una pietra di origine sedimentaria, fossile, che regalava un suono più melodioso e meno duro.
La fama di Sciola venne suggellata dalla collaborazione, iniziata nel 2002, con l’architetto Renzo Piano. All’artista venne chiesto di produrre una grande pietra sonora in basalto da collocare nel giardino del Nuovo Auditorium della Musica a Roma. Oggi le sue sculture, innumerevoli e tutte diverse tra loro, sono esposte in tutto il mondo e le sue pietre, fonte di ispirazione per molti artisti e musicisti contemporanei, vengono impiegate in concerti.
“C’è un patto tra Pinuccio Sciola e le pietre di Sardegna, tant’è vero che assomigliano l’uno alle altre come due gocce d’acqua. Deve essere la ragione per cui le pietre si lasciano fare di tutto da lui: tagliare, perforare, frammentare. Riesce persino a farle suonare. Fantastico.”
Renzo Piano
Informazioni utili
Giardino Sonoro, San Sperate, Via Oriana Fallaci
Dal lunedì al giovedì ore 10:30 – 16:00 (ultimo ingresso alle h. 15:00)
Venerdì, sabato e domenica dalle 9:30 alle 17:00 (ultimo ingresso alle h. 16:00).
Le foto delle opere in pietra sono state scattate dall'autrice dell'articolo.
Sitografia
Pinuccio Sciola Museum. Giardino Sonoro e Laboratorio all’aperto dello scultore - https://www.psmuseum.it
https://www.finestresullarte.info/viaggi/giardino-sonoro-di-pinuccio-sciola-sardegna
LA ZONA ARCHEOLOGICA DI NORA E I SUOI MOSAICI
A cura di Denise Lilliu
In Sardegna, a circa 40 km da Cagliari sorge, direttamente su una penisola ai piedi di Capo Pula, l’antica città di Nora, uno dei siti archeologici più importanti e più visitati della Sardegna.
La città di Nora (da Norace, il presunto fondatore) è stata fondata fra il IX e VIII secolo a.C., primo tra gli insediamenti fenici in Sardegna. Con il passare del tempo essa è passata dapprima nelle mani dei cartaginesi e subito dopo è diventata un grande municipium romano. Anche se il periodo romano fu in assoluto il più ricco e prospero per la città, è altrettanto doveroso ed importante ricordare come siano state trovate tracce che attesterebbero una preesistente presenza nuragica.
Dopo la caduta dell’impero romano, la città di Nora venne lentamente abbandonata a se stessa, probabilmente per le ripetute incursioni dei pirati che risalivano nell’isola direttamente dal Nord dell’africa.
La fama della città di Nora è dovuta soprattutto alla presenza delle terme. Altri edifici superstiti della città romana sono il Tempio di Esculapio, la kasbah, il tempio di Tanit, il teatro romano, il tempio, il foro, la casa dell’atrio tetrastilo – dove sono stati rinvenuti alcuni dei mosaici – ed infine le terme, la basilica, e il macellum. Al di là della presenza di questi edifici, va anche detto che parte della città di Nora si trova sprofondata sotto le acque del mare.
I mosaici
La decorazione musiva di Nora risale a un’epoca che va dalla fine del II secolo d.C. all’inizio del IV secolo d.C. In questo periodo, la città visse una fase di grande fioritura soprattutto nei traffici commerciali e nello sviluppo di infrastrutture urbane. I mosaici a Nora si trovano collocati in ambienti diversi (nel frigidarium delle Terme centrali, nella Casa dell’atrio tetrastilo, che è anche l’edificio più conosciuto di Nora, nel Tempio romano e nelle Piccole terme) tutti poco lontani l’uno dall’altro e decorati, a partire dalla consueta unione di tessere colorate disposte una accanto all’altra, a creare dei disegni geometrici piuttosto che figure vere e proprie. Tra i motivi ricorrenti ci sono forme geometriche semplici, intrecci, motivi circolari o floreali, che generalmente si connotano per la presenza di tonalità cromatiche comuni, come l’ocra, il nero, il bianco e il rosso, con una certa presenza anche di tinte azzurre.
La casa dell’atrio tetrastilo
Nella cosiddetta Casa dell’atrio tetrastilo, portata alla luce dall’archeologo Gennaro Pesce negli anni 50, e chiamata così per via della presenza di quattro colonne monolitiche, si trovano i mosaici più noti che ne ornano i diversi ambienti interni, recentemente sottoposti ad un intervento di restauro.
La casa, che si trova nella zona sud della penisola, è una delle abitazioni più grandi rinvenute a Nora; visibili risultano infatti, anche a distanza e in tutta la loro imponenza, i quattro pilastri che attirano l’attenzione dei visitatori. Lo stato di conservazione della casa è per la maggior parte ottimo, eccezion fatta per la parte sinistra, che ha subito le conseguenze dell’azione erosiva del tratto di mare circostante.
La casa è suddivisa in diversi ambienti che accolgono l’ospite con grandi mosaici pavimentali. Nella stanza adibita a camera da letto si trova un mosaico bipartito, che raffigura nell’emblema una nereide[i] seminuda seduta sul dorso di un animale marino, presumibilmente un delfino. L’emblema[ii] oggi risulta consumato e quindi visibile solo per metà. In questo mosaico prevalgono il bianco, il nero, il porpora e l’ocra. Non mancano, poi, disegni geometrici spigolosi misti a linee morbide e intrecci somiglianti a ghirlande. I tipi di mosaici presenti ci consentono di poter datare la casa tra la fine del II secolo d.C. e la prima metà del III secolo d.C.
Il tempio romano
Un altro pavimento mosaicato è presente nel Tempio romano, che si erge da sopra una collina posta precisamente a ovest del foro romano. Risalente al periodo tra la fine del II secolo d.C. e l’inizio del III secolo d.C., anche questo spazio è stato riportato alla luce dall’archeologo Gennaro Pesce negli anni cinquanta.
Il tempio, che è uno degli edifici meglio conservati di Nora, si presenta con un atrio accompagnato da sei colonne, di cui oggi ne è sopravvissuta solo una, costruita solo successivamente all’epoca romana. Insieme all’unica colonna, rimangono, del tempio romano anche la pavimentazione mosaicata, la base della muratura e il fondo della cella destinata a conservare oggetti sacri. Ai piedi del tempio, inoltre, si riunivano i fedeli per la preghiera. Il mosaico che si trova nella pavimentazione del tempio romano non è molto diverso dal resto dei mosaici pavimentati presenti a Nora. Le tessere sono poste vicine tra loro a creare forme geometriche diverse, nello specifico dei rombi di grandezze differenti circondati da una serie triangoli. Il risultato è una composizione modulare, in cui le tinte principali sono ancora il bianco, l’azzurro e l’ocra.
Terme centrali
Un altro ambiente in cui è presente un pavimento mosaicato è il corridoio delle terme centrali, ubicate nella zona sud della kasbah. Anche queste sono state riportate alla luce da Gennaro Pesce, ma di esse rimangono solo pochi resti visibili, come le fondazioni e alcuni frammenti della decorazione pavimentale.
Le terme sono formate da diverse camere: gli spogliatoi, il frigidarium in cui troviamo un mosaico, il tepidarium e il calidarium, spazi in cui le acque riscaldate raggiungevano alte temperature. Nelle terme sono presenti anche due colonnati: quello a est permetteva l’accesso agli ambienti freddi, mentre il colonnato a ovest ospitava un altro pavimento, ricoperto da mosaici, databili al III secolo d.C., che, danneggiati in alcune parti, presentano ancora delle forme geometriche: cerchi di grandi dimensioni, quadrati e triangoli che fungono da cornice. Ancora una volta il bianco, il nero e l’ocra sono le tonalità preminenti.
Le piccole terme
Le terme centrali non sono le uniche presenti a Nora, e ad esse si aggiungono altri tre complessi termali: le terme di levante, le terme a mare e le piccole terme. Queste ultime, ubicate al lato ovest della penisola, custodiscono un altro pavimento con mosaico, risalente al IV secolo d.C. di cui si sa poco, mancando anche un’adeguata documentazione fotografica.
Gli esempi qui descritti sono, tuttavia, solo gli esempi più eloquenti della decorazione musiva di Nora, mentre altri sono tuttora in via di riqualificazione e ristrutturazione.
Informazioni utili
Alcune informazioni utili per chi vuole visitare Nora:
Orario estivo: 9.00-21.00, con ultima visita un’ora prima del tramonto alle 20:00.
Orario invernale: 9:00-17:00, con ultima visita un’ora prima del tramonto.
Prezzo intero 8€ compresa visita guidata.
Prezzo ridotto: 4€.
https://www.museionline.info/tipologie-museo/area-archeologica-di-nora.
Note
[i] nella mitologia greca sono ninfe marine, figlie di Nereo e Doride.
[ii] Riquadro con mosaico al centro dell’ambiente realizzato con tessere di piccole dimensioni e tipico del mondo romano.
Bibliografia
Gennaro Pesce, Nora. Guida agli scavi, Cagliari, 1972.
Carlo Tronchetti, La casa dell’atrio tetrastilo, in Nora. Recenti studi e scoperte, Pula, 1985.
Carlo Tronchetti, Nora (Sardegna archeologica. Guide e itinerari, 1), Sassari, Carlo Delfino, 1986.
Sitografia
https://nora.beniculturali.unipd.it/
http://www.isolasarda.com/nora-itinerario.htm