LE STELE IN ABRUZZO: ENIGMI E GUERRIERI

A cura di Simone Lelli

Dopo aver analizzato i siti archeologici più importanti d’Abruzzo, in questo terzo articolo si approfondirà il significato e l’uso delle stele in Abruzzo, soffermandosi particolarmente sulle enigmatiche stele di Penne Sant’Andrea e sull'emblematico simbolo dell’Abruzzo archeologico ovvero il guerriero di Capestrano.

Origine del termine

Il termine stele (dal greco στήλη, in latino stela o stele) indica generalmente una lastra di marmo o pietra, ornata con decorazioni in bassorilievo o incisioni, posta su un basamento o conficcata nel terreno. Solitamente la stele aveva una funzione di tipo funerario ovvero ricordare il defunto, ma poteva essere utilizzata anche in altre circostanza come lo scioglimento di un voto (stele votiva), raccontare un fatto memorabile accaduto in quel luogo o indicare una zona di confine. Qualsiasi sia stato il loro utilizzo, le stele comparvero per la prima volta già nel neolitico ed ebbero il massimo splendore durante il periodo classico, prima con i greci e successivamente con l’impero romano. Così come in tutta la penisola anche nel territorio abruzzese si sviluppò la cultura dell’utilizzo della stele.

La Stele di Guardiagrele

Nel 1965 fu ritrovata una stele in Abruzzo, nei pressi di Guardiagrele (CH) (fig.1), databile alla seconda metà del VII secolo a.C., considerata la più antica stele dell’area abruzzese. Raffigurante probabilmente un guerriero italico, la stele in calcare è di forma rettangolare appiattita e presenta delle decorazioni in basso rilievo di una corazza e degli armamenti; infatti sul petto troviamo una disco-corazza con due cinghie, inoltre è incisa una lancia con un grande puntale e una collana con dei pendagli. Attualmente la stele è conservata presso il Museo archeologico “Filippo Ferrari” a Guardiagrele (CH).

Fig. 1 - Stele di Guardiagrele (CH).

Il Guerriero di Capestrano

Una delle stele in Abruzzo, e in generale italiche, più famosa è sicuramente quella del “Guerriero di Capestrano” (fig.2) divenuto oramai uno dei simboli dell’Abruzzo: venne alla luce nella piana di Capestrano nel settembre del 1934, quando un contadino di nome Michele Castagna, intento a piantare la vigna, colpì inavvertitamente una statua funeraria di un principe guerriero risalente al IV secolo a.C. Il reperto fu portato immediatamente al Museo Nazionale di Roma; successivamente nel luogo del ritrovamento furono avviate campagne di scavo guidate dall'archeologo Roberto Moretti, il quale portò alla luce una necropoli con alcune tombe e corredi funerari datati al VII-VI secolo a.C. Il Guerriero assume importanza in considerazione del fatto che le testimonianze di scultura etrusco-italica sono abbastanza rare per la qualità modesta della pietra allora disponibile, prima della scoperta del marmo, e per l’utilizzo della terracotta, materiale facilmente deperibile. Il reperto, una statua funeraria alta due metri e mezzo e ampia (nella spalle ampiezza massima) centotrentacinque centimetri, fu ricavata da un blocco unico di pietra calcare locale e raffigura una figura maschile con le braccia piegate sul corpo, la destra posta sul torace e la sinistra sul ventre. L’anatomia risulta semplificata e geometrica, inoltre i fianchi sono molto sviluppati e il torace triangolare. La statua originariamente doveva essere posta sopra un tumulo di terra, posto sulla la tomba del defunto, poggia su un plinto[1] di pietra ed è sostenuta da due colonnine, inoltre presenta tracce di policromia. La testa è coperta da copricapo discoidale completato da una calotta semisferica con una cresta innestata che genera una sorta di coda: il copricapo fu realizzato in un blocco di fango carbonato e inserito sul capo del guerriero con un sistema ad incastro, mentre i lineamenti del volto sono stilizzati a tal punto di far ipotizzare che in realtà sia una maschera o un elmo. Molto curato è l’armamentario della stele (fig.3); una lunga spada con impugnatura decorata da figure umane disposte in duplice ordine, con l’elsa a crociera[2] e una guaina con la figura di una coppia di quadrupedi; un pugnale sovrapposto alla spada; due lunghe lance e un’ascia, ben tenuta dalla mano destra, l’oggetto più importante, che, a causa del suo manico assai lungo, fa pensare ad uno scettro, simbolo del comando. La corazza, presenta all'altezza del cuore, dei kardiophylakes, (dischi proteggicuore); l’addome è difeso da una lastra sagomata retta da cinque fasce e cinghie incrociate; le tibie coperte da schinieri[3] e i piedi da calzari e corregge[4] poste al di sotto dei malleoli. Su entrambi gli avambracci il guerriero presenta due armille[5]; ben visibile intorno al collo un collare con pendagli nella parte anteriore. La ricca panoplia[6] e i raffinati ornamenti a corredo del guerriero hanno fatto da subito pensare ad un personaggio importante e di rango elevato, sicuramente un principe o un re italico. La statua come detto precedentemente è sorretta da due piccoli pilastri che recano delle iscrizioni in lingua italica arcaica probabilmente in osca sud-picena: MA KUPRI KORAM OPSUT ANI..S  RAKI  NEVI  PO...M. II” la cui traduzione diventa “ME BELLA IMMAGINE FECE/ FECE FARE ANINIS PER IL RE NEVIO POMPULEDIO”, con questa iscrizione possiamo risalire all'autore o committente dell’opera e all'identità del defunto, un caso rarissimo per l’arte in questo periodo cronologico. Sempre secondo l’iscrizione ci troviamo davanti ad un re italico e ciò potrebbe spiegare la qualità e la cura della realizzazione della stele. Attualmente “Il guerriero di Capestrano” è situato all'interno del Museo Archeologico di Chieti.

Stele in Abruzzo: stele di Penna Sant’Andrea

Nel 1974 durante gli scavi della necropoli italica di Monte Giove, presso Penna Sant’Andrea (TE) vennero alla luce tre stele in pietra con iscrizioni in lingua arcaica, detta sud-picena. Le lettere sono incise seguendo un particolare ordine lineare detto bustrofedico, nel quale le righe di testo vengono scritte alternativamente da destra verso sinistra e viceversa, seguendo lo stesso percorso dell’aratro impiegato nei campi. Queste stele risalgono al VI/V secolo a.C. ed erano utilizzate come monumenti funerari ed erano poste sopra le tombe di personaggi illustri. Le tre stele sono di forma stretta e allungata con la faccia coperta da iscrizioni, due di esse hanno conservato la sommità del capo ed entrambe nella parte terminale in alto formano un dente ad angolo retto, probabilmente utilizzato per sorreggere un elemento separato, magari un copricapo come nel caso del Guerriero di Capestrano. La serie fonetica che compare nelle tre stele è un'evoluzione rispetto a quella che troviamo sul Guerriero di Capestrano. Nella prima stele (fig.4), su quattro righe a partire dal basso verso l’alto e da destra verso sinistra con un andamento continuo su tutta la stele, troviamo questa iscrizione:

Fig. 4 - Stele di Penna Sant'Andrea I.

hidom safinùs estùf ehelsi't tiom po/vaisis pidaitùpas fitiasom mùfqlùm men/tistrùi nemù-
nef praistaft panivù meitims saf/inas tùtas trebelies titùi praistaklasa posmùi
”.

La seconda stele (fig.5) aveva un testo più corto lungo il bordo della parete frontale di cui si è conservata la parte centrale:

...]nis safinùm nerf persukant p[...”.

Fig. 5 - Stele di Penna Sant'Andrea II.

Nella terza stele (fig.6) invece si è conservata la parte incisa sulla porzione inferiore, qui il testo è inciso su sei righe continue che iniziavano dall'angolo superiore destro della pietra; anche qui più della metà del testo è andato perduto, questo è ciò che ci rimane:

rtùr brimeqlùi alfntiom okrei safina[... enips toùta tefei posmùi praistaint a[... psùq qoras qdufeniùi brimeidinais epe[...”.

Fig. 6 - Stele di Penna Sant'Andrea III.

Anche se tuttora non ci è totalmente chiaro il significato di queste scritture, possiamo comunque dedurre che sono documenti di pertinenza etnica, inoltre possiamo comprendere sempre da queste iscrizioni importanti informazioni sull'ordinamento sociale di quelle genti, ad esempio nelle incisioni troviamo la parola touta usata con il significato di “cosa pubblica”, quindi ciò testimonia il passaggio dal governo del re-guerriero ad una società di tipo repubblicano. Queste tre stele attualmente sono conservate presso il Museo Archeologico Nazionale di Chieti.

 

Concludendo questo articolo, vorrei fare una breve riflessione su come questi reperti da noi analizzati ci facciano comprendere come già in quel periodo, nel territorio abruzzese, esistesse una fonetica ben sviluppata e di come queste genti fossero in realtà delle comunità sociali e politiche ben più complesse di come si credeva, quasi alla pari con i loro vicini Etruschi. Grazie a questi ritrovamenti, possiamo oggi avere un’idea più chiara e lineare del processo di sviluppo culturale e linguistico che è avvenuto nel corso dei secoli in questi popoli, considerati in origine come semplici gruppi di pastori nomadi.

 

Note

[1] Plinto: Nella architettura classica il plinto era una struttura con funzione di basamento a forma di basso parallelepipedo su cui veniva fatta poggiare una colonna o una lastra.

[2] Elsa a crociera: E’ un tipo di impugnatura di arma bianca, solitamente era la parte più decorata.

[3] Schiniere: In antichità era un elemento dell’armatura che proteggeva la parte anteriore della gamba.

[4] Correggia: Una striscia solitamente in cuoio che serviva a mantenere accostati due pezzi di uno stesso oggetto.

[5] Armilla: Braccialetto d’oro o di altro materiale utilizzato come ornamento.

[6] Panoplia: Complesso delle varie parti di un armatura o un insieme di armi assortite.

 

Sitografia

abruzzocamping.it

abruzzovacanze.altervista.org

archeologiaabruzzo.jimdofree.com

capestranodascoprire.it

culturaitalia.it

mnamon.sns.it

museidiguardiagrele.it

portalecultura.egov.regione.abruzzo.it

treccani.it

 

Bibliografia

Mazzitti, ABRUZZO una storia da scoprire – a history to be told, Pescara, 2000


IL PARCO DEI LAGONI DI MERCURAGO

A cura di Marco Roversi

L’Insediamento Palafitticolo dell’Età del Bronzo tra XVIII e XIII a.C. e Le Ruote di Mercurago

L’area protetta del Parco dei Lagoni di Mercurago (No) fu istituita nel 1980 su iniziativa popolare, ed è tutt’oggi gestita dall’Ente Parchi del Lago Maggiore, assieme ai Canneti di Dormelletto (NO) e alle Riserve di Fondotoce (VB). Dotato di un’intricata rete interna di sentieri, che consentono ai visitatori di addentrarvisi e di percorrerlo nella sua interezza, il territorio del parco si compone geologicamente di un terrazzo di origine morenica affacciato sul Lago Verbano, con due serie di collinette poco estese ed elevate (comunemente denominati motti). Ricca in ogni stagione di spettacoli naturali unici e suggestivi la Riserva Naturale racchiude, in una superficie relativamente limitata (473 ettari circa), una serie interessante e assai eterogenea di ecosistemi: lo stagno, la palude, il bosco, la brughiera e il coltivo, nonché una zona di torbiera e pascoli dedicati all’allevamento di cavalli purosangue. Sentieri tematici sono appositamente segnalati per consentire ai visitatori di apprezzare le ricchezze naturali, e non solo, offerte da questo parco, dai percorsi per i boschi e le zone umide (segnati in pinta rispettivamente con i colori rosso e azzurro), ai percorsi dedicati alle attività produttive e all’archeologia del luogo (ovvero i percorsi arancione e viola). Di recente realizzazione è, invece, l’allestimento di itinerari storici che collegano l’area protetta con i Comuni circostanti (Arona, Dormelletto, Comignago e Oleggio Castello), alcuni dei quali corredati di pannelli e bacheche illustrative degli aspetti storici di maggior rilevanza.

Fig. 1 - Fotografia ritraente il Lagone, il più grande dei due laghi presenti nel Parco. Si ringrazia Donatella Basaglia per la gentile concessione della fotografia. © Donatella Basaglia / Flickr - https://flic.kr/p/UD972Z.

 

Nel giugno del 2011 il Parco dei Lagoni di Mercurago è stato inserito nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO, rientrando tra i 111 Siti Palafitticoli Preistorici dell’Arco Alpino. La riserva presenta, infatti, interessanti presenze archeologiche, testimoni di una lunghissima occupazione che va dall’Età del Bronzo sino all’occupazione romana, ma la documentazione archeologica relativa all’antico villaggio palafitticolo è certamente la più nota e la più rilevante. Le primissime presenze umane in situ risalgono alla fase del passaggio tra il Bronzo Antico e il Bronzo Medio (BA II/ BM I), tra 1600 e 1500 a.C. (secondo la periodizzazione cronologica dell’Età del Bronzo relativa all’Area Padana e Sud-Alpina). La cosiddetta Cultura di Mercurago, assimilabile per cultura materiale e modalità di insediamento alla cultura del vicino Lago di Monate (VA), presenta tracce di insediamenti palafitticoli, in parte oggi poco conservati e molto erosi. Di conseguenza non possediamo più strati con presenze archeologiche, e tutte le documentazioni proseguono per indagine tipologica sui materiali rinvenuti, specialmente sui reperti bronzei, i quali hanno permesso di stabilire che i suddetti abitati furono attivi per un lungo periodo dell’Età del Bronzo, almeno per tre secoli, con la fase più intensa di abitato e di presenza umana ascrivibile al periodo finale del Bronzo Antico.

Fig. 2 - Mappa del parco con i relativi sentieri.

Il complesso dei ritrovamenti e l’abbondanza dei reperti che vennero alla luce immersi nei giacimenti ricchi di torba, fanno dei Lagoni una fra le più importanti stazioni preistoriche d’Italia. Le torbiere del Parco si sono, infatti, rivelate ottimi luoghi per la conservazione del passato e dei suoi tesori: torba e limo creano un ambiente anaerobico, ossia privo di ossigeno, il che impedisce l’ossidazione delle sostanze e dei materiali organici e l’azione decomponente di batteri e altri microrganismi. Ne consegue che i resti biologici di un antico insediamento, che l’acidità del terreno in certi casi può cancellare anche molto velocemente, in ambiente di torbiera vengono conservati presso che intatti anche per moltissimi secoli. Ecco che la particolarità ambientale del sito ha permesso di portare alla luce materiali in ottime condizioni di conservazione, dai reperti metalli in bronzo rinvenuti nel più piccolo dei due laghi del Parco, a manufatti in legno, fibre, corde, resti di cibo e cuoio. E si deve proprio a questa particolare condizione ambientale il ritrovamento più importante dell’area dei Lagoni: quelle delle celebri ruote da carro in legno.

Fig. 3 - Incisione anonima riproducente una delle palafitte costruite sul Lagone.

L’iniziatore degli studi in situ fu il geologo torinese Bartolomeo Gastaldi, che nel 1860 per primo condusse operazioni di scavo e ricerca su ciò che rimaneva di un’antichissima palafitta, una delle più antiche di tutta l’Europa, rinvenuta all’estremità settentrionale della conca del più grande dei due specchi d’acqua che si estendono nel Parco, denominato Lagone. Il Gastaldi studiò a fondo quanto rimaneva di tale antica struttura, e realizzò anche calchi in gesso sui reperti lignei deperibili portati alla luce, continuando i suoi studio fino al 1866. La struttura si inseriva in un contesto insediativo di notevole estensione, composto da più settori abitativi aventi come fulcro centrale proprio il Lagone, un’area abitativa documentata dall’Antica alla Tarda Età del Bronzo, tra XVIII e XIII a.C., della quale non si conoscono ancora le annesse aree di necropoli. Gli antichi abitanti dei Lagoni costruirono un intero villaggio adottando criteri di urbanistica che, per l’epoca, potevano dirsi assai all’avanguardia: si può, infatti, pensare ad un complesso di capanne disposte su due file e divise da un canale centrale; le costruzioni, che poggiavano su quattro pali perfettamente arrotondati lunghi all’incirca 3 m e con un diametro di 20 cm circa, erano interamente in legno e terriccio, con coperture straminee, ossia in paglia, a doppia falda.  La presenza umana, tuttavia, non fu continua, in quanto tra il 1550 e il 1450 a.C., nella fase centrale della Media Età del Bronzo, si può presumere un abbandono temporaneo del sito, forse in occasione di un impaludamento dello specchio d’acqua. Successivamente il sito del Lagone venne nuovamente occupato in modo stabile.

L’insediamento era sede di una comunità dedita alla pesca, alla caccia, all’agricoltura, all’allevamento del bestiame, alla lavorazione tessile e anche ben sviluppata nella produzione e nello scambio a lunga di stanza di merci e beni, anche di prestigio (come i bottoni in pasta vitrea di ispirazione mediterranea), attraverso il controllo dell’accesso a vie commerciali fluviali e di terra in diretto collegamento con gli abitati che, lungo gli alti terrazzamenti naturali del Ticino, tracciavano un asse commerciale nord-sud da Mercurago a Marano Ticino e Bellinzago Novarese (NO), e poi verso la Lomellina e la bassa pianura. Gli abitanti di tale comunità producevano ed impiegavano piroghe intagliate nei tronchi degli alberi, di cui ne sono state portate alla luce due esemplari, e di cui si conservano tutt’oggi due calchi presso il Museo Archeologico di Torino. I prodotti fittili, invece, erano forgiati a mano, cotti a fuoco libero e caratterizzati da un’argilla di colore quasi nerastro, con ornamentazione semplice a lineette oblique tracciate a stecca oppure disposte a fasce orizzontali parallele. Poco si conserva degli utensili impiegati per la caccia e delle armi, queste ultime rappresentate perlopiù da cuspidi di selce scheggiata e da coltelli in rame.

Fig. 4 - Calco di una delle due piroghe monoxili rinvenute in sito, oggi conservato presso il Museo Archeologico di Torino.

Ma sopra ad ognuna di tali testimonianze materiali spiccano le sopracitate ruote che senza alcun dubbio costituiscono il materiale più vivo di tale civiltà: tali ruote, rinvenute in numero di quattro (di cui solo di due furono realizzati i calchi in gesso, mentre le altre due non furono riprodotte), presentano alcune peculiari caratteristiche che le distinguono dalle più antiche ruote a disco pieno e di notevole pesantezza cronologicamente riferibili al 1650/1550 a.C. Le ruote di Mercurago, le cui dimensioni variano su diametri tra gli 82 e i 92 cm, sono costruite in tre sezioni, e hanno la caratteristica sostanziale di essere “folli” sull’asse, ossia che ne viene eliminata la sollecitazione facilitando, così, l’uso di un asse carraio più leggero e quindi più pratico. Dotate, inoltre, di raggi non convergenti, di bandelle di rame per assicurare stabilità e resistenza le ruote mercuraghesi costituiscono un evidente espressione di quelle genti nel creare e perfezionare tramite un’intelligenza tecnologica estremamente avanzata. Sono note principalmente due diverse tipologie: la prima tipologia era probabilmente impiegata per la realizzazione di carri pesanti da traporto, la seconda era forse adatta a carri più leggeri, destinati forse ad un uso bellico o cerimoniale. La ruota più massiccia pare essere stata impiegata in ambito rurale e appartiene probabilmente ad un carro pesante a traino bovino, mentre quella più leggera potrebbe essere riferita, per ovvi limiti di carico, ad un carro leggero a due ruote a traino equino, una tipologia ben comune agli scenari di guerra e anche simbolo di prestigio dei membri socialmente più elevati del tempo. Appare comunque singolare la presenza nello stesso sito di ben quattro ruote in realtà tutte differenti tra loro, riferibili a quattro diverse tipologie di carri, tanto da rafforzare l’ipotesi che non si trattassero di veicoli legati ad un uso quotidiano, ma alla vicinanza o alla presenza nel sito di un’officina specializzata per la riparazione o per la fabbricazione dei carri, dato anche il legno di noce impiegato per fabbricarle, che non proviene dall’area del Parco, e data anche l’incongruità dell’utilizzo di carri da guerra nell’area della Torbiera. Al di là delle diversità tipologiche, le ruote sono invece accomunate da tecniche realizzative presso che simili, impiegando tenoni (giunture) lignei interni e archi di rinforzo, “manicotti” in legno più tenero per prevenire il consumo dell’assale, l’ovalizzazione del foro della ruota e l’assenza di cerchiatura (sono cosi prive di battistrada in metallo solitamente impiegato per prevenirne l’usura).

Scoperte nel XIX secolo, quando ancora non si conoscevano le tecniche per la conservazione del legno antico estratto da ambienti umidi, se ne conserva solo il calco, prontamente effettuato dallo stesso Gastaldi nella torba al momento del rinvenimento. In un primo tempo le ruote furono attribuite all’Antica Età del Bronzo (XXI-XVII a.C.), ma una più attenta rilettura della serie stratigrafica ed un confronto con rinvenimenti analoghi in area elvetica sembrano portare ad una cronologia più tardiva, nell’ambito della Media-Tarda Età del Bronzo (XIV-XIII a.C.), vale a dire nell’ultima fase di occupazione della torbiera. I calchi originali delle ruote sono oggi conservati al Museo Archeologico di Torino, mentre una copia di uno di essi è oggi conservato e ed esposto presso il Museo Archeologico di Arona (NO). Inaugurato nel 1977, e sito nell’ala sinistra dell’ottocentesco mercato coperto di Piazza San Graziano, esso raccoglie alcuni dei rinvenimenti archeologici provenienti dalla città di Arona e dall’area del Basso Verbano e nelle prime vetrine del percorso espositivo si possono ammirare anche alcuni dei reperti dell’Età del Bronzo rinvenuti nella stazione palafitticola del Parco dei Lagoni di Mercurago.

Fig. 7 - La ruota di Mercurago a raggi non concentrici in un’incisione anonima.

 

 

Bibliografia:

- “La Storia di Arona”, a cura di Peppino Tosi e Mario Bonazzi, Editrice Evoluzione, Milano, aprile 1964.

- “Arona nella Storia”, a cura di Carlo Manni, Edizione promossa dal Comune di Arona, Interlinea Edizioni, Novara, 2001.

 

Sitografia:

- www.archeocarta.org

- www.marcotessarto.it

- www.comune.arona.no.it

- www.archeomuseo.it


GLI ABITATI PALAFITTICOLI DELL’AREA BENACENSE

A cura di Dennis Zammarchi

Le palafitte nell'età del Bronzo

Nell'immaginario comune gli abitati palafitticoli sono identificati come un villaggio sull'acqua realizzato con pali di legno nelle vicinanze di un bacino idrico o di un corso fluviale, in realtà grazie a numerosi studi si è visto come non fossero unicamente localizzati in area umida.

Sebbene si possa parlare di strutture abitative caratteristiche dei siti circondati da corsi d’acqua, durante l’Età del Bronzo, infatti, si riconoscono diverse soluzioni strutturali e differenti situazioni ambientali (Fig. 1).

In più di un secolo di ricerche gli archeologi che hanno scavato numerosi siti palafitticoli europei hanno riportato alla luce insediamenti lacustri e fluviali, che sorgevano sulla riva o in acque più profonde, con case poggianti su lunghi pali isolati o su pali corti, con fondazioni a reticolo autoportanti o ancora case su bonifiche di cassoni lignei, cioè costruite su grandi recinti quadrangolari formati da tronchi incastrati tra loro, riempiti con ghiaia o altro materiale drenante in grado di filtrare l’acqua e creare così un piano di calpestio piatto.

Fig. 1 - Museo delle palafitte di Uhldingen-Mühlhofen in Germania.

La maggior concentrazione dei siti palafitticoli la troviamo al nord delle Alpi, mentre in area italiana si trovano soprattutto compresi nell'area del bacino inframorenico del Garda, settore dove si diffuse la facies di Polada. Questa cultura prende il nome dalla località di Polada, nei pressi di Lonato del Garda (BS) e si sviluppa in un periodo compreso tra il 2200 e il 1600 a.C. e la successiva “cultura delle Palafitte e Terramare” del Bronzo Medio e Recente (databile tra il 1600 e il 1200/1150 a.C.).

In realtà le più antiche palafitte della penisola italiana risalgono al Neolitico antico, con il sito della Marmotta sul lago di Bracciano agli inizi del VI millennio a.C. (5800-5600 a.C.), mentre in Italia settentrionale si trovano nella zona di Varese (datate al 5200 a.C. circa),tuttavia, più che siti palafitticoli sono siti localizzati in area umida, o più probabilmente sono strutture su bonifica. Queste strutture realizzate in area umida sono state ritrovate anche nel gruppo dell’Isolino e a Fiavé (Trentino) che conosce un periodo di colonizzazione tra il 3800 e il 3600 a.C.

Una domanda che spesso gli studiosi si sono posti è il perché venissero edificate gli abitati palafitticoli: inizialmente si supponeva che la sopraelevazione garantita dall'impalcato ligneo garantisse una protezione dagli animali feroci. Nel corso degli anni e degli studi questa ipotesi è stata smentita, attualmente si ritiene che il successo di queste modalità insediative durante l’età del Bronzo sia riconducibile all'agricoltura.

Per combattere le difficoltà causate da una fase secca e arida, infatti, gli esseri umani si spostavano all'interno del lago per sfruttare l’area lasciata libera dalle acque, divenuta abbastanza fertile e facilmente lavorabile.

La facies di Polada durante l’Età del Bronzo antica e media

Il Bronzo Antico

Durante l’Età del Bronzo antica (2200-1800 a.C., suddiviso da De Marinis in Bronzo Antico I 2200-1800 a.C. e 1800-1600 a.C. Bronzo Antico II) la facies archeologica più conosciuta e famosa per l’Italia settentrionale è sicuramente quella di Polada, una fase culturale limitata, nel momento più antico, alla fascia prealpina dei laghi e degli anfiteatri morenici posizionati allo sbocco delle valli glaciali.

La concentrazione maggiore degli abitati caratteristici di questa facies è situata attorno al lago di Garda, al confine tra le regioni Lombardia e Veneto, con le palafitte di Polada, Barche di Solferino, Bande di Cavriana, Lavagnone e Lucone.

Secondo le ipotesi dello studioso Lawrence Barfield la comparsa in Italia della cultura di Polada potrebbe essere il risultato di un movimento di alcuni gruppi provenienti dalla Svizzera e dalla Germania meridionale, territori dove si vede un’interruzione degli abitati palafitticoli in corrispondenza dell’Età del Bronzo antica e media.

La facies di Polada si sviluppa per tutto il corso della IEB (prima Età del Bronzo, 2200-1600 a.C.), secondo la cronologia proposta da De Marinis sulla base di numerose date dendrocronologiche, ossia un sistema di datazione basato sul conteggio degli anelli di accrescimento annuale degli alberi che permette di avere una precisione annuale.

La cultura materiale tipica dei gruppi Polada comprende ceramica d’impasto eseguita a mano (la parte prevalente dell’insieme archeologico) di colore scuro e di livello tecnico ed estetico modesto, con prevalenza di forme chiuse (nel momento più antico vi sono boccali globulari, anfore, vasi biconici) e quasi sempre priva di decorazione nelle fasi antiche (Fig. 2).

Fig. 2 - Forme ceramiche tipiche della cultura di Polada.

Le classi ceramiche utilizzate per contenere derrate alimentari hanno superfici più scabre, mentre quelle con possibile uso da mensa evidenziano una maggior cura, presentando una coloritura più uniforme, spesso nera, e maggiormente lisciate. I fondi spesso sono convessi, anche se non mancano forme ceramiche a fondo piatto.

Molto caratteristica di Polada è l’ansa con il bottone plastico alla sommità, le decorazioni comprendono cordoni e listelli plastici e motivi incisi a puntini.

Nel Bronzo Antico II il repertorio ceramico cambia sensibilmente, portando alla maggioranza delle tazze sui boccali, inoltre, compare una forma carenata d’impasto fine con ansa ad anello o gomito. La novità maggiore, tuttavia, è la comparsa della decorazione a punti e cerchietti impressi, che compare sui boccali e sui vasi conici.

La facies di Polada era caratterizzata oltre che dalla lavorazione ceramica, anche da un’industria metallurgica non molto sviluppata, con collegamenti transalpini e lavorazione su larga scala di corno ed osso, produzione di industria litica e lavorazione dei materiali organici deperibili, come l’osso e il legno, sia per il mobilio che per la costruzione delle strutture.

Gli abitati del periodo più antico sono piccoli villaggi situati vicino al lago di Garda, a breve distanza gli uni dagli altri, caratterizzati da fasi di occupazione variabili, anche molto brevi in alcuni casi. Ciò era spesso dovuto a incendi e crolli, come visibile dai ritrovamenti effettuati durante gli scavi e alle successive analisi.

I gruppi Polada insediatisi in quei territori erano soggetti quindi a spostamenti e rioccupazioni all'interno dello stesso bacino.

Gli abitati nella fase più antica sono costruiti su palafitte con impalcato aereo sulle rive dei laghi e sull'acqua. Nella fase avanzata, invece, gli abitati palafitticoli sono costruiti su bonifiche sostenuti da cassonature di travi orizzontali e paletti verticali, con case a pianta rettangolare disposte regolarmente. Il modulo di occupazione era costituito da villaggi vicini e collegati, con una densità demografica compresa tra alcune centinaia e un migliaio di persone.

Per quanto riguarda le attività economiche dei gruppi umani insediati nell'area benacense la produzione agricola è documentata dai ritrovamenti di aratri in legno, falcetti con lame realizzate in selce, semi combusti di legumi e cereali. Sono state rinvenute, inoltre, rappresentazioni artistiche di buoi aggiogati su alcuni massi incisi e statue-stele.

Fig. 3 - L’aratro del Lavagnone, conservato al Museo Rambotti di Desenzano (BS).

L’allevamento era rivolto principalmente a ovini, caprini, suini e bovidi, con differenze legate all'ambiente dov'erano situati gli insediamenti, mentre la caccia aveva un’importanza marginale. Sono stati rinvenuti anche resti di semi e tessuti di lino oltre che resti di cuoio a testimonianza delle attività tessili e di conciatura delle pelli che veniva realizzate.

Importantissimi per gli studi legati sia alla metallurgia che all'identità culturale e cultuale dei gruppi afferenti alla facies di Polada, sono stati i ritrovamenti di ripostigli di bronzi, formati da oggetti integri, solitamente una sola categoria, come asce, collari o pugnali, deposti volontariamente in aree isolate rispetto alla distribuzione degli insediamenti. Uno dei più antichi potrebbe essere quello di Torbole (BS) composto da 13 asce a margini rialzati (Fig.3)

Tali ripostigli potrebbero documentare i modi e le vie della circolazione del metallo sia come prodotto finito (per esempio le asce) che come lingotti. Altre testimonianze della produzione metallurgica locale sono i ritrovamenti di strumenti legati alla fusione dei metalli come crogioli e ugelli di mantice.

Fig. 4 - Ripostiglio di Torbole (BS) conservato al Museo Rambotti di Desenzano (BS).

Gli usi funerari dei gruppi umani sono poco documentati, probabilmente perché non vi erano specifiche aree destinante al seppellimento dei defunti, infatti si hanno ritrovamenti di resti umani provenienti da settori di abitato.

Le più note manifestazioni di culto della cultura di Polada sono le statue stele e in massi incisi della Valtellina e Valcamonica (in continuità dell’Età del Rame) che associano elementi antropomorfi maschili e femminili con rappresentazioni solari, di armi, di scene di aratura, caccia e animali domestici.

Fig. 5 - Incisioni rupestri della Valcamonica, una scena di caccia al cervo.

Infine, un accenno alla struttura sociopolitica di questi gruppi nel Bronzo Antico sembra necessario, la struttura sociale e politica sembra essere tribale, con insiemi di comunità villaggio che occupano comprensori gravitanti attorno a bacini lacustri.

Questo è conforme alla relativa uniformità della facies archeologica insieme all'evidenza di collegamenti e scambi che indicano contatti tra le comunità interessate.

Sembra esserci anche una coesione culturale garantita da luoghi di culto come quelle della Valcamonica, mentre non si ipotizza un’organizzazione politica permanente con un rapporto gerarchico fra le diverse entità del territorio.

Il Bronzo Medio

A Nord del Po, fra la Lombardia orientale, Trentino e pianura padana centro orientale, l’aspetto culturale dell’Età del Bronzo media e recente si sviluppa, ancora una volta, negli abitati palafitticoli dei bacini inframorenico, con la massima concentrazione attorno al bacino del Garda e in una serie di abitati arginati di pianura. La continuità con Polada è visibile, sia nella facies culturale che nella distribuzione territoriale, differenziandosi ora dall’area a sud del Po, solo da questa fase occupata e caratterizzata dalla presenza delle terramare.

La ceramica della MEB (media Età del Bronzo) comprende tazze e scodelle emisferiche, vasi biconici, bicchieri, boccali e grandi vasi utilizzati per conservare gli alimenti. La cultura di Polada cambia, prima era caratterizzata prevalentemente da forme chiuse mentre ora iniziano a prevalere forme aperte.

Si diffondono nuovi stili decorativi caratterizzati dall'uso di solcature e motivi geometrici incisi, un altro aspetto tipico di questa fase sono le forme vascolari con l‘ansa sopraelevata. La produzione metallurgica è molto ricca, così come nell'area terramaricola, vi sono falci e diversi tipi di strumenti come spade e pugnali, rasoi a doppio taglio asce.

Molto sviluppata diviene la lavorazione delle materie organiche, come quella del legno, soprattutto a Fiavé, dell’osso e del palco di cervo.

Per quanto riguarda le pratiche cultuali, si ha l’enfasi dei rituali funerari sugli uomini portatori di armi, documentata anche nell'Italia meridionale; questo continuerà fino all’Età del Bronzo recente dove le armi scompariranno dai corredi.

Questo cambiamento nei corredi delle sepolture è probabilmente dovuto, secondo alcuni studiosi, ad una volontà di slegare la rappresentazione della comunità come gruppo rappresentato dalla propria componente guerriera e dalla capacità della comunità nel suo insieme di affidare ad un singolo capo la decisione politica, testimoniando così un processo diffuso della centralizzazione politica.

Con l’Età del Bronzo recente, gli insediamenti in queste regioni mostrano aspetti di crisi e di discontinuità e gli abitati arginati di pianura si interrompono. Tuttavia, le ricerche in corso indicano per la zona del lago di Garda una certa continuità con il Bronzo finale a differenza dell’area delle terramare dove l’interruzione dell’insediamento è definitiva.

Il Lavagnone

Il sito e la storia delle ricerche

Il bacino del Lavagnone, situato all'interno del comune di Desenzano (BS), è una conca lacustre dalle ridotte dimensioni delimitata da cordoni morenici di origine glaciale che caratterizzano il paesaggio a sud del Garda. Oggi del lago antico, lentamente trasformatosi in una torbiera, sopravvive solamente una piccola zona paludosa ricoperta dalla vegetazione. Il bacino, trasformato progressivamente in una torbiera sin dall'età preistorica è stato bonificato e coltivato nel corso del Novecento. Il sito deve il suo nome alla piccola conca lacustre di origine glaciale, che si trova a 3,4 km a sud del lago di Garda tra i comuni di Desenzano (BS) e di Lonato (BS). Il toponimo “Lavagnone” stesso conserva la memoria del luogo, significa infatti “bacino d’acqua” e “luogo umido”. Il Lavagnone è uno dei più importanti abitati palafitticoli dell’Età del Bronzo, frequentato già in età mesolitica e neolitica (tra il 6500 e i 4500 a.C.). Le prime tracce di frequentazione umana, datate a circa 8000 anni fa, hanno evidenziato la fase di frequentazione mesolitica grazie al rinvenimento di alcuni strumenti in selce. Sempre l’industria litica, raccolta anche lungo l’antica linea di riva, restituisce l’evidenza della frequentazione neolitica e eneolitica (Età del Rame, III millennio a.C.). Solamente durante l’Età del Bronzo, dalla fine del III millennio sino al XIII-XII sec. a.C., però il bacino fu occupato stabilmente. Per questa sua caratteristica, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso sono state avviate indagini scientifiche sistematiche sia della sequenza degli stati archeologici, sia del deposito torboso, in cui si sono conservati resti lignei che si sono poi rivelati utili per effettuare analisi dendrocronologiche, oltre che resti organici di semi, frutti e altri resti vegetali.

Per tali motivazioni il sito archeologico Lavagnone è fondamentale per lo studio della cronologia dell’epoca e per gli studi paleo-ambientali del nord Italia. La dendrocronologia ha reso infatti possibile ricavare importanti informazioni sulle datazioni assolute dell’Età del Bronzo, rendendo il Lavagnone uno dei contesti di riferimento per comprendere la cronologia di quest’epoca in Italia settentrionale, potendo scandirne le fasi e la loro successione. I primi ritrovamenti archeologici di cui si ha notizia al Lavagnone risalgono agli anni Ottanta del 1800 (tra il 1880 e il 1886) in seguito ai lavori di estrazione della torba per fini commerciali, al centro dell’antico bacino, che portarono alla luce ceramiche e manufatti in selce scheggiata. Altri rinvenimenti fortuiti avvennero grazie ai contadini che cominciarono a intaccare con le arature gli strati archeologici più superficiali riportando alla luce centinaia di manufatti di quello che appariva ormai come un sito preistorico.

Esclusi questi primi rinvenimenti saltuari, nessuno si occupò di questo sito fino alla fine degli anni ’50 del 1900 quando Ferdinando Fussi, assieme al Gruppo Grotte di Milano, effettuò delle raccolte di superficie e cinque piccoli saggi di scavo, dalle dimensioni ridotte, in diversi punti del bacino, pubblicando le prime notizie di questa eccezionale scoperta. Le ricerche nell'area si intensificarono negli anni Settanta del secolo scorso: nel 1970 inizialmente sotto la direzione di  Ornella Maria Acanfora, Soprintendente del Museo  Preistorico–Etnografico Luigi Pigorini di Roma, poi con Barbara Barich.

Le ricerche proseguirono poi a partire dal 1974 sotto la direzione di Renato Perini, un grande esperto di abitati palafitticoli, per conto della Soprintendenza al Museo Pigorini e della Soprintendenza Archeologica della Lombardia, con l’apertura di quattro aree di scavo e sei campagne, dal 1974 al 1979. Durante quegli anni, l’analisi delle stratigrafie di uno dei settori del sito portò Perini a definire 7 orizzonti crono-tipologici, ovvero 7 fasi di occupazione per il Lavagnone, rivelate dalla presenza negli strati archeologici di alcune caratteristiche tipologie di oggetti utilizzati durante le varie fasi dell’Età del Bronzo.

Le sue ricerche fornirono così la base della periodizzazione dell’Età del Bronzo in Italia settentrionale. Nello stesso settore Perini scoprì un aratro in legno degli inizi del Bronzo Antico, uno dei più antichi esemplari noti al mondo (vedi Fig. 3).Dopo un decennio di pausa, gli scavi sono stati ripresi nel 1991 da parte dell’Università degli Studi di Milano, che conduce ancora oggi le ricerche nel sito, inizialmente sotto la direzione scientifica di Raffaele Carlo De Marinis e ora di Marta Rapi.

Nonostante le ricerche scientifiche siano in corso da tempo, si è lontani dall'aver esaurito le potenzialità del sito. Il Lavagnone è stato infatti occupato stabilmente per almeno mille anni durante l’Età del Bronzo e questo ha comportato la presenza di numerose situazioni e contesti archeologici scavati solo parzialmente in modo analitico.

In aggiunta, nel corso dei decenni sono cambiati anche gli approcci e le strategie di ricerca. Per questo, i ricercatori dell’Università degli Studi di Milano hanno avviato un programma interdisciplinare di ricerche, attivando collaborazioni specifiche per diversi settori tra cui la dendrocronologia, l’archeobotanica, la palinologia (studio dei pollini), il paleo-ambiente e ancora per lo studio dei macroresti vegetali (carpologia per l’analisi di semi e frutti), per la micromorfologia, per l’archeo-zoologia (lo studio dei resti faunistici con tracce di sfruttamento antropico) e per l’archeo-metallurgia.

Attualmente gli scavi dell’università ambrosiana interessano l’area nord-orientale dell’antico bacino lacustre; i settori di scavo sono cinque, identificati con lettere da A ad E e distribuiti lungo un asse nord-est/sud-ovest. Questa disposizione consente di studiare differenti ambienti antichi, tra cui l’antica sponda del bacino, nel settore B, o l’area umida centrale situata in antichità dove si trova il settore D. L’area del settore A, scavata da De Marinis, si trova invece a ridosso del cosiddetto settore I di Perini ed è stata ampliata progressivamente fino a inglobarlo.

Questo ha permesso di verificare la sequenza degli strati archeologici individuata da Perini, e anche di rivedere la periodizzazione del sito. Grazie ai risultati dei nuovi studi le fasi archeologiche individuate sono 8 e non più 7, si è inoltre rivista la cronologia del sito in relazione alle diverse fasi dell’Età del Bronzo in Italia settentrionale.

Queste classificazioni sono afferenti alla cultura di Polada e tardo-poladiana nel Bronzo Antico (2200-1600 a.C. circa) e alla cultura delle Palafitte e Terramare nel Bronzo Medio e Tardo (1600-1200 a.C. circa). Le ricerche hanno mostrato la graduale evoluzione degli aspetti culturali, soprattutto per quanto concerne la produzione ceramica dal Bronzo Antico al Bronzo Recente.

Un altro aspetto fondamentale è l’utilità del Lavagnone per comprendere l’interazione tra uomo e ambiente in un arco di tempo molto lungo grazie alla presenza di resti organici animali (come le ossa) e vegetali (semi, frutti e pollini) all'interno della stratificazione archeologica.

Questi fattori sono stati decisivi nel 2011, per la candidatura e il riconoscimento del sito nella Lista dei “Siti palafitticoli preistorici dell’arco alpino del Patrimonio mondiale dell’UNESCO”. Si tratta di un sito seriale transnazionale perché comprende 111 abitati palafitticoli selezionati tra i circa 1000 attualmente noti, datati tra il 5000 e il 500 a.C. e distribuiti nei territori della Francia, Germania, Italia, Slovenia, Svizzera e Austria.

La struttura dell’abitato

L’abitato del Lavagnone restituisce una documentazione molto articolata e differenziata durante i secoli. La sequenza del sito infatti evidenzia un’articolata vicenda di fondazioni e ristrutturazioni, di temporanei abbandoni e rioccupazioni oltre che di ciclici spostamenti tra aree più interne e umide a zone prossime alla riva e asciutte.

Fig. 6 - Riproduzione della stratificazione archeologica del Lavagnone, con i pali sepolti dalla bonifica, Museo Rambotti Desenzano (BS).

A questa varietà di situazioni corrispondono altrettante diversificate strutture d’abitato, il tutto in relazione, plausibilmente, a cambiamenti di carattere ambientale avvenuti nel corso dell’evoluzione del bacino. Gli aspetti meglio conservati riguardano l’abitato all'epoca della sua fondazione, all'inizio del Bronzo Antico.

In una prima fase (risalente al 2100-2000 a.C. circa) le abitazioni erano costruite su piattaforme lignee aeree sostenute da lunghi pali di quercia, in una zona periodicamente esondata a circa 80 metri dall'antica linea di costa. In direzione della terra asciutta il villaggio era delimitato da una palizzata ed era raggiungibile dalla sponda nord-orientale percorrendo una passerella formata da assi di legno accostate le une alle altre, disposte sul suolo torboso.

È noto, inoltre, che l’abitato venne modificato nel corso del tempo ampliandosi continuamente. Inizialmente l’area occupata dalle abitazioni era superiore a 6 kmq, raggiungeva forse persino un ettaro (10 kmq). La stabilità dell’insediamento si correla al progressivo ampliamento dell’abitato (fino a 3 ettari) e a un incremento demografico lento, ma costante.

Le fasi successive restituiscono diversi tipi di architetture del legno, infatti, passati alcuni decenni dalla prima fase dell’abitato e dopo che la palafitta più antica era andata a fuoco, vennero costruite case su pali corti autobloccanti infissi in tavole orizzontali (plinti). L’utilità di questi plinti a racchetta era di evitare che i pali sprofondassero. Successivamente, dopo una fase di abbandono temporaneo, dovuta probabilmente ad una fase di clima arido e secco che comporta un grosso incendio (1900-1800 a.C.), vengono realizzate delle abitazioni costruite su bonifica con cassonature lignee riempite di pietrame e limo.

In conclusione, per ciò che concerne le strutture del Lavagnone, si può notare che durante alcune fasi strutture di tipo palafitticolo coesistettero con case costruite all'asciutto direttamente al livello del suolo.

Alcune aree del bacino furono occupate per periodi più brevi, altre vennero ciclicamente abbandonate e rioccupate, rendendo l’abitato dell’Età del Bronzo un villaggio dinamico e in continua evoluzione, anche in relazione all'ambiente circostante, alle risorse disponibili, al modello demografico e ai rapporti più o meno conflittuali con le popolazioni limitrofe.

Il Lucone di Polpenazze

L’area del Lucone, come per il Lavagnone, è costituita da uno dei bacini inframorenici meglio conservati del lago di Garda. Si tratta di un’ampia conca, ora in gran parte bonificata, ma un tempo occupata da un piccolo specchio d’acqua. Le caratteristiche ambientali e i numerosi materiali ritrovati fanno di questa località un complesso fondamentale per lo studio delle modalità d’insediamento nell'Età del Bronzo.

Il Lucone era già parzialmente conosciuto nel 1800, ma venne praticamente riscoperto agli inizi degli anni ’60 da Isa Marchiori, un’insegnante di Polpenazze. Grazie ad una sua segnalazione, il Gruppo Grotte Gavardo, autorizzato dalla Soprintendenza, iniziò ad occuparsi dell’area avviando tra il 1965 e il 1971 cinque campagne di scavo.

Questi scavi portarono alla luce ampi tratti dell’insediamento e numerosi reperti archeologici, tra i quali si annoverano la celebre piroga e le numerose tavolette enigmatiche (tavolette di terracotta o pietra, incise, rinvenute in diverse zone dell’Europa, di cui non è ancora chiara la funzione e non sono ancora state decifrate le incisioni).

Fig. 7 - La piroga del Lucone, conservata al Museo archeologico della Val Sabbia, Gavardo (BS).

Dagli studi è emerso che il bacino del Lucone, dopo una fase neolitica (zona C), è stato abitato con continuità dall'inizio del Bronzo Antico ad una fase avanzata del Bronzo Medio, momento in cui la sua popolazione sembra diminuire fortemente. Durante l’ampio periodo cronologico di frequentazione il bacino è stato caratterizzato da più abitati in ambiente umido, presumibilmente di tipo palafitticolo o su bonifica.

Una divisione topografica suddivide l’area in cinque zone, contrassegnate con le lettere A, B, C, D, E, che potrebbero corrispondere all'incirca agli antichi insediamenti.

La zona C è datata al Neolitico Recente, mentre le zone A e B si presentano come aree pluristratificate comprendenti sia fasi di Bronzo Antico che di Bronzo Medio.

La zona D (identificata nel 1986) presenta invece due fasi insediative inquadrabili in un momento iniziale del Bronzo Antico. La zona E, invece, è stata individuata da recenti ricognizioni di superficie organizzate dal Museo di Gavardo. Nel 2007 il Museo Archeologico della Val Sabbia (MAVS, Gavardo) ha intrapreso nuove ricerche, in concessione ministeriale e con il sostegno finanziario di Regione Lombardia e dei comuni di Gavardo e di Polpenazze del Garda, tralasciando per ora il sito più grande (Lucone A) per concentrarsi sul più piccolo Lucone D, per avere la possibilità di ricostruire le caratteristiche dell'abitato, di definire le tipologie di abitazioni e le modalità di edificazione/abbandono.

Allo stato attuale delle ricerche portate avanti dal Dottor Marco Baioni, direttore del MAVS, la storia del Lucone D sembra iniziare nel 2034 a.C. quando un gruppo umano sceglie di abbattere delle querce per costruire un nuovo villaggio. Da ogni tronco vengono ricavati pali di notevole lunghezza, che verranno poi infissi nel suolo lacustre per sorreggere gli impalcati lignei delle case, costruite direttamente sull'acqua.

Inizierà così a formarsi, nei pressi del villaggio, un deposito archeologico costituito dai materiali che cadono o che sono gettati dagli impalcati, formando così dei livelli colmi di elementi vegetali e di materiali organici caratteristici della parte più bassa della stratigrafia. In questi strati la forte umidità ha permesso la conservazione di molti materiali deperibili: strumenti agricoli in legno, tessuti in fibra di lino, frutti e semi.

Ad un certo punto però, in un momento attualmente non datato con precisione, nel villaggio scoppiò un violento incendio. Il fuoco devastò gran parte delle strutture abitative che crollarono nell'acqua, favorendo così la conservazione dalle numerose assi e travi, che formavano l'alzato, rinvenute semicarbonizzate. L’incendio dovette essere improvviso poiché sono presenti numerosi vasi, rinvenuti a volte con ancora il proprio contenuto, che mostrano evidenti segni di una forte esposizione al fuoco. Dall'incendio non risultarono termoalterati solo elementi vegetali, ma anche parte delle abitazioni, che solitamente non si conservano poiché realizzate in argilla essiccata al sole.Vennero così conservati vari frammenti di intonaco, di pavimenti, di piani di focolare e di strutture per la conservazione delle derrate.

Successivamente, il sito non venne abbandonato, ma si decise di rifondare un nuovo villaggio. Probabilmente alla rifondazione è collocato un rito propiziatorio, beneaugurante per la nuova fondazione dell’insediamento. Sul fondo del lago è stato ritrovato un cranio di un bambino di tre-quattro anni, rinvenuto coperto da cortecce forse appartenenti ai nuovi pali utilizzati per l’edificazione (Fig. 8).

Fig. 8 - Il cranio di infante rinvenuto al Lucone in situ.

Questo nuovo villaggio ebbe maggior fortuna del precedente, a giudicare dal maggior spessore e dalla ricchezza dei depositi che si sono formati alla base della palificata. La stratigrafia è caratterizzata da grandi cumuli di scarico ricchi di frammenti ceramici e reperti di svariata tipologia, nonché da resti di rifacimenti edilizi e da rifiuti organici. Successivamente tutta l'area dell’insediamento appare sigillata da uno strato di colore biancastro di origine carbonatica: il lago probabilmente ha avuto aumento di livello dell'acqua e la zona non è stata più frequentata.

 

Bibliografia:

Anna Maria Bietti Sestieri - L’Italia nell’età del bronzo e del ferro, dalle palafitte a Romolo (2200 – 700 a.C.)

Civico Museo Archeologico della Valle Sabbia – Annali del Museo, 19, 2001-2002

Aratro, cultura di Polada - Lombardiabeniculturali.it

Lavagnone – sites.unimi.it

Il Lucone e il Museo Archeologico della Val Sabbia - museoarcheologicogavardo.it

Museo Rambotti Desenzano - museiarcheologici.net


VIAGGIO TRA I SITI ARCHEOLOGICI D'ABRUZZO

A cura di Simone Lelli

Introduzione ai siti archeologici d'Abruzzo

I primi scavi archeologici condotti in Abruzzo sono datati intorno al XIX secolo e si svolsero su larga scala in tutto il territorio, portando alla luce numerosi reperti di ogni epoca e dando così il via ad una ricostruzione cronologica di numerosi siti dall'età del Ferro fino al periodo medievale. Viene prodotta qui di seguito una lista dei siti archeologici d'Abruzzo di maggiore importanza o particolarità.

Il sito archeologico di Amiternum

Il sito archeologico di Amiternum, situato a pochi chilometri di distanza dall'Aquila, fu rinvenuto nel XIX secolo. La città fu fondata dai Sabini intorno al X secolo a.C. e mantenne l’appartenenza sabina fino al III secolo a.C., quando venne conquistata da Roma. Grazie alla sua posizione (tra gli snodi delle vie commerciali di via Salaria, via Cecilia e via Claudia Nova) la città divenne molto ricca in breve tempo e acquistò sempre più importanza. Con la caduta dell’Impero romano d’Occidente, la città ebbe un lungo declino perdendo importanza fino a spopolarsi completamente intorno al XI secolo d.C. Oggi l’area archeologica conserva numerosi reperti di strutture dedicate allo svago pubblico: troviamo i resti ben conservati di un teatro e di un anfiteatro entrambi risalenti all'età augustea, inoltre sono visibili anche i resti di un edificio termale e di un acquedotto risalenti al II secolo d.C. Ulteriori reperti sono oggi conservati all'interno del Museo Nazionale d’Abruzzo all'Aquila tra cui le due “tabulae patronatus” dei documenti ufficiali che avevano lo scopo di ricordare il vincolo tra i cittadini di una colonia o di un municipio e il loro patrono (fig.1) e un letto funerario in bronzo.

Fig. 1 - Tabulae patronatus.

Il sito archeologico di Iuvanum

Il sito archeologico di Iuvanum (fig.2), fondato intorno al X secolo a.C., presenta tracce di popolamento sin dall'età del Bronzo. Situato nel comune di Montenerodomo (CH), assunse nel IV secolo a.C., sotto l’influsso sannita, la caratteristica di città fortificata. Dopo le “guerre sannitiche” la città passò sotto il controllo romano, cambiando il proprio assetto da città fortificata a municipio Romano, con un tessuto urbano più complesso che portò alla modernizzazione della città con infrastrutture ed edifici romani. Solo dopo la fine delle “guerre sociali” i cittadini di Iuvanum acquistarono totalmente i diritti dei cittadini romani. La città perse la propria importanza intorno al IV secolo d.C., dove prima un violento terremoto del 346 e poi la caduta dell’impero, finirono per spopolare la città. Il sito è stato portato alla luce solo in tempi recenti, d è quindi il più recente tra i siti archeologici d'Abruzzo: i primi scavi sono iniziati solo durante gli anni ‘40 del ‘900 e, grazie ad essi, sono state rinvenute le mura della città (di epoca sannita) e un complesso termale costituito da due templi adiacenti. Il tempio maggiore e più antico fu costruito nel II secolo a.C., aveva quattro colonne doriche, i muri erano in opus quadratus e, ad oggi, rimane solo il perimetro del tempio e parte del podio, mentre del tempio minore, costruito sempre nel II secolo a.C., rimane solo il podio. Scavi condotti lungo le pendici dell’agorà (dal greco, piazza) hanno portato alla luce i resti di un teatro di cui si conservano solo la scena e parte della cavea. Nel centro della città si trovava il foro di cui rimangono la pavimentazione e la base delle statue. Infine troviamo anche i resti ben conservati e delimitati delle strade che si snodavano all'interno della città.

Fig. 2 - Sito archeologico di Iuvanum (CH).

Il sito archeologico di Corfinium

La città di Corfinium (fig. 3), situata nella Valle Peligna (chiamata così dal popolo che la abitava, i Peligni per l’appunto) fu fondata intorno al IX secolo a.C. Già dal V secolo a.C. la città aveva stretti rapporti commerciali con i vicini Marsi, Equi, Sanniti e con Roma. Nonostante l’influenza romana sulla zona, la città mantenne una propria indipendenza ed entrò a far parte della lega italica di cui divenne capitale durante le “Guerre sociali” (Roma e la lega italica si scontrarono agli inizi del I secolo a.C. a causa dalla cittadinanza romana non estesa ai popoli alleati della zona). Con l’innalzamento a capitale, la città assunse il toponimo temporaneo di Itaca e produsse una moneta propria raffigurante la scritta “Italia” accanto ad una donna con una corona di alloro. Terminati gli scontri la città passò sotto il controllo amministrativo di Roma e trasse molti benefici dall'attività di commercio grazie alla vicinanza della via Tiburtina Valeria. L’esistenza di questo centro cessò nel V secolo d.C., quando venne distrutto durante la guerra “greco-gotica”. Ad oggi il sito archeologico di Corfinium, rinvenuto nel XIX secolo, si trova all'interno del parco archeologico “Nicola Colella” ed è diviso in tre aree: nella prima sono stati ritrovati resti di strade, terme e abitazioni della città imperiale tra cui spicca una domus (casa) decorata a mosaici policromi. Nella seconda area troviamo un tempio maggiore del I secolo a.C. in opus incertus (tecnica che adoperava pietre di misura disuguale poste con le facce combacianti tra loro, dando come risultato un disegno irregolare e casuale) il cui interno era diviso in tre ambienti, una cella principale e due ambienti laterali. La terza area, vista la presenza di vasche rituali e un altare sacrificale, era probabilmente adibita al culto e presenta resti di edifici collocabili tra il IV e il I secolo a.C.

Fig 3 - Sito archeologico di Corfinium (AQ).

Il sito archeologico di Fossa

Per l’archeologia protostorica abruzzese, un sito molto importante è sicuramente quello di Fossa (fig.4), scoperto nel 1996, e che ha portato alla luce la più importante necropoli italica tra i siti archeologici d’Abruzzo con oltre cinquecento tombe. La città, usata già dai vestini intorno al IX secolo a.C., conobbe quattro diverse fasi caratterizzate dal tipo di tombe e dal corredo funebre. Dal IX all’VIII secolo a.C., i defunti venivano sepolti in tombe a tumolo in una fossa scavata e coperta da un cumulo di terra delimitata da un circolo di pietre. Tra VIII e il VII secolo a.C. i tumoli diventano più piccoli e vengono sistemati negli spazi liberi tra quelli più grandi e quelli più antichi. Tra il VI e il V secolo abbiamo un impoverimento delle tombe, che diventano semplici fosse senza tumolo, e vengono poste negli ormai esigui spazi rimasti liberi. Nel IV secolo sembra che la necropoli venga quasi abbandonata, mentre tra il IV e il I secolo a.C. (periodo ellenistico) troviamo le tombe a camera, più elaborate e realizzate con lastre di pietra e mattoni intonacati. Nei corredi funebri sono stati trovati rasoi in bronzo a forma rettangolare o a mezzaluna e le spade in ferro che contraddistinguevano le tombe degli uomini, mentre tazze di bronzo, dischi in ferro traforati, ollette (tipologia di vaso), balsamari, fibule e ornamenti in ambra e osso caratterizzavano le tombe femminili. Per quanto riguarda le tombe dei bambini, invece, non è stato rinvenuto alcun tipo di corredo funebre. Durante il periodo ellenistico si diffuse l’uso dei letti funebri con decorazioni in osso, destinati soprattutto alle donne.

Fig 4 - Necropoli di Fossa (AQ).

Il sito archeologico di Campovalano

Un sito protostorico di appartenenza picena è quello di Campovalano. L’area fu già oggetto di interesse verso la fine del XIX secolo, ma solo negli anni ‘60 del ‘900 fu rinvenuta una necropoli. Attualmente sono state scoperte oltre seicento tombe che coprono un arco cronologico dalla fine dell’età del Bronzo fino alla conquista romana. Le tombe che risalgono all’età del Bronzo sono rare e povere di corredo funebre. Il sito raggiunse il massimo splendore tra l’VIII e il VI secolo a.C. quando la necropoli si espanse superando i 6 chilometri quadrati di estensione. Le tombe venivano coperte da tumoli di terre circondate da pietre (alcune di esse raggiungono i venticinque metri di diametro) e, per permettere una più facile percorrenza della necropoli, al suo interno venne costruita una via sacra lastricata in pietra. Dal VI secolo a.C. cessò la pratica della sepoltura in tumoli e le tombe iniziarono ad essere scavate lungo la via sacra.

Accanto al corpo del defunto veniva scavato un piccolo buco in cui venivano depositati oggetti quotidiani ed è grazie a questi oggetti che possiamo capire chi fosse in vita l’individuo. Le brocche, i calici e le olle (recipienti) sia in ceramica sia in bronzo sono comuni in tutte le tombe, le armi (tra cui spade in ferro e lance) erano destinate ai guerrieri mentre le spille, i monili, i rocchetti e le fuseruole (o fusaiole, piccoli dischi muniti di un foro) erano tipiche delle sepolture femminili. Alcune delle tombe di grandi dimensioni contengono carri da guerra a due ruote appartenute ai principi che vi sono sepolti. La necropoli di Fossa venne utilizzata fino al II secolo a.C., quando Roma sottomise i piceni.

Fig 5 - Corredo funebre con un carro da guerra.

Il sito archeologico di Alba Fucens

Alba Fucens è sicuramente quello tra i siti archeologici d'Abruzzo più famoso. Colonia romana fondata nel territorio dei Equi nel 304 a.C., divenne un municipio dopo la fine delle “Guerre sociali” e mantenne la propria stabilità fino al 537 d.C., quando venne occupata dai bizantini. Il sito fu scoperto solo nel 1949 grazie ad una campagna di scavo svolta da studiosi belgi durata circa tenta anni. Gli scavi hanno portato alla luce un abitato circondato da mura al cui interno si trovavano sia edifici pubblici che privati. Alle pendici della collina San Pietro, in cui in un primo periodo sorgeva un tempio dedicato ad Apollo, fu successivamente costruito, durante il I secolo d.C. un anfiteatro di cui rimane visibile la cavea. All'interno della città si trovavano il foro, la basilica, un luogo dedicato agli affari e alla giustizia e il macellum (il mercato). Diversi erano gli edifici adibiti al culto tra cui il tempio dedicato ad Apollo, il tempio di Iside e il Santuario di Ercole.

Fig 7 - Ricostruzione di Alba Fucens (AQ).

SITOGRAFIA:

beniculturali.it

hiabruzzo – WordPress.com

musei.abruzzo.beniculturali.it

neveappennino.it

oltre – la – notte – blogspot.com

sitiarcheologiciditalia.it

turismo.provincia.teramo.it

 

BIBLIOGRAFIA:

Mazzitti, ABRUZZO una storia da scoprire – a history to be told, Pescara, 2000.


IL SITO DI CAVERNA GENEROSA

A cura di Dennis Zammarchi

Introduzione. Una casa per orsi e uomini

Per conoscere meglio la fase preistorica di un esteso territorio come quello dell’attuale regione Lombardia un importante caso-studio da osservare è quello di Caverna Generosa.

Caverna Generosa, conosciuta anche come Grotta Generosa o con il ben più famoso nome di Grotta dell’Orso, è una cavità naturale situata sul versante orientale del monte Generoso, a 1450 m di quota, nelle Prealpi luganesi.

La grotta si trova all'interno della provincia di Como, non distante dal confine con la Svizzera.

Il sito è di assoluto rilievo per gli studi paleontologici dell’area lombarda, ma presenta anche un’effimera e fondamentale testimonianza del passaggio dell’uomo di Neanderthal, un lontano cugino degli attuali abitanti dell’Europa, ma che conserva ancora traccia della sua esistenza all'interno del nostro DNA.

La ricerca scientifica è attualmente gestita dal Dipartimento di Scienze della Terra “A. Desio” dell'Università degli Studi di Milano (in assidua collaborazione con numerosi ricercatori afferenti ad altri enti e università) che cura anche la preparazione delle guide predisposte all’attività divulgativa (Fig. 1).

Fig.1- Il sito di Grotta dell’orso o Caverna Generosa, sono visibili gli scavi e la quadrettatura in opera nel sito.

Il suo toponimo si deve ai numerosi resti di Ursus speleaus (orso delle caverne) rinvenuti al suo interno (sono circa 500 i reperti faunistici rinvenuti attribuiti all’orso delle caverne).

Dagli studi è emerso che gli orsi utilizzavano la caverna come tana e rifugio durante il Pleistocene (l’era geologica precedente a quella attuale; iniziata attorno a 2,55 milioni di anni fa e conclusasi con il riscaldamento climatico all’inizio dell’Olocene all’incirca 11,5 mila anni fa) (Fig. 2).

Fig. 2- Ursus speleaus o orso delle caverne, un esemplare ricostruito.

La scoperta e gli studi

La scoperta di questo importante sito archeologico e paleontologico lombardo si deve a due ricercatori ticinesi, appartenenti alla Associazione Speleologica Svizzera: Francesco Bianchi-Demicheli e Sergio Vorpe.

Gli speleologi nell’estate del 1988, durante una ricognizione, individuarono l’apertura di piccole dimensioni della grotta, che dovette poi essere ampliata da lavori per permetterne il passaggio.

La Caverna Generosa al momento della scoperta, ossia prima degli interventi del 1998 atti a permettere il passaggio delle persone, era costituita da uno stretto cunicolo iniziale lungo circa 25 m, dal quale si accedeva ad una prima sala (“Saletta”).

Dalla “Saletta” attraverso uno stretto e difficile sifone, si giungeva dopo 70 metri circa, in un salone più ampio, chiamato la “Sala Terminale”, all’interno della quale furono trovati i primi reperti di orso delle caverne, che diedero poi l’impulso per i primi scavi paleontologici del 1991.

I primi studi relativi ai reperti di orso delle caverne e orso bruno, raccolti in superficie avvennero invece nel 1989.

Al giorno d’oggi, purtroppo, non si hanno fotografie rappresentative della situazione del contesto archeologico al momento della scoperta, poiché non sono stati rispettati i criteri per l’analisi tafonomica durante la raccolta dei primi reperti.

Alcune ossa, rinvenute nei piani di calpestio, furono poi datate con il metodo del radiocarbonio (C14, un metodo utilizzato per datare radiometricamente la materia organica), restituendo una datazione attorno ai 40 mila anni fa.

Nel 1991 il Dipartimento di Scienze della Terra “A. Desio” dell’Università degli Studi di Milano realizzò alcuni saggi di scavo sull’abbondante sedimento, accumulato nel corso dei millenni soprattutto per il traporto idrico, per verificare la consistenza del deposito e l’eventuale possibilità di eseguire scavi continuativi. L’esito di questi accertamenti fu positivo e quindi negli anni successivi furono condotte alcune campagne di scavo.

Le dure condizioni di scavo nei primi anni di campagne di ricerca furono dovute al difficoltoso accesso alla “Sala Terminale”, di conseguenza c’erano grossi problemi per il recupero dei reperti, oltre per motivazioni dovute alle difficoltà finanziarie.

Dall’inizio degli scavi condotti in modo sistematico è stata individuata l’area più idonea e significativa per la ricerca, suddividendola di conseguenza in settori.

Lo scavo è poi proseguito fino al giorno d’oggi seguendo i criteri stratigrafici, applicati negli scavi archeologici di tutto il mondo nelle moderne attività di ricerca sul campo.

Nel 1998 grazie al sovvenzionamento ricevuto dalla ferrovia del Monte Generoso S.A. sono stati realizzati dei lavori per le visite turistiche, rendendo così possibile visitare la grotta fino alla cavità terminale.

Durante il 2003 nel periodo autunnale è state oggetto di scavo il cunicolo di accesso alla cavità, comprendente la “Saletta” e il sifone, solo occasionalmente sondati in occasione dei lavori di ampliamento del passaggio per scopi turistici, nel 1998. Anche nel cunicolo, come nella “Sala Terminale” sono stati rinvenuti resti di numerosi mammiferi e micromammiferi, tra cui il già citato orso delle caverne.

Le ricerche paleoetnologiche e paleoambientali nella cavità proseguono ancora oggi, sotto la direzione dell’Università degli Studi di Milano, con l’appoggio logistico fornito dalla Ferrovia del Monte Generoso S.A.

I risultati degli scavi

Tra gli oltre 40 mila reperti faunistici recuperati (che rendono per questo motivo Caverna Generosa uno dei siti paleontologici più importanti d’Europa), in aggiunta ai reperti attribuiti all’orso, si ritrovano anche resti di Panthera speleaus (leone delle caverne), di lupo (Canis lupus) e innumerevoli altre specie di mammiferi e micromammiferi (che comprendono i piccoli mammiferi come ad esempio i piccoli roditori).

L’indiscusso protagonista della grotta, l’orso delle caverne, è un grosso mammifero che visse nel territorio del Monte Generoso e si estinse attorno a 20/18 mila anni fa.

L’orso speleo aveva dimensioni non troppo dissimili da quella dell’orso bruno, poteva infatti raggiungere il notevole peso di circa una tonnellata in età adulta.

Tutti i reperti paleontologici (comprensivi sia dei resti di mammiferi di grande taglia, che di micromammiferi e uccelli) attribuibili al Pleistocene superiore (da circa 125 mila anni fa a circa 11650 anni fa) sono, inoltre, fondamentali per lo studio delle variazioni climatiche e ambientali del territorio durante la fine del Quaternario.

Uomini e orsi

Di assoluta importanza per la ricerca scientifica è, inoltre, il fatto che nel corso delle ricerche sono stati ritrovati alcuni manufatti in selce realizzati dall’essere umano (quattro reperti); questi reperti hanno dimostrato che la caverna fu frequentata oltre che dall’orso, anche dall’uomo di Neandertal (Homo neanderthalensis) a partire da circa 60 mila anni fa. (Fig. 3).

L’uomo di Neandertal, così come il sapiens (l’unica specie umana rimasta ora sul pianeta Terra) e numerose altre specie prima di loro, produceva i propri strumenti autonomamente attraverso la scheggiatura della selce (o di altre materie prime) e la lavorazione di materie dure animali e vegetali, come le ossa e il legno.

Fig. 3- Homo neanderthalensis, ricostruzione dello scheletro completo.

I reperti litici ritrovati a Caverna Generosa sono stati rinvenuti in due differenti settori della grotta: due provengono dal cunicolo di accesso e sono stati recuperati durante lo scavo di ampliamento del 1998, mentre i rimanenti sono stati entrambi trovati nella “Sala Terminale” (scavo del 2002) da livelli stratigrafici diversi.

I reperti sono stati realizzati in diaspro rosso e bruno-giallastro, probabilmente raccolto nelle gole del Breggia o in altre zone della regione dov’è presente questo litotipo (materia prima).

Dopo gli studi condotti sui manufatti, si è potuto osservare che i reperti provenienti dalla cavità terminale non sono stati prodotti in loco, ma sono stati introdotti nel sito come prodotti già finiti, forse appartenenti al kit personale di qualche cacciatore-raccoglitore neandertaliano per espletare diverse funzioni. (Fig. 4).

Tra i reperti rinvenuti e poi studiati tecno-tipologicamente sono stati individuati: un raschiatoio (uno strumento utile per raschiare mediante l’uso di un margine funzionale) e tre schegge Levallois in selce (schegge tipiche della cultura musteriana dell’uomo di Neandertal).

Fig. 4- Esempio di schegge in selce prodotte da uno scheggiatore durante delle attività di sperimentazione.

Una caratteristica dei reperti in selce rinvenuti è la presenza di alterazioni sulla loro superficie, dovute a varie azioni post-deposizionali subite dopo il seppellimento.

Queste alterazioni, tra cui il danneggiamento dei margini taglienti delle schegge in selce, sono comunemente riscontrate nei reperti provenienti da cavità molto frequentate dagli animali.

La presenza sporadica di reperti litici all’interno di cavità frequentate dall’orso è ampiamente riconosciuta a quote elevate e nei distretti nell’arco alpino, ma non in quelli italiani; per questo motivo il sito di Caverna Generosa, attualmente, rappresenta un unicum nel Paleolitico della Lombardia.

Le evidenze archeologiche e paleontologiche, in definitiva, suggeriscono che Caverna Generosa era sfruttata dall’orso delle caverne durante il letargo, tanto da essere utilizzabile come abitato-rifugio per gli esseri umani solamente nei periodi dei suoi spostamenti stagionali.

Dagli scavi e dai successivi studi si evince quindi che la caverna è stata oggetto di frequentazioni sporadiche nel corso del Paleolitico da parte dei Neanderthaliani, equipaggiati con strumenti finiti e/o semilavorati, destinati a soddisfare necessità funzionali allo sfruttamento di risorse situate in territori marginali.

L’evidenza della Caverna Generosa si pone, quindi, all’interno di un fenomeno di sfruttamento delle risorse d’alta montagna, durante i periodi climatici migliori del Pleistocene, da parte dell’uomo di Neanderthal.

Vista la stabilità e la sicurezza della grotta dopo i lavori effettuati nel corso degli anni, è attualmente possibile per i turisti del Monte Generoso e dell’area circostante visitare la cavità, avendo così l’eccezionale possibilità di vedere un deposito fossilifero dal vivo e di poter osservare, di conseguenza, direttamente in situ le modalità di scavo e di recupero dei reperti faunistici da parte dei ricercatori, come paleontologi, archeologi, geologi e geo-archeologi.

 

Bibliografia e sitografia

Marco Peresani 2018 - Come eravamo

Fabio Bona, Marco Peresani, Andrea Tintori 2007- Bear-caves with indexes of anthropic occurrences in the final Middle Palaeolithic: The case of Caverna Generosa in the Lombard Pre-Alps, Italy; L’anthropologie, 111.

Fabio Bona, Marco Peresani, Andrea Tintori 2004 - La presenza dell’uomo di Neandertal e nuovi dati dalla Caverna Generosa (scavi 2002 e 2003); Comunità montana.

ERSAF – Monte Generoso, sulle tracce dell’orso delle caverne.

http://www.unescovarese.com/code/14978/Val-d-Intelvi-CO-Caverna-Generosa

http://www.cai-tam.it/150x150/032.pdf

Ferrovia Monte Generoso: www.montegeneroso.ch

Comunità Montana Lario Intelvese: www.lariointelvese.eu

https://www.ticino.ch/it/commons/details/La-Grotta-dell-Orso/14911.html

http://www.fondazionemontegeneroso.ch/it/Grotta_del_orso_monte_generoso.php

https://www.varesenews.it/2019/08/monte-generoso-alla-scoperta-della-grotta-dellorso/846574/


INTRODUZIONE ALL'ARCHEOLOGIA DELL'ABRUZZO

Questo primo articolo nasce per essere una guida nel mondo dell’archeologia sul territorio abruzzese, per far sì che tutti possano scoprire le meraviglie di questa regione. Il periodo che prenderemo in analisi va dai primi segni di occupazione del territorio fino alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente.

La sua particolare morfologia ha permesso a moltissime civiltà di stanziarsi in questa regione, dando vita ad una moltitudine di culture e tradizioni diverse. Queste popolazioni si suddividono in: Marrucini, che si stanziarono alle pendici della Majella, Equi che occupavano la zona montuosa del Fucino, i Frentani che si stabilirono nella fascia costiera tra Ortona (CH) e Termoli (CB), i Carricini che occupavano l’area del basso Abruzzo a confine con il Molise, i Marsi che hanno dato il nome a quello che oggi è conosciuto come “Territorio della Marsica”, i Peligni, che si stanziarono nell’area occidentale della Majella, i Sanniti che occupavano l’area dell’aquilano a confine con il Molise, i Petruzi che vivevano nel territorio compreso tra i fiumi Salinello e Vomano (TE), i Sabini che occupavano un territorio tra Rieti e L’Aquila e infine i Vestini che si stabilirono nella parte sud occidentale dell’Abruzzo. I primi segni di civiltà li troviamo a partire dal I millennio a.C. (fase di formazione): si tratta di grandi impianti di necropoli a forma circolare, con tombe a singola inumazione, ricoperte da tumuli e circondate da pietre e da file di stele (lastra oblunga elevata) in pietra. La necropoli più importante, utilizzata tra il IX e il I secolo a.C., la troviamo nella zona di Fossa (AQ) dove sono state rinvenute circa cinquecento tombe circondate da file di stele poste in ordine decrescente. (fig.1) Questa tipologia di lastra era riservata solo agli uomini adulti e questo ha permesso di capire la tipologia delle sepolture di quel territorio.

Fig 1. Necropoli di Fossa (AQ)

A partire dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C. (fase orientalizzante e arcaica) troviamo dei corredi più complessi all’interno delle necropoli, questo è probabilmente dovuto allo sviluppo di classi aristocratiche ora organizzate attorno a capi guerrieri, che venivano spesso sepolti con carri o oggetti pregiati di importazione per lo più etrusca. Aumenta il numero di tombe a circolo di notevoli dimensioni che riflettono molto probabilmente una divisione degli abitati; troviamo sepolture maschili con panoplie (insieme assortito di armi), spesso in ferro, e sepolture femminili caratterizzate da parures. Inoltre sono stati rinvenuti nelle sepolture anche oggetti di vasellame metallico, oreficerie, avori, ambre, servizi per la cottura delle carni e per il simposio (banchetto). La necropoli più importante in uso in questo periodo è sicuramente quella di Campovalano (TE), in cui sono state riportate alla luce più di duecento tombe riferibili al VII e VI secolo a.C. Le tombe sono tutte a fossa rivestite di lastre e, lateralmente, con lastre-guanciali riempite di pietre e lastroni. (fig.2) Il corredo seguiva quasi sempre uno schema ben preciso: il vasellame veniva collocato presso il capo e i piedi, lungo i fianchi invece venivano posti utensili metallici, mentre armi e ornamenti erano posti sul corpo. Un altro sito importante di questo periodo lo troviamo a Loreto Aprutino (PE). Questo si differenzia da quello di Campovalano poiché il corredo funebre maschile è meno ricco mentre quello femminile è molto più variegato e complesso, con abbigliamenti caratteristici e pettorali a maglia di bronzo e la ceramiche di provenienza etrusca. Un altro sito funebre lo troviamo presso Alfedena (AQ) in cui sono state rinvenute pochissime ceramiche di importazione e dove l’armamento tipico era caratterizzato dal kardiophylax (una disco-corazza a difesa del cuore, i due dischi erano realizzati con una lamina di bronzo all’esterno e una di ferro all’interno, collegate da una cintura di cuoio) con decorazioni teriomorfi “a collo di cigno” sulla parte esterna. (fig.3) Nel corredo femminile troviamo lunghe catenelle di fasce a maglie che scendono dal petto alle ginocchia con motivi a spirale e pendagli con motivi simili al kardiophylax. (fig.4).

Fig 2. Necropoli di Campovalano (TE).
Fig 3. Kardiophylax della necropoli di Alfedena (AQ).
Fig 4. Corredo femminile della necropoli di Alfedena (AQ).

Tra il VI e V secolo a.C. (fase arcaica) vengono a formarsi i primi gruppi etnici, ognuno dei quali guidati da un proprio principes: per tramandare il loro ricordo vengono realizzate monumentali sculture. Tra questi, uno degli esempi più lampanti e meglio conservato è “Il guerriero di Capestrano” (fig. 5) rinvenuto a Capestrano (CH) nel 1934. Si tratta di una stele-statua probabilmente utilizzata come segnacolo. La statua, alta circa due metri, rappresenta probabilmente il momento dell’esposizione del cadavere che viene tenuto in piedi da due lance; la parte anatomica è molto grossolana mentre molto dettagliati sono l’ornamento del guerriero (collare e bracciale) e l’armamento (dischi-corazza, cinturone, spada e ascia) e troviamo tracce di policromia. Sempre nei pressi di Capestrano è stato rinvenuto un busto femminile (fig.6) con un accurata resa di abbigliamento (corpetto fissato da fibule ad una mantellina e cintura) e, anche in questo caso, sono presenti tracce di colore. Entrambe le statue-stele possono essere datate intorno al VI secolo a.C. La stele più antica ritrovata nel territorio abruzzese è quella di Guardiagrele (CH) datata intorno alla metà del VII secolo a.C. Si tratta di una lastra rettangolare con gli ornamenti incisi e la testa sormontante.

A partire dalla fine del V secolo a.C. inizia un inesorabile processo di esaurimento di queste produzioni e, le continue invasioni del IV secolo da parte dei Celti, portarono ad una destrutturazione politica e sociale sul territorio. Si diffondono i primi luoghi di culto collettivi, situati di norma in luoghi di confine, che vengono frequentati da popoli diversi con finalità di incontro o scambio. Lo sviluppo della religione porta all’antropomorfizzazione delle divinità e questo lo sappiamo grazie al ritrovamento di bronzetti umanizzati sia maschile che femminili. Uno dei santuari più importanti risalenti al IV secolo a.C. è quello dedicato a Ercole Curino, protettore di sorgenti, acque salutari e dei mercati, situato nei pressi di Sulmona (AQ). Il santuario (fig.7) era situato lungo la via che collegava Roma agli Appennini e si sviluppava su due piani: la parte inferiore presentava quattordici stanze mentre la parte superiore ospitava il Sacello (piccolo recinto circolare o quadrato). All’interno del santuario troviamo tratti di policromia lungo le pareti mentre sul pavimento si può notare un mosaico di stile ellenico che raffigura intrecci di vite, torri, onde e delfini. (fig.8).

Intorno al III secolo a.C., con l’espansione della potenza militare di Roma, il territorio passò sotto l’influenza dell’Urbe e questo, all’inizio del I sec, portò i popoli abruzzesi ad allearsi con i Sanniti e a creare la “lega italica” ossia una coalizione militare che puntava a ottenere i diritti di cittadinanza romana. Insieme, posero la loro capitale presso Corfinium, l’attuale Corfinio (AQ), dove venne coniata una moneta d’argento (fig.9) recante per la prima volta il nome “Italia” (Viteliù). Nell’89 a.C., dopo due anni di battaglie e nonostante la vittoria dell’esercito romano, la lega italica ottenne il diritto di cittadinanza. Durante il periodo sotto l’influenza romana, molte delle città italiche più importanti vennero trasformate in municipia: Amiternum (vicino l’Aquila), Teate (Chieti), Anxanum (Lanciano), Histonium (Vasto), Sulmo (Sulmona), Interamnia Praetutiorum (Teramo), Corfinium (Corfinio), Pinnae (Penne), Alba Fucens (vicino Avezano) e Murrivium (San Benedetto dei Marsi). È in queste città che possiamo trovare importanti resti archeologici come teatri, anfiteatri, templi e terme. Uno dei più importanti siti archeologici è sicuramente quello di Alba Fucens, una colonia latina fondata nel 303 a.C., che si trova nell’attuale frazione di Massa d’Albe (AQ). Gli scavi condotti prima dagli studiosi belgi e poi dalla Soprintendenza dei Beni Culturali, hanno portato alla luce i resti di un abitato circondato da mura, i resti di un anfiteatro datato intorno al I secolo d.C. e sul colle sono stati rinvenuti resti di quello che doveva essere un tempio dedicato ad Apollo. (fig.10). Un altro sito di particolare importanza è quello di Amiternum dal quale sono emersi i resti di un abitato con importanti strutture come un teatro, un anfiteatro, un complesso termale e un acquedotto. L’anfiteatro (fig.11) fu realizzato verso la metà del I secolo d.C. e ospitava circa seimila spettatori; quello che ne rimane oggi sono le quarantotto arcate su due piani che delimitavano il perimetro. Il teatro costruito in età augustea poteva contenere fino a duemila spettatori e, ad oggi, restano la parte inferiore della cavea, l’orchestra e la scena.

Fig 9. Moneta d'argento.
Fig 10. Sito archeologico di Alba Fucens (AQ).

Durante il regno augusteo, intorno al 7 d.C., l’Italia romana fu divisa in undici territori e il territorio dell’attuale Abruzzo fu separato tra la Regio IV Samnium che comprendeva gran parte dell’Abruzzo e del Molise e la Regio V Picenum situata nell’attuale provincia teramana. Il territorio abruzzese entrò in contatto con la nuova religione che si stava sviluppando, il cristianesimo, e questo lo sappiamo grazie alle fonti ritrovate che ci narrano delle persecuzioni avvenute nei pressi di Interamnia (Teramo). Grazie a questi documenti, sappiamo anche che questa nuova religione ebbe molta difficolta a penetrare nelle zone montuose a causa dello stile di vita più conservativo rispetto alla costa. Fu solo con l’editto di Milano (313 d.C.) e quello di Tessalonica (380 d.C.) che si vengono a formare vere comunità cristiane nel territorio e molte delle basiliche di stampo romano presenti vennero riutilizzate per svolgere riti e funzioni cristiane. L’inesorabile declino dell’impero romano colpì in particolar modo tutta la penisola italica e, di conseguenza, anche il territorio abruzzese che subì una profonda crisi economica dovuta al crollo dell’agricoltura che portò all’abbandono di numerosi centri abitati e al ridimensionamenti di quelli più grandi. Nel 476 d.C, con la deposizione di Romolo Augustolo da parte del generale Odoacre, calò il sipario su quella che è stata una delle massime potenze che la storia abbia mai conosciuto: l’Impero Romano d’Occidente.

 

SITOGRAFIA:

beniculturali.it

beniculturali.marche.it

centrostoricocb.it

comunedicapestrano.it

comunedifossa.it

majellando.it

molise2000.wordpress.com

roma-victrix.com

sabap-abruzzo.beniculturali.it

turismo.provincia.teramo.it

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Cappelli R. Faranda, Storia della Provincia di Teramo dalle origini al 1922, Teramo, 1980

STORIA ARCHEOLOGICA DEL PIEMONTE

Dalle più antiche tracce neolitiche alla conquista romana

“PedemMontium”, così veniva denominata dagli antichi romani l’attuale regione del Piemonte. Incuneata nell'estrema porzione nord occidentale della nostra penisola, questa regione offre una storia antichissima, una storia che si radica profondamente nel suo territorio estremamente vario e diversificato. Dagli alti massicci delle Alpi Occidentali e Centrali sino alle basse colline delle Langhe, del Canavese e del Monferrato, per aprirsi poi nell'ampia Pianura Padana a confine con la vicina Lombardia, molti sono i luoghi che sanno di antico e che ci parlano di una storia assai lontana nel tempo.

È sul finire del Paleolitico inferiore ( 200.000 anni fa circa), che a seguito dello scioglimento dei ghiacciai nell'alta Val Padana, si hanno le primissime tracce della presenza umana. I primissimi abitanti del Piemonte dovettero confrontarsi con un paesaggio ampiamente diversificato, per essere così protagonisti di un’evoluzione lenta e graduale, che portò dalle più antiche comunità di cacciatori-raccoglitori dell'antica età della pietra, sino ai successivi insediamenti di contadini sedentari del Neolitico (che in Piemonte inizia all'incirca poco prima del 5000 a. C.) , nonché infine alle grandi tribù della primissima Età del Bronzo ( l’età del Bronzo antico in Piemonte non copre un arco di tempo all'incirca dal 2300 a.C al 1550 a.C.).

Tracce ancora visibili di queste antiche società sono assai diffuse sul territorio piemontese, quali i resti ossei animali e umani (in particolare due denti attribuiti a scheletri Neanderthal, caso sino ad ora unico nell'intero arco alpino italiano) e utensili litici del Paleolitico Superiore rinvenuti nell'attuale area protetta del Monte Finera, in piena Val Sesia.

Furono invece le colline del centro-sud, assai ricche di zone boschive e legname, le prime ad ospitare i più antichi insediamenti stabili di cacciatori-raccoglitori, ad oggi ben documentati e studiati, quali l’area dell’Astigiano e di Trino Vercellese, mentre le primissime tracce Neolitiche sono riscontrabili nell’area del Cuneese (Alba), ove è stato portato alla luce un villaggio preistorico di quasi 8000 anni fa e sopravvissuto sino alla conquista romana della regione, ad oggi trasformato in parco archeologico.

Fig 1. Reperti ossei umani provenienti dal Monte Finera, in Val Sesia.

È a partire dagli inizi del II millennio a.C. che le comunità di villaggi stanziate sul territorio cominciarono a venire fra loro in contatto grazie a rotte e scambi commerciali, con il transito di merci e materie prime lungo direttrici che si muovono dal nord siano al sud del continente europeo. Ma lungo tali rotte commerciali non si spostarono solo merci, ma anche uomini. Ecco allora che tra 1800 e 600 a.C. si riscontra l’arrivo dalle regioni d’oltralpe di popolazioni di stirpe celtica.

Tra i primi ad arrivare furono i Leponzi, i quali hanno lasciato diverse tracce della loro presenza sul territorio, della loro vita e della loro cultura, inseritasi nel contesto della cultura golasecchiana del Ticino e del Varesotto; questa popolazione unitasi poi con i Liguri (popolazione considerata autoctona da gran parte degli studiosi e stanziata oltre che nel Basso Piemonte anche in Liguria e lungo la Costa Tirrenica) essi diedero poi origine ad una cultura celto-ligure di cui, ad oggi, ancora poco si conosce.

Delle altre popolazioni celtiche stanziate sul territorio piemontese si possono poi ricordare, come più importanti, i Salassi, siti nell'Alto Canavese e in Valle d'Aosta, i Sallui nel Vercellese, i Vertamacori nel Novarese, i Taurini nella provincia di Torino, gli Statielli nella zona di Acqui Terme e nelle Valli Bormida, dell'Orba e forse nella Valle Belbo, i Bagienni fra Mondovì e il Cuneese e i Dertonines a Tortona e nella zona della Valle Srivia.

Fino al V a.C. nella regione vissero etnie in parte ancora ben differenziate, fino a che si avrà una maggiore omogeneità culturale solo con l’invasione Gallica del secolo successivo, e saranno proprio queste realtà culturali ad entrare in contatto con la futura presenza romana sul territorio.

Fig 2. Cartina con la distribuzione delle principali genti celtiche in Piemonte e nel resto del nord Italia.

La conquista romana fu alquanto tardiva, preceduta inizialmente da accordi di tipo federativo con alcune delle tribù stanziate nella regione e da sporadici contatti di natura principalmente commerciale. I primi siti romani si hanno, così, solo con il II secolo a.C., con il primissimo nucleo abitativo romano sviluppatosi nell’area fra i fiumi Po, Tanaro e Stura. A questa prima romanizzazione risalgono le fondazioni di Dordona, l’attuale Tortona, come centro di controllo e di scalo commerciale lungo la Via Aemilia Scauri, e anche la colonia di Eporedium, oggi Ivrea, fondata con il preciso obiettivo di controllare e difendere il territorio da possibili invasioni di popolazione celtiche occupanti l’attuale Valle d’Aosta. L’occupazione romana si fece poi ancor più fitta con l’arrivo del I secolo a.C., quando la presenza della potenza mediterranea si fece considerevole soprattutto in funzione dei collegamenti con la Gallia Transalpina, conquista da Giulio Cesare, e in seguito con gli ulteriori domini dell’Europa Occidentale. Di qui la cura di attrezzare reti viarie assai organizzate lungo le quali sorsero città a loro presidio e di importanza strategica, ossia centri come Vercelli, Susa, Asti e Torino. Quest’ultima fu fondata per volere di Augusto tra il 25 e il 15 a.C. come “Augusta Taurinorum”, in quanto sorta in piena area celtica sotto influenza della tribù dei Taurini, in occasione di un intenso programma di riorganizzazione coloniale dell’intero arco alpino voluto dall’imperatore. La presenza romana nella regione rimarrà invariata sino al III-IV d.C., quando le prime invasioni barbariche e la successiva caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C) faranno entrare il Piemonte in una nuova tappa della sua lunghissima storia, quella dell’Età Medioevale e delle successive presenze longobarda e franca.

Molte quindi le tracce storico-archeologiche che ci tramando la lunghissima storia di questa regione, dalle più monumentali, quali i resti della Torino Romana, i siti archeologici di Industria, l’anfiteatro di Susa, e la villa romana di Almese, alle più piccole, ma non meno importanti, quali i moltissimi reperti conservati nei musei archeologici non solo delle città capoluoghi di provincia, ma anche delle più piccole realtà presenti sul territorio. Il Piemonte vanta, inoltre, la presenza di alcuni siti archeologici inseriti nella Lista dei Patrimoni dell’Umanità redatta dall’UNESCO. È il caso dei villaggi palafitticoli preistorici di Azeglio, sul Lago di Viverone, e del Parco dei Lagoni di Mercurago, sul Lago Maggiore, entrambe aree archeologiche rappresentative della cultura risalente al periodo compreso tra il Neolitico e l’Età del Bronzo e insediamenti di comunità preistoriche palafitticole databili tra il 5000 e il 500 a.C.

 

Fig 3. Rovine della villa romana di Almese (TO).

 

Fig 4. Arco di Augusto a Susa, uno dei monumenti romani più celebri della città (TO).

 

Fig 5. Una delle tombe della “Necropoli Golasecchiana” del Parco dei Lagoni di Mercurago (NO).

 

Fig 6. Ricostruzione di un’antica palafitta preistorica presso Azeglio, sul Lago di Viverone (BI).

 

Sitografia:

- www.areeprotettevallesesia.it

- www.piemonte.beniculturali.it

- www.archeo.piemonte.beniculturali.it

- www.piemondo.it

- www.ambientecultura.it/territorio/Alba

- www.piemonteceltico

 

Bibliografia:

- “La Grande Enciclopedia”, di LibraireLarousse e Alberto Peruzzo Editore, 1995, vol.15


LA STORIA ARCHEOLOGICA DELLA LOMBARDIA

Introduzione alla storia archeologica della Lombardia

Il nome attuale Lombardia deriva dal termine medievale Longobardia, utilizzato all’epoca dell’Italia bizantina per indicare la parte della penisola dominata dalla popolazione di origine germanica dei Longobardi, in opposizione al rimanente territorio denominato Romania.

Dopo l’888 d.C. si indica col nome di Longobardia la marca carolingia comprendente Milano.Tuttavia, nel Basso Medioevo l’accezione del toponimo ancora intendeva l’intera Italia settentrionale per la sua quasi totalità. Solo dalla costituzione del Regno d’Italia nel 1861 il toponimo Lombardia si riferisce all’attuale suddivisione amministrativa.

Le occupazioni pre-protostoriche nel territorio lombardo

Le attuali conoscenze riguardanti il territorio lombardo durante la fase pleistocenica/quaternaria (da 2,65 milioni di anni a circa 11650 anni fa) sono compromesse in parte dalla conformazione e posizione geografica della regione, prossima ai ghiacciai alpini e quindi soggetta ai fenomeni glaciali e periglaciali pleistocenici che si sono susseguiti nell'era geologica presa in esame. I primi segni di presenza umana nella penisola italiana ci mandano indietro ad oltre 800 mila anni fa, mentre più recenti sono le tracce rinvenute nell'Italia settentrionale, come evidenziato dal sito di Riparo Visogliano nel Carso Triestino (datato a circa 500 mila anni fa).

In Lombardia si hanno nel bresciano rari ritrovamenti del Paleolitico inferiore (fase che termina circa 300 mila anni fa) rinvenuti a Concesio S. Vigilio, Monte Netto e Monte Rotondo (alcuni comuni del bresciano), mentre altre località lombarde hanno restituito manufatti attribuibili al Paleolitico medio e superiore. Tra questi vi è l’interessante caso di Caverna Generosa (CO) nella Prealpi lombarde, utilizzata come tana degli orsi delle caverne nel Pleistocene. La caverna ha restituito moltissimi resti fossili di Ursus spelaeus (orso delle caverne) datati circa 60000 anni fa, oltre a resti più rari di altri mammiferi. Sono stati rinvenuti, inoltre, manufatti in selce introdotti già come prodotti finiti all’interno del sito, strumenti forse appartenenti a qualche cacciatore raccoglitore. Questi reperti sono stati associati all'uomo di Neanderthal (Fig. 1).

Fig. 1- Ricerche paleoetnologiche in corso a Grotta dell’Orso o Grotta Generosa.

Altri reperti appartenenti alla fase musteriana provengono da raccolte di superficie realizzate nell'area benacense (nel territorio di Gavardo, BS) dove sono state individuati manufatti musteriani (cultura attribuibile a Homo neanderthalensis).

Il Mesolitico, la fase di transizione tra il Paleolitico e il Neolitico, è testimoniato invece da numerosi siti sauveterriani (Mesolitico antico.) e castelnoviani (Mesolitico recente, VII millennio a.C.) in Lombardia.

 

Il Neolitico

Nella fase iniziale in Lombardia, il Neolitico antico è evidenziato da numerosi aspetti culturali, distinti sulla base degli aspetti ceramici, ma con caratteristiche comuni per quanto riguarda le industrie litiche. Tra questi troviamo il gruppo dell’Isolino (5200-4600 a.C.), documentato da ritrovamenti nelle Prealpi varesine (Isolino di Varese, Pizzo di Bodio). La genesi di questi gruppi non è chiara, anche se alcuni di essi denotano affinità con gli ambienti della cultura della ceramica impressa dei versanti peninsularie reciproche influenze soprattutto da parte della cultura di Fiorano (5500-4800 a.C.). Nella pianura lombarda, oltre alla già citata cultura di Fiorano, si trova anche il gruppo culturale del Vhò, presso Piadena (fine VI millennio e inizio V millennio a.C.).

Il Neolitico medio è rappresentato dalla cultura del vaso a bocca quadrata, VBQ (V millennio a.C.), che prende il nome dai caratteristici recipienti a imboccatura quadrata, di cui sono state trovate tracce in alcuni dei più antichi stanziamenti lacustri della regione come Isolino Virginia di Varese. La cultura dei VBQ segna nei territori dell’Italia settentrionale un processo di omogeneizzazione culturale che durerà per molti secoli. È riconoscibile, però, una successione di stili ceramici ai quali non è possibile attribuire un rigido valore cronologico. Infine, l’arrivo dei gruppi dello Chassey-Lagozza (4200-3300 a.C.) interrompe in Italia nord-occidentale lo sviluppo della cultura dei vasi a bocca quadrata. La cultura di Lagozza, del Neolitico superiore (IV millennio a.C.), è ampiamente diffusa nelle stazioni lacustri lombarde (Lagozza di Besnate, Bodio, Cazzago Brabbia, Isolino Virginia).

L’età dei metalli

Durante l’Eneolitico o (età del Rame), in Lombardia, e in generale nella pianura padana, si attesta la cultura di Remedello (3400-2400 a.C.), le cui necropoli più importanti sono venute in luce a Fontanella di Casalromano (Mantova) e a Remedello (Brescia). La vita nelle stazioni palafitticole dei laghi lombardi, in alcune delle quali gli insediamenti più antichi risalgono al Neolitico, ha uno svolgimento ininterrotto durante l’età del Bronzo (successiva all’età del Rame); accanto a esse si conoscono anche numerosi insediamenti di terraferma.

Al Bronzo antico viene attribuita la facies culturale di Polada (2300-1700 ca. a.C.), la più nota e diffusa della prima età del Bronzo, a cui si riferiscono materiali di numerosi siti nelle province di Mantova, Cremona, Brescia, Como, Varese. La cultura di Polada è infatti circoscritta nel momento più antico nella fascia prealpina dei laghi e degli anfiteatri morenici allo sbocco delle valli glaciali.

La massima concentrazione è intorno al Lago di Garda con le palafitte di Polada, Barche di Solferino, Bande di Cavriana e i siti archeologici di Lavagnone e Lucone. Nella fase più antica gli abitati sono costruiti su palafitte con impalcato aereo sulle rive dei laghi e sull'acqua, mentre nella fase più avanzata verranno edificati su bonifiche sostenute da cassonature di travi orizzontali e pali verticali con case a pianta rettangolare disposte regolarmente (Fig. 2). L’arrivo della cultura di Polada in nord-Italia potrebbe essere il risultato di un movimento di gruppi dall'area transalpina.

Fig. 2- Modello di palafitte del Lavagnone, presente al museo Rambotti di Desenzano del Garda (BS).

Con la media età del Bronzo (166-1300 circa) si fa evidente una divisione della Lombardia in due aree culturali distinte.

Nella parte orientale, al di là del fiume Oglio, gli abitati palafitticoli, collegati ai laghi, e gli abitati arginati di pianura sembrano costituire lo sviluppo senza soluzione di continuità della cultura di Polada, con forti affinità con la cultura delle terramare a sud del Po. Nella Lombardia occidentale si affermano culture, caratterizzate dal rito funerario della cremazione e dalla deposizione di armi nei corredi, che prendono il nome dalla necropoli di Scamozzina di Albairate e Monza.

Nel Bronzo Recente, nella stessa area occidentale, il complesso più noto è la necropoli di Canegrate (Milano), un vero e proprio campo di urne di rito transalpino del quale si conoscono alcune centinaia di sepolture. L’inizio del Bronzo Recente (1200 - 1150 a.C. circa) sembra quindi coincidere con la scomparsa del doppio rituale (inumazione e incinerazione) e con l’uso esclusivo dell’incinerazione.

In questo stesso settore occidentale, nel Canton Ticino e nel territorio di Novara si sviluppa il Protogolasecca (XII-X sec. a.C.), documentato principalmente dalla necropoli di Ascona Locarno, cui si collega direttamente la cultura di Golasecca che caratterizza il territorio lombardo durante la successiva età del Ferro. Sempre durante il Bronzo Recente, nella Lombardia orientale si affermano le culture di Peschiera e di Casalmoro-Fontanella Mantovana (Mantova). Da ricordare inoltre sono anche le incisioni rupestri della Val Camonica che vanno dall'età del Bronzo e del Ferro fino a epoche assai più recenti e il processo di penetrazione etrusca che inizia a prendere piede nell'area del mantovano.

Nell'età del Ferro, a partire dal XII secolo a.C.in contemporanea con la nascita della cultura di Hallstatt nell'Europa Centrale ed alla cultura villanoviana nell'Italia centrale si sviluppa una nuova civiltà che gli archeologi chiamano di Golasecca dal nome della località dove sono stati rinvenuti i primi ritrovamenti.

I Golasecchiani occupavano un territorio di circa 20000 kmq, gravitando attorno a tre centri principali: la zona Sesto Calende, di Bellinzona, ma soprattutto del centro protourbano di Como.

Con l'arrivo delle popolazioni galliche d'oltralpe, nel IV secolo questa civiltà decade e si esaurisce.

 

La fase storica

La regione, specialmente nella sua parte meridionale, venne abitata da popoli appartenenti alla civiltà villanoviana e poi da coloni etruschi, che fondarono la città di Mantova e diffusero la propria civiltà introducendo l'alfabeto etrusco e la scrittura. Nel V sec. a.C. sorsero nuovi empori, come quello di Forcello di Bagnolo San Vito (Mantova), sito archeologico tuttora in corso di scavo dall'Università degli Studi di Milano, sotto la direzione della Dottoressa Marta Rapi. Le invasioni galliche del 391-386 a.C., sono probabilmente precedute da numerose infiltrazioni nell'arco di alcuni decenni di cui vi è qualche traccia archeologica

Tito Livio ci narra la loro storia: tra le stirpi più importanti vi erano gli Insubri (stanziati nella zona di Milano), i Cenomani (nel veronese e nel bresciano) i Boi nell’Emilia e i Senoni nelle Marche.

Tra le popolazioni alpine vi erano anche i Camuni stanziatisi in Val Camonica e i Leponzi (che giungevano dal Ticino sino alla Val d’Ossola).

Questa fase, preceduta da una più che secolare fase di scambi e rapporti con mondo transalpino dette una fisionomia etnica abbastanza compatta alla regione. I racconti rimandano ad una prima spedizione dei Celti (o Galli) in Italia ai tempi del re romano Tarquino Prisco (Livio V. 34) accennando inoltre ad una spedizione precedente. I Celti sconfiggono gli Etruschi in campo aperto vicino al Ticino, causando così la fine dell’Etruria Padana e di conseguenza anche dei traffici tra mondo mediterraneo, Etruria Padana, Como e mondo transalpino. La cultura delle popolazioni celtiche, cosiddetta “La Tène”, divenne fenomeno dominante nella Valle Padana. Alcuni dei principali centri lombardi attuali, come le città di Brescia e Verona furono fondate dai Galli Cenomani.

La Lombardia ed i Galli divennero prepotentemente protagonisti della storia con l’invasione gallica di Roma del 390 a.C. da parte dei Galli di Brenno.

Nel 390 a.C. proprio i galli Senoni invasero l’Italia centrale e attaccarono Roma, in cerca di nuove sedi secondo alcune fonti, o per una semplice razzia per altre fonti. Il primo obbiettivo fu la città etrusca di Chiusi, per concentrarsi poi sulla città di Roma. Dopo la sconfitta dell’esercito romano, frettolosamente assemblato, sull’Allia (un piccolo affluente del Tevere a nord della capitale), Roma venne presa e saccheggiata, poi i Galli forse dopo aver ricevuto un lauto riscatto scomparvero in cerca di nuove imprese. I romani ricordavano questa data, il 18 luglio del 390 a.C. con il nome di Dies Alliensis.

I Romani conquistarono poi nel corso dei secoli successivi il territorio dell’Italia nord-orientale e quindi la regione lombarda nella sua parte pianeggiante.

La conquista dell’Italia settentrionale venne avviata tra le due guerre puniche, ma venne portata a conclusione solo nel II secolo a.C.

Nel 222 a.C. con una vittoria sugli Insubri a Casteggio e la conquista del loro centro principale Mediolanum (l’odierna Milano), venne sancita la conquista. Vennero poi dedotte le due grandi colonie latine di Cremona e Piacenza per consolidare la conquista. Prese poi avvio la costruzione di una rete stradale per consolidare il controllo sul territorio: la via Flaminia, da Roma a Rimini (220 a.C.), la Via Emilia (187 a.C.) da Rimini a Piacenza e la Via Postumia (148 a.C.) da Genova ad Aquileia. Il territorio della Lombardia venne conservato dai romani malgrado i continui tentativi di rivolta.

Con le popolazioni alpine le lotte si prolungarono invece sino al tempo di Augusto, primo imperatore di Roma. Con la successiva divisione augustea dei territori, la regione appartenne per la parte orientale alla Venetia, per l’occidentale alla Transpadana.

Al giorno d’oggi a Milano è stato scoperto un tratto delle mura tardo repubblicane, mentre il foro è ipotizzato nell'area di piazza San Sepolcro; successivi ampliamenti comprendono la costruzione del circo, delle terme e dei palazzi imperiali (piazza Mentana).

Il palazzo imperiale fu la residenza imperiale costruita dall'imperatore Massimiano quando Mediolanum divenne capitale dell’Impero Romano d’occidente dal 286 al 402 d.C.

Fig. 3- Pianta della Mediolanum romana, con evidenziate le mura, le vie principali e l’area del foro.

A Bergamo, il tracciato delle mura non è certo, mentre è stato individuato il percorso degli assi principali e ipotizzate l’area del foro (piazza Duomo) e quella del teatro (colle San Giovanni); un vasto edificio disposto su due terrazzamenti e domus sono stati scoperti a Sud della città.

Como era strutturata secondo l’impianto castrense, con il foro all’incrocio degli assi principali (castro e decumano), sono stati scoperti resti delle mura repubblicane e di una delle torri. L’impianto della Pavia romana, è facilmente riconoscibile, è sottolineato da una rete fognaria ben conservata, ma poco si conosce della città.

A Brescia sono stati riportati alla luce resti di una domus di età tardo-repubblicana (piazza del Duomo) e un edificio tardoantico. Inoltre, è visibile nel centro della città il foro romano di Brescia, l’antica piazza principale di Brixia dal I secolo a.C. completata in seguito al volere dell’imperatore Vespasiano (71-75 d.C.).

Fig. 4 - Foro di Brixia romana.

Si segnalano inoltre indagini archeologiche circa la villa delle Grotte di Catullo a Sirmione edificio risalente ad un periodo tra la fine del I secolo a.C. e il I secolo d.C., sulla riva meridionale del Lago di Garda. Ad oggi è l’esempio più imponente di villa romana nel territorio dell’Italia settentrionale.

Fig. 5 - Grotte di Catullo, Sirmione (BS).

 

BIBLIOGRAFIA:

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Il Lavagnone - https://sites.unimi.it/preclab/progetti/lavagnone/

Il Forcello - http://www.parcoarcheologicoforcello.it

Le Grotte di Catullo - http://www.grottedicatullo.beniculturali.it


IL TEMPIO E DI SELINUNTE: IL CULTO DI HERA

L'antica colonia greca di Selinunte in Sicilia è una delle zone archeologiche tra le più importanti d’Europa per estensione ed imponenza. Selinunte venne fondata dai megaresi di Iblea tra il 627 e il 628 a.C., e il suo nome è legato a quello del fiume che scorre ad Ovest della città antica, il Selinon (oggi Modione), il quale, a sua volta, deriva dal prezzemolo selvatico (in greco, Σελινοῦς) che cresce abbondante in queste terre. Ancora visibile è la sua acropoli, la parte più alta della città costituita dalla zona residenziale, dalla zona sacra, dalla zona pubblica e da quella commerciale. La città si affaccia sul porto, aveva una propria necropoli e la chora, luogo in cui venivano amministrati i beni. Selinunte era una bellissima città marittima e di frontiera, aperta agli influssi punici, elimi, sicani. Perfettamente conservato rimane l'assetto urbanistico, realizzato tra il 409 e il 250 a.C., con la cinta muraria e numerosi templi, tra i più significativi del mondo greco per dimensioni e purezza di forme per la continuità di testimonianze scultoree. Situato all’interno dell’acropoli Selinuntina, precisamente sulla collina orientale, è il tempio E, dedicato alla dea Hera (Fig.1). Il tempio è di ordine dorico, realizzato all'incirca nella metà del VI secolo a.C. e fu rimesso in piedi nel 1959 dall’archeologa Aldina Cutroni Tusa che assemblò il tempio con pezzi di colonne di altri templi distrutti, oltre che quelli originali. Inoltre, alcune colonne furono restaurate con parti in cemento per evitare il crollo del tempio. Ben distinguibili sono le colonne originali che presentano sfumature di colore più chiare, invece le colonne in cui è stato utilizzato il cemento presentano sfumature più scure. Il tempio è un periptero esastilo (70,18 x 27,65 m) composto da sei colonne sui fronti e quindici sui lati lunghi (Fig.2-3). Il tempio fu costruito con il materiale proveniente dalle vicine Cave di Cusa, tutt’ora visitabili. Il lavoro di estrazione del materiale grezzo per le colonne era assai faticoso, infatti gli operai scavavano nella roccia circolarmente fino ad ottenere un cilindro di pietra calcarea. Veniva inserita una trave di legno bagnata che, aumentando di volume grazie all’acqua, serviva a far staccare il blocco, poi trasportato a Selinunte, dove veniva lavorato per la costruzione delle colonne dei templi. Le colonne del tempio poggiano direttamente sullo stilobate e l'interno, che un tempo che poteva essere visto soltanto dai sacerdoti, era costituito dal pronao (spazio tra la cella e le colonne antistanti), dalla cella e dalla statua della divinità, ormai andata perduta (Fig.4). Sulla parte alta della colonna si trovavano i triglifi (elemento di pietra decorato con tre scanalature verticali) che scandivano le metope (formella di pietra scolpita a rilievi raffiguranti le imprese di Eracle). Le metope erano decorate da figure divine o mitologiche in atteggiamento ieratico, esse furono realizzate in stile Severo, nel momento della sua massima maturità. Furono totalmente realizzate in calcarenite locale, ma per le parti nude femminili fu utilizzato il marmo. Un tempo le metope erano colorate vivacemente, purtroppo il colore è andato perso, anche se a volte è possibile riscontrare delle tracce. Tra le metope ricordiamo: Eracle in lotta con l’Amazzone, il matrimonio sacro di Zeus ed Hera, Atteone sbranato dai cani di Artemide, Atena che atterra il gigante Encelado, esse sono tutte conservate ed esposte presso il museo Archeologico Regionale Antonio Salinas di Palermo (Fig. 5). Davanti al tempio era presente un altare su cui venivano sacrificate gli animali in onore della dea. Il tempio E di Selinunte costituisce uno degli esempi più interessanti tra quelli prodotti dalla colonia megarese poiché fonde nella sua struttura elementi provenienti dalla madrepatria greca con persistenze locali, producendo un risultato notevole; del resto, la colonia fu uno dei centri più importanti dell’Isola e come tale fu molto aperta alle diverse tendenze artistiche che si diffusero tra le varie colonie.

Fig. 1 - Tempio E, detto anche di Era.
Fig. 2 - Piantina tempio E.
Fig. 3 - Vista laterale tempio E.
Fig. 5 - Interno e parte del Naos.
Fig. 5 - Metope tempio E, conservate oggi al Museo Archeologico Regionale “A. Salinas” di Palermo.

LA GROTTA DEL ROMITO A PAPASIDERO

Arte preistorica a Papasidero

La grotta del Romito è un sito risalente al Paleolitico superiore, contenente una delle più antiche testimonianze dell'arte preistorica in Italia e una delle più importanti a livello europeo, situata in località Nuppolara nel comune di Papasidero, nella valle del fiume Lao, in Calabria, provincia di Cosenza.

Il sito consta di due parti: la Grotta vera e propria è lunga circa 20 metri, e il Riparo che si estende è circa 34 metri. I depositi della grotta e del riparo costituiscono una sola grande formazione in cui si possono ammirare suggestive stalagmiti e stalattiti; all’interno si trova anche una galleria ancora inesplorata.
Sito di fondamentale importanza per la preistoria calabrese, esso costituisce uno dei più importanti giacimenti italiani del Paleolitico superiore (30.000-10.000 anni fa) e attesta frequentazioni più recenti risalenti al Neolitico europeo (7.000 – 4.000 anni fa). Ed è proprio in questa cavità che visse “l’uomo del Romito”, probabilmente un uomo di Cro-Magnon, il quale non sapeva allevare gli animali, non conosceva l’agricoltura e la lavorazione della ceramica. In seguito fu l’Homo Sapiens ad abitare intensamente la grotta lasciando innumerevoli testimonianze del suo passaggio con i suoi strumenti litici e ossei, con lo stupendo graffito e con i resti dei propri scheletri.

La Grotta viene scoperta nella proprietà di Agostino Cersosimo, nella primavera del 1961, su segnalazione di due Papasideresi, durante un censimento agrario. In realtà, già nel 1954, un appassionato di archeologia di Laino Borgo aveva segnalato l’esistenza del Riparo precisando la presenza della figura di un toro. La grande scoperta fu quindi affidata ad un archeologo di fama internazionale, Paolo Graziosi, dell’Università di Firenze, che diresse i lavori fino al 1968. Nell'ultimo decennio, a partire dagli anni 2000, la cura del sito è stata affidata ad un suo discepolo, Fabio Martini, che insegna nella stessa Università.

Le numerose scoperte archeologiche restituite dal sito offrono agli studiosi parecchi elementi utili alla ricostruzione storica delle attività delle comunità di cacciatori-raccoglitori che abitarono il sito, le condizioni di vita dei gruppi umani preistorici, la loro interazione con l’ambiente e il paesaggio circostanti. Indicazioni sulla fauna e sui condizionamenti subiti dalle comunità dalle dinamiche climatiche avvenute dalla fine del Paleolitico al Neolitico: la presenza nella grotta di un torrente, antecedente a 24.000 anni fa e avente fasi di ingrossamento alterne nei secoli, ha consentito la frequentazione umana in seguito ai prosciugamenti ed interventi di bonifica.
Riferibile al periodo Neolitico è ad esempio il ritrovamento di ossidiana che lascia ipotizzare “l’area del Romito” come centro di scambio e transito, tra l’area tirrenica e quella jonica, del vetro vulcanico proveniente dalle isole Eolie, confermando l’importanza delle popolazioni neolitiche della Calabria nel commercio e il controllo di questo materiale.  Nel cunicolo della grotta è stato rinvenuto un punteruolo di osso con inciso un motivo geometrico costituito da un rettangolo inscritto in un altro, da fasci di linee parallele, rette e zig-zag e da segni a dente di lupo ai margini dello strumento. Essi ricordano analoghi motivi geometrici dell’“arte mobiliare”, forme artistiche relative agli oggetti “Mobili” cioè di oggetti di uso sia rituale sia quotidiano risalenti al periodo preistorico, della grotta Polesini presso Tivoli e di quella spagnola del Parpallò presso Valencia.

Nei livelli più alti del terreno sono state rinvenute tre sepolture datate a 9.200 anni fa, contenenti ciascuna una coppia di scheletri disposti secondo un procedimento ben definito e giacenti in strati epipaleolitici. Una di queste sepolture si trova nella Grotta e due nel Riparo, poco distanti dal masso con la figura taurina. Gli scheletri sepolti all'interno della Grotta del Romito, sono differenti dagli altri resti trovati in Europa perché i ricercatori precedentemente avevano trovato resti scheletrici sepolti individualmente, mentre in questo insediamento hanno trovato per lo più coppie di scheletri. Le sepolture hanno suggerito agli studiosi che probabilmente la Grotta era un posto “sacro” dove veniva effettuato il cosiddetto “Matrimonio-Sati” (la sepoltura di una coppia), conferma della supremazia delle associazioni filiali fra gli uomini e le donne dagli inizi stessi della storia umana. I primi scheletri rinvenuti alla luce nel Riparo sono: un uomo e una donna sdraiati in una piccola fossa ovale l’uno sull’altro.  La donna copriva in parte la spalla sinistra dell’uomo e la sua nuca poggiava sulla guancia del compagno. L’uomo le copriva le spalle col braccio sinistro, mentre il destro era disteso lungo il corpo. Il corredo funebre era costituito da un grosso frammento di corno di bos primigenius appoggiato sul femore sinistro dell’uomo, mentre un altro corno era appoggiato sulla spalla destra. Intorno agli scheletri erano deposte delle selci lavorate. I due individui, di 15/20 anni di età, sono ambedue di statura molto piccola: 1,40 metri il maschio, 85 centimetri la femmina, che presenta il femore e l’omero affetti da un forte dismorfismo e da osteoporosi.

Altri due scheletri umani ritrovati nel Riparo sono disposti l’uno sull’altro e di sesso diverso. Si tratta di individui che avevano circa 30 anni, alti 1,46 e 1,55 metri, entrambi sepolti con le gambe flesse. Alcune ossa del secondo individuo non erano al loro giusto posto (l’uomo a destra figurava, infatti senza femore e con l’epifisi nella fossa del bacino), probabilmente perché dopo la morte del primo individuo, alla riapertura della fossa per seppellirvi il secondo, sarebbero state involontariamente mosse le ossa è asportato il femore del primo.

La terza sepoltura si trovava nel deposito della grotta circa allo stesso livello di quelle del riparo. Erano due individui sdraiati sul dorso e affiancati, con le braccia distese, la destra appoggiata sul bacino e la sinistra entro il bacino. Si tratta di due individui maschili, di età al di sotto dei venti anni, di statura di 1,59\1,60 metri circa. Dello scheletro di sinistra rimanevano solo il bacino, gli arti inferiore e le ossa di un braccio. Parte della scatola cranica e metà della faccia furono ritrovate in seguito, in quanto il deposito era stato sconvolto da lavori di scavi forse per rendere pianeggiante il terreno. L’individuo di destra era, invece, completo.  Di questi scheletri una coppia è esposta al Museo di Preistoria di Firenze, insieme alle schegge litiche ritrovate (circa 280); un’altra è esposta al Museo Nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria e una terza è ancora oggetto di studio da parte dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria di Firenze nei loro laboratori. Durante gli scavi sono state rinvenute anche un paio di sepolture singole. Un anziano di 35 anni (corrispondenti agli odierni 100) che, dagli accertamenti del caso, è risultato essere stato reso disabile da molte malattie, ferimenti da caccia e cadute. L’altro ritrovamento umano di grande interesse, si è rivelato essere quello di un giovane cacciatore che, nonostante la giovane età, fu sepolto con un corredo di oggetti degni di un capo. Altra caratteristica interessante di quest’uomo paleolitico, è l’altezza notevole per l’epoca e per la zona meridionale infatti, lo scheletro ritrovato appartenevano ad un individuo alto 1,74 metri.

Oltre agli importanti resti umani, sono state ritrovate incisioni rupestri. La prima è quella dei cosiddetti “Segni Lineari (fig.3), un masso di circa 3.50 metri, con semplici tratti rettilinei o leggermente curvilinei, più o meno profondamente incisi, disposti in tutte le direzioni, senza alcun significato apparente.

La seconda è quella del “Masso dei Tori” che si trova presso l’imboccatura della grotta sono incisi su diversi livelli tre profili di Bos Primigenius, un bovino selvatico antenato dei bovini domestici. Rappresenta una delle più importanti raffigurazioni dell’arte rupestre del Paleolitico Superiore: è così perfetto nel disegno e nella prospettiva, quanto nella scelta della superficie rupestre che gli dona un senso tridimensionale, da far affermare al professor Graziosi di essere di fronte a “la più maestosa e felice espressione del verismo paleolitico mediterraneo, dovuto ad un “Michelangelo dell’epoca”. La figura di toro (fig. 4), lunga circa 1,20 metri è incisa su un masso di circa 2,30 metri di lunghezza e inclinato di 45°. Il disegno, di proporzioni perfette, è eseguito con tratto sicuro così come è caratteristico dell’arte paleolitica. Le corna, viste ambedue di lato, sono proiettate in avanti ed hanno il profilo chiuso. Sono rappresentati con cura alcuni particolari, come le narici, la bocca, l’occhio e, appena accennato, l’orecchio. In grande evidenza sono le pieghe cutanee del collo e i piedi fessurati. Un segmento attraversa la figura dell’animale in corrispondenza dei reni.

Secondo Graziosi:” Si ha l’impressione che almeno parte di questi segni preesistessero alla esecuzione del toro e che qualcuno sia stato addirittura utilizzato per la realizzazione delle grandi pieghe”. Tra le zampe posteriori dell’uro vi è incisa, molto più sottilmente, un’altra immagine di bovino di cui è eseguita soltanto la testa, il petto e una parte della schiena. Anche esso presenta le corna proiettate in avanti, ma a profilo aperto e solo nella seconda metà divise in due, mentre nella prima parte appare un solo corno, ripetendo un modulo tipico dell’arte paleolitica mediterranea. Sull'estremità inferiore dello stesso masso è incisa una terza piccola testa di toro. A fianco del masso col toro si trova una stalagmite a forma di equide senza testa. Graziosi sostiene che:” Il rinvenimento delle sepolture nell'area intorno e tra i due grandi massi incisi farebbe pensare a due stele o una stele (quella col toro) delimitanti un’area funebre”. Infatti la ricorrenza di resti di uro insieme agli scheletri rimanda a funzioni di offerte funerarie, elementi che forniscono informazioni sull'universo simbolico, le pratiche rituali e funerarie paleolitiche. Lo studioso Martini assegna a questa immagine una valenza totemica di grande suggestione e conferisce all'ambiente un indiscutibile legame con il sacro. L’importanza del sito di Papasidero, è legata all'abbondanza di reperti, che coprono un arco temporale compreso tra 23.000 e 10.000 anni fa, che hanno consentito la ricostruzione delle abitudini alimentari, della vita sociale e dell’ambiente dell’Homo Sapiens”.

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