PITIGLIANO. LE OPERE E GLI ARTISTI, PARTE II

A cura di Luisa Generali

 

Dopo una prima introduzione al borgo di Pitigliano ci addentriamo negli ambienti di palazzo Orsini, che dal 1998 ospita il museo diocesano con un allestimento che, attraversando l’intero edificio, consente di apprezzare gli ambienti e gli apparati decorativi degli interni: appena varcata la soglia dell’atrio esterno saremo infatti subito accolti da un magnifico soffitto affrescato con la ruota dello zodiaco (fig.1), tema caro al rinascimento, che alla superstizione e al mito univa gli interessi verso la scienza. L’immagine della ruota con i simboli dell’oroscopo, che si sviluppa in parte proprio sopra la magnifica scalinata che conduce al piano superiore, è immessa in un cielo stellato a sua volta corredato di elementi decorativi geometrici e figurativi, tra cui sui pennacchi troviamo motivi a grottesche, altro tema caro alla cultura figurativa rinascimentale. Questi affreschi, come la maggior parte delle decorazioni parietali meglio conservate, sono da riferirsi al periodo più avanzato della storia del palazzo, riconducibili ai secoli XVI -XVII; appartengono infatti all’intervento dei Medici, detentori della contea e del palazzo dal 1604 fino XVIII secolo, tutta una serie di ambienti con soffitti e pareti dipinti secondo un gusto molto ricco, contraddistinto spesso da tendaggi e parati fittizi, “velari d’arredo”, restituiti vividamente grazie agli espedienti della pittura illusionistica (fig.2-3). Si alternano a questi interventi più recenti anche alcune decorazioni parietali quattrocentesche risalenti alla dominazione degli Orsini, come nello Studiolo del Conte voluto dallo stesso Orsini (fig.4-5-6).  Attribuito alla mano di un ignoto pittore Quattrocentesco di formazione a metà tra l’area toscana-senese e un certo sintetismo di parte viterbese, il ciclo pittorico si rifà ai famosi esempi del ciclo degli uomini illustri, raffigurando nei medaglioni diversi personaggi della casata. Tra queste personalità è indicato da un cartiglio Totila “Flagello di Dio”, re degli Ostrogoti, ricordato come condottiero impavido, figura leggendaria rimasta nella storia per il coraggio, la cui presenza qui voleva forse alludere al paragone con le importanti imprese belliche compiute da Niccolò III. Il pittore cerca di restituire anche una certa verosimiglianza prospettica attraverso l’espediente del clipeo cassettonato a cui si affacciano i personaggi, mentre nel fregio più in alto accanto ad alcuni giocosi puttini sono alternate nature morte raffiguranti vari oggetti, tra cui dei libri rappresentati in maniera illusionistica generando l’effetto del trompe-l'oeil (pittura illusionistica, letteralmente “inganna l’’occhio”). La stanza del conte di Pitigliano si inserisce quindi a tutti gli effetti tra gli esempi di studioli privati rinascimentali, luoghi simbolo della cultura umanistica dove il riposo e lo esercizio intellettuale del sovrano si conciliavano appieno con l’arte circostante.

 

Tra le opere più significative ospitate nel museo troviamo in ordine di tempo la statua lignea raffigurante la Madonna col Bambino, capolavoro di Jacopo della Quercia (1374-1438). Proveniente dalla chiesa di Sant’Agostino a Santa Flora l’opera rappresenta perfettamente lo stile dello scultore, che alla formazione senese distinta dalla leggiadria e grazia gotica coniuga gli studi classici dell’area fiorentina anticipando i moti dell’animo della scultura rinascimentale. L’impronta di Jacopo della Quercia è ben evidente soprattutto nella figura della Vergine, la cui vitalità nel volto si associa al movimento mosso del manto che pervade il corpo per intero restituendo un effetto di maestosa eleganza(fig.7-8). Oltre alla forma l’artista vuole dare risalto anche alla sfera emotiva raccontando l’intimità di un momento, con il gesto fanciullesco di Gesù che con il braccio tenta di avvicinarsi a Maria, mentre lei lo corrisponde con un amorevole sguardo.

 

È invece da attribuire alla mano di una maestranza fiorentina (forse alla bottega di Donatello) il Tabernacolo Eucaristico in marmo corredato dallo sportellino centrale in metallo proveniente dalla cattedrale della vicina Sovana (fig.9). L’edicola si caratterizza in più registri dove la lavorazione a rilievo impreziosisce e delinea tutte le varie componenti di questa piccola architettura. Nell’opera si trovano elementi figurativi puramente rinascimentali ripresi dal linguaggio antico, come le due lesene con capitello corinzio che delimitano la zona centrale insieme a una serie di ornamenti, quali ghirlande, corone e motivi a palmette. Chiude in alto un coronamento semicircolare dove al centro è rappresentato il sacramento eucaristico, mentre nella parte inferiore il tabernacolo è terminato da una sorta di peduccio aggettante su cui è scolpito il blasone del Vescovo Tommaso Piccolomini. Ma la straordinarietà di questo antico arredo liturgico è data dalla perfetta conservazione dello sportellino centrale, opera coeva di oreficeria fiorentina in metalli preziosi quali rame, argento e oro (fig.10): la lavorazione di tali materiali costituisce un disegno chiarissimo a più livelli, dove in primo piano spicca in alto rilievo il Vir dolorum, ovvero l’immagine di Cristo ancora per metà nel sepolcro affiancato da due angeli in preghiera, in un momento ancora di transizione tra la morte corporea e la resurrezione. Mentre in primo piano si sviluppa quindi il tema sacro principale, lo sfondo della lamina di metallo diventa una sorta di “foglio metallico” su cui incidere i simboli della passione di Gesù. Tra le immagini più iconiche riconosciamo la corona di spine, il bacio di Giuda, le mani di Pilato, la colonna della flagellazione, il gallo, i dadi, la lancia e la scala. In alto negli angoli si fronteggiano il sole e la luna entrambi dall’ aspetto umanizzato, metafora della partecipazione dell’intero universo alla passione.

 

Viene datata alla prima metà del Cinquecento la statua in legno di pioppo, pregevole opera di bottega veneto-lombarda che omaggia a figura intera Niccolò III Orsini in vesti marziali (fig.11). La provenienza di area settentrionale è da attribuire al ruolo dell’Orsini, grande condottiero per la Repubblica veneta, ricordato dalla Serenissima come uno tra i più grandi comandanti dell’esercito veneziano e per questo omaggiato con un monumento funebre nella Basilica di San Giovanni e Paolo, accanto ai sepolcri dei Dogi. Originariamente policroma, la scultura celebrativa soprattutto delle virtù militari del signore evoca in modo realistico le caratteristiche fisiche dell’Orsini confermate anche dalla ritrattistica che ci è giunta, e si sofferma con molta attenzione sui dettagli dell’armatura, anche questi particolarmente attenti al dato reale.

 

Tra le opere di Palazzo Orsini non si potrà non notare inoltre un piccolo ma raffinatissimo pezzo della bottega dei Della Robbia (XV secolo), di provenienza dubbia, e forse unico superstite di una pala in rilievo nei classici toni monocromi della terracotta invetriata raffigurante una Madonna con Bambino (fig.12). Colpisce la delicatezza di questo unico frammento in cui il solo fatto di poter osservare il volto di Maria non lascia spazio ad altre distrazioni; anche se di dimensioni ridotte è infatti immediatamente riconoscibile la maestria che caratterizza questa famiglia di artisti nel definire con pochi tocchi di colore un ovale perfetto dalla bellezza immacolata e al contempo viva di sentimenti.

 

Concludiamo questa rapida panoramica tra le opere del museo con la tavola raffigurante L’Assunzione di Maria di Girolamo di Benvenuto (1470-1524), figlio di Benvenuto di Giovanni, famiglia di artisti senesi che subì precocemente l’influenza della scuola fiorentina (fig.13). L’opera rappresenta al centro il miracolo dell’Assunzione, in cui la figura di Maria appare ieratica e salda nella sua monumentalità, avvolta in un velo bianco che presenta un elegante motivo arabescato: ai lati una schiera di santi e angeli musici presenzia all’evento divino mentre sul piano terreno assistono alla scena i santi Tommaso, Girolamo e Francesco.  La tavola, proveniente dal convento della SS. Trinità di Selva, conserva la stessa identica composizione dell’Assunzione della Vergine nella chiesa dei Santi Sebastiano e Fabiano ad Asciano, affresco attribuito alla mano di Benvenuto di Giovanni, a cui si pensa però che abbia collaborato anche il figlio (fig.14). Sebbene il tentativo ben riuscito di una perfetta imitazione, nell’opera di Pitigliano Girolamo di Benvenuto sembra superare gli insegnamenti paterni dimostrando una maggiore consapevolezza dei volumi e nella modulazione delle luci e ombre. L’utilizzo della tecnica a tempera su tavola restituisce inoltre una lucentezza dei colori molto più viva che produce un effetto smaltato e permette di giocare su la preziosità di certi dettagli; se infatti ad una prima occhiata l’apparizione miracolosa sembra il solo accadimento, ad uno sguardo più attento si potrà notare sullo sfondo un brulicare di quotidiane situazioni che ingentiliscono la scena collocandola in uno scenario terreno (fig.15-16-17). Gran parte del fondale è occupato da un paesaggio marino circoscritto da lievi montuosità e popolato da imbarcazioni più o meno grandi di cui sorprendono certe minuscole particolarità realizzate con l’attenzione di un miniaturista: sulla terra ferma  cavalieri, gentiluomini a passeggio e strutture architettoniche di fantasia impreziosiscono lo scenario stemperando con le leggerezze della vita quotidiana l’austerità del momento divino; colpisce inoltre la maestria dell’artista nella realizzazione di certe figurine in nero dai tratti stilizzati, definiti con brevissimi tocchi di pennello e rapide lumeggiature.

 

 

 

 

Bibliografia

I trionfi degli Orsini: gli affreschi ritrovati, a cura di Marco Monari, Pitigliano (Gr) 2013.

Corridori, Il Palazzo Orsini di Pitigliano nella storia e nell’arte: dai conti Aldobrandeschi ai conti Orsini, dai granduchi di Toscana ai vescovi di Sovana, Firenze 2004.

 

Sitografia

Su Jacopo della Quercia: https://www.treccani.it/enciclopedia/jacopo-di-piero_%28Dizionario-Biografico%29/#:~:text=JACOPO%20di%20Piero%20(Jacopo%20della,334

Su Benvenuto di Giovanni: https://www.treccani.it/enciclopedia/benvenuto-di-giovanni_%28Dizionario-Biografico%29/

Su Girolamo di Benvenuto: https://www.treccani.it/enciclopedia/girolamo-di-benvenuto-di-giovanni_%28Dizionario-Biografico%29/


IL BORGO-FATTORIA DI VILLA SALETTA

Il territorio di Palaia, immerso tra i verdeggianti colli pisani, si caratterizza per essere popolato da piccole frazioni originariamente nate come borghi-fattorie, proprietà di ricchi feudatari: fra questi nuclei agricoli si trova anche Villa Saletta, località di probabile fondazione longobarda, appartenuta ai territori della certosa di Calci fino al 1461 ed in seguito passata ai Riccardi, nobile famiglia fiorentina detentrice di diversi territori nel contado (fig.1).

 

Fin dal loro insediamento a Villa Saletta i Riccardi si occuparono a più riprese dell’asseto architettonico e organizzativo del villaggio, sviluppatosi lungo una direttrice principale aperta su un ampio piazzale i cui lati sono ancora oggi circoscritti da quattro edifici principali: la villa padronale, le due chiese e la torre dell’orologio. Questa ben studiata conformazione dello spazio venne commissionata dal Suddecano Gabriello Riccardi (1705-1798), senz’altro il componente della famiglia più legato a Villa Saletta, a cui si devono gli importanti interventi di ammodernamento della fattoria oltre che una gestione sapiente e rispettosa del contado. Gabriello era il terzogenito del marchese Cosimo Riccardi, erede della casata fiorentina che risiedeva nell’imponente palazzo di Via Larga, un tempo appartenne a Cosimo il Vecchio de’Medici, oggi denominato appunto Palazzo Medici-Riccardi. A Villa Saletta la presenza dei Riccardi è ancora oggi impressa negli stemmi gentilizi ritraenti la chiave, simbolo della famiglia, disseminati nel borgo in diverse forme, come nei blasoni lapidei sopra i portoni, oppure impressi ad affresco sulle mura degli edifici (fig.2-3-4).

 

Gli interessi personali del Suddecano, appassionato studioso e uomo di fede, ben si combinavano con la tranquilla campagna di Villa Saletta, la sua residenza prediletta congeniale ai suoi interessi, dove amava trascorrervi molto del suo tempo e conservare qui anche una piccola raccolta di libri. A livello sociale l’interesse di Gabriello verso le famiglie contadine che abitavano il borgo fu finalizzato a un miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita, un impegno che volle garantire anche dopo la sua morte come riportato puntualmente nei suoi atti testamentari. È negli anni ‘70 del Settecento che Gabriello teorizzò un moderno piano urbanistico, volto a rinnovare la facies della piazzetta antistante la dimora patronale, attraverso una trasposizione in scala minore delle grandiose forme architettoniche in voga nei centri cittadini toscani. La commissione di tale progetto fu caldeggiata dallo stesso in una lettera indirizzata al Vescovo di San Miniato nel 1774, chiedendo l’autorizzazione a smantellare l’oratorio di proprietà della Compagnia della Natività di Maria SS. e del Divino Sacramento, per potervi erigere a sue spese una nuova chiesa “più grande e artistica” (fig.5); il Suddecano con il consenso dei confratelli, s’impegnava inoltre a garantire la ricostruzione con il materiale della demolizione e chiedeva, ad opera compiuta, di potervi trasferire l’icona della Vergine della Rocca, l’immagine sacra di ignota provenienza adorata dalla popolazione locale, che si trovava in valle ai piedi di un grande masso pericolante.

 

Con l’approvazione della curia l’oratorio venne consacrato il 28 ottobre 1775 e la sera stessa venne salutata in una solenne processione la transizione dell’immagine sacra in una grande edicola posta dietro l’altare maggiore, da cui purtroppo venne trafugata negli anni ‘90 del secolo passato. All’interno l’oratorio (attualmente non accessibile) si presenta ad aula unica con volta a botte, riccamente decorato con stucchi e quadrature prospettiche nella zona presbiteriale, mentre le pareti laterali tinteggiate del tipico verde lorenese sono scandite da cornici e motivi a candelabre. Per legare indissolubilmente il nome di Gabriello a questo territorio, il Suddecano nel 1798 desiderò avere sepoltura proprio in questo oratorio, come indica ancora oggi dalla lapide dedicatoria in sua memoria. Esternamente l’oratorio si può ancora ammirare nelle forme del tardo barocco pisano, avvicinabile alle architetture dei progettisti Ignazio Pellegrini (1715-1790) e dell’ancora poco conosciuto Nicolaio o Nicola Stassi (?-1794), molto attivo nel territorio.

La facciata, in linea con gli edifici religiosi di quest’area, presenta un profilo estremamente semplice chiuso ai lati da alte lesene e raccordato nelle due ali laterali leggermente sporgenti da piccole volute: la finestra “a campana” tamponata costituisce l’unico elemento esornativo evidente che con le sue linee sinuose ne movimenta il prospetto. Alla fase dei lavori per la costruzione dell’Oratorio della Vergine della Roccia si deve anche il restauro settecentesco della chiesa priorale dei Santi Pietro e San Michele (fig.6).

 

Probabilmente riedificata nel 1594 dagli stessi Riccardi su una preesistenza ancor più antica, il Suddecano Gabriello provvide a uniformare stilisticamente i due edifici sacri della piazza apportando delle modifiche anche alla più antica chiesa; sul fronte vennero infatti aggiunti il portale con timpano spezzato, la finestra a campana e lo stemma della casata. Alcune foto d’epoca testimoniano come fino al secolo passato la facciata fosse movimentata da un elegante bozzato pitturato, in seguito perduto. L’interno si presenta a navata unica con un grande arco che immette nella zona presbiteriale (fig.7): dietro l’altare maggiore si conserva una tela raffigurante La Madonna del rosario e Santi di epoca seicentesca, mentre sulle pareti laterali trovano posto un Santo agostiniano (probabilmente San Nicola da Tolentino) che salva le anime dall’inferno (XVIII secolo?) e una Madonna fra Santi (fig.8), l’opera qualitativamente più interessante, che tradisce suggestioni coloristiche venete, forse da attribuire all’entourage del pittore Francesco Conti (1681-1760), attivissimo per i Riccardi e da loro protetto per tutta la vita.

 

Alla sinistra del portale d’ingresso la nicchia che contiene la fonte battesimale è decorata ad affresco con l’episodio del Battesimo di Gesù, eseguito da un ignoto pittore settecentesco (fig.9-10-11). La tecnica veloce e compendiaria, unita all’ottimo risultato finale e alla qualità dei colori ancora ben conservati, farebbe pensare ad una mano esperta, abituata a dipingere in modo professionale e rapido.

Attualmente proprietà di privati che permettono il mantenimento del borgo fantasma e dell’intera tenuta, Villa Saletta, proprio per il suo fascino antico, nel corso degli ultimi tempi è stata locations cinematografica di diversi film.

 

 

 

Bibliografia

G. Bartoletti, La libreria privata del marchese suddecano Gabriello Riccardi: il fondo manoscritti, Firenze 2017.

A.Alberti, Villa Saletta in Valdera: da villaggio medievale a fattoria modello di età moderna. Pisa 2007.

 

Sitografia

Sulla famiglia Riccardi: https://www.treccani.it/enciclopedia/riccardi

Su Francesco Conti: https://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-conti_%28Dizionario-Biografico%29/


PITIGLIANO: IL BORGO PT I

A cura di Luisa Generali

 

Il borgo di Pitigliano

In provincia di Grosseto vicino al confine con il Lazio si trova la magnifica cittadina di Pitigliano (fig.1). Alla sua vista, una volta percorsa la strada che porta nel cuore della Maremma nell’area delle così dette città del tufo (Pitigliano, Sorano, Sovana), non si potrà che rimanere affascinati dal frastagliato sperone che sostiene e innalza il borgo, classificato tra i più belli d’Italia. Ne dà una propria interpretazione il pittore tedesco della corrente contemporanea realista, Andreas Orosz, celebre per le sue prospettive moderne: posizionato di fronte al paese, sulla terrazza panoramica che si trova sulla strada che conduce al centro e che offre la prima sosta per ammirare Pitigliano, l’artista coglie con lo sguardo di sorpresa di molti turisti, restituendo un’immagine quasi fotografica della realtà meravigliosa che si palesa all’improvviso davanti agli occhi (fig.2).

 

Sopraelevato sul tufo spoglio che dà un effetto ancora maggiore di slancio verso l’alto, Pitigliano si presenta come un luogo al limite del surreale, sensazione che aumenta la notte quando le luci accendono ulteriormente il colore ambrato del tufo (fig.3). Anche detta “La Piccola Gerusalemme” per la comunità ebraica che animò con la sua cultura una parte del borgo, è facile perdersi tra gli angoli e le vie di questo luogo, intervallate da ripidi sali e scendi, scorci da cartolina dei tipici rustici toscani e vertiginosi terrazzamenti affacciati sulla rupe.

 

Pitigliano: storia e architetture

Già abitato dagli Etruschi, di cui rimangono numerose tracce nelle vicine necropoli e nelle vie cave (sentieri scavati nel tufo perfettamente conservati), la storia della contea di Pitigliano inizia con il dominio della famiglia Aldobrandeschi della vicina Sovana che come presidio sul territorio costruì il primo nucleo di quella che divenne in seguito la fortezza. Nel 1313 con l’unione della casata Aldobrandeschi agli Orsini, la roccaforte assunse anche il ruolo di palazzo residenziale dei signori che manterranno la propria autonomia fino al 1604, quando la contea passò definitivamente al Granducato dei Medici.  Il centro delle vicende storiche del borgo si svolse principalmente a cavallo tra i secoli XV e XVI, sotto la reggenza degli Orsini che si dimostrarono sovrani aperti alle novità dell’arte e dell’architettura rinascimentale. Il primo intervento in tal senso fu voluto da Niccolò Orsini (1442 –1510), famoso capitano di ventura a servizio di diverse potenze italiane, come lo Stato Pontificio e la Repubblica di Venezia, che intorno alla metà del Quattrocento investì le proprie risorse nella ristrutturazione della fortezza-palazzo commissionata a Antonio da San Gallo il Giovane (1484 –1546), figlio d’arte della famiglia di celebri architetti che contribuirono a definire i canoni della matura architettura rinascimentale civile, religiosa e militare. L’impronta quattrocentesca della fortezza oggi è ancora evidente sia esternamente nella preminenza massiccia della struttura, che all’interno, già riconoscibile nell’impianto e nelle decorazioni scultoree del cortile lastricato. Attraverso una rampa di accesso presidiata dalla statua di un leone (fig.4), si accede al chiostro tramite un ingresso delimitato da due basse colonne ornate con motivi tipici rinascimentali (insegne, cartigli, canestri di frutta), gli stessi simboli che si trovano ancora più sfarzosamente a ricoprire lo stipite del portale da cui si accede agli interni e probabilmente opera di maestranze lombarde che all’epoca rappresentavano i più esperti professionisti nella lavorazione della pietra per fini ornamentali. In posizione laterale nel cortile si trova un altro simbolo dell’epoca: il pozzo, la cui importanza è evidenziata dalla presenza “all’antica” delle due colonne e l’architrave. Indispensabile per il rifornimento d’acqua dei sovrani, anche la vera di rivestimento diviene motivo di autocelebrazione con la decorazione a rilievo dei blasoni della casata Orsini (fig.5).

 

Appartiene a questo periodo storico anche il progetto per l’acquedotto, opera monumentale che si rese necessaria per il corretto rifornimento idrico della città (fig.6). Iniziato su progetto dello stesso Antonio da San Gallo il Giovane, la completa realizzazione avvenne solo nel Seicento dopo una serie difficoltà legate alle criticità del territorio che condussero al magnifico monumento che oggi caratterizza il paesaggio urbano di Pitigliano. L’acquedotto spicca, infatti, per la sua maestosa architettura che si sviluppa in due ampie arcate, sorrette da un grande e profondo pilastro, per poi proseguire in una serie di archi più piccoli e continui. La funzione pratica di quest’opera si sposa alla perfezione con l’insieme scenografico del paese, accentuandone la verticalità e conciliando i bisogni con un intento estetico che valorizza il paesaggio fuori e dentro l’abitato: le arcate a sostegno dell’acquedotto diventano così delle grandi finestre che incorniciano i suggestivi scenari della Maremma.

 

Addentrandoci nel centro storico il fulcro del borgo è rappresentato da Piazza della Repubblica, la cui attrattiva principale è la Fontana delle Sette Cannelle (fig.7), che fa da quinta al piazzale e permette un ulteriore affaccio sulla rupe. Realizzata come sorgente pubblica, l’architettura di accompagnamento alla fontana (costruita con conci in tufo), si pone in continuità visiva con l’acquedotto grazie ad una serie di arcate che fanno da cornice alla vasca. Anche in questo caso il disegno è movimentato dall’alternanza degli archi, sui lati piccoli e ribassati, mentre un’arcata maggiore spicca centralmente: ad uniformare l’insieme due volute di raccordo addolciscono la struttura collegando le arcate minori con la principale. Definiscono il coronamento alcuni elementi decorativi che, come dei piccoli pinnacoli, vogliono evidenziare l’importanza del monumento.

 

Per concludere non può mancare inoltre una visita alla cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, di antica fondazione medievale che oggi possiamo ammirare come perfetto esempio di architettura barocca a seguito degli interventi di rifacimento settecenteschi (fig.8). L’aspetto attuale della facciata appare costellato di addobbi in stucco tra modanature e ornamenti scultorei che ne scandiscono il fronte simmetricamente, dando particolare rilevanza alle due nicchie laterali con le immagini di Pietro e Paolo, i Santi titolari della chiesa. L’utilizzo dello stucco oltre ad essere impiegato per creare e impreziosire gli elementi architettonici, viene qui adottato anche per imitare la tecnica del rilievo, per ingentilire i profili delle finestre o creare veri e propri disegni decorativi, come avviene per la delicatissima cornice che si dipana sopra il portale principale.

 

 

 

 

Bibliografia

Dominici, Pitigliano - città del tufo, Arcidosso (GR), 2015.

 

Sitografia

https://www.museidimaremma.it/it/monumenti_e_luoghi.asp?keyattrazione=50


MASOLINO DA PANICALE

A cura di Luisa Generali

 

 

Tra gli artisti del primo Rinascimento fiorentino si colloca Tommaso di Cristofano di Fino, detto Masolino da Panicale (1383 c.-1440 c.), pittore e frescante che deve gran parte della sua fama odierna al riflesso di tutta quella letteratura che fa capo agli studi su Masaccio e alla collaborazione fra i due artisti. Le notizie sulla vita di Masolino sono ancora oggi farraginose a cominciare dall’origine che gli fu attribuita per primo dal Vasari nelle Vite, coniando la denominazione di provenienza “da Panicale”, pur non comparendo in realtà in nessuno dei documenti coevi. Quindi sulla scia della tradizione vasariana la critica è stata spinta per molto tempo ad identificare questo territorio nella zona della Valdelsa (proprio come si trova scritto nelle Vite), mentre di recente le ipotesi si sono spostate verso Panicale dei Renacci, che per la vicinanza a San Giovanni Valdarno, luogo d’origine di Masaccio, spiegherebbe il motivo primo della conoscenza dei due artisti. Non si esclude comunque la provenienza da Panicale in Umbria, al confine con la Toscana. La vita di Masolino fu costellata da viaggi e spostamenti continui esercitando anzitutto la professione di “frescante”, alle prese con una committenza eterogenea che lo portò a lavorare per uomini di potere e molto spesso in contesti religiosi.  Nell’incipit della sua Vita, Vasari traccia così i caratteri salienti di questo artista:

 

“Fu persona Masolino di buonissimo ingegno, e molto unito e facile nelle sue pitture, le quali con diligenza e con grand’amore a fine si veggono condotte. […] Cominciò similmente Masolino a fare ne’volti delle femmine le arie più dolci; ed ai giovani gl’abiti più leggiadri che non avevano fatto gl’ artefici vecchi; et anco tirò di prospettiva ragionevolmente. Ma quello in che valse più che in tutte le altre cose fu nel colorire in fresco.”

 

Mentre non sappiamo quasi nulla dei suoi primi quarant’anni, dove forse peregrinò come frescante Oltralpe, l’attività matura di Masolino si svolse invece negli anni cruciali del rinascimento fiorentino vivendo da co-protagonista la rivoluzione pittorica masaccesca.

 

La sua formazione iniziata probabilmente in famiglia fu arricchita dagli insegnamenti del maestro Gherardo Starnina (1354/1360 circa-1413), che di ritorno a Firenze dopo un soggiorno in Spagna, introdusse nel clima artistico coevo la vivacità pittorica del Gotico internazionale, incentrato sull’eleganza delle forme e una nuova componente naturalistica. Senz’altro Masolino fu influenzato anche dal gusto fiabesco della tradizione giottesca filtrata attraverso Agnolo Gaddi (1350 circa-1396) e dall’eleganza formale di Lorenzo Monaco (1370 c. -1422 c.); un altro importante ascendente fu esercitato da Gentile da Fabriano (1370-1427) e la sua preziosissima Adorazione dei Magi, datata al 1423 e commissionata da Palla Strozzi per la cappella di famiglia in Santa Trinita a Firenze. Altri nomi facevano parte di questo nuovo clima fiorentino, come Giovanni da Milano (1325-1375 c.), pittore padano trasferitosi a Firenze, Bicci di Lorenzo (1368-1452), la cui bottega fu una delle più attive in tutta Toscana, e Lorenzo Ghiberti (1378-1455), fautore della riscoperta classica; inoltre era in pieno atto la svolta prospettica di Brunelleschi (1377-1446), mentre Donatello (1386-1466) fra il 1415-1417 aveva appena terminato il San Giorgio, esempio massimo in scultura degli ideali rinascimentali.  Questo clima di nuove tendenze artistiche costituì il bagaglio formativo grazie al quale Masolino intraprese la sua personale carriera di pittore. Tuttavia, ciò che più scosse il suo percorso di artista fu senz’altro l’incontro con Masaccio (1401-1428), come definito da Toesca con una descrizione che non lascia spazio a congetture, “il massimo novatore dell’arte figurativa occidentale”. È proprio questa ingombrante ombra di Masaccio che, pur gravando sulla figura di Masolino, pose il suo stile a metà strada fra tradizione e innovazione, ancora legato ad una visione incantata della realtà, a differenza del giovane Masaccio che per primo si misurò con la realistica interpretazione della natura umana. Da sempre condannato al confronto con il suo collega di bottega (in quanto i due ebbero per un periodo una “compagnia” di lavoro), e spesso considerato un “ritardatario”, la figura di Masolino è stata oggi in parte riscattata grazie al ruolo di mediatore nello sviluppo dell’arte rinascimentale, con una propria individualità senz’altro più tardogotica che rinascimentale ma proiettata in tal senso. Anche lo stesso Vasari sembra riconoscere a Masolino dei meriti che vanno oltre la descrizione di un artista tardogotico, individuando il suo progresso nella modulazione delle ombre e delle luci, indirizzato quindi verso il concetto di verosimiglianza al dato reale:

 

“Truovo la maniera sua molto variata da quella di coloro che furono innanzi a lui, avendo egli aggiunto maestà alle figure […] e perché egli cominciò a intender bene l’ombre et i lumi”.

 

Le prime opere

Una tra le prime opere attribuite a Masolino per via stilistica è la Madonna dell’Umiltà conservata agli Uffizi e datata intorno al 1415 circa (fig.1). Sebbene l’incertezza attributiva, la tenerezza del morbido incarnato insieme alla grazia incantevole della Madonna, suggeriscono la paternità dell’artista in una fase ancora giovanile influenzata dalla pittura di Lorenzo Monaco. La tavola a fondo dorato presenta la Vergine seduta su un cuscino mentre sorregge il Bambino per allattarlo: in questo movimento tenero e naturale un chiarore appena percettibile forma delle lumeggiature sulla veste e nel manto blu che si increspa morbidamente a pieghe larghe.

 

Nella tavoletta raffigurante La Madonna col Bambino, datata 1423 e conservata al Kunsthalle di Brema (fig. 2), lo stile pittorico dell’artista subisce un’evoluzione in linea con la pittura fiorentina del primo Quattrocento: la plasticità del corpo del Bambino appare infatti più solida, mentre la sua libera gestualità nello slancio verso madre indicano una tendenza progressiva verso l’umanizzazione dei soggetti rappresentati.

 

La collaborazione con Masaccio

La collaborazione fra Masolino e Masaccio - ormai difatti è appurato che la loro fu un’unione professionale e non, come a lungo ritenuto, un rapporto di “discepolanza” - era un vero e proprio sodalizio economico regolato da un contratto associativo chiamato di “compagnia”. Fu proprio tra il 1424 e il 1425 che si fondò questa unione artistica iniziata nel Trittico Carnesecchi, di cui oggi sopravvivono la predella con le Storie di San Giuliano attribuita a Masaccio (al museo Horne) e lo scomparto con il San Giuliano di Masolino al Museo di Arte Sacra a Firenze: qui il santo a figura intera, interpretato come un cavaliere medievale ammantato da un pesante veste rossa, dimostra l’elevato livello qualitativo raggiunto dal maestro nella piena maturità ed una nuova consapevolezza prospettica come si nota dallo scorcio del pavimento e il piede del Santo che avanza fino ad occupare lo spazio illusorio della cornice dipinta (fig.3).

 

Alla fine del 1424 Masolino collabora con lo stesso Masaccio all’opera pittorica di svolta della storia dell’arte rinascimentale: la Cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine a Firenze. Qui si palesa il divario stilistico tra i due artisti, dove l’esempio più lampante è rappresentato dai Progenitori nel Paradiso Terrestre dipinto dal più anziano Masolino e la Cacciata dei Progenitori di Masaccio (fig.4-5): candore, grazia e assenza di spazialità nella pittura di Masolino si scontrano violentemente con l’impeto, la passione e la pesantezza corporea dei Progenitori di Masaccio, convivendo tutt’oggi in dialogo che rappresenta il cambiamento di un’epoca. Nella Guarigione dello zoppo e la Resurrezione di Tabita (fig.6-7), brano ad affresco della Brancacci dove si attesta la collaborazione di entrambi i pittori, la mano di Masolino emerge per la ricca cromia unita a certi dettagli narrativi tipici del linguaggio gotico. Al centro della scena due giovinetti alla moda con vesti e turbanti a fiorami sono impegnati in una conversazione mentre attraversano la piazza in senso diagonale e raccordano gli episodi delle Storie di San Pietro all’estremità (fig.6). Sullo sfondo gli edifici dipinti a tinte pastello si aprono su una piazza fiorentina (forse proprio piazza della Signoria) e lasciano spazio a minuziose scene di vita quotidiana: vasi sui davanzali delle finestre, panni stesi, gabbie per uccelli, scimmie legate al guinzaglio, una madre che accompagna il figlioletto per la mano, anziani sulla porta di casa. È riferibile a questo periodo di collaborazione anche la celebre Sant’Anna Metterza degli Uffizi (fig.8), dove il corpo voluminoso della Vergine dipinta da Masaccio contrasta nettamente con la bidimensionalità della Sant’Anna di Masolino, sebbene il tentativo di scorciare prospetticamente la mano della donna mentre si muove in un gesto di protezione verso la figlia.

 

Tra la fine del 1424 e l’inizio del 1425 Masolino si sposta a Empoli, nel contado fiorentino: qui affresca per il Battistero della Collegiata forse la sua opera più nota al grande pubblico (reinterpretata nel 2002 dal video Emergence dell’ artista contemporaneo celebre per la sua videoarte, Bill Viola), ovvero il Cristo in pietà o Vir Dolorum (fig.9), dove l’artista tenta di avvicinarsi alle tendenze progressiste di Masaccio. La scena composta dall’insieme armonico dei tre personaggi è carica di pathos: Cristo per metà uscito dal sepolcro è sorretto da Maria e San Giovanni Evangelista, che si presenta piegato dal dolore e in adorazione. L’iconografia del Vir Dolorum, molto diffusa nella seconda metà del XIV secolo, rappresenta Cristo separato da ogni contesto temporale e spaziale, nel momento della resurrezione. Sebbene la morte sia già sopraggiunta e i segni della passione siano ancora ben visibili, il corpo del Redentore appare sollevato e con gli occhi semi aperti, partecipe sia alla vita che alla morte. Sebbene nell’affresco empolese permanga una leggera delicatezza gotica, i volumi si fanno solidi ed i volti acquistano un’intensa espressività che non ha precedenti nella pittura di Masolino; si notano inoltre vari particolari di gusto già rinascimentale, come la cornice a dadi nei due lati della cuspide realizzata secondo criteri prospettici, ed il piccolo sarcofago classicheggiante con il motivo geometrico centrale colorato a imitazione degli intarsi marmorei; il torso di Cristo, lievemente modellato da ombre che restituiscono all’epidermide un effetto reale, ricorda inoltre suggestioni tratte della statuaria antica che Masolino avrebbe avuto modo di studiare durante un presunto viaggio a Roma nel 1423.

 

Nel 1428 il cardinale Branda Castiglioni affidò al duo, Masolino e Masaccio, il compito di affrescare per la basilica di San Clemente a Roma la cappella di sua proprietà con Storie di Santa Caterina d’Alessandria e Storie di Sant’ Ambrogio. Per la disomogeneità stilistica di alcune parti si ipotizza che l’incarico in principio fosse affidato a Masaccio e che, dopo la sua prematura morte, avvenuta entro la metà del 1428, Masolino avrebbe quindi terminato il ciclo pittorico. Tra i brani attribuiti a Masolino si distingue, sul pilastro esterno della cappella, la possente figura di San Cristoforo nell’atto di sorreggere il Bambino (fig.10): nel volto del Santo emerge un’intensa e vigorosa carica espressiva, accentuata dallo sguardo incredulo e dall’apertura della bocca che intensifica lo sforzo appassionato con il quale il gigante porta il peso di Cristo e del mondo, mentre i colori brillanti risplendi di una calda luce propria sono tipicamente masoliniani.

 

Dopo la morte di Masaccio

Dopo la morte di Masaccio il percorso artistico di Masolino proseguì in diverse zone d’Italia con incessanti peregrinazioni tanto che risulta ancora oggi difficile poter ricostruire esattamente tutti gli spostamenti del pittore, che sui viaggi sembra aver costruito la sua fortuna fin da giovane. Il suo incessante girovagare si interruppe forse negli anni Quaranta a Castiglione Olona (provincia di Varese) dove realizzò gli ultimi lavori per lo stesso Cardinale Branda Castiglione, già committente degli affreschi in San Clemente, e originario del posto. Tra le diverse testimonianze pittoriche attribuite al maestro l’opera più nota di Castiglione è senz’altro la cappella privata del prelato (oggi battistero), interamente decorata con un ciclo di affreschi dedicato alle storie di San Giovanni Battista. In quest’ultima fase Masolino si rifugiò nel suo personale modo di dipingere da sempre più vicino allo stile delicato e favolistico del tardo gotico, qui tradotto in una fresca vena narrativa che caratterizza l’intero programma decorativo: non mancano tuttavia alcuni spunti della rinascenza fiorentina e dell’insegnamento masaccesco, ravvisabili in una più solida impostazione prospettica dello spazio, insieme ad una maggior naturalezza espressa nella resa dei moti dell’animo e talvolta anche nella corporeità delle figure. Esemplificativo dell’acquisita consapevolezza prospettica è il lungo loggiato che fa da quinta al gruppo dei nobili invitati in aspetto e pose cortesi che presenziano nell’episodio del Banchetto di Erode, mentre fanno parte di quel repertorio emozionale, ancora in un’accezione piuttosto aneddotica, i gesti di sorpresa e raccapriccio delle due ancelle che in secondo piano assistono alla Consegna della testa del Battista ad Erodiade (fig.11-12-13-14-15). Nel Battesimo di Cristo (fig.16) i corpi seminudi dei neofiti sulle rive del fiume Giordano riportano alla mente i momenti più vicini alla pittura di Masaccio, qui individuabili nella modulazione del chiaroscuro che anima la fisicità dei personaggi, colti in un momento di spontaneità.

 

 

 

Bibliografia

Vasari, Vita di Masolino da Panicale, in Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, Firenze 1568, Edizione per i tipi di Giunti - Grandi Tascabili Economici Newton, collana "I mammut" n. 47, 1997.

Borsi, Masolino, Art Dossier, n. 192, Milano 2003.

 

Sitografia

Bortolotti MASOLINO da Panicale, in Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 71 (2008).

Madonna dell’Umiltà: https://www.uffizi.it/opere/masolino-madonna-umilt%C3%A0

Sant’Anna Metterza: https://www.uffizi.it/opere/santa-anna-masaccio


IL GIARDINO SPAGNOLO NEL PARCO DELLA VILLA REALE MARLIA

A cura di Luisa Generali

 

 

Nella splendida cornice della Villa Reale di Marlia, tra i tanti scorci del grande parco che si apre davanti alla dimora storica, si trova anche un curioso giardino dalle caratteristiche moresche che non a caso prende il nome di Giardino Spagnolo. Prima di addentrarci nel merito di questo angolo verde è d’obbligo una piccola presentazione della storia e degli avvenimenti riguardanti la villa e il parco di Marlia, da sempre fiore all’occhiello della lucchesia (fig.1-2).

 

Cenni storici sul parco e la Villa Reale di Marlia

Già esistente nel medioevo nelle forme di un primo originario castello, col trascorrere dei secoli la tenuta ha subito un significativo ampliamento dovuto al cambiamento di gusto e di stile dei proprietari che si sono succeduti e che oggi troviamo coesistere in un incredibile scenario naturalistico che si estende su una superficie di ben sedici ettari. Da elementi baroccheggianti, quali fontane a rocaille, grotte, limonaie, al ruscello che accompagna il viale lungo il boschetto romantico, passando dallo stile Liberty anni Venti, il parco della villa reale racchiude diverse tipologie di giardino. I primi interventi, tuttora esistenti, vennero attuati sotto la proprietà dei fratelli Orsetti, Olivieri e Lelio intorno alla metà del Seicento in pieno stile barocco, di cui oggi rimangono come esempi lo scenografico Teatro d’acqua, il Teatro di Verzura e il Giardino dei Limoni.

 

Ma il periodo più splendente per l’intero complesso fu senz’altro l’Ottocento, con l’assegnazione dei regni di Piombino e Lucca nel 1806 a Elisa Bonaparte Baciocchi, sorella di Napoleone, che scelse proprio questo luogo come villa di delizia fuori dalle mura cittadine della vicina Lucca. Nel ritratto conservato presso il Museo di Villa Guinigi della pittrice francese Marie-Guillemine Benoist, vediamo la Principessa con indosso un tipico abito stile impero, ammantata da un grandioso drappo rosso allusivo al regno di Napoleone, di cui Elisa, in qualità di sorella del sovrano, risplendeva di luce riflessa godendo di particolari benefici (fig.3). Oltre a un significativo ampliamento Elisa portò a Marlia il gusto neoclassico francese che ancora si respira negli interni, mentre al parco volle conferire un aspetto più internazionale secondo la moda dei giardini romantici all’inglese.

 

Con la caduta del regno di Napoleone la Villa Reale visse un periodo buio senza dei veri proprietari, per rifiorire solo negli anni Venti del XX secolo grazie alla famiglia Pecci-Blunt, che definì l’aspetto attuale del parco con la creazione del ruscello e il lago (punto conclusivo del lungo viale prospettico che si estende dalla villa), il padiglione dei giochi (oggi il Caffè del parco), l’area dedicata allo sport e il giardino spagnolo. Anna Laetitia Pecci di origini nobiliari romane, nipote di Papa Leone XIII e moglie del newyorkese Blunt, fu una mecenate amante della letteratura e dell’arte, assidua frequentatrice dei salotti culturali europei dove probabilmente tra i tanti avventori conobbe anche l’architetto-paesaggista francese Jacques Gréber (1882-1962) a cui la coppia commissionò le nuove zone all’interno del parco.

 

La villa e il suo complesso, dopo vari passaggi di proprietà in epoca moderna e un periodo di decadenza, fu acquistata nel 2015 dagli attuali proprietari svizzeri che ne hanno ristrutturato gli edifici, riqualificato il parco e reso fruibile al pubblico l’intero complesso.

 

Il Giardino Spagnolo

La scelta per la riqualificazione del parco agli inizi degli anni Venti ricadde su Jacques Gréber, probabilmente per la formazione eclettica dell’architetto-paesaggista francese, proveniente dall’École des Beaux-Arts a Parigi, da cui prese il nome lo stile Beaux-Arts: questa corrente poneva le sue basi sul neoclassicismo, contaminandosi di diversi elementi desunti dalla storia dell’architettura ma con l’ausilio dei materiali moderni. Tuttavia, ben presto Gréber si indirizzò verso le ultime frontiere dell’Art Déco applicandosi soprattutto in contesti cittadini e paesaggistici e partecipando alla realizzazione di grandi piani urbanistici in Europa e in America. Stilisticamente l’architetto sposò le forme più sintetiche dell’Art Déco, indirizzandosi verso il filone modernista, un’architettura scevra da ogni decorativismo, razionale e intuitiva, dove sintesi, volume e regolarità divenivano elementi indispensabili oltre che funzionali.

 

Uno tra i primi progetti in questa direzione fu proprio il Giardino Spagnolo di Marlia, anche detto Giardino dei Fiori (fig.4), voluto dalla contessa Anna Laetitia Pecci forse per ricordare le sue origini spagnole da parte della madre, e realizzato nel 1924 sul modello dei giardini islamici, in Europa noti soprattutto attraverso i celebri esempi Andalusi.

 

Tra le prime forme di giardino ad essere stato creato per motivi di necessità dagli arabi che dovevano trovare nelle oasi una soluzione facile per sfruttare al massimo le poche risorse idriche in un contesto di desertificazione, il giardino islamico vede come caratteristiche fondanti il contenimento all’interno di un perimetro ben definito, le forme geometriche, l’acqua e la vegetazione. Queste componenti unite in uno spazio circoscritto (solitamente spartito al suo interno in quattro parti di uguali dimensioni) creano un piccolo microcosmo in cui lo scorrere dell’acqua, il refrigerio dato dalle piante e la precisione geometrica si legano alla sfera del sacro, prefigurando la perfezione del divino e la vita nell’aldilà. Lo scopo principale di questi spazi, nati e sviluppati in contesti aridi, era la raccolta e l’uso dell’acqua: ecco perché da una sola sorgente diveniva necessario che ogni goccia si dipanasse attraverso una rete di canali lungo tutta l’estensione del giardino, in modo tale che l’apporto d’acqua fosse unitario. I più alti ed evoluti esempi del modello islamico si trovano in Andalusia, dove la dominazione araba segnò un cambiamento di gusto anche nella fase dopo la riconquista (avvenuta alla metà del XV secolo), quando i sovrani cristiani continuarono a utilizzare lo stile arabo come rappresentanza del proprio potere, definendo quella che si chiamerà arte mudéjar.

 

Tra i luoghi che ci riportano alla mente le atmosfere incantate da Mille e una Notte, ricordiamo la cittadella dell’Alhambra e il complesso del Generalife a Granada, all’interno dei caratteristici patii (cortili tipici spagnoli), dove, tra le alte mura che per secoli ospitarono le residenze dei sultani, si aprono favolosi spazi percorsi da bacini d’acqua circondati da vegetazione. Uno fra tutti è il magnifico Patio dei Leoni, dove gli elementi naturali del giardino sono stati sostituiti da una pavimentazione lastricata percorsa da quattro rivoli d’acqua che si estendono dalla fontana centrale verso i lati del cortile (fig.5). Altro esempio caratteristico è l’affascinante Patio de las Doncellas, in cui elementi vegetali quasi stilizzati come in una miniatura fanno da cornice alla lunga vasca sopraelevata che contiene uno specchio d’acqua, mentre tutto intorno il cortile assume i connotati di un ambiente tipicamente arabeggiante (fig.6). Conservano invece una ricca vegetazione i giardini della residenza del Generalife insieme all’Alcázar di Cordova, dove i canali si ampliano divenendo vasche o piscine che percorrono in lungo l’intera estensione dello spazio o dei viali all’aperto (fig.7-8-9). Soluzioni simili venivano talvolta utilizzate anche per ambienti interni, come dimostra l’esempio italiano de La Zisa a Palermo, residenza estiva dei re Normanni concepita secondo sistemi di ingegneria araba intorno alla metà del XII secolo. Come si osserva ancora oggi nella sala al piano terra, detta Sala della Fontana, una lunga canaletta, interrotta a tratti da alcuni bacini quadrati, doveva raccogliere l’acqua che scivolava dalla polla annessa alla parete di fondo, in modo da rendere l’ambiente fresco e piacevolmente accogliente (fig.10).

 

Gréber a Marlia concepì il giardino spagnolo sintetizzando questi elementi desunti dall’arte islamica-moresca e cercando di preservare alcune soluzioni tipicamente italiane, in linea con le zone più antiche del parco. L’area si configura come uno spazio rettangolare, appartato e circoscritto da una siepe che permette il passaggio attraverso piccole entrate e ne delimita perfettamente il perimetro. Soprelevata come su un podio, all’estremità sinistra dell’area, si trova la fontana che alimenta tutto il circuito acquatico del giardino: la cascatella si immette all’interno di un grande bacino semicircolare con decorazioni a rocaille e riquadri, mentre una monofora, come un’antica rovina, spicca centralmente e fa da quinta all’intera scenografia. Da questo bacino l’acqua defluisce in una seconda vasca sottostante che, grazie a un canaletto, si immette all’interno dello spazio del giardino confluendo in un’ennesima piccola vasca di forma circolare. Il percorso del canaletto si divide a destra e a sinistra del bacino percorrendo l’intero perimetro per ricongiungersi infine sul lato breve opposto, in una piscina di forma rettangolare. Questo ruscello a pelo d’acqua che corre tutto intorno è interrotto simmetricamente sui lati lunghi da due fontane che sono immesse all’interno di uno specchio d’acqua tondeggiante, mentre i vialetti lastricati che collegano l’esterno con l’interno del giardino contribuiscono ulteriormente a frazionare in senso geometrico lo spazio. Il decoro normalmente attribuito alla vegetazione assume nel giardino spagnolo delle forme minimali con l’utilizzo di basse siepi a rivestimento delle vasche, negli angoli, o disposte in maniera simmetrica a sottolinearne il rigore esatto delle proporzioni. Appare dunque chiaro l’intento di Gréber di progettare quest’area piegando la natura secondo la volontà dell’uomo, sotto il controllo delle regole perfette dell’architettura (fig.11-16).

 

Altro luogo insolito, nato dalla volontà della famiglia Blunt e dall’estro creativo di Gréber all’interno del parco di Marlia, è la zona intorno alla piscina con annessa la struttura che ospitava le cabine-spogliatoi. Attualmente priva di acqua, la grande vasca appare tappezzata dal caratteristico mosaico in piastrelle celesti, mentre il porticato richiama certe lussuose ambientazioni esotiche che la moda liberty accentuava nella ripresa del fasto e negli appariscenti colori. Concepito come un corridoio coperto, sostenuto da colonne e pilastri, con un vano centrale coperto da un tetto a spioventi, la struttura ricorda in versione ridotta e profana certi ambienti religiosi, come suggerisce anche il clipeo centrale a traforo che cita evidentemente i rosoni delle chiese.

 

Qualche anno più tardi a Porto, in Portogallo, Gréber consoliderà la sua adesione al modernismo con la progettazione del parco di fronte alla facciata della villa, in pieno stile Art Déco, che oggi accoglie la Fondazione Serralves (fig.17-18). Qui l’architetto utilizzerà ancora una volta gli elementi desunti dall’arte arabo-moresca per realizzare in stile del tutto moderno un lungo asse longitudinale percorso da acqua e articolato in vasche, gradoni e scivoli dalle forme essenziali; l’elemento naturale si ridurrà invece al solo impiego del prato o di qualche piccola pianta a corredo dei volumi che caratterizzano il viale, mentre le mattonelle che rivestono il fondale delle vasche fanno risplendere l’acqua di un celeste limpido e conferiscono un ulteriore rigore geometrico che traspare da sotto la superficie. Il giardino moderno diventa così un inedito spazio architettonico dove sperimentare nuovi volumi e geometrie, che affondano le proprie radici in un tempo passato dalle atmosfere moresche.

 

Le fotografie 2 e quelle che vanno dalla 11 alla 16 sono state realizzate dalla redattrice.

 

 

Bibliografia

A. Giusti, Ville Lucchesi:le delizie della campagna, Lucca, 2015.

A. Giusti, “Influenze ispano-arabe nel giardino di Jacques Gréber per la villa reale di Marlia (Lucca)”, in Quaderni di storia dell’architettura e restauro, 18.1997, pp. 135-140.

 

Sitografia

Sulla Villa Reale, sito web: https://villarealedimarlia.it/

Sul Giardino Spagnolo di Marlia: https://villarealedimarlia.it/esplora/i-giardini/giardino-spagnolo/

Sulla piscina della Villa Reale di Marlia: https://villarealedimarlia.it/esplora/le-architetture/piscina/

Per consultare la tesi di laurea “Il GIARDINO ISLAMICO dal deserto alla città contemporanea”: oasi-paradiso per la rigenerazione urbana di Maria Stella Lux:  https://issuu.com/marylux3/docs/isuu_maria_stella_lux_-_il_giardino_islamico._dal_

Sul parco di Serralves: https://www.serralves.pt/en/


GLI HORTI LEONINI A SAN QUIRICO D’ORCIA

A cura di Luisa Generali

 

I giardini rinascimentali: gli Horti Leonini a San Quirico d’Orcia

Se pensiamo ai grandi giardini rinascimentali toscani sicuramente ci torneranno alla mente i magnifici parchi annessi alle dimore private delle nobili famiglie, una su tutte la dinastia de’ Medici, con le sue numerosissime ville sul territorio toscano e i grandiosi palazzi del potere del capoluogo fiorentino. Nella zona della Val d’Orcia tra gli esempi più significativi si ricorda il giardino pensile di Pienza attiguo al palazzo Piccolomini, residenza di Papa Enea Piccolomini che intorno alla metà del XV secolo desiderò fare del suo luogo natio una cittadina ideale, applicando allo spazio urbano e alle architetture il linguaggio rinascimentale che si stava sperimentando a Firenze. Faceva parte di questo intento umanistico anche la realizzazione di un piccolo giardino pensile, realizzato cioè su un terrazzamento, sul retro di Palazzo Piccolomini (fig.1). Lo spazio verde, che conserva ancora le caratteristiche rinascimentali, è organizzato in quattro parterre geometrici in siepe di bosso, in modo tale da creare e permettere il passaggio nei vialetti e lungo tutto il perimetro del muraglione che racchiude il giardino e che si proietta verso il magnifico spettacolo delle colline senesi.

 

A San Quirico d’Orcia, a pochi chilometri di distanza da Pienza, si trova un’altra importante area verde, gli Horti Leonini, che a differenza dei più celebri giardini all’italiana sopracitati porta con sé una storia del tutto diversa (fig.2). Gli Horti furono infatti voluti da Diomede Leoni (da qui il nome “Leonini”, 1514-1590 c.), intellettuale a servizio del Vaticano, originario di San Quirico e proprietario del terreno dove concepì tale progetto. I contatti di Leoni col papato iniziarono proprio a Pienza dove intraprese una prima formazione a servizio di Papa Piccolomini, a stretto contatto quindi con l’arte e il pensiero umanista che si respirava tra le strade della piccola cittadina ideale. La frequentazione con lo stato pontificio portò Leoni al suo trasferimento in Vaticano entrando in stretti rapporti di conoscenza con personalità quali Francesco I de’ Medici (per cui divenne consulente nella valutazione di oggetti antichi sul mercato antiquario romano) e Michelangelo Buonarroti, che servì come assistente nelle faccende diplomatiche e divenne anche un suo caro amico, tra i pochi che l’artista volle intorno a sé il giorno della sua morte.

 

La composizione degli Horti

La realizzazione degli Horti si attesta intorno al 1581, quando Diomede Leoni volle realizzare sul suo terreno un giardino rinascimentale, sul modello dei giardini privati che aveva potuto frequentare sia in Toscana che a Roma, ma senza considerare alcuna connessione con una villa di proprietà e, cosa ancor più insolita, volendo rendere questo spazio verde del tutto fruibile e accessibile ai viandanti, come un parco pubblico odierno. L’intento filantropico di Leoni, reso noto da un documento dove lui stesso rivolgendosi al granduca Ferdinando de’ Medici parlava dei suoi Horti come un luogo che potesse portare “a qualche comodità ancora delli viandanti”, si associava al passaggio cruciale della Via Francigena a San Quirico (appena prima di inoltrarsi nello Stato Pontificio) e alla contiguità con la vicina chiesa di Santa Maria ad Hortos e con l’Ospedale della Scala, impiegato per l’accoglienza dei forestieri.

 

Come volle il suo fondatore ormai molti secoli fa, ancora oggi gli Horti conservano la loro funzione originaria di parco pubblico, accogliendo abitanti, turisti e pellegrini, oltre a custodire anche il loro aspetto autentico secondo il progetto rinascimentale voluto dal Leoni che suddivideva il parco in due aree: quella  inferiore a cui si accede da un portale, delimitata da una struttura muraria che racchiude il tipico giardino geometrico all’italiana, e quella superiore a cui si accede da una scalinata che conduce ad un boschetto rialzato (fig.3). Questa volontà di differenziare il parco risponde all’intento ideologico dell’epoca di creare uno spazio artificiale, dove la natura veniva plasmata e controllata dall’uomo, ponendola a confronto con uno spazio selvaggio, del tutto naturale. Il giardino all’italiana si sviluppa in una zona romboidale articolata in parterre in siepe di bosso a forme speculari che nell’insieme concorrono a formare uno spettacolare disegno geometrico, tanto che il progetto degli Horti ha solleticato l’interesse degli storici dell’arte, ipotizzando, visto lo stretto rapporto di amicizia di Leoni con Michelangelo, un possibile intervento del maestro proprio nella progettazione del giardino; mentre la stessa complessità del motivo ornamentale ha indotto a teorie circa una possibile simbologia cristiana del disegno. La ripartizione delle aiuole crea dei viali percorribili che confluiscono in uno spazio circolare dove al centro è collocato il ritratto a figura intera di Cosimo III de’Medici, mentre il viale principale continua la sua corsa prospettica oltre la scultura per arrivare alla scalinata che conduce al boschetto soprelevato (fig.4).

 

Al termine del giardino all’italiana è posta la testa di Giano bifronte, un pezzo romano probabilmente rintracciato sul mercato antiquario nella capitale e portato qui dallo stesso Leoni. Il significato e la posizione della scultura in questa zona di confine tra il rigore del giardino e l’inizio della parte selvaggia non sono da considerarsi casuali se si osservano le doppie facce di Giano, rivolte in entrambe le direzioni. Il dio Giano venerato in età romana come il protettore degli inizi (da cui deriva anche il nome del primo nome dell’anno, Gennaio), raffigurato con due volti che guardano il passato e il futuro, segna il limite che separa le due aree, simboleggiando quindi il cambiamento e il passaggio (ianua in latino significa porta) dalla natura artificiale a quella naturale.

 

La statua di Cosimo III de' Medici

È databile al 1688 la statua che si trova all’incrocio tra i viali del giardino all’italiana raffigurante Cosimo III de' Medici e associata alla mano dello scultore Bartolomeo Mazzuoli (fig.5). Commissionata dalla famiglia Chigi come omaggio al Granduca Cosimo per favori politici, l’opera venne trasferita negli Horti solo nel 1944. La scelta dell’artista per la commissione ricadde sui Mazzuoli, famiglia di scultori per tradizione che toccò i suoi vertici con Giuseppe Mazzuoli (1644-1725), allievo di Melchiorre Cafà, tra i massimi esponenti del barocco a Roma, dove il giovane scultore si trasferì per un periodo di formazione. Tra le opere più rappresentative di Giuseppe Mazzuoli si veda La Morte di Adone, oggi conservata all’Ermitage di San Pietroburgo (fig.6). Nell’opera emergono tutte le caratteristiche della statuaria tardo barocca che tende ad amplificare all’inverosimile movimento e dinamicità nello spazio, qui espresse nel drammatico gesto della mano, alzata come a cercare un appiglio nel vuoto, e nel moto inarcato della schiena nell’attimo in cui avviene lo scontro fatale col cinghiale, mandato dagli dei per gelosia nei confronti del bellissimo Adone: la caduta è enfatizzata dal panneggio che improvvisamente si gonfia, mentre il movimento della testa ricadendo all’indietro fa sollevare repentinamente i capelli del giovane e offre allo scultore il pretesto per dimostrare il virtuosismo con cui ogni singola ciocca è stata minuziosamente lavorata.

 

La statua di Cosimo III agli Horti Leonini è invece attribuita (non senza qualche incertezza) a Bartolomeo Mazzuoli (1674-1749), nipote di Giuseppe, che divenne suo assistente nonché continuatore della bottega, portando a compimento numerose opere iniziate dallo zio, come il Monumento a Marcantonio Zondadari conservato nel duomo di Siena (fig.7). Il monumento degli Horti si inserisce nel filone della ritrattistica celebrativa, un genere in cui i Mazzuoli eccellevano per il gran numero di soggetti funebri ed encomiastici realizzati nel senese, dove furono tra i massimi esponenti del tardo barocco importato dalla capitale. A figura intera, mostrando una consapevolezza integerrima sia nel volto che nella fisicità, Cosimo III è vestito alla romana con i tipici accessori dell’armatura imperiale, calzari, gonnellino e lorica muscolata con abbondanti motivi decorativi, elementi simbolici dell’antichità che rimandano a valori tradizionali romani e che vogliono alludere a un potere saggio e imperituro (fig.8). Contrasta con le vesti il ritratto del volto del tutto moderno, con baffi e lunghi capelli ricci (spesso sostituiti da parrucche), in linea con la moda settecentesca: conclude la scultura, facendo quasi da quinta scenica, l’imponente mantello che ricade pesante fino alla base mosso da un profondo e largo panneggio che dona ancor più maestosità al personaggio, celebrato nel punto focale degli Horti di Diomede Leoni.

 

 

 

 

Bibliografia

  1. Gino, San Quirico d’Orcia e dintorni, Siena 2000.

 

Sitografia

https://www.visittuscany.com/it/attrazioni/gli-horti-leonini-di-san-quirico-dorcia/

https://www.regione.toscana.it/-/horti-leonini

https://www.quinewsvaldichiana.it/san-quirico-d-orcia-cosimo-de-medici-si-rifa-il-trucco.htm

https://www.formenelverde.com/horti-leonini/

Su Diomede Leoni https://www.parcodellavaldorcia.com/en/mistero-della-progettazione-degli-horti-leonini-diomede-leoni-fu-ideatore-progettista-dei-suoi-horti/

Sui Mazzuoli, Giuseppe e Bartolomeo: https://www.treccani.it/enciclopedia/mazzuoli_(Dizionario-Biografico)/

https://www.treccani.it/enciclopedia/mazzuoli-giuseppe-il-vecchio_(Dizionario-Biografico)/

 

 


LA FONTANA DELLE NAIADI DI LUIGI PAMPALONI

A cura di Luisa Generali

 

 

Breve storia di Empoli

La città di Empoli si trova in provincia di Firenze, nell’area del Valdarno inferiore, lambita dal fiume Arno e attraversata da secoli di storia. Gli antichi insediamenti etruschi e romani, che testimoniano una prolifica e precoce attività antropica in questa zona, portarono fra il VIII e il X secolo d. C all’incastellamento con la costruzione di una cinta muraria che definì i confini urbani della cittadina. Sottomessa precocemente alla supremazia di Firenze già nel XII secolo, Empoli fu sede nel 1260 del famoso Congresso (o dieta) di Empoli tenuto dai ghibellini (sostenitori dell’impero) dopo la disfatta di Montaperti, in cui la guelfa Firenze (sostenitrice papale) subì una violenta sconfitta. Qui il condottiero di parte imperiale, nato fiorentino ma esiliato a Siena, Farinata degli Uberti  (1212 c.,- 1264), determinò le sorti di Firenze votando contro la sua distruzione, che secondo l’opinione comune della fazione ghibellina doveva essere invece “ridotta a borgo”: tuttavia questo non bastò a redimere Farinata dai peccati di tradimento e di infedeltà a cui lo condannò Dante, collocandolo nel canto X dell’Inferno nel girone appunto degli eretici. È proprio intitolata a questa personalità la piazza storica nel cuore dell’attuale centro, Piazza Farinata degli Uberti, anche detta Piazza dei Leoni dove si erge la collegiata di Sant’Andrea, risalente al 1093 e che risponde nella decorazione marmoree ai canoni dell’architettura romanica fiorentina sugli esempi del Battistero di San Giovanni e San Miniato al Monte (fig.1).

Fig. 1 - Veduta Piazza Farinata degli Uberti anche detta Piazza dei Leoni, Empoli. Credits: Di mockney piers - https://www.flickr.com/photos/piers_canadas/542766515/sizes/o/, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5646758.

La crescente ricchezza del castello empolese che prese principio fra il Trecento e il Quattrocento si tradusse anche in una prolifica attività artistica sostenuta da un significativo via vai di artisti principalmente fiorentini. Questo fermento culturale e artistico è da ricondursi a doppio filo sia all’importante snodo mercantile venutosi a creare a Empoli (il cui nome forse deriva non a caso da emporium cioè mercato), che permise il benestare di alcune distinte famiglie, sia a un significativo exploit di chiese e conventi, comunità monastiche e compagnie religiose di misericordia che contestualmente fiorirono sul territorio. Alle consuete commissioni ecclesiali e laiche delle confraternite, che spesso trovavano sede negli oratori annessi agli stessi edifici sacri, si aggiunse l’ausilio dei patroni (facoltose famiglie che in cambio di benefici possedevano spazi liturgici e altari all’interno delle chiese), mecenati in prima persona delle opere d’arte che avrebbero adornato e nobilitato le cappelle di famiglia. Tali testimonianze visive, ancora oggi in gran parte conservate nei loro contesti originari, raccontano per immagini il passato di Empoli e la sua partecipata devozione, che oltrepassando la storia si protrasse dagli inizi del Trecento fino all’inoltrato Settecento.

 

La Fontana delle Naiadi

Intorno al secondo decennio del XIX secolo, dopo la fase di dominio napoleonico, nacque l’esigenza da parte degli empolesi di realizzare in piazza Farinata egli Uberti, in posizione leggermente decentrata, una fontana monumentale, che oltre a impreziosire lo spazio aveva anche l’importante funzione pratica di rifornire d’acqua il centro cittadino (fig.2-3). Il progetto venne affidato all’architetto Giuseppe Martelli, di scuola neoclassica francese-napoleonica, stimato allievo di Luigi de Cambray Digny, al tempo direttore delle fabbriche granducali fiorentine, che probabilmente favorì Martelli per l’assegnazione di questo ruolo.

In un primo momento fu pensata con un perno centrale a candelabra sormontato da un grande bacino da cui doveva sgorgare l’acqua secondo un’impostazione in linea col rigore neoclassico, successivamente il progetto mutò verso un modello più articolato, dove il centro visivo e decorativo dell’opera ruotava attorno alle figure scolpite delle Naiadi. Queste presenze femminili erano considerate nell’antica Grecia le ninfe protrettici dei corsi d’acqua dolce, reinterpretate nell’Ottocento come emblemi femminili dell’universo acquatico, modelli ideali di classicità e quindi frequentemente utilizzate come elemento figurativo-simbolico delle fontane. Un esempio coevo di Fontana con Naiade è la cosiddetta “Pupporona” in piazza San Salvatore a Lucca (così chiamata per le evidenti nudità della ninfa), realizzata tra il 1838 e il 1840 dallo scultore Luigi Camolli su disegno di Lorenzo Nottolini (1787-1851), architetto neoclassico molto attivo nel territorio lucchese (fig.4). La figura della Naiade è ispirata ai modelli iconografici antichi della Venere al Bagno: qui la figura femminile, appoggiata all’anfora, è colta in movimento mentre ruota leggermente il busto per alzare il drappo dietro la schiena. La veste sottile crea sul busto un panneggio ad effetto bagnato che evidenzia le sinuosità del corpo femminile, mentre una vasca dal sapore arcaico decorata con due teste di leone e zampe leonine accoglie l’acqua che scorre dalla fonte.

Fig. 4 - Fontana della Naiade anche detta della “Pupporona”, Lucca, Piazza San Salvatore. Credits: By LivornoDP - Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=32599603.

Ritornando a Empoli, la fontana marmorea di Piazza Farinata degli Uberti si sviluppa su un podio circolare composto di tre gradini su cui sorgono simmetricamente quattro pilastri dove sono accovacciati i leoni da cui in gergo prende il nome la piazza, realizzati dal poco noto scultore Luigi Giovannozzi. Questi animali, oltre a ricordare la classicità nel significato di potenza e regalità, sembrano qui presiedere alla difesa del luogo con i loro musi profondamente solcati; dalle fauci dei leoni esce inoltre un getto di acqua che crea in prossimità dei pilastri altre quattro piccole fontanelle (fig.5). Al centro si alza il fulcro del monumento composto da due bacini uniti dal gruppo delle tre Naiadi, che con una leggiadra sintonia di pose e gesti scandiscono armonicamente lo spazio circolare: tutte, infatti, pongono un piede su basamento mentre l’altra gamba avanza verso l’esterno e all’unisono alzano il braccio destro nel gesto di toccarsi i capelli e sorreggere la vasca soprastante (fig.6-7). Le ninfe interamente nude, memori di una bellezza all’antica, siedono su un muricciolo composto da pietre squadrate, mentre man a mano che la candelabra sale verso il vertice la decorazione a rilievo diventa sempre più definita, ornata da foglie vegetali e baccellature in rilievo. Le pietre che compongono il muretto mostrano un effetto volutamente grezzo affinché la lavorazione restituisca veridicità all’insieme: inoltre sporadicamente tra le rocce del basamento si aprono dei fiori dai grandi petali, forse delle ninfee, piante acquatiche per eccellenza, oppure dei gigli, per il legame del comune empolese con Firenze (fig.8).

Luigi Pampaloni

L’artefice del gruppo scultoreo delle Naiadi fu Luigi Pampaloni (1791-1847) allievo di Lorenzo Bartolini, massimo esponente del purismo in scultura, un movimento artistico pienamente ottocentesco che traeva esempio da un tipo di bellezza naturale, discostandosi dall’idealizzazione. Pampaloni persegue e allo stesso tempo mitiga questa tendenza unendo al decoro neoclassico espresso nei corpi delle Naiadi la verosimiglianza dei dettagli naturali in modo da mantenere un tenore molto misurato, visto anche il carattere istituzionale del monumento pubblico e il confronto obbligato dell’artista con i massimi esempi rinascimentali e manieristi presenti a Firenze.

Sono invece più in linea con lo stile purista i celebri ritratti scultorei di Filippo Brunelleschi e Arnolfo Cambio (anni 30’ dell’Ottocento) per il Palazzo dei Canonici a Firenze, così come la scultura raffigurante Leonardo da Vinci (1837-39) per il palazzo degli Uffizi (fig.9-10): qui l’ufficialità del ruolo dell’artista è sempre restituito attraverso una ritrattistica che vuole avvicinarsi il più possibile al dato reale e umano di questi personaggi. Famosissima è l’immagine di Brunelleschi collocata nella nicchia sottostante la cupola di Santa Maria del Fiore, che raffigura l’architetto nel pieno del suo mestiere, mentre osserva e sembra perennemente controllare il suo massimo capolavoro. Ma sono senz’altro le piccole operette a tema fanciullesco-bucolico in cui emerge l’insegnamento di Bartolini e quella leggiadra naturalezza di cui si nutriva il purismo: un esempio è il piccolo gruppo scultoreo Putto con un cane, realizzato per un collezionista inglese nel 1827 e che vediamo nel bozzetto in gesso alle Galleria dell’Accademia di Firenze (fig.11). Ispirato ai soggetti degli amorini, la scultura vuole restituire la tenerezza di un momento giocoso tra un bambino e un cane, cogliendo gli aspetti più naturali di entrambi i protagonisti, come la posa tipicamente puerile del fanciullo, il suo volto pingue e sorridente, il manto fluente dell’animale e la sua docile espressione. Proprio per la particolare inclinazione nell’esprimere con naturale bellezza queste operette Luigi Pampaloni è stato definito l’”Anacreonte della scultura”, alter ego in arte dell’antico poeta greco celebre per un tipo di componimento lirico dai toni leggeri e disimpegnati.

 

Bibliografia

A.Natali, La "Fontana dei leoni" patrimonio e responsabilità, Firenze 2018

A.Naldi, Empoli. I luoghi e i tesori della storia Empoli 2012

 

Sitografia

https://www.quinewsempolese.it/empoli-torna-a-zampillare-la-fontana-delle-naiadi.htm

https://www.gonews.it/2019/12/14/fontana-dei-leoni-restauro-avverra-destate/

https://www.luccaindiretta.it/dalla-citta/2020/08/07/nuova-vita-per-la-pupporona-in-piazza-del-salvatore/191219/

https://www.treccani.it/enciclopedia/luigi-pampaloni_%28Dizionario-Biografico%29/

https://www.galleriaaccademiafirenze.it/opere/fanciullo-che-scherza-con-un-cane/


VIAGGIO NEL PAESAGGIO SENESE PARTE II

A cura di Luisa Generali

 

Proseguiamo il viaggio nel paesaggio senese, iniziato nel precedente articolo, passando dagli scenari naturali alle rappresentazioni artistiche di questi luoghi, attraverso alcuni esempi pittorici appartenenti al clima artistico senese del Trecento e del Quattrocento.

 

Il Trecento: Simone Martini

Tra gli affreschi più celebri e più datati in ordine di tempo in cui protagonista indiscusso è il paesaggio si trova l’affresco celebrativo di Guidoriccio da Fogliano, conservato nella sala del Mappamondo all’interno del Palazzo Pubblico di Siena (fig.1). Datata al 1330, l’opera fu realizzata da Simone Martini (1284-1344), prosecutore della scuola di Duccio e rappresentante insieme ai fratelli Lorenzetti della matura pittura trecentesca. Avviato con Duccio a un tipo di disegno aggraziato e molto decorativo, lo stile senese si caratterizza per una costante ricerca del dettaglio unito a un coloratissimo tono narrativo. La presenza di Martini nel cantiere assisiate, dove poté apprendere l’insegnamento di Giotto, giustifica una più consapevole solidità spaziale derivante dal primato della scuola fiorentina: tuttavia il pittore non riuscirà mai completamente a staccarsi dal gusto cortese, come dimostra la famosa Annunciazione degli Uffizi, vicina alle soluzioni più internazionali del gotico d’oltralpe. Ritornando a Guidoriccio, il famoso affresco rappresenta il condottiero emiliano assoldato dai senesi per la conquista dei territori maremmani, raffigurato mentre si dirige verso il castello di Montemassi. Come in un monumento equestre nel suo corrispettivo pittorico il capitano è ritratto di profilo al centro di un territorio che, per i colori e l’asperità del paesaggio, ricorda le crete senesi. Nelle rappresentazioni degli scenari naturali di questo periodo spesso realtà e fantasia si mescolano producendo delle ambientazioni surreali che partono da input e suggestioni derivanti dal paesaggio locale frequentato dagli stessi artisti. Le conformazioni di terra argillosa che denotano il tipico colore lunare delle crete si ritrovano interpretate nell’ambientazione che fa da sfondo all’opera del Martini, dominata da una vorticosa altura sulla sinistra della scena su cui svetta il castello di Montemassi. D’impatto e fortemente scenico è lo stacco del cielo blu intenso sui colori spenti delle crete.

Fig. 1 - Simone Martini, Guidoriccio da Fogliano e la presa di Montemassi, 1330, Siena, Palazzo Pubblico. Credits: KwGsAiYoIN09ww at Google Cultural Institute maximum zoom level, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=23689341.

Risale invece al 1337 il grande ciclo allegorico del Buono e del Cattivo Governo (fig.2), cuore politico della Magistratura dei Nove, carica statale in auge a Siena dal 1287 al 1355. L’opera con finalità didascaliche vuole rappresentare per immagini e metafore gli effetti sulla città e sulla campagna del buon governo, paragonati agli esiti nefasti prodotti da una cattiva amministrazione dello stato. La metafora della buona condotta responsabile ed efficace offre il pretesto per raccontare diversi ambiti della vita di città e di campagna, dove la legge favorisce il lavoro, l’operosità e la rendita. Una nuova impronta naturalistica si trova nella veduta del contado che si estende fuori la porta della città di Siena (fig.3): un mucchietto di colline terrose si alterna a una distesa di pendii verdeggianti punteggiati da alberelli e da poderi coltivati. Il pittore, che ha reso qui un’immagine riassuntiva concreta dei territori intorno Siena, sembra guardare sia ai vicini paesaggi delle crete senesi, che alle dolci colline della Val d’Orcia, unendo in un solo scorcio paesaggistico le diverse realtà del contado senese.

 

Il Quattrocento: Giovanni di Paolo di Grazia, Sano di Pietro e Pinturicchio

Facendo un salto temporale nel Quattrocento, nel contesto artistico senese emerge la personalità di Giovanni di Paolo di Grazia (1403-1482), pittore e miniatore nativo di Siena, la cui produzione si distingue per un forte radicamento al territorio locale e un grande estro nello stile. Il gotico cortese che ebbe a Siena i suoi più lunghi strascichi fu sposato a pieno da Giovanni di Paolo, giocando spesso sui particolari descrittivi di un paesaggio liberamente tratto dall’ambientazioni della campagna senese. Facendo un rapido excursus dei dipinti attribuiti al pittore si vedrà come queste fantasiose ambientazioni naturali assumano sempre più certe caratteristiche visionarie che sono la firma dell’artista, ad iniziare dalla Madonna dell’Umiltà riproposta dall’artista in due versioni. Conservate rispettivamente alla Pinacoteca di Siena (la versione del 1337) e al Museo Museum of Fine Arts di Boston (la versione posteriore datata al 1442), le due tavolette presentano l’usuale iconografia della Madonna dell’Umiltà con protagonista la Vergine seduta sopra un cuscino in mezzo a un ricco giardino recintato, simbolo del giardino dell’Eden e della purezza di Maria (fig.4-5). In secondo piano una veduta a volo d’uccello si apre su un vasto paesaggio contraddistinto da una valle pianeggiante alternata a coltivazioni, dove svettano delle montagnole sparse, mentre in lontananza il cielo sfumato e l’orizzonte leggermente rotondeggiante indicano la volontà di conferire una spazialità naturale alla scena. Gli elementi rurali del paesaggio senese, come le tipiche collinette e la coltura dei campi, vengono astratte dal contesto ambientale divenendo con Giovanni di Paolo ambientazioni favolose, particolareggiate come in una preziosa miniatura.

Risalente allo stesso periodo (1436 circa) si trova ancora nelle collezioni della Pinacoteca di Siena La fuga in Egitto (fig.6), tavoletta probabilmente nata per la predella di un polittico successivamente smembrato, un destino comune a molte opere attribuite alla mano Giovanni di Paolo. Nel dipinto l’artista conferma la sua creatività nel rappresentare il paesaggio, ricavato dalle vedute del paesaggio senese e trasformato nell’ambiente desertico in cui sono calati i protagonisti, mentre tutt’intorno la scena si anima di vivaci scene di vita quotidiana. Tra le collinette rotondeggianti e aride, lumeggiate da tocchi dorati che ricordano il caldo abbagliante desertico e allo stesso tempo evocano il ricordo delle Biancane a sud di Siena, la popolazione del villaggio è impegnata in attività lavorative di tipo agricolo.

Fig. 6 - Giovanni di Paolo, Fuga in Egitto, 1436 c., Siena, Pinacoteca Nazionale. Fonte: https://www.sienanews.it/in-evidenza/siena-la-storia-per-immagini-magnifiche/.

Risale agli anni ’50 del Quattrocento l’operetta raffigurante il Salvataggio di San Nicola da Tolentino (fig.7), probabilmente nata per affiancare con le relative storie l’effigie centrale di un polittico dedicato al Santo. Oggi conservata al Museo di Philadelphia la tavola si caratterizza per la particolare, quanto bizzarra, rappresentazione del mare in tempesta dove un’imbarcazione viene miracolosamente messa in salvo grazie all’intervento divino. Interdetto dalla prima impressione lo spettatore metterà gradualmente a fuoco l’intento del pittore che ha voluto raffigurare l’imbarcazione in mezzo a una distesa di onde rotondeggianti a “cupoletta”, molto più vicine a un contesto rurale piuttosto che marittimo.

Fig. 7 - Giovanni di Paolo a, San Nicola da Tolentino salva una nave da un naufragio, 1455 c., Philadelphia Art Museum. Credits: Di Bruno1919 - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=105123153.

Lo stesso espediente nella rappresentazione del mare si ripete in un’altra opera di soggetto simile, questa volta riferita all’intervento miracoloso di Santa Chiara, a cui era forse dedicato un intero polittico (fig.8). Conservata alla Gemäldegalerie di Berlino qui ritornano i visionari flutti dipinti come un mare di colline fitte e continue, a cui non si può fare a meno di accostare gli scenari rurali della campagna senese.

Fig. 8 - Giovanni di Paolo, Santa Chiara salva una nave da un naufragio, metà XV secolo, Berlino, Gemäldegalerie. Credits: By Sailko - Own work, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=53357395.

È in questo periodo della sua attività che Giovanni di Paolo imprime alle sue ambientazioni un taglio ancor più originale ponendo i personaggi in contesti tanto pianeggianti e scorciati prospetticamente che acquisiscono la struttura di una coloratissima pavimentazione. Tale ingegnosa soluzione viene adotta in diverse opere attribuite al corpus dell’artista, tra cui riportiamo gli esempi delle tavolette raffiguranti San Giovanni Battista nel deserto (fig.9), Santa Chiara salva un bambino da un lupo (fig.10) e l’Adorazione dei Magi (fig.11). Qui si noterà come sia ricorrente nel fondale lo scenario naturale alternato da collinette o montagne scoscese (come nel caso del San Giovanni), che si alzano improvvisamente da una pianeggiante distesa scorciata prospetticamente in linee geometriche precisissime: questo espediente, che vuole restituire l’idea di campi e coltivazioni simmetricamente scanditi, immerse in un’atmosfera limpidissima che pur in lontananza non rinuncia a certi dettagli miniaturistici, offre anche il pretesto all’artista di dare prova concreta della conoscenza delle regole prospettiche pur in un’ottica completamente surreale.

Sul finire del secolo un altro artista si distingue per la sua vastissima produzione pittorica che ancora oggi si conserva gran parte in loco, nelle chiese e nelle pinacoteche civiche di tutta l’area senese: Sano di Pietro (1405-1481). Si noterà una netta differenza tra il paesaggio costruito da questo artista e Giovanni di Paolo, il cui confronto è favorito da opere di medesimo soggetto che entrambi hanno realizzato a distanza di poco tempo. Con Sano di Pietro gli scenari, pur nella loro sinteticità, acquisiscono un dato reale più autentico che si esprime in un paesaggio concreto, unito a un utilizzo del colore più deciso e verosimile. I personaggi sono introdotti in un’ambientazione tangibile, nelle forme di un paesaggio morbido, arricchito da collinette alberate dove si intravedono i profili di lontane architetture: la natura, composta talvolta da alberi rigogliosi e densi di una fitta chioma, perde l’accezione miniaturistica delle opere di Giovanni di Paolo per diventare protagonista insieme alle figure (fig.12). Nell’Annuncio ai pastori (fig.13), oggi alla Pinacoteca Nazionale di Siena, un paesaggio collinare verdeggiante occupa l’intero spazio dell’opera divenendone l’attore principale: l’artista calibra il fondale con un lento digradare del panorama in lontananza, sviluppato in un soffice andamento dove pianura e colline si intervallano gradualmente.

Certi colli terrosi presenti nel paesaggio senese diventano inoltre il rifugio perfetto per ambientare la scena della Natività (fig.14), oppure svolgono la funzione di grotte che ospitano la penitenza di Santi eremiti in luoghi desertici tutti incentrati sui colori dell’ocra (fig.15).

Con il pieno Rinascimento, diffuso dalla scuola fiorentina, il paesaggio cambia aspetto, dominato magistralmente dalla prospettiva e depurato fino alla perfezione. Un esempio di questa evoluzione si trova nella Libreria Piccolomini all’interno della Cattedrale di Santa Maria Assunta a Siena, fatta affrescare dal cardinale Francesco Todeschini Piccolomíni (in seguito Papa Pio III) alla bottega del Pinturicchio (1452 c.,-1513) tra il 1502 e il 1507 con le Storie di Pio II (Enea Silvio), zio del committente al quale lasciò in eredità un’ingente raccolta di libri. Nell’episodio raffigurante Enea Silvio Piccolomini presenta Eleonora d'Aragona all'imperatore Federico III (fig.16), uno scorcio su Siena mostra una veduta limpidissima della città con i suoi simboli principali, tra cui svettano le torri, la Cattedrale e la facciata incompiuta di quello che doveva essere l’impresa colossale del nuovo duomo: accompagna la scena uno scorcio naturalistico aperto verso il contado, i cui pendii evocano solo lontanamente il ricordo dei vasti e variopinti scenari offerti dalla campagna senese.

Fig. 16 - Pinturicchio, Enea Silvio, vescovo di Siena, presenta Eleonora d'Aragona all'imperatore Federico III, 1502-1507, Siena, Cattedrale di Santa Maria Assunta, Libreria Piccolomini. Credits: Di Pinturicchio - The Yorck Project (2002) 10.000 Meisterwerke der Malerei (DVD-ROM), distributed by DIRECTMEDIA Publishing GmbH. ISBN: 3936122202., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=156380.

 

 

 

Bibliografia

Detti, La terra dei musei: paesaggio, arte, storia del territorio senese, Firenze 2006.

 

Sitografia

-Biografia Giovanni di Paolo

https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-di-paolo_%28Dizionario-Biografico%29/

-Biografia Sano di Pietro

https://www.treccani.it/enciclopedia/sano-di-pietro_%28Dizionario-Biografico%29/

-Biografia Pinturicchio

https://www.treccani.it/enciclopedia/bernardino-di-betto-detto-il-pinturicchio_%28Dizionario-Biografico%29/

-Per La Giornata del Paesaggio

https://storico.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Eventi/visualizza_asset.html_1627630291.html


VIAGGIO NEI PAESAGGI DEL SENESE. PARTE I

A cura di Luisa Generali

 

Introduzione

“Colline di Toscana, coi loro celebri poderi, le ville, i paesi che sono quasi città, nella più commovente campagna che esista”.

Così recita un aforisma dello storico francese Fernand Braudel, che con poche e chiare parole raccontava il paesaggio toscano e la sua componente lirica derivante dall’unione inscindibile tra i suoi paesi ricchi di storia e l’ambiente naturale circostante. In particolare, quando si pensa agli scenari dell’entroterra toscano ritornano alla mente i paesaggi del senese che hanno reso celebre la campagna Toscana in tutto il mondo, divenendo i luoghi simbolo di tale regione per i meravigliosi scorci paesaggistici offerti allo sguardo dei visitatori.

La prima parte di questo elaborato vuole concentrarsi proprio sui territori a sud di Siena, in una sorta di piccolo viaggio alla scoperta delle tappe fondamentali che si trovano sul territorio e che costituisco i più bei paesaggi del senese; mentre la seconda parte dell’approfondimento sarà dedicata a una riflessione su come le suggestioni tratte dai paesaggi del senese si ritrovino in opere pittoriche di varie epoche secondo la personale interpretazione dei loro artisti.

 

Paesaggi del senese: la Val d’Orcia

All’interno dei paesaggi del senese, a sud di Siena si colloca la Val d’Orcia, l’area rurale che più rappresenta il paesaggio tipico toscano contraddistinto da un morbido paesaggio collinare punteggiato da casali sparsi, strade bianche e gli immancabili e svettanti cipressi (fig.1-2-3-4-5). Estesa tra i territori dei paesi che compongono il cuore di questa zona, ovvero Castiglione d’Orcia, Montalcino, Pienza, Radicofani e San Quirico, il Parco Artistico, Naturale e Culturale della Val d'Orcia è entrato dal 2004 nei registri ufficiali dell’Unesco, riconosciuto come bene da tutelare per lo straordinario “connubio che fonde arte e paesaggio, spazio geografico ed ecosistema”. Oltre all’aspetto naturalistico, requisito fondamentale per il riconoscimento della valle come patrimonio mondiale dell’umanità, interessante è il trascorso storico di questi luoghi, ancora testimoniato dall’architettura e l’arte dei suoi borghi, frutto del sapiente ingegno dell’uomo rinascimentale che seppe conciliare architettura e natura ricercando costantemente il principio dell’armonia. Che sia dalla Fortezza di Radicofani, piuttosto che tra i vigneti di Montalcino o dalle logge di Palazzo Piccolomini a Pienza, il turista si troverà circondato dal meraviglioso spettacolo naturale offerto dai movimenti lenti e soavi dei colli della Val d’Orcia.

Parte integrante dell’ecosistema naturale valdorciano è anche l’elemento dell’acqua rappresentato dal fiume Orcia, che percorre la vallata e da cui essa prende il nome, e le sorgenti termali naturali. Tra quest’ultime ricordiamo la località di Bagno Vignoni (frazione di San Quirico) con la sua peculiare piazza detta “delle sorgenti”, una grande vasca-piscina nel centro abitato del borgo che conserva le acque termali provenienti dal sottosuolo (fig.6): un esempio unico di architettura civica nata intorno alla sorgente già conosciuta per i suoi benefici in epoca romana, nonché da celebri personaggi rinascimentali come Lorenzo il Magnifico e Papa Pio II, oggi non più balneabile ma divenuta senz’altro una delle mete turistiche più frequentate dal turismo slow. Indiscutibile è l’atmosfera fiabesca che si respira in questo borgo, talvolta “velata” dai vapori che si alzano dalla vasca.

Fig. 6 - Veduta della Piazza della Sorgente di Bagno Vignoni. Credits: By Fabio Poggi, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=57156980.

Altra particolarità di Bagni Vignoni sono i piccoli ruscelli o “gorelli” che si estendono dalla piazza per arrivare al Parco dei Mulini, un’area dove fin dal medioevo l’uomo sfruttò la canalizzazione dell’acqua termale per muovere i mulini e creare una fonte di lavoro e sostentamento, il cui rendimento perdurò fino agli anni ’50 del secolo passato (fig.7). Il parco, oggi visitabile insieme al vasto impianto d’irrigazione a cielo aperto che costituisce una vera e propria opera di ingegneria idraulica, rappresenta una testimonianza importante della società locale che, grazie al continuo scorrere dell’acqua termale (mai in secca a differenza dei fiumi), seppe sfruttare al massimo le risorse naturali-autoctone del territorio. Tra le località termali non si può non ricordare anche Bagni San Filippo (frazione di Castiglione d’Orcia) e la sua impressionante Balena. Quest’ultima è una piscina naturale che si trova nell’area boschiva delle terme libere del Fosso Bianco, sormontata da una grande concrezione calcarea che, per forme e dimensioni, è stata associata all’aspetto di questo gigante marino (fig.8).

Fanno parte dell’immaginario che individua i paesaggi del senese e la Val d’Orcia anche i famosi “cipressini” a San Quirico, una piccola “macchia verde” costituita unicamente da cipressi nel mezzo di una collinetta (fig.9). Nati probabilmente come bosco in cui cacciare, “i cipressini”, immersi negli scenari bucolici della campagna senese, sono divenuti oggi l’emblema della genuinità e della pace che questa terra trasmette.

Fig. 9 - I “Cipressini” a San Quirico. Credits: By AhmedMosaad - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=69608676.

Soggetto “da cartolina”, nonché uno degli scorci più fotografati della Val d’Orcia, è senz’altro la Cappellina di Vitaleta, sempre nella zona di San Quirico (fig10). La sua peculiare posizione isolata nella campagna rappresenta l’essenza in miniatura del paesaggio senese, in cui la natura è affiancata da un edificio che ricorda la semplicità dei tempi passati; la cappellina vuole infatti riproporre un prototipo di architettura rinascimentale sebbene sia il risultato di un restauro in stile nelle forme puriste condotte nell’Ottocento dall’architetto Giuseppe Partini (Siena 1842-1895). Secondo la concezione purista dei restauri in stile spesso le architetture venivano drasticamente spogliate dei loro arredi e della stratificazione storica a favore di un totale ripristino delle forme pure. Così è stato anche per la cappellina di Vitaleta che come possiamo osservare presenta in facciata due paraste ai lati dell’ingresso, coronata da un frontone classico secondo i canonici modelli rinascimentali, che se pur non in forma originale hanno senz’altro contribuito al successo odierno di questo luogo incantevole. Sappiamo che la piccola chiesa era sicuramente nel pieno della sua funzione nel XVI secolo, quando venne portata qui la statua in terracotta invetriata della Vergine Annunciata, oggi nella chiesa di San Francesco a San Quirico (anche detta della Madonna di Vitaleta). L’opera presenta i caratteri ricorrenti della bottega dei Della Robbia, da attribuire alla mano di Andrea (1435-1525) per la propensione a un certo sentimentalismo che appare nell’atteggiamento della Vergine rappresentata durante l’episodio dell’Annunciazione (fig.11): l’invetriatura completamente in bianco accentua la compostezza classica su cui si basa la formazione robbiana e che appare evidente anche nel panneggio della veste matronale (link all’articolo sui della Robbia). La tradizione religiosa-locale in merito alla statua ha tramandato una leggenda secondo la quale fu proprio la Vergine, in una sua apparizione, ad indirizzare il popolo verso la città di Firenze alla ricerca di un’effigie che potesse omaggiare la fede cristiana in questo luogo.

Spostandoci dalla Val d’Orcia verso Siena nei territori a sud-est della “città del palio” si trova un’altra zona naturale molto suggestiva, fonte d’ispirazione per gli artisti che nei secoli hanno espresso e rappresentato il legame con questo territorio: le Crete Senesi (fig.12-13). È definita così la parte collinare prevalentemente argillosa che si estende nell’area compresa da Taverne d’Arbia e Buonconvento e che si caratterizza per la formazione di collinette dall’aspetto prevalentemente spoglio, di colore bianco-grigiastro. La zona più caratteristica di questi aspri scenari sono le Biancane, conformazioni collinari argillose dalla forma rotondeggiante, simili a dune, che si presentano spesso in raggruppamenti piccoli e fitti, spogli sulla parte superficiale dove è attiva l’erosione, mentre tutto intorno si estende una florida vegetazione: in quest’area geologica il paesaggio cangia periodicamente variando colori e sfumature in base alle stagioni e alle fasi della coltivazione del grano (fig.14). Immerso nello scenario delle Crete è inoltre tappa obbligatoria per tutti gli amanti dell’arte una visita all’Abbazia Benedettina di Monte Oliveto Maggiore (fig.15), luogo di fede dove l’arte dialoga con la natura in un armonioso scambio che si offre alla preghiera e alla contemplazione del creato: l’area in cui sorge l’Abbazia è denominata per questo Deserto di Accona, dove la parola “deserto” indica l’isolamento spirituale rivolto a un abbondono totale verso il divino.

Chiudiamo questo piccolo itinerario con un’opera contemporanea che si congiunge ai paesaggi del senese delle Crete, situata nei pressi di Asciano percorrendo la Strada Leonina, in cima ad una altura che domina un incredibile panorama. Qui nel 1993 l’artista francese Jean Paul Philippe, dedito a un tipo di scultura urbana e ambientale, posizionò la sua Site Transitoire, un’istallazione in pietra dal sapore ancestrale contraddistinta da soli tre elementi: una sedia con alta spalliera, una pietra orizzontale e una finestra (fig.16-17). Oggetti semplici che, come dichiarato dello stesso autore, ricordano una casa e chiamano il visitatore a godere dello spettacolo della natura che si palesa davanti agli occhi diretti verso la città di Siena: “Compiendo quel gesto, installando quelle pietre mi resi conto che disegnavano nella luce e nello spazio i limiti di una casa. Una dimora senza mura dalla soglia invisibile. A terra alcune lastre, una sedia per accogliere il passante, un banco, una finestra e per tetto la volta celeste”.

Il fascino di questi blocchi, che ricordano le origini primitive del mondo, induce il passante a ripensare il contatto viscerale dell’uomo con la natura e gli equilibri col cosmo: un significato simbiotico con l’universo acquisito dall’opera soprattutto nel giorno del solstizio, quando dalla finestra in pietra il sole segna il suo passaggio al centro della fessura mentre le Crete, come una tela bianca ancora da dipingere, si preparano a catturare tutte le sfumature del tramonto.

 

 

Bibliografia

Fornari Schianchi, M. Mangiavacchi, La Val d ' Orcia viva e verde. Riflessioni sui siti UNESCO in Toscana, Grosseto 2007.

Morganti, Scoprire la Val d’Orcia, Sona 2003.

 

Sitografia

Parco della Val d’Orcia: https://www.parcodellavaldorcia.com/unesco/

https://www.parcodellavaldorcia.com/

Cappella di Vitaleta: https://www.fondoambiente.it/luoghi/cappella-della-madonna-di-vitaleta

Su Giuseppe Partini: https://www.treccani.it/enciclopedia/giuseppe-partini_(Dizionario-Biografico)/

Sulle Crete Senesi: https://www.visitcretesenesi.com/

Su Site Transitoire: http://www.cretesenesi.com/site-transitoire-p-1_vis_3_172.html


MONTECARLO DI LUCCA: IL BORGO E LA STORIA

A cura di Luisa Generali

Introduzione

Il borgo di Montecarlo, caratteristico paese toscano premiato con la bandiera arancione come uno dei borghi più belli d’Italia, si trova in provincia di Lucca su un colle dominato da una possente fortezza, chiamata Rocca del Cerruglio (fig.1).

Fig. 1 - Veduta della Fortezza di Montecarlo. Fonte: Di Menhart - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=50109172.

Montecarlo di Lucca: la storia, la fortezza e il culto della Madonna del Soccorso

Una primissima fortificazione era già esistente nel XIV secolo, ma in seguito fu ampliata e rafforzata con la formazione del borgo medievale che nacque proprio in prossimità del bastione. Ragioni storiche contraddistinguono infatti il toponimo di Montecarlo, così battezzato in onore del futuro imperatore Carlo IV, figlio di Giovanni di Boemia, che liberò Lucca dall’assedio dei fiorentini nel 1331. Da questo momento l’avamposto iniziò ad assumere un aspetto sempre più strutturato nelle forme di una vera e propria fortezza militare, ricoprendo un ruolo strategico fondamentale vista la posizione privilegiata del colle che permetteva un ampissimo controllo sulla piana circostante. Come successe spesso nei territori di confine tra le grandi potenze toscane, anche Montecarlo fu vittima di feroci scontri, a cui la fortezza resistette inespugnabile come dominio dei lucchesi fino al 1437, quando alla fine dovette cedere agli eserciti di Francesco Sforza che consegnarono il borgo nelle mani degli alleati fiorentini.

 

Nell’odierna impostazione di Montecarlo di Lucca rimane ancora oggi visibile l’assetto medievale con le mura perimetrali a protezione del centro abitato e le quattro monumentali porte di accesso. La fortezza, che si presenta come un solido triangolare culminante sul vertice nella roccaforte più antica, assunse l’aspetto attuale grazie ad una serie di interventi che ne aumentarono la mole e la maestosità: tra questi ricordiamo le operazioni condotte da Cosimo I de’ Medici (1554 c.) sul versante del borgo finalizzate alla costruzione di imponenti bastioni animati da archetti, che caratterizzano la parte del complesso detto appunto della “Fortezza medicea”, in onore del suo committente. Come riflesso dei tempi destinati a mutare col progredire della storia, ormai decadute le principali funzioni difensive per cui la fortificazione era nata nel 1775, il complesso venne smantellato dai Lorena ed in seguito venduto all’asta.

 

Oggi la fortezza è ritornata a nuova vita grazie ai suoi proprietari che, con cura e dedizione, hanno provveduto alla ristrutturazione degli ambienti per adibirli a spazi espositivi e renderli fruibili alle visite dei turisti. Punto di forza particolarmente suggestivo dell’attuale assetto è la realizzazione del giardino all’italiana ricavato nello spazio di quella che un tempo era la piazza d’armi, oggi trasformata in una deliziosa area verde ripartita da basse siepi in parterre geometrici, secondo il classico rigore del giardino rinascimentale (fig.2). In mezzo alle mura questo spaccato verdeggiante riporta alla mente l’hortus conclusus (giardino recintato) medievale, nato negli orti dei conventi ed in seguito adottato dalla simbologia cristiana e dalla letteratura come immagine di un piccolo Eden, spesso raffigurato nei fondali scenici che vedono protagonista Maria. Combinando una serie di elementi medievali e rinascimentali la fortezza di Montecarlo di Lucca assume dei connotati lirici e sognanti, propri dei grandi monumenti che travalicano la storia per diventare luoghi senza tempo.

Fig. 2 - Veduta del giardino nelle Fortezza di Montecarlo di Lucca. Fonte: Di Croosadabilia - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=7856893.

Il culto della Madonna del Soccorso: alcuni esempi iconografici

Insieme alla fortezza fa parte della storia religiosa e popolare di Montecarlo di Lucca il culto della Madonna del Soccorso (fig.3), venerata attraverso un’immagine sacra conservata nella collegiata di Sant’ Andrea, chiesa del borgo di antica fondazione trecentesca che oggi all’interno si presenta nelle forme di un rifacimento settecentesco. L’icona venerata come protettrice del paese si trova nella navata sinistra della chiesa, inquadrata in un’edicola marmorea costruita per celebrarne l’importanza del culto, come si nota anche grazie alla cornice di ex voto che corre esternamente intorno allo spazio dell’altare. Secondo la tradizione la Vergine sarebbe apparsa su un torrione della fortezza in protezione di Montecarlo durante un assalto dei pisani, determinando così la venerazione del culto della Madonna del Soccorso.

Fig. 3 - Anonimo fiorentino, Madonna del Soccorso, fine XV secolo, Montecarlo di Lucca, Chiesa di Sant’Andrea. Fonte: By Mongolo1984 - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=82681942.

L’inizio di questa devozione trova tuttavia origini palermitane, nata in seguito all’invocazione d’aiuto da parte di un padre agostiniano che ricevette il miracolo della guarigione tramite l’intercessione della Vergine. Da questo episodio l’ordine degli agostiniani iniziò a diffondere nella penisola il culto della Madonna del Soccorso, a cui probabilmente seguirono varie interpretazioni rispetto alle diverse zone geografiche; mentre infatti nelle regione del sud Italia tale culto è ancora molto sentito e si accompagna spesso a processioni in adorazione di un gruppo statuario raffigurante la Madonna col Bambino, in area centro italiana l’iconografia assume invece precocemente altri caratteri, legati all’intervento della Vergine a protezione di un bambino minacciato dal demonio, come nel caso di Montecarlo. Probabilmente nelle campagne centro italiane ed in contesti di vita contadini, il culto della Vergine del Soccorso entrò in contatto e si contaminò con le storie della tradizione che raccontavano dell’intervento salvifico della Vergine a seguito dell’invocazione di una madre per il suo pargoletto minacciato dal demonio.

 

Nell’affresco di Montecarlo di Lucca l’iconografia rispecchia in parte questa scena dove Maria è rappresentata a figura intera mentre alza una bacchetta con la quale minaccia il maligno, mentre un pargoletto in abiti fedelmente storici, appena fuggito verso la sua salvatrice le protende le braccia in segno di aiuto, rivolgendo lo sguardo ai fedeli. Sorprende la spontaneità con cui il fanciullo, ritratto ancora in movimento, comunica con lo sguardo il senso di scampato pericolo, mentre gli artigli del demonio sono ancora allungati nel tentativo di impossessarsi della sua vittima. I caratteri puerili del protagonista sono qui restituiti attraverso il tipico aspetto degli angeli filippeschi e botticelliani, di cui sono propri i tratti malinconici del volto, le guance paffutelle ed i lunghi e mossi capelli biondi. Nell’azione movimentata di questa rappresentazione traspare l’intenzione lampante di rendere l’immagine di Maria come quella di una madre protettiva che con la sua presenza, rassicurante e al contempo severa, riesce a infondere protezione alle anime più indifese.

 

L’opera, databile alla seconda metà del XV secolo, è assegnata ad un ignoto artista di ambito fiorentino, il cui legame con Firenze trova riscontro con una tavola antecedente attribuita a Domenico di Zanobi (attivo tra il 1460 e il 180 c.) e datata agli anni ‘70 del Quattrocento per la cappella dei Velluti in Santo Spirito a Firenze (fig.4). A differenza dell’affresco montecarlese, oltre ai soliti tre attori principali (la Madonna, il bambino e il demone), si aggiunge la presenza di un personaggio femminile, forse la madre del fanciullo, che presente nel momento della comparsa del demonio fa probabilmente da tramite col divino invocando l’intervento miracoloso della Vergine. La donna rappresentata in ginocchio e di spalle rispetto l’osservatore, a cui mostra il volto di profilo, diventa spettatrice della scena dove protagonista assoluta (anche come evidenziato dalle dimensioni fisiche) è la Vergine, colta nel momento di massima concentrazione nell’istante prima di scagliare la sua punizione contro il demonio. Maria, che mostra un volto radioso ma dall’espressione severa, è vestita con un abito dalle rigide scanalature, mentre il fanciullo (più vicino nell’aspetto a un infante) scappa spaventato alla vista del demone. Sebbene i richiami all’affresco di Montecarlo e la medesima impostazione dei personaggi, la componente che più si diversifica tra le due opere è senz’altro il contesto; se infatti a Montecarlo l’ambientazione è quasi del tutto assente, nella tavola di Santo Spirito l’episodio si svolge invece in un’architettura prospettica che si conclude in un pannello ripartito in specchiature all’antica e percorso da un cornicione orizzontale; nel quale un’iscrizione in caratteri maiuscoli romani presenta la protagonista del dipinto come “Santa Maria del Soccorso”. Nella parte alta di questa stanza, a metà fra spazio interno e spazio esterno, fa da cornice un’apertura sul paesaggio che lascia intravedere una striscia di cielo azzurro su cui si staglia una fila perfetta di alberi.

Fig. 4 - Domenico di Zanobi, Madonna del Soccorso, 1470 c., Firenze, Chiesa di Santo Spirito. Fonte: By Sailko - Own work, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=38173836.

Come precedentemente accennato la critica ha attribuito l’opera a Domenico Zenobi, artista fiorentino stilisticamente vicino a Paolo Uccello (1397-1475) e Filippo Lippi (1406-1469), di cui fu anche collaboratore. La vicinanza dell’affresco montecarlese con i modi filippeschi, come si nota nei tratti fisiognomici del fanciullo, così come nell’importanza del disegno (alla base della scuola fiorentina), potrebbe far pensare ad un filo diretto passato tramite Domenico Zenobi e mediato dall’intervento di un artista ad oggi ignoto che da Firenze si spostò nella zona della lucchesia. Ricordiamo inoltre che gli influssi dell’arte fiorentina furono portati in quest’area anche dal Ghirlandaio (a Lucca nel 1479) e dal figlio di Filippo Lippi, Filippino Lippi (1457-1504), che lavorò a Lucca tra il 1482-1483, facendo scuola a tutta una serie di artisti locali. Tra questi, e come testimonianza della diffusione del culto della Madonna del Soccorso in ambito lucchese e garfagnino, si trova anche la tavoletta assegnata alla mano di Ansano Ciampanti (1498-1532), oggi al Museo Civico Amedeo Lia a La Spezia (fig.5). Databile tra il primo e il secondo decennio del Cinquecento, l’opera ripropone il medesimo tema nella disposizione tradizionale dei personaggi ma collocandoli in un verdeggiante paesaggio collinare. Il fanciullo, che sembra essere ancora sotto l’influenza malefica del demone, si copre in un gesto puerile col mantello della Vergine ritratta in tutta la sua monumentalità mentre alza il bastone che qui assume più l’aspetto di una clava. Sparisce la figura della donna-madre, mentre sul lato destro fa la sua comparsa la presenza brunastra del demonio, che rispetto al solito assume una fisicità più evidente. Lo stile pittorico di Ansano Ciampanti e prima di lui del padre Michele (attivo 1463-1511 c.), risente degli insegnamenti fiorentini uniti ad un’altra componente pittorica molto sentita in quest’area della Toscana, ovvero la pittura fiamminga, conosciuta attraverso la fittissima rete di scambi commerciali che i lucchesi intrattenevano con le Fiandre. È forse proprio per questo aspetto di “contaminazione” che la Vergine assume una fisionomia del tutto anticonvenzionale rispetto ai canoni classici, contraddistinta da un volto irregolare e dai massicci lineamenti, che ritorneranno frequenti nell’opera dei Ciampanti: nell’operetta si aggiunge inoltre l’uso di una pittura tenue che rischiara delicatamente la scena imprimendo nella raffigurazione una cristallina e rarefatta atmosfera.

Fig. 5 - Ansano Ciampanti, Madonna del Soccorso, inizi XVI secolo, La Spezia, Museo Civico Amedeo Lia. Fonte: By I, Sailko, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=19692449.

È del 1509 circa un’altra raffigurazione ad affresco sul medesimo tema che si trova nella chiesa di San Frediano a Lucca, opera attribuita al poco noto Giuliano da Pisa (fig.6). In questo caso l’iconografia della Madonna del Soccorso si unisce ad una sacra conversazione al cospetto di alcuni Santi, i quali assistono alla salvezza del bambino in un loggiato all’antica aperto su uno scenario naturale. Il maligno, che qui ritorna nelle forme di un piccolo diavoletto nero, è la figura in cui si riversa maggiormente l’estro creativo degli artisti che giocano sulle fattezze ferine e caricaturali di questa entità conservandone sempre alcuni elementi ricorrenti come le zampe artigliate o caprine, piuttosto che le corna, le ali da pipistrello ed il forcone. Tra le opere che abbiamo preso in esame esula per originalità il demonio completamente in rosso e dai tratti scimmieschi della tavola fiorentina di Domenico Zanobi, forse una rivisitazione del famoso Lucifero tratto dai mosaici del Giudizio Universale di Coppo di Marcovaldo nel battistero di Firenze.

Fig. 6 - Giuliano da Pisa, Madonna del Soccorso, 1510 c., Lucca, Chiesa di San Frediano. Fonte: By Sailko - Own work, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=62024414.

Nei secoli successivi l’iconografia della Madonna del Soccorso continuerà ad essere interpretata arrivando nel Seicento a soluzioni sempre più drammatiche, come mostra la tela di Jacopo Chimenti detto l’Empoli per la chiesa di Santa Maria Soprarno, oggi conservata nella Galleria di Palazzo Pitti. Con l’intento di suscitare la compartecipazione emotiva del fedele la scena, immersa nelle tenebre dove si muove uno spaventoso diavolo, viene squarciata da un chiaro bagliore che si irradia dalla figura di Maria creando un intenso contrasto di luci e ombre, vicino agli effetti dell’arte di Caravaggio. In primo piano ritorna la figura femminile inginocchiata di spalle e “dal profilo perduto”, per cui l’artista lascia all’immaginazione del pubblico l’espressione estatica del suo volto difronte all’apparizione. Davanti agli occhi dello spettatore si palesa invece il grido d’aiuto del bambino, aggrappato con impeto alle gambe della sua salvatrice, in un gesto che diventa estremamente drammatico e reale.

 

Bibliografia

Santoro, Fortezze, rocche e castelli in Lucchesia e in Garfagnana: Camporgiano, Castelnuovo di Garfagnana, Castiglione, Ghivizzano, Lucchio, Montalfonso, Montecarlo, Nozzano Castello, Verrucole, Lucca 2005.

La Banca del Monte di Lucca. L'edificio e le collezioni d'arte, a cura di Maria Teresa Filieri, Lucca 1997.

Concioni, I pittori rinascimentali a Lucca: vita, opere, committenza, Lucca 1988.

 

Sitografia

Sulla fortezza di Montecarlo di Lucca:

https://www.fortezzadimontecarlo.com/i-luoghi-della-cultura/rocca-del-cerruglio/

https://castellitoscani.com/montecarlo/

Su Domenico di Zanobi:

https://www.pandolfini.it/it/asta-0039-1/domenico-di-zanobi-maestro-della-nativitandagr.asp

Su Ansano di Michele Ciampanti:

https://bibliospezia.erasmo.it/Opac/OggettiDArte.aspx?id=OA-CB-92

Sulla Madonna del Soccorso di San Frediano a Lucca:

https://www.turislucca.com/2008/09/immagini-di-devozione-mariana-a-lucca-parte-1/

Su Jacopo Chimenti detto l’Empoli:

https://www.treccani.it/enciclopedia/da-empoli-iacopo-detto-iacopo-chimenti_%28Dizionario-Biografico%29/