GIOVANNI BATTISTA LAMPI. IL RITRATTISTA D’EUROPA PT II

A cura di Alessia Zeni

 

 

In questo secondo contributo dedicato al pittore ritrattista Giovanni Battista Lampi di Romeno (Valle di Non, Trento) andremo a conoscere l’apice della sua carriera artistica, divisa tra la corte polacca e quella degli zar di Russia, per poi chiudere con gli ultimi anni in terra viennese.

 

La Polonia e il ritorno a Vienna

Il successo di Giovanni Battista Lampi ebbe una tale risonanza che la sua fama raggiunse la corte principesca di Varsavia, dove si trasferì nell’autunno del 1788, chiamato dal re Stanislao Augusto Poniatowski per realizzare alcuni importanti ritratti.

 

Qui la fama fu tale che la sua permanenza si prolungò oltre il previsto, fino a sette mesi, ed ottenne numerose commissioni artistiche dalle famiglie aristocratiche più importanti della Polonia. Oltretutto, a Varsavia, Giovanni Battista Lampi poté rinnovare ulteriormente la sua pittura, grazie alle influenze artistiche internazionali e al clima di rinnovamento che si respirava nella città. Un’innovazione nel segno dell’illuminismo, ma anche nel recupero dei valori nazionali che Lampi tradusse in ritratti di giovani donne con abiti alla moda francese o di uomini in vesti di eroici cavalieri feudali o ancora in ritratti della tradizione polacca.

In Polonia realizzò diversi ritratti per la famiglia Potocki come quello dello scrittore Jan Potocki (1761-1815) e della moglie Julia Lubomirska. Lampi ritrasse Jan Potocki in abiti da viaggiatore immerso in un paesaggio esotico di palme e piramidi, a ricordo della sua passione per le civiltà del passato e del suo viaggio in Egitto. Per quanto riguarda la moglie la dipinse in tutta la sua bellezza rispecchiando in ciò la fama di una delle donne più affascinanti dell’epoca. Lampi ritrasse anche il generale Stanislaw Szczesny Potocki con i due figli maggiori: la grazia neoclassica dei giovani contrasta con la figura del padre in armatura d’acciaio brunito, nel ruolo di difensore della famiglia e di generale d’artiglieria. O anche quello della moglie, Amelia Potocka, dipinta davanti ad un cavalletto con la figlia maggiore Pelagia; quadro che colpisce per la cura nella resa delle vesti e per la bellezza incantevole della figlia che indossa un bel abito tradizionale.

 

Molte le donne aristocratiche dipinte da Lampi in Polonia, come il ritratto della dama Urszula Dembinska raffigurata nell’atto di leggere uno spartito musicale. Consideato da molti uno dei lavori più famosi dell’artista,carica di sentimento la donna con la sua folta chioma bionda, il volto diafano e lo scialle di tulle. E ancora i ritratti incompiuti delle donne e fanciulle di casa Tomatis o quello di Jozefa Massalska dipinta all’interno di un paesaggio crepuscolare con abito da cerimonia che guarda l’osservatore per indicargli la figura ritratta nel monile che tiene in mano. In ultimo è importante ricordare i ritratti di Stato, come quello del deputato e generale Pavel Grabowski raffigurato in abiti della tradizione polacca, rispecchiando in ciò il desiderio di molti deputati di farsi ritrarre in costumi tradizionali durante il periodo di affrancamento della Polonia dalle potenze straniere.

 

Il soggiorno polacco ben presto si concluse e Lampi tornò a Vienna carico di tele da ultimare per le molte commissioni ottenute dall’aristocrazia polacca. Nella città austrica riprese il suo posto di professore all’Accademia di Belle Arti, espose alcune opere alla mostra del 1790 e venne incaricato di ritrarre a figura intera il nuovo imperatore Leopoldo II, fratello del defunto Giuseppe II. Il soggiorno viennese fu però breve perché di lì a poco si trasferì in Russia, probabilmente per sfuggire al clima di crisi innescato dalla rivoluzione francese che sovvertiva il sistema politico e sociale al quale Lampi era legato, quello dell’aristocrazia e della monarchia.

 

Nella corte degli zar di Russia

L’ultimo e più importante viaggio di Giovanni Battista Lampi fu quello nella terra degli zar, ma prima di raggiungere la Russia fece tappa a Jassy (oggi Iasi in Romania).

A Jassy arrivò nell’ottobre del 1791 e la breve permanenza nella cittadina rumena gli valse il lasciapassare per la corte di San Pietroburgo. A Jassy realizzò alcuni ritratti di dignitari russi e quello del generale Vasilij Popov, segretario dell’imperatrice Caterina II, che gli aprì la strada per la corte degli zar. Giovanni Battista Lampi venne infatti chiamato proprio da Caterina II a San Pietroburgo, nel gennaio del 1792, e qui vi rimase per ben sei anni, gli ultimi del regno della zarina. Qui egli raggiunse l’apice della sua carriera artistica, sia perché l’imperatrice lo elesse primo pittore di corte, ma soprattutto perché la sua pittura raggiunse i livelli più alti della ritrattistica neoclassica europea, tanto da influenzare una generazione di ritrattisti russi. Iniziò a lavorare per la corte imperiale ritraendo le granduchesse infanti Alessandra ed Elena e,  nel 1793, Caterina II, in un ritratto a grandezza naturale destinato a diventare l’immagine più famosa e più copiata dell’imperatrice di tutte le Russie.

 

Il successo di questa importante commissione gli valse la nomina a membro onorario dell’Accademia Imperiale di Belle Arti che fu seguita nel 1795 dall’ambito riconoscimento delle sette medaglie coniate dall’Accademia, ovvero il titolo di “pittore perfetto”. Il suo atelier a San Pietroburgo divenne meta dell’aristocrazia russa e ricevette commissioni dai principali esponenti della corte: l’ultimo favorito dell’imperatrice Platon Zubov, l’ambasciatore Nikolaj Jusupov, il consigliere Alexander Samojlov e la moglie Ekaterina Trubetzkaja, solo per citarne alcuni. Ritratti in cui scompaiono le armature delle opere polacche per lasciare il posto a immagini intime, introspettive, con personaggi dipinti a grandezza naturale in tutta la loro fierezza e maestosità con gli abiti eleganti dell’epoca.

 

La morte improvvisa dell’imperatrice Caterina II, il 16 novembre 1796, colse l’artista alla sprovvista, ma Lampi aveva già realizzato il ritratto della futura imperatrice, la granduchessa Maria Fёdorovna, moglie dell’erede al trono Paolo I, e il doppio ritratto dei loro figli, i granduchi Alessandro e Costantino. Maria Fёdorovna fu ritratta dal pittore trentino nell’atto di dipingere i profili dei suoi dieci figli e con al collo l’incisione, in un cammeo, della suocera Caterina II.

Nell’aprile del 1797, a 45 anni, Lampi tornò definitivamente a Vienna con un bagaglio di riconoscimenti e di ricchezze che pochi artisti dell’epoca potevano vantare in Europa.

 

Gli ultimi anni a Vienna

Una volta a Vienna Lampi ritornò all’insegnamento accademico e divenne uno dei ritrattisti più ricercati dall’aristocrazia mitteleuropea e dalle famiglie principesche d’Europa. A Vienna porterà a termine alcuni ritratti lasciati incompiuti a San Pietroburgo e il legame con la Russia resterà sempre aperto, realizzando, nel 1802, il ritratto a grandezza naturale di Platon Zubov, il più grande dipinto compiuto da Lampi ed oggi conservato all’Ermitage.

Durante la crisi dei regimi monarchici, Giovanni Battista Lampi dichiarò fedeltà alla Casa d’Austria e all’imperatore Francesco II. Per la sua dichiarata fedeltà e i suoi meriti artistici, il 4 settembre 1798, Francesco II, gli conferì il titolo di cavaliere, uno stemma nobiliare e, l’anno successivo, divenne definitivamente cittadino di Vienna con la nomina a cittadino onorario della città.

In questi anni, Lampi ottenne importanti commissioni dagli esponenti della famiglia imperiale e la sua pittura subì un’ultima ed importante evoluzione artistica: i suoi impareggiabili ritratti raggiunsero un tale virtuosismo nella resa dei tessuti e degli ambienti che otterranno la piena approvazione dei committenti austriaci. Figure statuarie e auliche ottenute grazie all’uso sapiente dello sfumato, ma anche grazie ad un’attenta resa atmosferica e un’attenta cura nei dettagli dell’abbigliamento e dell’ambientazione.

Sono da ricordare i ritratti di Franz von Saurau, futuro cancelliere, della contessa Maria Sophie von Schӧnborn o i ritratti a grandezza naturale degli imperatori Francesco II e della seconda moglie Maria Teresa di Borbone. I grandiosi ritratti a figura intera dei principi Schwarzenberg, nei quali emergono i fasti dello stile Impero e del vecchio regime, ai quali Lampi fu fedele per tutta la vita.

 

Durante il biennio del Congresso di Vienna, il pittore trentino ottenne le ultime importanti commissioni come il ritratto del conte Johann Rudolph von Czernin-Chudenitz nel quale riuscì a camuffare le deformità del viso, il ritratto del plenipotenziario russo, amante della arti, Andrej Kyrillovic Razumovskij, per il quale aveva già dipinto, tra il 1805 e  il 1806, l’effige dello scultore Antonio Canova.

La carriera artistica di Lampi è ormai giunta al termine: nel 1822 il pittore si ritirò dall’insegnamento e affidò la gestione dell’atelier viennese al figlio maggiore che donò al paese natale del padre, Romeno, il capolavoro neoclassico della pala dell’Assunta. Giovanni Battista Lampi visse tra Vienna e la cittadina termale di Baden, dove dipinse ancora il suo medico curante, Anton Franz Rollett.

 

Il 30 agosto 1826 ricevette a Vienna la medaglia al merito civile e due anni dopo donò all’imperatore la sua ultima opera, l’autoritratto al cavalletto. Il 25 dicembre 1829 morì la seconda moglie dell’artista, Julia Rigin, conosciuta a San Pietroburgo, e l’11 febbraio 1830 fu la volta di Lampi che morì nella su casa viennese del sobborgo di Leopoldstadt.

Alla morte la sua collezione di quadri, sculture, stampe e monete andò dispersa, ma non la sua arte che oggi è conservata nei più grandi musei d’Europa e testimonia il grande artista che fu negli anni dell’antico regime.

 

 

 

Bibliografia

Rasmo Nicolò, Giambattista Lampi. Pittore, Trento, Saturnia, 1957

Un ritrattista nell'Europa delle corti. Giovanni Battista Lampi. 1751-1830, catalogo a cura di Mazzocca Fernando, Pancheri Roberto, Casagrande Alessandro, Lampi, Trento, Saturnia, 2001

Pancheri Roberto, Giovanni Battista Lampi alla corte di Caterina II di Russia, Trento, Temi, 2011


UNO “SCRIGNO” SENZA TEMPO: IL SANTUARIO DELLA BEATA VERGINE DEI MIRACOLI DI SARONNO E IL “CONCERTO DEGLI ANGELI” DI GAUDENZIO FERRARI

A cura di Beatrice Forlini

 

Il Santuario di Saronno. Storia e costruzione

Il Santuario di Saronno, intitolato alla Beata Vergine dei Miracoli (Fig. 1) è una delle più rinomate testimonianze dell’architettura religiosa in Lombardia, un luogo ricco di opere d’arte realizzate da numerosi artisti, alcuni dei quali annoverabili tra le eccellenze non solo del Cinquecento lombardo, ma dell’intero Rinascimento italiano.

 

L’edificio sorge a Saronno, una cittadina a metà strada fra Milano e Varese. Esso è costruito, per volontà dei cittadini saronnesi, a partire dal 1499 sulla Varesina, la strada che collegava la zona a Varese. I cittadini vollero costruire l’edificio in onore di S. Maria e per dare ospitalità al simulacro della Madonna del miracolo, una statua della seconda metà del XIV secolo che si riteneva dispensasse miracolose guarigioni, posta allora in una cappella sulla strada e oggi nell'abside. Un’altra ipotesi vede invece, attorno al 1460, un giovane, già malato e costretto a letto da alcuni anni, miracolosamente guarito dalla Madonna della Strada Varesina la quale lo invitò a costruire una chiesa in suo onore. In seguito alla costruzione di una provvisoria “chiesuola”, i saronnesi decisero di erigere un tempio più grande dedicato a Maria. La prima pietra del nuovo Santuario viene posta l’8 maggio del 1498, giorno di S. Vittore. Il cantiere del tempio mariano era coordinato da un insieme di “deputati”, un organo composto da uomini eletti che avrebbero dovuto prendere in carico l’attività di amministrazione della fabbrica. I deputati saronnesi, che all’inizio del Cinquecento fecero innalzare anche la “casa” con i loro uffici, probabilmente si rivolsero all’architetto Giovanni Antonio Amadeo (1447-1522), già responsabile dei lavori del duomo di Milano, per progettare una chiesa che venne eretta in tre tempi. Il nome di Amadeo, che non è attestato dai documenti, è stato avanzato a partire dalla planimetria della chiesa, il cui modulo originario è una croce greca con cupola.

In una prima fase, inaugurata con la posa della prima pietra e terminata nel 1516, vennero completati l’abside, la zona presbiteriale e la cupola, con il tiburio (quest’ultimo attribuito con certezza ad Amadeo) e il campanile di Paolo della Porta.

Nel 1556 inizia un processo di espansione del santuario. A causa dell’afflusso sempre maggiore dei fedeli accorsi sul luogo, l’edificio venne ampliato in larghezza a tre navate e il corpo longitudinale allungato a cinque campate (Figg. 2-3). Il nuovo progetto del tempio, ora a croce latina, venne affidato al nuovo responsabile del cantiere milanese, Vincenzo Seregni (1520-1594), ma venne tuttavia interrotto circa dieci anni dopo. La sospensione dei lavori fu dovuta principalmente al fatto che, per proseguire l’ampliamento dell’edificio oltre la terza campata, bisognava demolire la piccola cappella “del Miracolo”. In seguito all’intervento diretto di Carlo Borromeo, la Statua della Madonna custodita nella piccola cappelletta venne trasferita all’interno della chiesa.

 

 

Contestualmente all’arrivo di Seregni, la fabbrica del santuario si arricchì di altre due presenze fondamentali, ovvero Cristoforo Lombardo e Giulio Romano (1499-1456), che vennero contattati per realizzare la sagrestia della chiesa, sormontata dalla caratteristica volta a vele.

Un altro protagonista della decorazione del Santuario è l’architetto Pellegrino Tibaldi (1527-1596), detto Pellegrino de’ Pellegrini, il quale tra il 1596 e il 1613 completò la maestosa facciata, costruita tra il 1596 e il 1613. I lavori proseguono fino al XVII secolo per sopraelevare la canonica, dove poco distante viene costruita una casa colonica per far alloggiare i contadini incaricati di curare la vigna e l’orto del Santuario.

La decorazione interna: Bernardino Luini e Andrea da Milano

Per quanto riguarda la decorazione interna, l’anno decisivo fu il 1525, momento in cui si decise di rinnovare completamente l’apparato decorativo. A tal proposito vennero contattati i più importanti maestri lombardi nelle arti della pittura e della scultura per dar vita a un apparato che, nelle intenzioni dei deputati, avrebbe dovuto raffigurare alcuni episodi della vita di Maria e Gesù.

 

Alberto da Lodi (1490-1528) decorò la volta dell’abside, del presbiterio (Fig. 4) e dell’antipresbiterio, mentre le pareti furono affidate a un grande della pittura lombarda del tempo, Bernardino Luini (1481-1532). Luini si impegnò ad affrescare uno Sposalizio della Vergine e un Gesù tra i dottori (antipresbiterio, figg. 5-6); l’Adorazione dei Magi e la Presentazione al tempio (presbiterio, figg. 7-8): Quattro Evangelisti e i Quattro Dottori della Chiesa (lunette della volta); Virtù Teologali e Pace (lesene). All’interno delle cappelle che fiancheggiano la cupola, poi, sono collocate anche le statue lignee di Andrea da Milano (1475-1547). Andrea da Milano (o “da Saronno”) scolpì invece alcuni pregevoli gruppi policromi, come il Cenacolo (cappella sinistra, fig. 9) e il Compianto sul Cristo morto (cappella destra).

 

 

La cupola: Il Concerto degli Angeli di Gaudenzio Ferrari

Dopo la morte di Luini, la cui opera è ritenuta tra le più alte espressioni della pittura del Cinquecento lombardo, per decorare la cupola con un’Assunzione della Vergine (Fig. 10) viene invitato dapprima Cesare Magni che, non avendo colpito i committenti, venne sostituito nel giugno del 1534 da Gaudenzio Ferrari (1475-1546), pittore originario di Valduggia in Valsesia e definito da Giovanni Paolo Lomazzo, insieme ad Andrea Mantegna, Michelangelo, Polidoro da Caravaggio, Leonardo, Raffaello e Tiziano Vecellio uno dei sette “Governatori” del “Tempio della Pittura”.

 

Il capolavoro di Gaudenzio Ferrari, i cui documenti di pagamento indicano nel 1534 l’anno di stipula del contratto e nel 1536 quello di conclusione dei lavori, si trova nel cuore del santuario, la grande cupola di quasi 100 metri quadri interamente affrescata. Un’opera quasi senza precedenti, decorata con 86 meravigliosi angeli “in concerto” accompagnati da strumenti musicali reali ma anche di fantasia e l’uno diverso dall’altro. Al centro trovano invece spazio le statue del volto del Padre Eterno e dell'Assunta; tutto intorno poi, a raffigurare il Paradiso, ad accompagnare il corteo di angeli musicanti diviso in quattro cerchi, vi sono trenta puttini danzanti che accolgono l'arrivo della Vergine.

Il “Concerto degli Angeli” di Gaudenzio si dimostra fonte inesauribile di ricerca: da un lato gli studiosi cercano infatti di identificare i vari strumenti proposti dal pittore, dall’altro quest’ultimo manifesta, sin dai disegni preparatori, una meticolosa attenzione nei confronti dei dettagli: nelle prove grafiche preliminari (tra i quali particolare rilevanza acquisisce un disegno a penna e acquarello marrone con rialzi a biacca oggi conservato a Monaco di Baviera) infatti, si può notare lo studio dell’esatta posizione del corpo, delle mani e degli strumenti musicali.

 

Il Santuario ha inoltre assunto, nel corso del tempo, una grandissima rilevanza nel panorama religioso italiano. Oltre ad essere una costante meta di pellegrinaggio, il tempio mariano di Saronno è stato considerato da alcuni pontefici quasi al livello di una delle Sette Basiliche di Roma. Da Pio II Piccolomini (papa dal 1458 al 1464) fino a Giovanni Paolo II (1978-2005), infatti, più di cento sono state le bolle con cui venivano concessi privilegi e indulgenze.

 

Foto scattate dalla redattrice dell'articolo

 

 

Sitografia

Sito ufficiale del Santuario della Beata Vergine dei Miracoli: http://www.santuariodisaronno.it/home.html

 

Bibliografia

Agosti, J. Stoppa (a cura di), Il Rinascimento di Gaudenzio Ferrari, Milano, Officina libraria, 2018, cat.81, pp.457-458.


LA FONTANA PRETORIA, SIMBOLO DELLA CITTA’ DI PALERMO

A cura di Adriana d'Arma

 

 

A pochi passi dai Quattro Canti di Palermo, esattamente nel quartiere Kalsa, si trova una delle più belle e popolari piazze della città: Piazza Pretoria (Fig. 1), al centro della quale si colloca l’omonima fontana, così chiamata per via del principale ingresso del Palazzo municipale – già residenza del Pretore cittadino -  che si apre su di essa.

La Fontana Pretoria

La Fontana Pretoria si presenta circondata su tre lati da antichi edifici: il Palazzo Pretorio, la chiesa di Santa Caterina e due palazzi baronali, Palazzo Bonocore e Palazzo Bordonaro (quest’ultimo tristemente abbandonato). Il quarto lato, infine, si affaccia su via Maqueda.

Considerata uno dei monumenti più iconici della città, la fontana Pretoria narra al visitatore che si approccia ad essa una storia lunga ed appassionante, che tuttavia in pochi conoscono (Fig. 2).

 

La sua costruzione risale al 1554 ad opera del famoso architetto e scultore italiano Francesco Camilliani. Tuttavia tale fontana non è stata progettata per l’attuale piazza in cui si trova, bensì per decorare il giardino della villa fiorentina di don Luigi di Toledo, fratello della granduchessa Eleonora di Toledo. Per il progetto della fontana fu scelto un materiale di grande effetto scenico nel verde dei giardini: il marmo bianco di Carrara.

Spinto dai debiti, don Luigi fu costretto a vendere la fontana al Senato palermitano. L’idea del Senato era quella di collocare la fontana nel piano del Pretorio, abbattendo alcune case per recuperare spazio, arredandolo prestigiosamente in un periodo in cui si stavano effettuando degli interventi urbani migliorativi, che includevano tra l’altro l’ampliamento del Cassaro.

Quella per la fontana fu sicuramente una spesa non indifferente, e in un momento in cui la città versava in uno stato di miseria essa divenne il monumento simbolo della corruzione politica e civile della città acquisendo il non gradito appellativo di Fontana della Vergogna.

Tale epiteto si lega, tuttavia, anche ad altre dicerie: la “Vergogna” a cui ci si riferisce sarebbe anche quella delle suore di clausura dell’adiacente monastero di Santa Caterina, costrette a coprirsi ripetutamente il volto ogni volta che attraversavano la piazza per non osservare le nudità delle statue. Si narra infatti che che le stesse suore, una notte, uscirono dal convento per distruggere le parti intime maschili e per non dover più tollerare tale visuale.

 

Il complesso, trasportato su una nave, approdò nella città di Palermo, smembrato in 644 pezzi, nel 1573; tuttavia, il gruppo scultoreo che giunse in città era incompleto, mutilo di alcune statue che in parte vennero danneggiate durante il tragitto, in parte furono trattenute dal proprietario.

Il complesso monumentale è ricco, e conta ben trentasette statue in marmo di Carrara, alcune delle quali sono rappresentazioni di divinità (Fig. 3).

 

Tra le figurazioni scultoree umane trovano spazio anche delle figure animali (Fig.4), divinità pagane ed eroi mitologici (Orfeo con Cerbero, Ercole e l’Idra trifauce ecc.), mostri e ninfe del mare, creature per metà uomini e per metà pesci, come i Tritoni e le Nereidi, una ninfa d’acqua dolce con Pegaso. Completano la curiosa rassegna di animali fantastici cariatidi, satiri, pesci-cavalli emergenti dalle nicchie.

 

La fontana Pretoria presenta una pianta ellittica, con vasche d’acqua concentriche sul cui bordo giacciono statue allegoriche dei fiumi di Palermo: l’Oreto, il Papireto, il Gabriele e il Kemonia. Essa si sviluppa in più livelli ai quali si accede attraverso delle piccole scalinate, dove si possono ammirare teste di animali e mostri mitologici, dalla cui bocca sgorga acqua (Figg. 5-6) nonché altre figure mitologiche tra cui si riconoscono Venere, Adone, Ercole, Apollo, Diana e Pomona.

 

Probabilmente lo stesso architetto Camilliani fu fonte di ispirazione per Gianlorenzo Bernini il quale, circa cento anni dopo in Piazza Navona a Roma, realizzò la celeberrima Fontana dei Quattro Fiumi nella quale quattro statue raffigurano i principali corsi d’acqua di ogni continente: il Gange per l’Asia, il Rio della Plata per l’America, il Danubio per l’Europa, il Nilo per l’Africa.

 

Il giardino di don Luigi di Toledo costituisce un esempio eloquente di quel passaggio dal gusto rinascimentale – tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento - a quello più propriamente manierista, in cui l’arte e la natura si confrontavano, all’interno dei giardini, a creare uno scenario magico fatto di allegorie, giochi d’acqua e percorsi labirintici che avevano lo scopo di coinvolgere il visitatore tanto nella sua sfera emozionale quanto in quella intellettiva.

Ad oggi la fontana Pretoria è protetta da una cancellata in ferro battuto concepita e realizzata dall’architetto Giovanni Battista Filippo Basile nel 1858.

 

La fontana pretoria, uno dei simboli più rappresentativi di Palermo che ancora oggi si manifesta agli occhi dei visitatori in tutta la sua meravigliosa imponenza architettonica e decorativa (Fig. 7), venne celebrata, del resto, anche dallo stesso Giorgio Vasari nella Vita dell’architetto Camilliani:

 

“Fonte stupendissima che non ha pari in Fiorenza, né forse in Italia: e la fonte principale, che si va tuttavia conducendo a fine, sarà la più ricca e sontuosa che si possa in alcun luogo vedere, per tutti quegli ornamenti che più ricchi e maggiori possono immaginarsi, e per gran copia d’acque, che vi saranno abbondantissime d’ogni tempo”. (Vasari-Milanesi, IVV. P. 628).

 

 

Tutte le fotografie sono state scattate dalla redattrice dell'articolo.

 

 

 

Bibliografia

De Castro e M. R. Nobile, L’eroico e il meraviglioso. Le donne, i cavalier, l’arme…in Sicilia. Un mondo di immagini nel V centenario dell’Orlando Furioso, Palermo, Caracol, 2017.

La Monica, La Fontana pretoria di Palermo analisi stilistica e nuovo commento, Palermo, Pitti, 2006.


IL LAGHETTO DELLE COLONNE A MAIANO. PITTORESCA E ROMANTICA PISCINA DI SIR JOHN TEMPLE LEADER

A cura di Arianna Canalicchio

 

 

Possessore fino dal MDCCCLV dei terreni limitrofi, il commendatore Giovanni Temple Leader acquistava nel MDCCCLXVII dal R. Demanio la cava detta delle Colonne ed ivi immettendo le acque del torrente Mensola riduceva nella forma presente il Laghetto delle Colonne e ne abbelliva i contorni costruendo il ponte, la torre, la fonte e i fabbricati vicini[1].

 

Così viene descritto e celebrato il romantico Laghetto delle Colone da Sir John Temple Leader che lo face realizzare nei suoi numerosi possedimenti acquistati a Maiano, nei pressi di Firenze.

 

Sir John Temple Leader, ricco e facoltoso nobiluomo londinese, nonostante la sua brillante carriera politica si interessò fin da subito alla storia e all’arte. Profondamente appassionato di pittura Tre-Quattrocentesca, abbandonò l’Inghilterra nel 1844 per trasferirsi a vivere prima a Cannes in Francia e poi in Italia. Nel 1850 acquistò la sua prima villa in Toscana, Villa Pazzi Tolomei a Maiano decidendo da quel momento di dedicarsi alla sua passione: lo studio e la valorizzazione delle colline fiesolane nei pressi di Firenze.[2] La seconda metà dell’800 fu un momento molto vitale per il capoluogo toscano, tantissimi inglesi, affascinati dalla città, considerata una sorta di paradiso in cui si univano arte, storia e un clima mite, vi si trasferirono. Solo per citarne alcuni, Frederick Stibbert, Seymur Kirkup, estroso artista e collezionista, William Rossetti, figlio del pittore Dante Gabriele, il collezionista Herbert Horne e lo storico dell’arte Bernard Berenson che scelse Firenze come sua residenza a partire dal 1900.

 

Nel 1850 Temple Leader acquistò anche l’antica Villa di Maiano che ristrutturò, ma il suo intervento più noto è sicuramente quello sul vicino Castello di Vincigliata[3]. Acquistato nel marzo del 1855 era ormai poco più che un rudere che lui fece ricostruite da capo a piedi in perfetto stile neogotico. Si trattò di un intervento veramente sorprendente con il quale il nobiluomo inglese volle provare a dare forma concreta al suo sogno cavalleresco. Scoperto forse per caso durante una passeggiata, il maestoso castello si presentava con le mura divorate dal tempo e dalla vegetazione ma ancora perfettamente in grado di rievocare nella mente dello studioso quelle atmosfere medievali descritte nei romanzi di Walter Scott.

 

Temple Leader acquistò terrenti tra Vincigliata e Maiano per un’estensione di circa 280 ettari, comprendenti le 40 cave di pietra che si trovavano nei dintorni. La zona di Maiano era infatti una sorta di grande cava di pietra serena che fin dai tempi di Michelangelo era stata usata per estrarre il materiale di alcuni dei più celebri monumenti della città. Secondo alcune fonti ottocentesche sarebbero arrivate da queste colline le pietre con cui venne data forma alla Loggia degli Uffizi, alla Cappella Gaddi in Santa Maria Novella e al coro della SS. Annunziata.[4] Pare, inoltre, che si sia recato sulle pendici di Maiano anche Michelangelo per scegliere le pietre per gli scalini della Biblioteca Laurenziana.

Dopo aver acquistato le cave, Temple Leader, decise di chiuderle tutte ad esclusione di due che gli servirono per estrarre la pietra per la ricostruzione del castello e delle mura che lo circondavano. Aiutato dall’architetto Giuseppe Fancelli e dall’esperto di idraulica e architettura ambientale, Alessandro Papini, Temple Leader iniziò un approfondito studio del terreno e decise di dar vita a un parco romantico. I lavori per rimboschire le pendici e aumentare i corsi d’acqua nelle sue proprietà iniziarono nel 1854. In breve tempo, quello che era un terreno ormai spoglio, divenne un vero e proprio bosco con alberi, rocce e torrenti. Nel cuore di questo giardino il nobiluomo volle crearsi uno stagno da usare come piscina naturale, fu così che nacque il Laghetto delle Colonne.

“La cava che ora il proprietario di Majano ha cambiata in bagno era fra le privilegiate e conosciuta come cava del Mulinaccio, da un mulino che le sta presso sulle dirupate e fronzute sponde della Mensola; ma più come cava delle colonne perché nel 1817 ne furono levate le colonne della Cappella dei principi in San Lorenzo”[5]così racconta lo storico Giuseppe Marcotti nel suo Fantasie di Majano pubblicato nel 1883. Come in una sorta di diario, Marcotti descrive le proprietà di Temple Leader fornendoci molte importanti informazioni che ancora oggi sono alla base dei principali studi sui suoi interventi.

 

Proprio come raccontato da Marcotti, la Cava nella quale Temple Leader fece costruire il suo laghetto venne utilizzata nel 1817 per dar vita alle colonne della Cappella dei Principi nella Basilica di San Lorenzo[6] da qui deriverebbe il nome stesso di Laghetto delle Colonne con cui è tutt’oggi conosciuto. Lucy Baxter, scrittrice inglese, ci riporta addirittura che i tagliapietre in quell’occasione furono Antonio Bartolini e Francesco Materassi, pagati quattro franchi al giorno. Durante i lavori però pare che sia crollato un grande pezzo di roccia uccidendo una delle persone che si trovavano sul posto, un tal Bulli, e rompendo la gamba di un signor Maiano, di cui però non abbiamo nessun’altra informazione. [7] Proprio a causa di questo incidente la cava venne chiusa e rimase tale per diversi anni, fino al 1833. In questa data, sotto la supervisione del capo tagliapietre Pietro Bartolini, forse figlio del precedente Bartolini, vennero cavate le pietre per la costruzione della nuova scalinata di Palazzo Pitti progettata dall’architetto Bernardo Poccianti. Suonano dunque estremamente azzeccate le parole della Baxter: “The bath is certainly ideal in beauty. But this is not all, for in this lovely hollow is contained a whole chapter of Florentine art history”[8].

Temple Leader riuscì a ottenere dal Demanio la storica Cava nel 1867. Lo spazio della cava divenne con il nuovo intervento un bacino per accogliere le acque del torrente Mensola che era stato deviato. L’idea di Temple Leader era di costruirsi una sorta di oasi in cui poter nuotare e accogliere i suoi amici. Interessante è sempre la descrizione di Marcotti: “Ora limpide acque dalle tinte azzurra o verdognola secondo l’ora del giorno, iridescenti d’argento quando il venticello ne accarezza la superficie, riempiono la grande vasca: a ponente paurose rocce di cupo colore, variegato dai grigi filoni dell’arenaria, si innalzano a picco e in qualche punto sporgono così da formare come l’ingresso d’una oscura grotta.”[9]

 

Marcotti non è però l’unico a descrivere il Laghetto delle Colonne, il romantico specchio d’acqua affascinò molti visitatori e ne abbiamo una bella descrizione in un articolo dal titolo Maiano, Vincigliata and Settignano pubblicato dal Barone Alfred de Reumont nell’agosto del 1875 sulla rivista tedesca “Allgemeine Zeitung”[10].

Del piccolo laghetto parla anche Lucy Baxter, scrittrice inglese che nel 1891 pubblica il suo resoconto del viaggio nella zona di Maiano e del Castello di Vincigliata, ospite del suo amico Sir Temple Leader. La Baxter si era trasferita a vivere a Firenze nel 1867 dopo il matrimonio con Samuel Thomas Baxter ed era conosciuta in molti dei più importanti centri culturali frequentati dalla comunità inglese. Come molti dei suoi lavori anche questo volume venne pubblicato con lo pseudonimo di Leader Scott. Il testo è ricco di descrizioni e racconta un’avventurosa passeggiata nel vasto parco che collega il Castello alla Villa di Maiano, accompagnata dal guardiacaccia: “[...] Still down, down to a deep gorge where the Mensola[11] comes tumbling amidst its crags, and crossing over it on the bridge built by Mr. Leader, we reach the bank of a little green lake, beneath great crags of rock, than hang above it, jagged, ragged, and projecting: and rich in sombre tints of brown and gray”[12]

Descrizione forse un po’ enfatizzata a causa dal momento avventuroso che termina però con un’immagine del laghetto più simile a quello che effettivamente appare e doveva apparire già al tempo. Eliminando il turbinio delle acque che si rompono sulle rocce, ritroviamo infatti un luogo solitario: “Its solitude is almost overpowering, - nothing to break the silence but the ripple of the Mensola over its stones, the faint rustle of the wind in the pine-woods opposite, or the swish of a bird’s wing as it flies in and out of his home in the great crags above”[13]

 

Le sponde del laghetto sono costituite da un lato dalla parete della cava con la pietra e alcune insenature e grotte artificiai usate, come appunto viene descritto, come “trampolini” per i tuffi o come spogliatoi (fig. 6). In una delle nicchie Temple Leader fece mettere una robbiana raffigurante una Madonna col Bambino, immagine votiva usata un tempo per proteggere dalle frane chi lavorava nelle cave. Dall’altro invece il nobiluomo inglese fece piantare un boschetto. Gli interventi di Temple Leader non si fermano qua; fece infatti edificare una torretta in stile neogotico (fig. 7) che sovrasta il laghetto e che ben si armonizza con la sua idea di parco romantico. Sulla torre spicca lo stemma congiunto della famiglia del nobile inglese e della moglie, Luisa Raimoni (fig. 8), mentre all’interno troviamo una sala decorata da Ruggero Focardi. L’interno non è purtroppo accessibile trattandosi ormai di una stanza di albergo, stando però a quanto scrive in tempi recenti la storica dell’arte Francesca Baldry, gli affreschi raffigurerebbero una copia della Primavera di Botticelli mentre dall’atro lato Vergini fanciulle che si bagnano nel laghetto silvestre con il Castello di Vincigliata alle spalle, soggetto che ben si addice al luogo e che si ispira al Ninfale fiesolano del Boccaccio.[14] La torre è collegata al resto del parco da un piccolo ponte che passa sopra il fiume Mensola. Intorno al laghetto Temple Leader fece costruire una casetta in legno che doveva servire come spogliatoio per le signore. Secondo le fonti del tempo pare che il gentiluomo si recasse tutti i giorni, solo o con degli amici, a nuotare nel suo “pelaghetto”. Poco distante dal lago si trova invece un’altra struttura fatta modificare dal nuovo proprietario ma che già esisteva ai tempi dell’utilizzo della cava; si tratta di una casetta usata dagli scalpellini come deposito degli attrezzi e che Temple Leader trasformò in una coffe-house. Per rendere più elegante l’ambiente fece anteporre all’ingresso un piccolo porticato di ispirazione cinquecentesca con colonne in pietra serena e decorò l’interno con tavolini e sedie così che i suoi ospiti dopo il bagno potessero consumare insieme pranzi o merende.

 

Uno degli ospiti sicuramente più noti e illustri del piccolo laghetto artificiale fu la Regina Vittoria d’Inghilterra che nell’aprile del 1893 fu accolta nella sua dimora da Temple Leader. Per quanto è improbabile che la regina abbia fatto il bagno nelle acque del lago, aveva sicuramente sostato all’interno della coffe-house e si era riposata nel tranquillo parco. La visita fu a tal punto significativa per il nobile inglese che la volle ricordare con una targa che recita: “Il di XII aprile MDCCCXCIII Vittoria Regina d’Inghilterra Imperatrice delle Indie con la figlia Beatrice Principessa, Enrico di Battemberg e seguito, qui sostava e deliziandosi della bellezza e tranquillità di questo laghetto ne faceva dei disegni nel suo Album di Ricordi”[15].

Il laghetto, come si legge nella targa, era piaciuto molto alla regina, tanto che decise di raffigurarlo in alcuni schizzi e disegni. La rivista inglese “The Illustrated London News” nel numero uscito il 6 maggio del 1893 dedica il frontespizio a un disegno firmato “A. Forestier” che raffigura la regina seduta con davanti un tavolino intenta ad ammirare il laghetto. L’immagine ci mostra fedelmente la torre e tutte le altre strutture intorno alla piscina mentre due gentiluomini con la tuba sono intenti ad osservarla.[16]

Con il suo laghetto Temple Leader si costruì un’oasi di pace in cui dare sfogo alla sua passione per il nuoto e allo stesso tempo rievocare le ambientazioni fiabesche del Boccaccio e quel romanticismo di ispirazione neogotica.

 

 

Note

[1] Targa fatta apporre dal proprietario Sir John Temple Leader nei pressi del laghetto.

[2] F. Baldry, John Temple Leader e il castello di Vincigliata. Un episodio di restauro e di collezionismo nella Firenze dell’Ottocento, Olschki, Firenze 1997, pp. 11-21.

[3] Antico castello un tempo proprietà dei Visdomini e degli Alessandri. Le mura vennero abbattute nel 1364 ma subito ricostruite dagli Alessandri. Sir Temple Leader dopo l’acquisto decise di affidare i lavori di restauro all’architetto Giuseppe Fancelli che si era formato presso Gaetano Baccani (architetto del Torrino del Giardino Torrigiani); il giovane architetto morì però nel 1867 a lavori non ancora ultimati. La bibliografia sul Castello di Vincigliata è molto ampia si vedano ad esempio: F. Guerrieri, Il Palazzo Temple Leader in Firenze, Alinea, Firenze 1991 e R. Innocenti, Storia e magnificenza di John Temple Leader, “Verde Domani”, I, 1991, pp. 9-10.

[4] G. Marcotti, Simpatie di Majano, Tipografia di G. Barbera, Firenze 1883, p. 75

[5] Ivi, p. 77.

[6] La Cappella, adiacente alla Chiesa di San Lorenzo, è conosciuta per le sue decorazioni ad intarsio in marmi policromi e pietre dure che ne rivestono pareti e pavimento.  Si tratta della seconda cupola di Firenze per dimensioni ed accoglie i grandi sarcofagi, realizzati in granito, di sei Granduchi di Toscana. La cappella era stata pensata già da Cosimo I che ne aveva affidato il progetto al suo architetto di fiducia: Giorgio Vasari. Il progetto non prese però mai avvio a causa della morte, quasi coeva dei due. Sarà solo il figlio, Ferdinando I che dopo una serie di concorsi scelse nel 1604 il progetto proposto da Don Giovanni, figlio naturale e riconosciuto di Cosimo I. La bibliografia sulla Cappella dei Principi è molto vasta, si veda ad esempio: U. Baldini, A. Giusti, A. Pampaloni Martelli (a cura di), La Cappella dei Principi e le pietre dure a Firenze, Electa, Milano 1979.

[7] L’episodio è descritto in: L. Scott, Vincigliata and Maiano, G. Barberà, Siena 1891, p. 153.

[8] “Lo specchio d’acqua è certamente di una bellezza ideale. Ma non è tutto perché in questo adorabile incavo è contenuto un intero capitolo della storia di Firenze”.  Ivi, p. 152.

[9] Marcotti 1883, p. 77.

[10] L’articolo è online sul sito della Biblioteca di Stato bavarese https://opacplus.bsb-muenchen (consultata il 20/01/2022)

[11] Si riferisce al fiume Mensola dal quale venne creato artificialmente il Laghetto.

[12] “[…] Ancora giù, giù fino a una profonda gola dove il Mensola arriva a ruzzolare tra le sue rocce, e attraversandolo sul ponte costruito dal signor Leader, raggiungiamo la riva di un piccolo lago verde, sotto grandi rocce a precipizio, che pendono sopra di esso, frastagliate e sporgenti: e ricche di tinte cupe di marrone e grigio". Scott, 1883, p. 152.

[13] “La sua solitudine è quasi opprimente – niente che rompa il silenzio se non l’incresparsi del Mensola contro le rocce e il debole fruscio del vento nelle pinete di fronte, o lo sbattere dell'ala di un uccello che vola dentro e fuori dalla sua casa nelle grandi insenature rocciose di sopra". Ivi, p. 153.

[14] Baldry 1996, p. 102.

[15] Targa commemorativa di dedica alla regina Vittoria.

[16] Frontespizio di “The Illustrated London News” del 6 maggio 1893, online presso https://www.britishnewspaperarchive.co.uk/ The British Newspaper Archive (consultato il 28/01/2022)

 

 

 

Bibliografia

Baldini, A. Giusti, A. Pampaloni Martelli (a cura di), La Cappella dei Principi e le pietre dure a Firenze, Electa, Milano 1979.

Baldry, John Temple Leader e il castello di Vincigliata. Un episodio di restauro e di collezionismo nella Firenze dell’Ottocento, Olschki, Firenze 1997.

Marcotti, Simpatie di Majano, Tipografia di G. Barbera, Firenze 1883

Scott, Vincigliata and Maiano, G. Barberà, Siena 1891.

 

Sitografia

Biblioteca di Stato bavarese - https://opacplus.bsb-muenchen

The British Newspaper Archive - https://www.britishnewspaperarchive.co.uk/

Sito della Fattoria di Maiano - https://www.fattoriadimaiano.com/


LA STANZA DELLA SEGNATURA DI RAFFAELLO IN VATICANO

A cura di Andrea Bardi

 

La Disputa del Sacramento

 

“Fece in un’altra parete un cielo con Cristo e la Nostra Donna, San Giovanni Batista, gli Apostoli e gli Evangelisti e Martiri su le nugole con Dio Padre, che sopra tutti manda lo Spirito Santo e massimamente sopra un numero infinito di Santi, che sotto scrivono la Messa; e sopra l’Ostia, che è sullo altare, disputano”[i]

Con queste parole Giorgio Vasari introduce il suo approfondimento sulla Disputa del Sacramento, affresco che, opponendosi alla celeberrima Scuola di Atene, occupa nella sua interezza la parete che ci si lascia alle spalle non appena si entra nella Sala. L’affresco (500x770 cm, fig. 1) si presenta come la traduzione pittorica della Teologia, una delle quattro discipline fondative dell’ordinamento umanistico che, assieme a Filosofia, Poesia e Giurisprudenza, rendono la Sala, nelle parole di Antonio Paolucci, “un capolavoro di antropologia culturale cattolica”[ii].

 

Il soggetto: disputa o non disputa?

Il nome con cui l’affresco è universalmente noto (Disputa del Sacramento) deve la sua fortuna al sopracitato passo vasariano, in cui lo storico aretino, descrivendo la scena, impiega, reiterandolo, proprio il verbo disputare (“un numero infinito di santi, che…disputano”; “Santi Dottori cristiani, i quali…disputando”; “faccendone segno co ‘l disputar con le mani”). L’indicazione vasariana si presta molto a letture erronee, una delle quali – quella che ha effettivamente preso piede dal Seicento in poi – vorrebbe il corteo di santi e dottori impegnato in una discussione. Un più corretto inquadramento tematico della scena permette, al giorno d’oggi, di inserirla nella lunga e proficua tradizione iconografica del Trionfo dell’Eucarestia o Trionfo della Chiesa, rigorosamente divisa in Ecclesia Militans (“Chiesa Militante”) e in Ecclesia Triumphans (“Chiesa Trionfante”). Va detto, infatti, che Giorgio Vasari “non intendeva affatto di fissare o proporre un titolo complessivo”[iii]. Parte della critica straniera arrivò addirittura ad intendere, spingendo il paradosso fino all’estremo, la disputa come una protesta nei confronti del dogma dell’Eucarestia. Ludwig von Pastor invece riaffermò, nella prima metà del Novecento, il principio secondo cui l’intento di Raffaello fosse “l’indagare, l’insegnare, l’apprendere […] tutto in rapporto a quell’Uno ed Eterno che è sempre presente sopra gli altari nel SS. Sacramento”[iv]. Ancora Bricarelli, invece, individuava nell’antifona O sacrum convivium la fonte iconografica dell’affresco[v] definito poi dal Muntz “la più alta espressione della pittura cristiana […] il più perfetto compendio di quindici secoli di fede”[vi]. Il soggetto proposto, il Trionfo, viene successivamente confermato da altri studiosi come Ernst Gombrich, Konrad Oberhuber, James Beck[vii].

 

La Disputa I: il disegno preparatorio e i significati simbolici

Una iniziale meditazione sull’architettura compositiva generale viene eseguita dall’artista in un disegno, che John Shearman definì Disputa I (fig. 2), oggi custodito presso la Royal Library del Castello di Windsor. Rispetto alla versione finale, nello studio – un acquerello con rialzi a biacca – Raffaello dispone i personaggi del registro inferiore dinanzi ad un porticato, oltre a non inserire, nella parte centrale, l’altare. La Disputa I evidenzia inoltre come l’artista non sentisse il bisogno di fornire un abbozzo dell’intera composizione, bensì di una sola metà (la sinistra) che sarebbe stata ripetuta successivamente in maniera perfettamente speculare.

 

Richiamando una tesi precedentemente espressa da Matthias Winger (Progetti ed esecuzione nella Stanza della Segnatura), Kim Butler Wingfield (Networks of knowledge: inventing Theology in the Stanza della Segnatura) ha portato l’attenzione sulla struttura architettonica che, ancor presente nello studio, è stata poi definitivamente accantonata nella versione finale dell’affresco. Il piano originale di Raffaello – sostiene Winner – era centrato sul concetto agostiniano di Civitas Dei, la “città di Dio” in cui le pietre da costruzione altro non sono che i cittadini stessi (Agostino usa l’espressione lapides vivi, ovverosia “pietre vive”)[viii]. Nei piani di Giulio II, pontefice fortemente legato al Corpus Domini, l’aspetto da tenere in maggiore considerazione doveva essere invece quello della corporalità di Cristo, del suo essere anche carne oltre che verbo[ix]. In virtù dell’emersione di predicazioni eretiche dal nord Europa, poi (Wycliffe, Hus) la riaffermazione della natura terrena di Cristo acquisisce, nell’affresco, un significato eminentemente politico.

 

Il registro inferiore: l’Ecclesia Militans

Il registro inferiore della composizione è interamente popolato dal consesso di dottori della chiesa, santi teologi ma anche letterati che, disposti a semicerchio attorno all’ostensorio, formano l’“esercito” del Signore, la Chiesa Militante (Ecclesia Militans, fig. 3). La chiara fama di molti di questi personaggi ha reso, poi, la loro identificazione estremamente semplice.

 

Ponendosi in ideale continuità con il brano paesistico del fondale, la figura che chiude la composizione all’estremità sinistra altri non è che Donato Bramante, soprintendente, all’epoca, del cantiere per la nuova Basilica di San Pietro, il cui avanzamento dei lavori è del resto richiamato sullo sfondo. Tra le altre figure presenti, i quattro Dottori della chiesa ricoprono delle posizioni privilegiate. Fiancheggiando l’altare da sinistra (Girolamo, Gregorio Magno) e da destra (Agostino, Ambrogio) i dottori sono individuati precisamente grazie ai nomi inscritti nelle aureole. La loro presenza risulta fondamentale per un motivo molto semplice: è ai Dottori, infatti, che si deve la sistemazione teorica del dogma della Transustanziazione, ovverosia la reale (e non simbolica) presenza di Cristo nell’Eucarestia. San Girolamo, affiancato dal leone, uno dei suoi simboli canonici di accompagnamento, aveva sottolineato la presenza di Cristo nell’ostia (Commento a Matteo) così come del resto aveva fatto Agostino (Sermoni). Su Gregorio, invece, è caduta recentemente l’attenzione di Kim Butler-Wingfield (Networks of Knowledge: Inventing Theology in the Stanza della Segnatura, 2017). La studiosa, a partire dal confronto iconografico effettuato da Frederick Hartt tra il santo dottore e una una medaglia, oggi al Victoria and Albert Museum di Londra, in cui l’orafo Caradosso Foppa aveva effigiato Giulio II, ha posto l’accento sulla centralità di Gregorio. Quest’ultimo aveva, tra il VI e il VII secolo, modificato la preghiera Eucaristica introdotta da Sant’Ambrogio (375 d.C.). In occasione di una messa, poi, lo scetticismo di una donna circa l’effettiva veridicità della Transustanziazione erano stati fugati grazie alla preghiera di Gregorio, che ebbero come conseguenza la trasformazione del pane nel vero corpo di Cristo. Attorno alla metà del XIV secolo, la leggenda trovò enorme diffusione anche in relazione all’imago pietatis di Santa Croce a Firenze, che era considerata l’immagine effettivamente vista secoli prima in occasione della messa. La medaglia di Caradosso, così come altre effigi fatte eseguire dal della Rovere, recava, sul verso, proprio l’imago pietatis di Santa Croce, e questo particolare inevitabilmente va a rafforzare il legame ideale tra i due pontefici. Le analogie, anche e soprattutto di carattere fisionomico, tra Giulio II e Gregorio si spiegherebbero, secondo la studiosa, anche alla luce del particolare accanimento dimostrato dai lanzichenecchi nel 1527 verso l’immagine di Gregorio/Giulio, che è infatti fortemente danneggiata. L’ira dei mercenari imperiali, nota Butler-Wingfield, si spiegherebbe perfettamente proprio considerando una simile confusione tra ciò che l’immagine rappresenta (Gregorio) e la sua effettiva ricezione. È tuttavia un altro particolare ad essere risolutivo per la studiosa: Gregorio/Giulio è, insieme a Sisto IV sul lato opposto (ancora un della Rovere) l’unico personaggio a poter disporre della visione del Trionfo celata agli altri; da ciò ne deriva la conclusione che l’episodio inscenato è una visione del santo. Questi, ancora nel Liber Moralium – testo a commento di Giobbe presente ai suoi piedi nella Disputa – aveva fortemente contestato la teoria secondo la quale il corpo di Cristo non era, al momento della Resurrezione, solido, opponendo invece il principio di corpo palpabile per veritatem naturae[x].

Collocato perfettamente al centro della scena, l’ostensorio, centro di gravità dell’intera composizione, si pone perfettamente all’interno di una verticale ideale che lo congiunge con la Trinità (la colomba dello Spirito Santo, il Figlio e il Padre). Ciò che appare dell’ostia, la sua componente materiale, va così ad integrarsi alla sua essenza – il corpo di Cristo – accessibile alla sola visione del consesso di santi e patriarchi che lo circondano. A destra, altri personaggi riconoscibili sono pontefici come Sisto IV e Innocenzo III. Ai piedi del primo, zio di Giulio II, compare il trattato De sanguine Christi, altra rivendicazione forte circa la natura terrena di Cristo e altro prezioso indizio della decisa presa di posizione ideologica da parte di Giulio. Ai lati di Innocenzo, poi, compaiono i due maggiori teologi del Duecento, Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio (canonizzato da Sisto IV nel 1482), che come i dottori della Chiesa recano il loro nome all’interno del nimbo, precedendo nel corteo lo stesso Dante Alighieri che proprio ai due santi aveva lasciato ampio spazio nei canti X-XII del Paradiso. Nel canto X, Tommaso è il primo a palesarsi al poeta:

“Io fui de li agni de la santa greggia

che Domenico mena per cammino

u’ ben s’impingua se non si vaneggia”

(Dante, Paradiso, X, 94-96)

Se nel canto successivo Dante continua a lasciare la parola al bue muto (epiteto con cui Tommaso venne ribattezzato dai suoi confratelli all’Università di Parigi), il quale descrive la vita e l’eredità di Francesco d’Assisi, un’operazione analoga è condotta, nel canto XII, da Bonaventura (questa volta in riferimento a Domenico di Guzman), che viene così introdotto dall’Alighieri:

“Io son la vita di Bonaventura

da Bagnoregio, che ne’ grandi offici

sempre pospuosi la sinistra cura.”

(Dante, Paradiso, XII, 127-129)

 

 

L’Ecclesia Triumphans

 

Al di sopra di una cortina di nubi dal quale fa capolino una molteplicità di piccole teste di putti, una teoria di santi circonda le figure della Vergine e di Giovanni Battista, a loro volta collocate ai lati di un Cristo in gloria. Assiso anch’esso su una nube, la sua figura sovrasta la colomba dello Spirito Santo, fiancheggiata a sua volta da quattro piccoli angeli intenti a tenere aperti i quattro Vangeli canonici. Schiere angeliche si innalzano del resto anche nella porzione superiore della scena, in prossimità del profilo dell’arco, e affiancano l’immagine perfettamente ieratica e frontale di Dio Padre che, tenendo in mano il globo terrestre, viene dotato di un nimbo (aureola) quadrato e circondato da una cascata di angeli che sembrano fluire verso il basso all’interno di linee disposte a raggiera.

Così come per la Chiesa Militante, anche per l’Ecclesia Triumphans (fig. 4) sul registro superiore l’individuazione dei santi effigiati risulta compito relativamente intuitivo. All’estrema sinistra, il gioco di sguardi tra San Pietro e Adamo (riconoscibile dalla nudità) precede le figure di San Giovanni Evangelista e di Re David, intento a suonare la cetra. Completano la figurazione Santo Stefano e il profeta Geremia. Il lato destro, chiuso invece da San Paolo, prosegue verso l’interno con Abramo, una figura di apostolo – la cui identità non è ancora perfettamente chiarita (San Giacomo o San Matteo) – Mosè (quest’ultimo riconoscibile dalle Tavole della Legge), San Lorenzo e Giuda Maccabeo.

 

La Disputa: le fonti iconografiche

Ogni analisi che si ponga come scopo quello di approfondire ad un discreto livello la questione relativa alle fonti iconografiche di un dato testo figurativo non può prescindere dai suoi precedenti. Prima di soffermarsi su parallelismi più diretti ed immediati, appare necessario effettuare una ricognizione che metta a fuoco questioni meno ovvie. Ancora Butler-Wingfield si sofferma, a tal proposito, sull’iconografia del Trionfo di San Tommaso. Tra le diverse variazioni sul tema menzionate dalla studiosa, quella offerta da Benozzo Gozzoli per Santa Caterina a Pisa (ora al Louvre, fig. 5) appare adeguata e perfettamente inscrivibile nella storia personale di Giulio. Così come nella Disputa, infatti, anche nella pala pisana compare la figura di Sisto IV. Da una prospettiva più eminentemente figurativa, poi, nel Trionfo di Tommaso appare quell’idea di asse centrale invisibile che lega una figura principale (Tommaso) alla quale si sovrappone quella del Padre Eterno.

 

La pala di Benozzo non esaurisce, però, il campionario di modelli a cui Raffaello sembra aver fatto riferimento per l’organizzazione, per l’impaginazione generale della scena. Fonti più vicine a lui, non cronologicamente ma geograficamente – le basiliche paleocristiane – potrebbero avere avuto un ruolo, un’influenza nelle scelte dell’urbinate. Alcune ipotesi sono state individuate, a tale scopo, dalla studiosa americana Bonnie Kutbay (Early Christian iconography in Raphael’s disputa), che ha inizialmente proposto un confronto con il mosaico absidale di Santa Costanza[xi] e con la decorazione del catino della basilica petrina, la cui conformazione venne copiata ai primi del Seicento (1605) da Giacomo Grimaldi, prima dei lavori di demolizione della navata portati avanti da Paolo V e affidati a Carlo Maderno (1612). La Kutbay sottolinea come tanto nei mosaici petrini quanto nella Disputa la separazione tra cielo e terra venisse segnalata da una linea curva, e di come la stessa rappresentazione del Paradiso fosse portata avanti per mezzo di linee radianti. Elemento, questo, che si ripete anche in altri mosaici absidali, quello dell’Incoronazione della Vergine, che Jacopo Torriti completò nel 1296 in Santa Maria Maggiore (fig. 6), o quello di San Clemente. La disposizione semicircolare degli apostoli attorno a Cristo, tuttavia, risale addirittura al V secolo (mosaici di Santa Pudenziana, Roma, fig. 7).

 

L’analisi dei modelli a disposizione di Raffaello va infine portata alle soglie del Cinquecento, addentrandosi all’interno del corpus pittorico raffaellesco. Il primo esempio utile a riguardo è il Giudizio Universale affrescato tra il 1499 e il 1501 da Fra Bartolomeo e Mariotto Albertinelli in una delle cappelle dell’Ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze (Fig. 8). L’affresco, oggi staccato e conservato al Museo San Marco, appare, pur nelle lacune nella parte superiore, il precedente più vicino – almeno per la conformazione della parte superiore – alla Disputa ma, ancor prima, alla Trinità e santi (1505-1508, fig. 9), altra opera condotta a quattro mani da Raffaello e Perugino per la cappella Sansevero.

 

 

 

Note

[i] G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, p. 69.

[ii] A. Paolucci, Raffaello in Vaticano, p. 10.

[iii] A. Spadaro, La civiltà cattolica, p. 334.

[iv] Le parole di Pastor sono riportate in ibidem, nota 1.

[v] C. Bricarelli, Il pensiero cristiano del Cinquecento nell’arte di Raffaello, p. 59. Le parole di Bricarelli sono riportate in A. Spadaro, la civiltà cattolica, p. 334.

[vi] Le parole di Muntz sono contenute in A. Spadaro, La civiltà cattolica, p. 335.

[vii] B.L. Kutbay, Early christian iconography in Raphael’s Disputa, p. 245.

[viii] Kim Butler Wingfield, Networks of knowledge: inventing Theology in the Stanza della Segnatura, p. 180.

[ix] Ibidem.

[x] Ivi, p. 187.

[xi] B. L. Kutbay, early christian iconography in Raphael’s disputa, p. 247.

 

 

Bibliografia

Kim Butler Wingfield, Networks of Knowledge: Inventing Theology in the Stanza della Segnatura, in “Studies in Iconography”, vol. 38, Kalamazoo, Medieval Institute Publications of Western Michigan University, 2017, pp. 174 – 221.

Bonnie L. Kutbay, Early christian iconography in Raphael’s Disputa, in “Journal of Literature and Art Studies”, vol. 9, no. 2, 2019, David Publishing, pp. 245-260.

Antonio Paolucci, Raffaello in Vaticano, “Art Dossier”, n. 298, Firenze – Milano, 2013.

Deoclecio Redig de Campos, Raffaello nelle stanze, Milano, Martello, 1965.

John Shearman, Raphael as architect, in “Journal of the Royal Society of Arts”, vol. 116, no. 5141, Londra, Royal Society for the Encouragement of Arts, Manufactures and Commerce, 1968, pp. 388-409.

John Shearman, The vatican stanze: functions and Decoration (1971), in George Holmes (a cura di), Art and Politics in Renaissance Italy. British Academy Lectures, New York, The British Academy Press, 1993.

Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze, Giunti, 1568.


CESARE VIEL. CONDIVIDERE FRASI IN UN CAMPO ALLARGATO

A cura di Silvia Piffaretti

 

 

“Condividere frasi in un campo allargato”

La Galleria Milano, a partire da martedì 1 febbraio e fino al 12 marzo 2022, ospita l’imperdibile personale di Cesare Viel dal titolo “Condividere frasi in un campo allargato”, realizzata in collaborazione con la Galleria Pinksummer di Genova. Per l’occasione l’artista, tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, ha dato vita a un progetto dialogico, attraverso il quale ha invitato colleghi e amici a condividere con lui una frase per loro significativa che si potesse adattare allo specifico vissuto del momento presente. La miriade di frasi è stata trascritta, con l’elegante calligrafia dell’artista, su dei fogli di carta da pacchi che, alternati a brevi frasi composte dal lui stesso, costruiscono un paesaggio verbale all’interno dello spazio espositivo. L’intervento, sorto da una comunione tra soggettivo e plurale, si configura come un momento immersivo di riflessione sul tempo che stiamo vivendo e i suoi processi trasformativi. Tale paesaggio di frasi, da intendersi come un campo allargato, secondo la prospettiva di Rosalind Krauss, si sviluppa secondo una linea orizzontale, che ne riflette la coralità, in contrasto con la verticalità dell’impostazione autoriale.

 

Un paesaggio di frasi

A partire dal progetto prende corpo un’installazione che finisce con l’abitare l’intero spazio espositivo della galleria, il quale è percorso dal visitatore grazie ad una passerella rialzata che lo guida attraverso le due sale espositive nel mare metaforico di parole. Entrambe le stanze sono tappezzate da fogli di carta da pacchi disposti a terra, riportanti le considerazioni altrui, per poi distinguersi nelle opere disposte alle pareti. Nel primo ambiente alle pareti campeggiano quattro fogli bianchi, formato 100x140, con altrettante frasi trascritte da Viel: “lo strato più duro del linguaggio”, “non andare via”, “condividere frasi in un campo allargato”, “pietre nella mente”.

 

 

Nel successivo, invece, si collocano dei disegni a grafite raffiguranti massi da scogliera utilizzati come moli o barriere anti-erosione sulla costa e in alcune spiagge del Ponente Ligure, quali Noli, Sanremo e Spotorno. Quest’ultimi si configurano come un chiaro richiamo autobiografico al luogo in cui l’artista vive e lavora, ovvero Genova: qui insegna all’Accademia Ligustica di Belle Arti e consegue, nell’anno 1991, la laurea in Lettere Moderne. Attraverso tale raffigurazione Cesare Viel mette in comunicazione il familiare paesaggio ligure, con quello dolomitico e affettivo dei suoi genitori. L’artista, infatti, dichiara: “guardare i disegni di questi massi, una volta finiti, produce in me una dolcezza intensa, imprevista, in contrasto con la durezza reale della pietra, ma solo apparentemente, perché in fondo, in questo caso, dolcezza e durezza si accoppiano e si mescolano in un nuovo ulteriore orizzonte”.

 

Un incontro tra pietre e parole

É dunque fondante il legame tra pietre e parole, manifestato ampiamente anche dalle stesse dichiarazioni rilasciate da Cesare Viel. Quest’ultimo afferma che “leggere la pietra e vedere nella pietra ciò che non è solo pietra è come provare la ‘tenuta’ di un pensiero o di una frase fino a toccare gli strati più duri”, infatti nel disegno dei muti e attraenti massi affiorano i segni di una lingua; è così possibile ravvisare nell’anatomia di un masso l’anatomia di una frase-linea che percorre un piano di composizione. Nel disegnarle, le pietre, “a un certo punto e a modo loro incominciano a parlare, servono tempo e pazienza, è un farsi attendere, poi tacciono di nuovo, e in quel nuovo silenzio si definiscono i contorni e i volumi: presenza, equilibrio”, per mezzo della prova di un trattamento a matita o di un colore, oppure spostando linee e curve, si procede come nella scrittura. Attraverso tale procedura “i massi, uno dopo l’altro, uno accanto all’altro, come le frasi, rispondono e fanno contatto, entrano in dialogo con lo spazio e tra loro” e nonostante occorra tempo “le frasi sedimentano il senso che propagano, si fermano e diventano opere”.

 

Le frasi, una volta sedimentate in opere, si orientano a definire una marea varia e multiforme. Alcune si concentrano sul silenzio: “non voglio sentire il silenzio dell’assenza, ma ascoltare quello della consapevolezza” (Frida Carazzato), così come “la conoscenza e la bellezza sprigionano dalla presenza di ciò che è nascosto e dalla potenza che sta dietro a ogni forma di silenzio” (Cesare Pietroiusti). Altre invece paiono rimandare ad un immaginario legato al mare: “navigo a vista” (Anna Cestelli Guidi), “oggi mi sento un’isola” (Teresa Macrì), “aria da bere, acqua da respirare” (Massimo Palazzi). Non mancano però alcuni enunciati, più o meno brevi, rinvianti al mondo dell’arte; ad esempio “arte esistenza mondo” (Giacinto di Pietrantonio), oppure “l’arte e la conoscenza alimentano una speranza che ha bisogno di coraggio per compiere scelte, per elaborare nuove narrazioni, per assumersi il diritto e la responsabilità della trasformazione del mondo” (Pietro Gaglianò).

 

Nell’esposizione, che si configura come “un’indagine, gentile, sul chiedere, il ricevere e il restituire trasformato quello che si è chiesto”, l’artista mostra come il processo e la trasformazione si definiscano ed esemplifichino con maggiore lucidità grazie allo spazio reale in cui si depositeranno le frasi a pavimento. In questo modo tutto galleggia nel campo allargato e il visitatore, attraverso l’osservazione e la lettura di tale marea di parole, si apre a plurime riflessioni e libere associazioni che sconfinano ben oltre la soglia dello spazio espositivo.

 

 

Informazioni di visita:

Galleria Milano

Via Manin 13, Via Turati 14 – 20121 Milano

02-29000352

[email protected]

 

Orari: da martedì a sabato dalle ore 10,00 alle 13,30 e dalle 15,00 alle 19,00

 

www.galleriamilano.com

Instagram @galleria.milano | FB galleriamilano |Twitter @GalleriaMilano


FILIPPO RICCI A CAMPOFILONE: STORIA DI UNA DOMESTICA CONVERSAZIONE TRA SANTI

A cura di Arianna Marilungo

 

 

Dalla descrizione del dipinto ad una (possibile) committenza?

Immersa nel verde di un’altura nel piccolo paese di Campofilone (FM), la chiesa di Santa Maria d’Intignano[1] (fig. 1) si mostra al visitatore come un piccolo scrigno dalla storia poco conosciuta, ma ricca di tracce inedite e preziose per la ricostruzione delle vicende storiche di questo borgo marchigiano e dei rapporti che la legarono a Fermo nel corso dei secoli.

 

Un’attenzione speciale merita la tela che campeggia sull’altare maggiore di mano di Filippo Ricci (1715-1793) che rappresenta la Madonna con Bambino e santi (figg. 2-3).

 

La tela, datata in basso a sinistra da una nota manoscritta “1755” (fig. 4), è la traduzione in immagini di una scena dal sapore domestico, ma dal significato trascendente.

 

Il dipinto rappresenta ciò che gli storici dell’arte definiscono “Sacra Conversazione”, i cui protagonisti sono la Sacra Famiglia, i Santi Gioacchino ed Anna, genitori della Vergine Maria, e San Paolo. Essi vengono colti in un intimo momento: Gesù Bambino viene presentato ai suoi nonni Anna e Gioacchino sotto gli sguardi vigili e attenti della Madonna e di San Giuseppe, mentre il giovane San Paolo osserva con profonda curiosità il saluto che si scambiano Gesù e sua nonna Anna. L’episodio è raffigurato in due diversi spazi compositivi che convergono al centro nella figura diafana del Bambin Gesù: a sinistra il pittore rappresenta la Sacra Famiglia (fig. 5) e a destra i Santi in adorazione (fig. 6).

 

I due gruppi di figure sono uniti dal tenero gioco instaurato tra il piccolo Gesù, tenuto in braccio dalla Madonna, e la nonna Anna: entrambi si scambiano una carezza ed il viso dell’anziana si approssima al corpo di Gesù in uno slancio di puro affetto (fig. 7).

 

Alle spalle della donna si ergono due figure di Santi in cui possiamo sicuramente riconoscere San Gioacchino, marito di Anna e nonno di Gesù, nell’uomo dalla lunga barba bianca, mentre più difficoltosa, invece, è l’identificazione del Santo che lo affianca. Si tratta di un giovane uomo dalla barba scura che reca nella mano destra un libro e nella sinistra una spada: plausibilmente vi si può riconoscere San Paolo di Tarso. Secondo l’iconografia più comune, infatti, il grande apostolo viene raffigurato con gli attributi del libro, in forma di codice o rotolo di pergamena in riferimento alle lettere che scrisse alle prime comunità cristiane, e - a partire dal XIII secolo - con la spada, in riferimento allo strumento del suo martirio e alla Parola di Dio, che lui stesso definì “[…] più tagliente di una spada a doppio taglio […]”[2]. Gli stessi attributi che reca in mano il giovane Santo nel dipinto campofilonese. Dietro la Madonna il Ricci dipinse San Giuseppe riconoscibile dall’aspetto anziano e dal giglio, simbolo di purezza e castità. La Vergine Maria è rappresentata come una giovane donna vestita di una candida tunica rosa e con il capo circondato da un’aureola evidentemente più luminosa di quelle degli altri santi, quasi a voler sottolineare l’importanza del suo ruolo nella missione del Figlio. A coronare ed impreziosire il dipinto un gruppo di angeli scende dall’alto (fig. 8).

 

Eleganza, mitezza espressiva e semplice decoro sono le caratteristiche principali di questo dipinto da cui sono evidenti gli influssi che il Ricci ricevette dal pittore Corrado Giaquinti, alla cui bottega si formò nel suo tirocinio romano[3].

Una curiosità di questa tela è la presenza, accanto alla data manoscritta, di uno stemma araldico (fig. 4) che rappresenta un quadrupede rampante sormontato da una corona. Poche fonti narrano le vicende storiche di questo dipinto, ma è plausibile che lo stemma appartenesse alla famiglia committente.

Una nota di attenzione, non a margine, merita la presenza nella stessa chiesa dove è custodito ed esposto il nostro dipinto di una lapide commemorativa che recita: “Qui è sepolto Giovanni dei Duchi D’Altemps a Matteo e Giuditta figlio ultimo superstite poco più che diciottenne da ultimo morbo rapito all’amore e al desiderio dei genitori il 5 novembre 1847 questa lapide ventun anni dopo che fu morto pose la madre al caro figliuolo sempre inconsolata di averlo perduto 1868” (fig. 9).

 

È opportuno qui aprire una piccola parentesi sull’identità di questo grande casato che ebbe molta fortuna nella nostra regione. Si tratta di un ramo degli Hohenems, famiglia tedesca che nel XVI secolo si trasferì in Italia ed il cui nome venne tradotto in Alta Ems, per poi prendere la sua forma definitiva in Altemps. Questa famiglia acquisì il rango nobiliare a Bologna, Roma e Napoli, ma godette di numerosi privilegi anche nella città di Fermo dove visse Serafino d’Altemps, figlio di Roberto d’Altemps e della sua prima moglie Orsola Grioni. Lo stemma araldico di questa nobile famiglia è un ariete rampante di colore giallo su sfondo blu, plausibilmente il medesimo raffigurato sul nostro dipinto.

È più che plausibile che i committenti della tela furono i d’Altemps a motivo dello stemma ivi raffigurato e della presenza della salma di un componente della famiglia nella Chiesa.

 

Sulle tracce di Filippo Ricci: brevi note biografiche e pittoriche

Il pittore Filippo Ricci proveniva da una lunga dinastia di artisti residenti nella città di Fermo che hanno segnato in maniera marcata lo stile pittorico di tutta la marca fermana tra Sei e Settecento.

Nacque il 15 luglio 1715 a Fermo da Natale – anch’egli pittore – e Maria Lucia Beltrami. Anche se non ci sono fonti certe sulla sua formazione artistica è più che ipotizzabile che abbia mosso i primi passi nel mondo artistico frequentando la bottega del padre Natale, da cui trasse una profonda influenza stilistica come dimostrano le sue opere giovanili. Da quest’ultima si evince che il Ricci era dotato di una buona dimestichezza con il segno grafico, caratteristica che lo accompagnerà per tutta la sua carriera. È certo un suo soggiorno a Bologna, dove visse il fervente clima artistico che la attraversava e che attingeva dalle forme stilistiche del classicismo seicentesco. A partire dagli anni quaranta, dopo il suo rientro nelle Marche, iniziarono grandi commissioni soprattutto da parte di ordini religiosi del fermano. Tra queste è opportuno ricordare il Sant’Agostino lava i piedi a Gesù apparsogli in veste di pellegrino (1741), realizzato per gli Agostiniani di Sant’Elpidio a Mare ed in cui è chiara l’influenza nell’impianto compositivo di un disegno di mano di Donato Creti raffigurante lo stesso tema e conservato presso la Pinacoteca Civica di Ascoli Piceno. Nelle opere successive, come la Madonna Assunta con San Biagio e San Liborio (Chiesa di San Biagio, Camerino, 1746) si denota una nuova vivacità narrativa affiancata ad una accuratezza in alcuni dettagli anatomici delle figure e dei costumi. Questo stile figurativo è ravvisabile anche in tele contemporanee a quella camerinese.

Il 9 luglio 1743 nacque il primo di quattro figli, Antonio Francesco, e cinque anni dopo Filippo Ricci venne nominato erede universale dallo zio Gregorio, che morì nel 1751. Nel 1748, inoltre, iniziò il tirocinio a Roma presso la bottega di Corrado Giaquinto, artista coltissimo e dotato di grande vivacità artistica e creatività. In un ambiente di tale sorta Filippo Ricci apprese moltissimo e raffinò la propria tecnica, traducendo il linguaggio del maestro in uno più asciutto e spesso duro. Ciononostante l’influsso giaquintesco rimase presente in tutte le sue successive opere, come è evidente anche nella tela di Campofilone sopra descritta. I decenni che seguirono furono ricchi di commissioni – soprattutto da parte di ordini religiosi locali - che lo portarono a perfezionare il suo linguaggio espressivo verso toni miti, ma di profonda eleganza.

Filippo Ricci si spense il 13 febbraio del 1793, dopo una lunga malattia. Raccolse la sua eredità il figlio Alessandro, un artista maturo e già ben inserito nella bottega paterna[4].

 

 

Ringrazio con affetto e riconoscenza la famiglia Marilungo per avermi coinvolta nell’indagine storico-artistica di questa preziosa opera d’arte, consentendomi di conoscere e studiare un tesoro nascosto in un bellissimo pezzo di terra marchigiana.

Ringrazio sentitamente anche il fotografo Matteo Pipponzi Felici per aver realizzato con cura e professionalità le foto qui pubblicate.

 

 

Note

[1] Chiesa costruita a metà del XVI secolo - ora di proprietà della famiglia Marilungo - ad unica navata. In seguito alla ristrutturazione eseguita tra il 2004 ed il 2005, venne dotata di copertura a capriate lignee, demolendo l’antico soffitto in camorcanna. Originariamente era dotata di due fabbricati: il piccolo edificio religioso e la casa parrocchiale, quest’ultima non più esistente. Dopo un lungo periodo di abbandono la Chiesa è tornata al suo antico splendore grazie all’impegno degli attuali proprietari che ne hanno inaugurato la riapertura il 16 luglio 2005.

[2] Lettera di San Paolo agli Ebrei 4, 12

[3] Stefano Papetti e Massimo Papetti (a cura di), Filippo e Alessandro Ricci. Pittori nella Marca del Settecento, Fondazione Cassa di Risparmio di Fermo, 2003, p. 94

[4] Idem, pp. 20-31

 

 

Bibliografia

Papetti, M. Papetti (a cura di), Filippo e Alessandro Ricci. Pittori nella Marca del Settecento, Fondazione Cassa di Risparmio di Fermo, Fermo, 2009

Papetti (a cura di), Atlante dei beni culturali dei territori di Ascoli Piceno e Fermo. Beni Artistici: pittura e scultura, Fondazione Cassa di Risparmio di Fermo, Fermo, 2003

 

Sitografiaa

www.siusa.archivi.beniculturali.it


CASTELNUOVO E L’ARCO TRIONFALE AL TEMPO DI ALFONSO I

A cura di Alessandra Apicella

 

 

Sin dall’antichità, per celebrare un evento storico di rilievo, come una battaglia o una conquista territoriale, si è sviluppata l’usanza di dare vita ad opere architettoniche che fossero in grado di raccontare quel momento, di fargli onore e permetterne il ricordo nei secoli a venire. Dagli edifici, agli archi, dalle porte monumentali alle colonne, queste strutture imponenti avevano il compito di ricordare e celebrare eventi importanti per la storia del luogo o imprese legate a personaggi illustri: basti pensare all’arco di Costantino a Roma, innalzato per celebrare la vittoria dell’imperatore nella battaglia di Ponte Milvio contro Massenzio nel 312 d.C.

Nell’ambito di queste imprese architettoniche dal carattere memoriale, a Napoli non si può non ricordare la ricostruzione di Castelnuovo con l’innesto dell’imponente arco marmoreo per volere di Alfonso d’Aragona.

La contesa tra Angioini ed Aragonesi per il trono napoletano si concluse nel 1442, quando Alfonso V d’Aragona, prendendo il potere con il titolo di Alfonso I di Napoli, mise fine al breve regno di Renato d’Angiò. Tra i primi interventi attuati dal sovrano ci fu la ricostruzione di Castelnuovo, la cui fondazione risaliva circa al 1266 (al tempo di Carlo I d’Angiò), voluto per completare il sistema difensivo della città, che prevedeva già il Castel dell’Ovo – all’epoca ormai obsoleto per le nuove tecniche di guerra – e Castel Capuano, in posizione poco strategica. Fu proprio per il rapporto con i due precedenti più antichi che l’edificio venne forgiato con il nome di Castelnuovo.

Le motivazioni che spinsero il sovrano ad intervenire su questa struttura furono molteplici: dalla necessità d’intervento a causa di parziali distruzioni avvenute durante la guerra, al desiderio di avere una dimora che fosse degna dell’unico sovrano della penisola italiana di allora, fino alla volontà di ricordare l’impresa che era stata attuata.

Attualmente, Castelnuovo è comunemente chiamato “maschio angioino”. Il termine “maschio” è una declinazione del termine “mastio”, utilizzato per indicare, inizialmente, una torre che nei castelli medievali era più alta delle altre e fungeva da punto nevralgico, come ultima difesa in caso di attacco, è passato poi ad indicare generalmente una fortificazione. L’aggettivo “angioino”, invece, è dovuto alle sue origini, da far risalire alla suddetta dinastia. Il castello, rinnovato sul progetto dell’architetto catalano Guglielmo Sagrera, mostra, per alcuni aspetti, dei caratteri ancora medievali, sebbene una maggiore tendenza alla simmetria e le decorazioni artistiche siano immagine dei tempi mutati. L’edificio, che si presenta con una pianta trapezoidale, è delimitato da cinque torrioni cilindrici costruiti in piperno, con l’eccezione della Torre dell’Oro, sul lato sud, che come il resto delle cortine è in tufo. Le possenti torri rotonde, rese più alte attraverso dei grossi basamenti merlati sottostanti, furono collegate tra loro attraverso corridoi, i cosiddetti rivellini, per permettere lo spostamento delle truppe da un punto all’altro con maggiore facilità. Nel fossato sottostante erano posti ambienti legati necessariamente al funzionamento della corte. Sul lato est, un tempo lambito dal mare, rinserrata da contrafforti poligonali si erge la Cappella Palatina, seguita, all’interno, dalla Sala dei Baroni, voluta da Roberto d’Angiò come sala del trono, e che prende questo nome in seguito ad una congiura fatta da parte di alcuni baroni contro Ferrante I negli anni Ottanta del Quattrocento, che qui furono arrestati.

Nella struttura architettonica, così come nei dettagli decorativi, si possono scorgere stili differenti: da particolari ancora medievali, ad interventi legati al nuovo modo di fare la guerra con le armi da fuoco, dalla nuova attenzione per la decorazione rinascimentale artistica alla ripresa dell’elemento antico ed infine alle influenze catalane, dovute tanto all’origine del sovrano quanto all’architetto di riferimento. Varcato l’ingresso nel cortile quadrangolare centrale, sulla destra, si scorge un porticato caratterizzato dagli archi ribassati tipicamente aragonesi; la scala esterna, che porta alla Sala dei Baroni, così come gli archi stellari, a cinque chiavi, o il rosone della Chiesa Palatina sono invece di chiara ascendenza catalana.

 

Per quanto riguarda, invece, la ripresa dell’elemento antico classico, tipico del contesto rinascimentale di allora, non si può non fare riferimento all’arco marmoreo d’ingresso.

 

Eretto a partire dal 1451, secondo un gusto albertiano, l’arco rispondeva al desiderio di Alfonso di celebrare la sua vittoria sugli Angioini ed il suo conseguente insediamento sul trono napoletano. La prima idea, probabilmente risalente al 1444, prevedeva un innalzamento nel centro della città di un arco isolato. Tale ipotesi venne sostituita però dal progetto di costruzione di un arco trionfale monumentale che fungesse da ingresso al castello. I documenti pervenutici attestano un cantiere di carattere internazionale, che coinvolgeva artisti come il catalano Pere Johan, il milanese Pietro di Martino, passando per Antonio da Pisa e Andrea dell’Aquila. Una prima versione del nuovo progetto è documentata da un disegno di un artista norditaliano, probabilmente presente, all’epoca, nella città partenopea. Il progetto si caratterizzava dalla predominanza di caratteri medievali, tendenti al gotico, che sono del tutto spariti poi nell’edificio costruito, come un arco acuto ed un fastigio tipico delle cimase gotiche. La mancanza di attestazioni certe in un cantiere così dinamico ha portato gli studiosi ad avanzare una serie di ipotesi, circa la paternità dell’operato, dando vita ad un dibattito che purtroppo non ha ancora portato ad esiti condivisi.

L’ingresso, sviluppato su più registri, attraverso la sovrapposizione di due archi, si trova stretto tra due torri e guarda a numerosi modelli di riferimento: non solo gli archi trionfali degli imperatori romani, ma anche le porte fortificate delle cinte murarie urbane. Tra i modelli identificati, le porte urbiche di Perugia, caratterizzate da importanti elementi decorativi, o ancora l’arco di Federico II a Capua. Partendo dal basso, la struttura presenta due coppie di colonne binate corinzie poste su alti piedistalli che da un capo all’altro della fornice reggono una trabeazione continua. Al di sopra della trabeazione sorge un rilievo con la rappresentazione dell’entrata trionfale di Alfonso al momento della conquista, mentre incede sul carro, condotto dalla Fortuna, preceduto da suonatori di tromba e scortato da un fedele e nobile seguito. La gerarchia sociale dei personaggi è ribadita attraverso la collocazione della scena su due piani: quello più alto è destinato al sovrano, mentre quello inferiore al suo seguito. I nomi proposti per il rilievo trionfale sono Pietro da Milano e Francesco Laurana.

                                                                     

Il registro superiore presenta un secondo arco, anch’esso a tutto tondo, ridotto di dimensione, affiancato da due colonne binate di ordine ionico, prive di piedistallo e in proporzione rispetto a quelle sottostanti. Al centro di questo secondo arco, facendo riferimento al progetto, vi doveva essere posto per un monumento equestre di Alfonso, fuso in bronzo, probabilmente ispirato al Gattamelata padovano. La commissione fu infatti affidata a Donatello, che, però, non terminò mai la statua, di cui ci resta soltanto la protome equina, attualmente conservata al Museo Archeologico Nazionale, che ci permette soltanto di immaginare quella che doveva essere la magnificenza del progetto. Il livello finale presenta quattro nicchie conchigliate con delle statue indicanti le quattro Virtù cardinali (Temperanza, Giustizia, Fortezza, Magnanimità). Per concludere, un frontone dall’inusuale forma tondeggiante custodisce due statue raffiguranti divinità che mantengono simboli di abbondanza, divenendo allegoria e augurio di prosperità; infine, come ultimo estremo, si erge la statua di San Michele.

 

Tra i vari modelli che sono stati ravvisati nella struttura architettonica si è ipotizzato uno sguardo, per quanto riguarda l’arco inferiore, all’Arco dei Sergi a Pola, e per l’arco superiore, invece, all’Arco di Traiano a Benevento, visto anche come antenato spirituale dello stesso Alfonso, per l’origine iberica. Per quanto concerne le decorazioni scultoree è percepibile l’influenza delle tombe reali angioine nella Chiesa di Santa Chiara e di San Giovanni a Carbonara.

L’arco trionfale di Alfonso non è un semplice esempio di creatività locale, per quanto straordinaria sia la commistione di elementi differenti, ma rappresenta una delle creazioni più originali della metà del Quattrocento; la sua decorazione scultorea dimostra una conoscenza matura del dettaglio all’antica e ne fa un simbolo unico dell’arte rinascimentale a Napoli.

Con la caduta di Ferdinando II e Federico I d’Aragona e la creazione del vicereame di Napoli, il castello perse la sua funzione di residenza reale per diventare semplice sede militare. In particolare, ristrutturazioni ed eliminazioni di elementi più marcatamente Angioini ed Aragonesi furono attuati dai successivi proprietari Borbone. L’ultimo restauro consistente risale agli inizi dell’Ottocento, mentre nel corso del Novecento furono attuate delle sistemazioni della zona circostante il castello, come ad esempio la creazione di un giardino.

Dimora di re e regine per molto tempo, il castello resta un simbolo emblematico della città, di cui se ne può visitare la bellezza ed i meandri. Al suo interno ospita la Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria ed un Museo Civico, che si amplia per tre piani all’interno dell’edificio ed ospita una ricca collezione di sculture, oggetti e dipinti che vanno dall’epoca medievale al tardo Ottocento. Inoltre, molto spesso, l’edificio offre i suoi spazi e le sue stanze ricche di storia come sede per mostre ed eventi.

 

 

Bibliografia

Anthony Blunt, Architettura barocca e rococò a Napoli, edizione italiana a cura di Fulvio Lenzo, Mondadori, 2006

Salvatore Settis e Tommaso Montanari, Arte. Una storia naturale e civile, volume 3. Dal Quattrocento alla Controriforma, Einaudi scuola, 2019

 

Sitografia

http://www.medioevo.org/artemedievale/Pages/Campania/CastelNuovo.html

https://www.napolike.it/turismo/place/castel-nuovo-maschio-angioino-napoli/


IL PROGETTO DI FILIPPO CORSINI PER IL PALAZZO DI FAMIGLIA: GLI APPARTAMENTI ESTIVI DEL PIANTERRENO

A cura di Alessandra Becattini

 

 

Come accennato alla fine dell’articolo precedente, dopo la morte del padre Bartolomeo Corsini, Filippo prese in mano le redini della ristrutturazione del palazzo di famiglia. La prosecuzione dei lavori fu da lui affidata all’architetto e scenografo Antonio Ferri, presumibilmente incaricato di proseguire i lavori (o il progetto) lasciati incompiuti alla morte di Pier Francesco Silvani, avvenuta anche questa nel 1685. Tuttavia, recentemente è stato rivisto l’intervento univoco del Ferri nella progettazione del palazzo, mentre un peso più importante è stato assegnato alla “direzione artistica” del rampollo Corsini e di Paolo Falconieri, un architetto dilettante amico del Corsini stesso [1] e agente artistico del granduca Cosimo III.

Le prime pitture eseguite furono quelle per l’«appartamento nuovo di Lungarno» [2]. Dalle fonti storiche si deduce che qui, tra il 1685 e il 1686, Jacopo Chiavistelli si occupò della decorazione dei soffitti lignei di quattro stanze; ma non è da escludere che il suo intervento fu più ampio. Anche se non ci sono indicazioni precise sulla collocazione del suo intervento, secondo Patrizia Maccioni i lavori furono eseguiti nell’appartamento del piano nobile nell’ala sinistra, una zona plausibilmente decorata prima degli appartamenti di Filippo situati nell’ala destra del palazzo. Dalla storica sono stati individuati due vani con una decorazione a fregio dipinto, che si estende per tutto il perimetro delle sale sotto il soffitto in legno, che potrebbe essere riferito alla mano o all’ideazione del Chiavistelli per lo stile e i temi decorativi usati (fig. 1). Le fonti, precedentemente scarse, si fanno sempre più precise e diffuse dagli anni novanta del ‘600, grazie anche all’attenzione del committente, rendendo più facile l’identificazione delle numerose maestranze a lavoro nel palazzo. Tra il 1692 e il 1700 fu intrapresa un’ampia campagna decorativa durante la quale furono decorati gli appartamenti del piano nobile nell’ala destra e del pianoterreno.

 

Le decorazioni del pianoterra di Palazzo Corsini: prima fase

Al pianoterra si collocano gli appartamenti estivi del palazzo, abitati dalla famiglia Corsini nei mesi più caldi dell’anno. Questa zona consta di ben 15 sale tutte generosamente ornate da quadrature illusionistiche. Un tempo interamente attribuite al Chiavistelli, dalle recenti ricerche degli studiosi sono emerse invece tre differenti equipe impegnate nell’esecuzione degli affreschi e tre fasi distinte d’esecuzione. Tuttavia, le pessime condizioni delle pitture, profondamente rovinate dall’alluvione del ‘66 e da precedenti inondazioni dell’Arno, non permettono una precisa datazione degli interventi e certamente non aiutano nell’identificazione delle diverse maestranze.

Dapprima il lavoro venne affidato a Jacopo Chiavistelli e alla sua bottega, che tra il 1693 e il 1695 affrescarono cinque stanze degli alloggi al pianterreno. Dalle fonti storiche emerge che anche la decorazione delle altre sale avrebbe dovuto essere commissionata al maestro, ma al termine di questa prima fase Filippo non fu soddisfatto dall’esecuzione e quindi il contratto non venne rinnovato. Ricercato dai più, il Chiavistelli aveva sviluppato un metodo di lavoro standardizzato per poter fronteggiare la mole di commissioni richieste: a lui competeva l’ideazione e la realizzazione della parte figurativa, mentre ai collaboratori spettava la realizzazione delle quadrature architettoniche e delle parti decorative. Come sottolineato da Maccioni [3], probabilmente non fu soltanto tale metodo di lavoro a non appagare le esigenze dell’attentissimo committente, ma anche la ripetitività di uno stile decorativo che sul finire del secolo dovette apparire ormai superato ad un occhio aggiornato come quello del Corsini.

Anche se le fonti non conservano la collocazione esatta di questi interventi, la storica riferisce all’equipe del Chiavistelli le tre stanze che affacciano sul Lungarno Corsini e le due adiacenti e prospicenti il cortile, le odierne sale nominate Rezia, Nerina, Cristina, Eleonora e Vittoria. Oggi visibili attraverso pesanti restauri e ritocchi, eseguiti regolarmente dalla seconda metà del ‘700 in poi a causa delle frequenti inondazioni dell’Arno, le sale presentano una ricca decorazione prospettica con architetture classicheggianti che si aprono sulle pareti e scene mitologiche sul soffitto, anch’esso decorato da quadrature con fluidi cornicioni modanati (figg. 2-3).

 

La seconda fase decorativa dell’Appartamento Estivo

Nel 1696, poco dopo la conclusione dei lavori dell’equipe del Chiavistelli, ad Alessandro Gherardini, Rinaldo Botti e Andrea Landini fu commissionata la decorazione di altre quattro stanze dell’Appartamento Estivo. In questo caso, le fonti sono molto precise nell’indicare i soggetti degli affreschi delle volte permettendo quindi una precisa identificazione delle pitture: durante questa seconda fase decorativa vennero quindi decorati il salone del pianterreno (fig. 4) e le tre stanze vicine alla corte del ninfeo, modernamente dedicate a donna Anna, Luisa e Annalù. Tuttavia, come accaduto anche per le precedenti sale del Chiavistelli, le pitture non hanno avuto una grande fortuna e molti degli interventi risultano oggi illeggibili a causa dei pesanti rifacimenti successivi: si salvano alcuni brani delle strutture architettoniche dipinte sulle volte, in parte ancora apprezzabili nella loro versione di fine ‘600 (fig. 5). Delle quattro sale, l’unica ad aver mantenuto quasi intatto l’aspetto originario è la sala “donna Annalù”. Un tempo questa piccola stanza aveva probabilmente una destinazione religiosa, come si evince dalla Fede affrescata dal Gherardini sul soffitto (figg. 6-7). Anche nella decorazione dei quadraturisti si respira un’aria più aulica, in linea con le finalità dello spazio. Il Botti, che era stato allievo del Chiavistelli, in questi suoi interventi fa abbondante uso dell’insegnamento del maestro, ma allo stesso tempo se ne distacca, mostrando una vena più innovativa e innestando una nuova strada per il quadraturismo toscano. Similmente alle stanze affrescate nella prima fase, le pareti si aprono su uno spazio immaginario ed intercalato da un doppio colonnato all’antica che dona profondità allo spazio della sala; le architetture, tuttavia, sono più semplici, le cornici modanate meno complesse e le tinte più chiare. Nelle sue pitture si nota poi un interesse più accentuato per il dato naturale: quello che si intravede tra gli sfondati architettonici è un orizzonte ameno, arioso e paesaggistico (fig. 8).

 

La grotta artificiale al pianterreno

A completamento dell’appartamento estivo venne eseguita, su progetto di Antonio Ferri, una bellissima grotta artificiale (fig. 9), elemento imprescindibile per una dimora signorile seicentesca. Questo ambiente, che si apre su un cortile nella parte più interna del pianoterra, si conserva ancora oggi nella sua facies tardo-seicentesca, anche se segnato dall’alluvione del ’66 come tutte le altre sale del pianoterra. Consta di un vestibolo, eseguito successivamente nel 1720 da Giovanni Battista Foggini e Girolamo Ticciati, e della grotta realizzata tra il 1695 e il 1697. Gli stucchi e le incrostazioni furono affidati al fiorentino Carlo Marcellini, mentre la parte pittorica venne realizzata dall’equipe Gherardini-Botti-Landini. Sulla volta della grotta Alessandro rappresentò la scena con Giunone che induce Eolo a liberare i venti (fig. 10). Oltre balaustre in stucco, i due quadraturisti affrescarono nel 1697 sfondati illusionistici con la rappresentazione in lontananza di quattro prestigiose residenze della famiglia: palazzo Corsini al Prato e Villa Le Corti (fig. 11), in Toscana, e il Casino dei Quattro Venti e il Palazzo della Lungara di Roma.

Ai tre frescanti a lavoro nel pianoterra furono commissionati anche alcuni interventi per la compagna decorativa che negli stessi anni stava coinvolgendo gli appartamenti di Filippo al piano nobile del palazzo e di cui parleremo nel prossimo articolo.

 

 

Note

[1] P. Maccioni, Palazzo Corsini e villa Le Corti, in Fasto privato: la decorazione murale in palazzi e ville di famiglie fiorentine, vol. 1, a cura di M. Gregori e M. Visonà, Firenze, 2012, p. 23.

[2] Ibidem.

[3] Maccioni, Palazzo Corsini …cit., p. 26.

 

 

 

Bibliografia

Guicciardini Corsi Salviati, Affreschi di Palazzo Corsini a Firenze (1650-1700), Centro Di, Firenze, 1989.

Patrizia Maccioni, Palazzo Corsini e villa Le Corti, in Fasto privato: la decorazione murale in palazzi e ville di famiglie fiorentine, vol. 1, a cura di M. Gregori e M. Visonà, Firenze, 2012, pp. 21-42.

 

Sitografia

http://www.palazzocorsini.it/thepalace/?lang=en

https://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-maria-ferri_(Dizionario-Biografico)/

https://www.treccani.it/enciclopedia/paolo-falconieri_%28Dizionario-Biografico%29/


IL TEATRO MASSIMO BELLINI: TEMPIO DELLA MUSICA A CATANIA

A cura di Mery Scalisi

 

 

Premessa

Siamo nell’800, secolo durante il quale il teatro assumerà sempre di più una notevole funzione sociale; il teatro viene inteso e vissuto come luogo di aggregazione della media e alta borghesia, un luogo, potremmo aggiungere, in cui una società-classe emergente si riconosce e desidera stabilire i principi della propria identità.

È da questa nuova affermazione sociale che si delineano due filoni: il dramma borghese, che porterà in scena le storie legate al quotidiano e che vedrà nel salotto svolgersi l’intera rappresentazione, e la commedia borghese, in cui però è assicurato il lieto fine.

Ma se da una parte abbiamo l’affermazione di una nuova classe sociale, dall’altra occorre non dimenticare le mille difficoltà col quale il teatro, inteso come luogo di rappresentazione, deve combattere: in Italia, ad esempio, come ancora in altre parti dell’Europa, la situazione politica, frammentaria, che si concluderà solo nel 1861, non permette di pensare a delle compagnie stabili; tra le compagnie che riusciranno a farsi strada, dal 1821 al 1854, ci sarà la Compagnia Reale Sarda, che vedrà interrotta la propria attività a causa della sospensione dei finanziamenti dello stato sabaudo: nonostante lo sforzo e l’impegno, ci si accorge di come il teatro, non venga ancora visto come veicolo di diffusione di valori, quindi la sua spesa può essere eliminata e per questo motivo si preferirà ancora la compagnia di giro.

Ben presto si aprì, inoltre, un vero e proprio dibattito che vedeva contrapposti il teatro aristocratico e il teatro popolare: c’erano i sostenitori del teatro come elevazione culturale e spirituale collettiva, a favore di un impianto tipologico detto ‘’ad alveare’’, proprio del teatro all’italiana, per dare maggiore spazio alle gradinate, di origine classica; sul fronte opposto, invece, i sostenitori dell’aristocrazia del teatro tradizionale, i quali proponevano che per gli spettacoli popolari si realizzassero i ‘’politeama’’.

 

Storia del Teatro Massimo Bellini di Catania

Alla fine del ‘700, Catania, alla ricerca del moderno e vogliosa di confrontarsi con il resto dell’Italia, nella fase di ricostruzione della città del dopo-terremoto, sente il bisogno di avere un teatro pubblico, esigenza che, però, verrà ben presto smorzata da impegni cittadini di rilevanza superiore.

Solo nel 1812 si inizierà a parlare concretamente di un teatro pubblico per la città di Catania, quando l’incarico viene affidato all’architetto maltese Giuseppe Zahra, titolare della cattedra di architettura all’Università, il quale si sarebbe dovuto impegnare nella progettazione dell’edificio in piazza Nuovaluce, l’attuale Piazza Teatro Massimo, e che si trovava già a Catania dal 1784, in quanto aveva aiutato il maltese ingegnere Tigny nella progettazione del porto (fig. 1).

 

All’inizio dell’800, dunque, Catania aveva a disposizione una prima porzione di teatro realizzata da Zahra e aiutato dal figlio adottivo Salvatore Zahra Buda, ma la crisi economica nella quale verteva (terremoto nel 1818, moti rivoluzionari del 1820-21 e tanto altro ancora), portarono la città ad abbandonare l’idea di continuare i lavori di edificazione del teatro, con una costruzione che non andò oltre i due metri d’altezza. L’idea di un teatro pubblico non fu del tutto abbandonata e si ripiegò su un teatro provvisorio e comunale, utilizzando un deposito privato alla Marina, inaugurato nel 1822 e di modesta entità, così da investire invece i soldi destinati al grande teatro pubblico a necessità di primo ordine.

Nel 1833, sarà Sebastiano Ittar a ricevere l’incarico di redigere il progetto di completamento del teatro comunale proponendo diverse soluzioni all’Amministrazione comunale: la vicenda continua fra indecisioni, preoccupazioni economiche e succedersi di incarichi, fino al 1870, quando il marchese di Casalotto e il sindaco del tempo, Domenico Bonaccorsi, incaricarono Andrea Scala, architetto udinese specializzato nei teatri, di formulare una serie di proposte e di luoghi idonei al teatro destinato alla cittadina etnea.

Seguendo la strada di Palermo, che prevedeva la presenza di un Politeama per gli spettacoli circensi e di un Massimo per l’opera lirica, Scala propose di mantenere l’Arena Pacini, la struttura in legno sopra il basamento lasciata dai predecessori all’interno della sala, che darà vita al teatro scoperto da utilizzare per gli spettacoli di massa, mentre per il grande teatro, destinato alle classi abbienti presentò due proposte per altrettanti siti diversi.

Gli sforzi di Scala furono vani, in quanto l’Amministrazione preferì intervenire su quanto già edificato fino a quel momento, accettando al massimo l’ipotesi di una struttura flessibile, che potesse prestarsi sia agli spettacoli circensi sia all’opera lirica, utilizzabile, inoltre, ad ogni stagione, e sia nelle ore diurne che in quelle serali.

Nonostante le difficoltà l’architetto Scala accolse alcuni elementi tipologici e spaziali del già precedente teatro degli Zhara e di Ittar, ma s’impegnò ad ampliare la sala, sfruttando la curvatura dell’edificio, visto il doppio uso cui avrebbe dovuto essere destinata.

Nel ’76, la Società Politeama, con cui l’architetto udinese lavorava, fallì, portandolo ad uscire di scena e a passare il testimone al milanese Carlo Sada, che nel 1880, si preparava a redigere il progetto definitivo di completamento del teatro Catanese a piazza Nuovaluce: i contributi fra loro sinergici di Carlo Sada e di Andrea Scala hanno certamente dotato la città di una struttura conforme a criteri di efficienza, di modernità e di decoro.

Ci troviamo di fronte un architetto ambizioso, che ridusse i 2500 posti a 1500, eliminando i posti in gradinata; realizzò la “piccionaia”, dalle caratteristiche aperture ad occhialoni, privando i palchi della quinta fila della copertura; ridusse impercettibilmente l’ampiezza della sala per ridisegnare il perimetro, a vantaggio della visibilità dei palchi; ampliò il palcoscenico; affrontò gli aspetti tecnologici con grande professionalità, come la climatizzazione, prevedendo che il maggior numero di spettacoli avrebbero avuto luogo in estate.

Fra tutte, però, la modifica più significativa che Sada apportò, rispetto alle proposte precedenti, è rappresentata dalla soluzione dell’avancorpo porticato dalle due ali laterali a ponte che si agganciano agli edifici vicini, sugli esempi del Nuovo Teatro di Parma, del teatro di Dresda e dell’Odèon di Parigi.

In questo modo, Sada portò il numero delle campate da cinque a sette, determinando l’illusione di un corpo centrale più esteso grazie alle pareti curve e ai diversi piani del prospetto, quindi, per agevolare l’ingresso delle carrozze e dei pedoni, l’architetto disporrà il teatro di portico e di ali laterali apposite connesse ad un sistema di atrio e vestibolo.

Al Teatro Massimo Bellini, pronto nel 1887 e inaugurato il 31 maggio 1890, la cura che Sada dedicò personalmente ad ogni aspetto delle decorazioni e degli arredi, nella sala a ferro di cavallo (che oggi conta 1200 persone) raggiunse livelli di eccellenza, più per gli aspetti tecnologici che per quelli architettonici: con 22 metri lunghezza, 19 metri larghezza, 22 metri altezza, prevedeva la conformazione “a cucchiaio” della volta a favore dell’acustica e il sistema di illuminazione a gas che utilizza i canali di areazione, determinando l’effetto camino, agendo sui moti convettivi dell’aria (fig. 2,3,4,5).

 

Le sei file di palchi del precedente progetto vengono ridotte a quattro, articolando l’offerta secondo diverse categorie di spettatori, utilizzando ad esempio gli ultimi due livelli per i palchetti scoperti, per la galleria e per la piccionaia, quest’ultima dalle caratteristiche finestre ad oblò (fig. 6,7,8,9).

 

Tra il palcoscenico e la platea c’è il golfo mistico, termine coniato da R. Wagner e oggi inteso anche come buca d'orchestra o fossa d'orchestra, lo spazio riservato all'orchestra che suona dal vivo, generalmente protetto e circondato da un parapetto che lo separa dal pubblico.

Per la pittura della volta viene scelto il pittore fiorentino Ernesto Bellandi che ci regala l’Apoteosi di Bellini, momento in cui il giovane corpo del musicista Bellini viene portato in paradiso dalle Muse; fanno da corona quattro medaglioni con figure allegoriche (Musica, Danza, Commedia e Tragedia) e quattro lunette raffiguranti altrettante opere belliniane: Norma, Sonnambula, Puritani e Capuleti.

In quest’opera pittorica, in un primo tempo pensata in affresco e successivamente in tempera, troviamo una straordinaria prospettiva aerea, realizzata adottando la prospettiva illusionista del sottinsù, con le figure che sembrano superare con moto ascendente i limiti della volta.

Chiude la volta dipinta un cerchio di otto medaglioni monocromi di alcuni musicisti: Pacini, Coppola, Donizetti, Verdi, Cimarosa, Rossini, il drammaturgo Alfieri e il commediografo Goldoni, circondati a loro volta per tutto il perimetro da 15 grandi lampadari sospesi (fig. 10).

 

Per il sipario dipinto venne scelto l’artista Giuseppe Sciuti, di Zafferana Etnea e di formazione neoclassica, che donò alla città di Catania Il trionfo dei Catanesi sui libici. Venne nominata un’apposita commissione per attribuire l’incarico a pittori da scegliersi fra Sciuti, Attanasio e Guarnieri; alla fine il concorso venne revocato e il consiglio comunale affida l’incarico direttamente a Sciuti, nominando però una commissione per l’esame del bozzetto. Dopo vari tentativi Sciuti s’inventa una vittoria dei catanesi sui libici, ma un’offesa si prestava a destare scandalo: la posizione dell’elefante, che vedeva la testa non rivolta agli spettatori, bensì altro. Il dipinto viene realizzato negli atelier del palazzo Venezia a Roma e nel 1883 è già pronto (fig. 11, 12).

 

Al piano superiore, esattamente al terzo ordine,  con ingresso oltre che da scalinata centrale anche da due ingressi laterali, cui corrispondono i pianerottoli delle scale dei palchi, troviamo il foyer, una stanza delle meraviglie, potremmo dire, ricca nelle decorazioni e con al centro una statua che raffigura il musicista catanese Vincenzo Bellini, al quale il teatro viene dedicato e intitolato, realizzata Salvo Giordano (fig. 13,14,15,16).

 

Tale spazio, pensato da Sada, per i momenti di pausa fra una atto e l’altro, come vero e proprio spazio di conversazione, prevedeva la presenza di due gabinetti di conversazione, una galleria di lettura (sopra il portico centrale), il caffè (sopra il portico di sinistra), il salotto particolare, addetto al palco municipale (sopra il portico di destra) e una sala centrale, che si prestava bene anche per feste da ballo, concerti e altro.

Una balconata in una nicchia con volta ribassata era stata predisposta, invece, per l’orchestra destinata alle eventuali feste da ballo ed un ballatoio avrebbe permesso ad un pubblico non altolocato, come accadeva già in platea, di assistere alle manifestazioni dell’alta società (fig. 17, 18).

 

Stucchi bianchi e dorati, allegorie, divani, tendaggi, festoni retti da putti, affreschi con gli amori di Aci e Galatea, del pittore catanese Natale Attanasio, specchiere con rimandi dal sapore rococò, rendono questo spazio la chicca del teatro (fig. 19,20,21,22).

 

 

 

Le fotografie dalla 2 alla 22 sono state scattate dalla redattrice dell'articolo: courtesy Teatro Massimo Bellini Catania.

 

Bibliografia

Dato Toscano, Sulla scena della città, Catania, Le istituzioni culturali municipali

Ronsivalle, Cantare al Bellini era purissimo piacere, Catania. Le istituzioni culturali municipali.

Sciacca, Costa Chines, Danzuso, Il Teatro Massimo Bellini di Catania, Catania, Lions Club Catania Host, 1980

Cesare Molinari, Storia del teatro, Roma – Bari, Editori Laterza, 2008

Honorè de Balzac, Tutto il teatro, Roma, Newton Compton, 1994